Giustizia: morire ogni giorno… o una volta sola? Il caso del detenuto belga fa discutere di Andrea Oleandri (Associazione Antigone) Il Garantista, 18 settembre 2014 Una condanna all'ergastolo per aver ucciso nel 1989, dopo averla violentata, una ragazza di 19 anni nel porto di Anversa, al margine del quartiere a luci rosse dove lavorava. Un reato preceduto da una lunga serie di stupri e violenze frutti, probabilmente, di un'infanzia tutt'altro che facile, passata in un istituto per malattie mentali dove fu oggetto di ogni sorta di abusi. Psicologi che avevano assodato la possibilità che l'uomo non sarebbe mai riuscito a controllare le sue pulsioni sessuali violente, escludendo ogni possibilità di scarcerazione. Così, dopo 25 anni di prigione, Frank Van Den Bleeken ha chiesto e ottenuto la possibilità di ricorrere all'eutanasia. Morire per superare una "sofferenza psichica insopportabile". È stata questa la richiesta dell'uomo, ora 52enne. Una richiesta che, tuttavia, ha necessitato di quattro anni per vedersi riconosciuto il via libera. Nel 2010 la Commissione federale per l'Eutanasia aveva inizialmente risposto in modo negativo. La motivazione del diniego stava nella non certezza che non potessero esistere altre possibilità di intervento terapeutico. Fino a che non si fosse appurato ciò, quindi, il caso non sarebbe stato esaminato. Si disse anche che nei Paesi Bassi esisteva un'istituzione che avrebbe potuto curare l'uomo e questo bastò a far sospendere il dossier. Così Van Den Bleeken si rivolse al ministero della Giustizia chiedendo di essere trasferito in Olanda dove pensava che avrebbero fatto meno difficoltà a percorrere questa strada. La Corte di Appello di Bruxelles tuttavia bloccò questo passaggio, ritenendo che il guardasigilli non avesse competenze in merito e quindi che non fosse autorizzato a decidere. Un'odissea conclusasi lunedì scorso quando è arrivata l'intesa fra il Servizio federale pubblico della Giustizia e l'avvocato dell'uomo che, già nelle prossime ore, potrà essere trasferito in un ospedale, dare l'ultimo saluto ai famigliari ed essere aiutato a morire. Una decisione, questa, che solleva dubbi e interrogativi che restano aperti. L'eutanasia in Belgio è autorizzata fin dal 2002 e quest'anno sono state molte le polemiche attorno a questa pratica quando il governo ha deciso di estenderla anche ai minori. Tuttavia è la prima volta che si applica ad un detenuto in quella che, in molti, hanno definito come una pena di morte patteggiata. Nel paese la pena dell'ergastolo è assimilato a trent'anni di reclusione e periodicamente viene rianalizzato il caso per calcolare dopo quanto tempo il detenuto possa beneficiare di un provvedimento di scarcerazione. Il professor Carlo Federico Grosso ha definito l'ergastolo come una "pena di morte distillata", poiché, come disse Aldo Moro "priva com'è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte". A Frank Van Den Bleeken, come abbiamo sottolineato, la scarcerazione non sarebbe stata concessa. Si può leggere in quello dell'uomo un caso limite, ma non si può negare che rappresenti un precedente e, infatti, altri 15 detenuti, a quanto si apprende dal giornale belga De Standaard, avrebbero già chiesto di percorrere la stessa strada del 52enne. Casi che, secondo la legge, sarà un'equipe dì tre medici a dover valutare nel certificare se il richiedente abbia effettivamente sofferenze fisiche o psichiche insopportabili e incurabili. In Italia l'eutanasia non è ancora autorizzata, nonostante le lotte di questi ultimi armi, condotte soprattutto dall'associazione Luca Coscioni e da Mina Welby. Ma se lo fosse come ci comporteremmo? Alcuni anni fa 310 persone condannate al "fine pena mai" scrissero una lettera a Giorgio Napolitano dicendosi "stanchi di morire un pochino tatti i giorni", decidendo "di morire una volta sola" e chiedendo che il loro ergastolo fosse tramutato in pena dì morte. La costituzione italiana, come si sa, proibisce la pena dì morte, ma permette l'ergastolo - anche quello ostativo, che nega ogni possibilità di scarcerazione - per molti in contrasto con l'intento riabilitatorio della pena sancito dall'art. 27 della carta costituzionale. Se l'eutanasia fosse legale e quei 310 detenuti patteggiassero la loro pena di morte, come ci collocheremo nei riguardi della pena stessa e dei suoi intenti. Sapremmo e potremmo dire di no? E perché dovremmo non concedergli la possibilità di "morire una volta sola"? Il caso del Belgio, accomunando ergastolo ed eutanasia, può servire dunque a far riflettere sull'inumanità di questa pena, anche nel nostro paese dove il dibattito sul "fine pena mai" dovrebbe tornare al centro del dibattito pubblico e politico. Giustizia: i problemi delle carceri restano irrisolti, ancora suicidi tra detenuti e agenti di Valter Vecellio www.lindro.it, 18 settembre 2014 Con l’economia, le questioni relative alla giustizia sono state il fulcro dell’intervento del Presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Camera dei deputati e al Senato. Prima una stentorea affermazione stentorea: "Mille giorni sono l’ultima chance per far ripartire il Paese, non una dilazione. Dobbiamo rimettere in pista l’Italia"; in sostanza: senza di me e dopo di me, il Diluvio. Come risolverlo, questo "nodo giustizia"? Secondo Renzi bisogna "cancellare il violento scontro ideologico del passato". E come lo si cancella? Renzi torna su un tema su cui si intrattiene da tempo e che evidentemente giudica popolare: le troppe ferie di cui godono i magistrati. Ferie che sono effettivamente troppe, è desolante percorrere certi pomeriggi, o certi periodi dell’anno i corridoi dei palazzi di giustizia, vuoti, come abbandonati a loro stessi, qualche commesso o agente di polizia. I magistrati davvero dovrebbero lavorare di più; maliziosamente si potrebbe dire che soprattutto dovrebbero lavorare meglio, con maggiore scienza e coscienza. Ma a parte questo, che non è comunque poco, la giustizia insomma soffre di mali che non sono certo sanabili con un paio di settimane di lavoro in più. Renzi poi scandisce quella che viene ritenuta una sorta di svolta: "L’avviso di garanzia non può costituire un vulnus all’esperienza professionale di una persona", che dovrebbe essere qualcosa di assolutamente elementare, ma evidentemente in questo paese, per rubare un verso di Lucio Dalla "la cosa eccezionale è essere normale". Intanto, che accade? Bazzeccole. In questi otto mesi di 2014 gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita sono otto. Ben trenta negli ultimi tre anni. L’ultima tragedia a Saluzzo. Il segretario del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria Donato Capece parla di "stato di abbandono in cui è lasciato il corpo di polizia penitenziaria... siamo sotto organico di circa ottomila agenti e se uno sbaglia non glielo perdonano. Eppure riusciamo ancora a salvare la vita a tanti detenuti disperati. Questo mentre l’amministrazione sta a guardare", perché "nessun punto di ascolto e assistenza psicologica è stato attivato, nessuna azione concreta per aiutare gli agenti è stata messa in campo". Ornella Favero, direttrice di "Ristretti Orizzonti", una rivista che da anni si occupa di questioni carcerarie ed è diventato un centro di elaborazione e documentazione straordinario per chi si occupa di questi problemi, dice che i nodi principali sono il degrado delle carceri e la mancata nomina del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria: "Non c’è nessuno che si senta responsabile per quello che accade". Suicidi degli agenti della polizia penitenziaria, morti dei detenuti: il 9 settembre, nel carcere napoletano di Poggioreale, un detenuto di 63 anni, Vincenzo De Matteo, si è impiccato. Si tratta del decesso numero 103 nei penitenziari italiani nel 2014, 31 suicidi. Scorrendo i dati raccolti da "Ristretti Orizzonti" si ricava che in alcune carceri si muore di più. È appunto il caso di Poggioreale, gravato non solo dal più alto numero di suicidi ma anche da centinaia di malati in attesa di ricovero e cure. Il suicidio di De Matteo è il sesto in un carcere napoletano quest’anno. Da gennaio si sono uccisi quattro detenuti a Poggioreale, due a Secondigliano e uno a Santa Maria Capua Vetere. Numeri che possono sembrare insignificanti, eppure non esistono in Italia carceri con più di due suicidi dall’inizio dell’anno. I quattro suicidi a Poggioreale sono dovuti non solo al sovraffollamento (fino a 2.800 detenuti su 1.400 posti negli anni scorsi, scesi a 1.800 in seguito degli ultimi provvedimenti e dei trasferimenti). A Poggioreale si muore anche per assenza di lavoro, reinserimento che non c’è e non viene assicurato, per mancanza di cure: "È un carcere che restituisce alla società persone incattivite, andrebbe raso al suolo per essere ricostruito in forma umana", così da tempo descrive Poggioreale uno che quel carcere lo conosce molto bene, il cappellano don Franco Esposito. Non ha torto il presidente dell’Unione delle Camere Valerio Spigarelli quando elenca quelle che ritiene essere le vere priorità: "Quelle che mancano sono misure volte ad assicurare la terzietà del giudice, un efficace controllo sull’obbligatorietà dell’azione penale, oltre che un corretto ed equilibrato rapporto tra il giudiziario e gli altri poteri dello Stato, mentre molto di quello che c’è in tema di processo penale e soprattutto prescrizione non è condivisibile". Giustizia: indennità di 500mila euro al Capo del Dap? interrogazione del Sen. Buemi (Psi) di Enrico Novi Il Garantista, 18 settembre 2014 Non è ancora stato nominato il nuovo dirigente del Dipartimento, ma intanto va chiarita l’entità del compenso, che verrebbe mantenuto anche dopo la fine del mandato. Finché non ci sarà il formale insediamento del nuovo Csm è da escludere che il ministro Orlando presenti il ddl sul Consiglio superiore: tra le molte responsabilità che il Parlamento si è assunto con l’estenuante prolungarsi dell’elezione dei membri laici c’è anche quella di aver tenuto bloccata la riforma della giustizia in una sua parte importante. Ma finché la riforma stessa non si completa nei suoi punti essenziali c’è un’altra questione a sua volta sospesa: la nomina del nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un ruolo chiave, nella sala dei comandi di via Arenula. Il sistema italiano delle carceri ha ricevuto un qualche sollievo dai recenti interventi normativi, compreso il decreto convertito a inizio agosto, ma resta un osservato speciale da parte dei giudici di Strasburgo: dalla sentenza Torreggiani in poi il livello d’attenzione della Corte europea nei confronti di Roma è diventato altissimo. La scelta del nome da indicare come successore di Giovanni Tamburino al vertice del Dap è dunque molto delicata, e non solo per questo. Lo è anche perché si tratta di una carica molto ben remunerata. Tra gli alti moli della pubblica amministrazione è ai primissimi posti, con un’indennità annua che sfiora i 500mila euro. Un dato che entra in conflitto con il tetto agli stipendi dei manager pubblici fissato dal governo. A rivolgere un’interrogazione sul punto al ministro della Giustizia Andrea Orlando è un parlamentare di maggioranza, il senatore del Psi Enrico Buemi: "Si chiede di sapere se corrisponda al vero la notizia pubblicata dagli organi di stampa relativa all’indennità (vitalizia) di 500mila euro l’anno destinata al dirigente del Dap", scrive Buemi, "e se non ritenga che tale indennità sia incompatibile con. la normativa generale sui dirigenti pubblici e, soprattutto, sugli intenti del governo in materia di spending review". Considerato che nella sua riforma della giustizia il Guardasigilli ha toccato molti aspetti ritenuti sensibili dalla magistratura - quello delle ferie è solo l’ultimo - scegliere contemporaneamente anche il nuovo capo del Dap vorrebbe dire innalzare un livello di tensione già troppo alto. Come ricorda lo stesso Buemi nella sua interrogazione la carica "è fonte di vere e proprie guerre fratricide tra le correnti della magistratura", visto che "è stata sempre appannaggio delle toghe: una legge non scritta, ma è un fatto". Non è il caso di aggiungere subito anche questo argomento, ai molti che già complicano i rapporti tra governo e giudici, evidentemente. Ma di sicuro fi governo dovrà chiarire la questione del compenso: "Nell’interrogazione ometto alcuni dettagli, che però mi aspetto di capire meglio con la risposta del ministro", spiega Buemi, "a cominciare da un fatto: a quanto pare il magistrato a cui viene assegnato questo incarico conserva quel tipo di retribuzione anche una volta che ha smesso di essere a capo del Dap. È come se entrasse in un nuovo ruolo, che gli permette di accedere a un nuovo, altissimo livello stipendiale. Se questo sospetto si rivelasse fondato la situazione sarebbe anche peggiore. In pratica si resta con una busta paga di quasi mezzo milione di euro lordi e questo porta ad avere anche una pensione elevatissima. Poi le disponibilità di servizio sono di primissima fascia: si ha anche un elicottero. Il capo del Dap conta quasi più del ministro. Non ci si può stupire se le correnti della magistratura spingono per ottenere la nomina di un collega a loro riconducibile". Nella pole position dei pappabili resta l’attuale Procuratore capo di Catania, Giovanni Salvi. In ascesa le quotazioni del professor Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale. Ma prima di scegliere il nome evidentemente bisognerà decidere quanto pagarlo. Il testo dell’interrogazione Atto n. 4-02679, pubblicato il 16 settembre 2014, nella seduta n. 311. Buemi. Al Ministro della giustizia. Premesso che a parere dell’interrogante: spesso si parla di costi della politica pensando, erroneamente, che siano esclusivamente quelli sostenuti per gli eletti in Parlamento, nei consigli regionali, provinciali e comunali a cui si sommano i rimborsi elettorali e le spese per le cariche esecutive; la realtà è ben diversa se si pensa all’enorme costo dei vari dirigenti ministeriali e/o dei componenti di organismi nazionali che percepiscono compensi superiori ai politici e che la maggior parte delle volte sono diretta emanazione partitocratica; i buoni propositi (alcuni dei quali tradotti in provvedimenti) del Governo Renzi volti alla riduzione della spesa pubblica, alla lotta alla corruzione e all’evasione fiscale e alle riforme varie non hanno ancora riscontro nella realtà dei fatti; dai quotidiani nazionali risultano all’interrogante, infatti, notizie che destano perplessità. Sul quotidiano "Il Manifesto" del 21 agosto 2014 Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, scrive un articolo dedicato alla nomina del nuovo capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia), posto vacante da metà maggio 2014 allorquando il Ministro in indirizzo ha revocato l’incarico a Giovanni Tamburino (Giovanni Tamburino fu nominato dal Governo Monti e con Paola Severino Ministro della giustizia. Un Governo di tecnici che, evidentemente, pensò bene di mettere "un tecnico" a capo dell’amministrazione penitenziaria); il sistema penitenziario italiano è ormai "sorvegliato a vista" dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che a maggio 2014 ha concesso un anno di tempo all’Italia per rimettersi in carreggiata sul tema del sovraffollamento delle carceri dopo la storica sentenza del maggio 2013 sul caso Torreggiani. Quindi il dipartimento citato non ha più un capo dal 27 maggio, come del resto anche per altri dipartimenti, come quello delle Politiche antidroga; si apprende, inoltre, sempre da organi di stampa che "La poltrona di Capo del Dap è ambitissima e desideratissima, che vale, solo di indennità, 500mila euro l’anno, fonte di vere e proprie guerre fratricide tra le correnti della magistratura, è stata sempre appannaggio delle toghe. Una legge non scritta. Ma è un fatto. Da Nicolò Amato fino a Giovanni Tamburino, passando per Caselli, Coiro, Tinebra, Ferrara e tanti altri", si chiede di sapere: se corrisponda al vero la notizia pubblicata dagli organi di stampa relativa all’indennità (vitalizia) di 500.000 euro l’anno destinata al dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; se il Ministro in indirizzo non ritenga che tale indennità sia incompatibile con la normativa generale sui dirigenti pubblici e, soprattutto, con gli intenti del Governo in materia di spending review. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, il governo ricorre alla fiducia di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 settembre 2014 Per evitare l’insidiosa trappola leghista di far rispuntare la responsabilità civile diretta dei giudici in un emendamento alla legge comunitaria - norma che, se accolta, avrebbe stracciato definitivamente i già precari rapporti istituzionali tra magistratura e governo - la "quarta Repubblica" di Matteo Renzi è dovuta ricorrere ad un espediente tecnico caduto in disuso dai tempi della "prima Repubblica". Quando ieri la ministra per i Rapporti con il Palamento Maria Elena Boschi ha posto la "fiducia sulla reiezione" dell’emendamento del leghista Stefano Candiani alla legge Europea 2013/bis (ancora al vaglio del Parlamento mentre già quella del 2014 ha ricevuto il via libera del Cdm il 31 luglio scorso) a Palazzo Madama ci sono stati minuti di panico. Si può fare? E come si vota: "no" per dare fiducia all’esecutivo e "sì" per bocciarlo? C’è voluta la conferenza dei capigruppo per stabilire che si tratta di una procedura rara ma non unica, usata l’ultima volta nel 1986, quando al posto di Boschi c’era Oscar Mammì, e l’emendamento era alla legge finanziaria del governo Craxi. Questa volta, a differenza dell’11 giugno scorso quando sull’emendamento Pini che introduceva appunto la responsabilità diretta dei magistrati il governo venne battuto alla Camera con i voti, a scrutinio segreto, di 34 franchi tiratori del Pd, ieri l’esecutivo ha ottenuto 159 consensi e 70 voti contrari alla fiducia. Si sono astenuti in 51, tra cui i 40 senatori del M5S per i quali ha prevalso l’opposizione all’emendamento leghista su quella al governo Renzi. Superato l’ostacolo per la seconda volta (il 4 settembre scorso l’emendamento Pini introdotto a Montecitorio era stato cassato dalla commissione Politiche europee di Palazzo Madama) il governo si appresta però ad affrontare la questione della responsabilità civile dei magistrati nella riforma complessiva del sistema Giustizia a cui da mesi sta lavorando il Guardasigilli Orlando (e contro la quale ieri si sono schierati i giudici di pace proclamando cinque giorni di sciopero, dal 29 settembre al 3 ottobre). A premere è soprattutto l’ala destra dell’esecutivo: "La legge Vassalli va modificata", interviene il vice di via Arenula, Enrico Costa, del Ncd. Perché prevede un meccanismo risarcitorio, adottato in seguito al referendum abrogativo del 1987, che il viceministro definisce "inefficace e inattuale". È vero però che anche la Corte europea di Giustizia ha sollecitato l’Italia a facilitare il ricorso dei cittadini contro i giudici che sbagliano con dolo, pena una condanna che costerebbe, fa notare Costa, il pagamento di "una sanzione pesantissima che, a oggi, non sarebbe inferiore a 37 milioni di euro". Il viceministro quindi invita il Parlamento a "procedere speditamente" per approvare il ddl varato dal Consiglio dei ministri lo scorso 29 agosto "che rappresenta la ricerca di un punto di equilibrio attraverso forti innovazioni: in particolare, sopprimendo il filtro di ammissibilità senza compromettere l’indipendenza del magistrato". La bozza preparata dagli uffici tecnici del ministro Orlando prevede inoltre l’"ampliamento dell’area di responsabilità su cui possa far leva chi è pregiudicato dal cattivo uso del potere giudiziario", l’obbligatorietà della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato resosi colpevole di "negligenza inescusabile", e l’innalzamento della soglia di rivalsa fino alle metà dello stipendio del magistrato. Un provvedimento che è già un boccone amaro per le toghe. Un altro, che si aggiunge alla questione del dimezzamento dei termini feriali, troppo spesso confusi con le ferie dei magistrati, e sulla quale, ha detto ieri il vicepresidente del Csm Michele Vietti, "si sono spese troppe parole". Non a caso il plenum del Csm ha registrato ieri il malumore dei magistrati di ogni corrente, "stanchi di essere umiliati, offesi e indicati come i responsabili dello sfascio". In questo clima ci mancavano solo le parole di Renzi, che alla Camera nel suo discorso dei Mille giorni ha difeso l’indagato Descalzi, ad dell’Eni, stigmatizzando "non proprio implicitamente", come hanno fatto notare alcuni togati del Consiglio, "il comportamento di magistrati che avevano emesso un’informazione di garanzia, per altro imposta dalla legge". Giustizia: perché l’Anm si è imbarcata nella difesa del diritto ai 45 giorni di ferie l’anno? di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi, 18 settembre 2014 L’Associazione nazionale magistrati, Anm, se non vuol ridursi a essere una Cgil qualunque (quest’ultima, peraltro, non osa, non dico chiedere, ma nemmeno pensare a 45 giorni di ferie per i suoi rappresentati) deve dedicarsi alla difesa di principi alti, e non contrabbandare battaglie che, anche simbolicamente, non solo sono di bassa bottega, ma sono anche in netto contrasto con lo spirito dei tempi che spira (e ha già agito) in chiave inevitabilmente efficientistica, su tutte le altre categorie alto dirigenziali e alto libero professionali italiane. Moltissimi magistrati, come tutti gli alti dirigenti, pubblici e privati, osservano degli orari di lavoro che vanno ben oltre quelli contrattuali. Tutti inoltre si portano spesso il lavoro a casa. Ma tutti i dirigenti privati, quando entrano ed escono dal lavoro, passano il loro badge nei passaggi di controllo. Lo fanno perché si deve. E lo fanno anche perché tutti sono tenuti a farlo. E non si sentono assolutamente menomati da questa procedura anche perché, all’occasione, una volta interpellato il computer, si potrebbe facilmente accertare che essi sono stati in ufficio più di quanto non fosse previsto dal contratto. Una battaglia di questo tipo, su questo specifico argomento, fa quindi sorgere il dubbio che una parte (minima, certo, ma che di solito, in tutte le categorie, sa ben orientare, a suo vantaggio, le richieste dei sindacati di categoria) ha interesse a evitare l’eccessivo impegno professionale e soprattutto che questo possa venire accertato. Che solo la categoria dei magistrati sia l’unica categoria dirigenziale pubblica che fruisce di 45 giorni di ferie dovrebbe già indurre a lasciar perdere questa battaglia che non ha evidentemente ragione di essere. In un momento in cui moltissimi dirigenti privati perdono facilmente il posto di lavoro (e faticano trovarne un altro), pensare che una categoria pubblica si uniformi, come ferie, alle categorie a essa simili, mi sembra una cosa ovvia e, tra l’altro, anche condivisa dai molti magistrati di valore che ho la fortuna di conoscere. Siccome difendere i 45 giorni di ferie di cui solo i magistrati dispongono è un’operazione dialettico-rivendicativa difficile da sostenere, l’Anm si è inerpicata sugli specchi, confondendo il numero di giorni di ferie sui quali può contare ogni singolo magistrato con il periodo di chiusura estiva dei palazzi di giustizia. Fra i due fatti invece non c’è assolutamente una relazione di causa ed effetto, se non dando per scontato che l’intero periodo di ferie debba essere goduto nel mese d’agosto (o giù di lì) e preferibilmente in un’unica soluzione, come capitava nei tempi in cui il dirigente andava a casa a mangiare e poi, affaticato dalla digestione, si concedeva anche una bella pennichella ristoratrice. Abitudine questa che, se venisse invocata oggi, desterebbe ilarità o stupore. Anche a proposito delle ferie in un’unica soluzione agostana, occorre rifarsi a qualsiasi altra organizzazione produttiva (anche la più nobile, come, ad esempio, le non meno importanti e indifferibili sale operatorie o i pronto soccorsi ospedalieri). In questi ultimi casi infatti, gli addetti, che pure fanno le ferie che loro spettano, si organizzano per farle in modo tale da tenere sempre attivo il servizio. E quando c’è da interrompere le ferie per impreviste necessità di servizio, qualsiasi primario ospedaliero, tanto per fare un caso categoriale fra le decine che si potrebbero ricordare (pur essendo anch’egli un dirigente pubblico e pur esercitando anch’egli funzioni complesse e molto delicate), le interrompe senz’alcuna difficoltà, ben sapendo che deve mettere sempre in conto questa evenienza. Un dirigente, pubblico o privato che esso sia, ha funzioni più alte, ma non deve pretendere, sicuramente, privilegi più alti. Per giustificare i 45 giorni di ferie, l’Anm, nella sua foga rivendicativa, ha finito per scoprire degli altri altarini che nessuno aveva invocato. Come il lavoro a casa per molti magistrati. Ma qual è il dirigente che lavora a casa? A casa, con il telelavoro, lavorano, mi si scusi il termine, solo gli sfigati. Cioè quei dipendenti di basso rango, che sono addetti a lavori ripetitivi, controllabili a distanza. Ma chi svolge una funzione intellettuale e dirigenziale ha un assoluto bisogno (almeno psicologico) di lavorare fra i suoi colleghi, in un ambiente intellettualmente stimolante, giusto per non assopirsi e per non finire per ripiegarsi su se stesso. Di fronte a questa obiezione, l’Anm replica dicendo che, specie in Cassazione, non ci sono nemmeno uffici sufficienti per ospitare tutti i magistrati. Beh, questo sì che è un argomento rivendicativo da imporre: ogni magistrato deve avere il suo ufficio. Che non deve certo essere una piazza d’armi, come oggi ne godono certuni, ma deve avere, per dare un’idea, lo stesso numero di metri quadrati di cui usufruiscono, ad esempio, i dirigenti dell’Unicredit nella nuova sede del grattacielo di City Life a Milano, predisposto ergonomicamente poco tempo fa e sul quale nessuno, dei dirigenti, ha mai avuto da ridire. Il paese deve svecchiarsi. La magistratura, che è una grande risorsa per il paese, ha il diritto di essere organizzata come una professione nobile ma anche moderna. L’Ottocento è finito da tempo. Per tutti. Noi compresi. Giustizia: ministro Orlando; in caso di gravi errori oltre Stato paghi anche il magistrato Adnkronos, 18 settembre 2014 Sulla responsabilità dei giudici "si tratta di garantire che una volta che c’è un riconoscimento di responsabilità nei confronti dello Stato, perché è sempre lo Stato che risponde, ci sia la garanzia anche che una parte del danno sia pagata dal giudice che ha sbagliato", ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenuto questa mattina ai microfoni di Rtl 102.5 durante "Non Stop News". "Per casi gravissimi - ha aggiunto - non si tratta di errori nella valutazione della legge perché per questo ci sono dei rimedi che sono quelli dei tre gradi del giudizio, si tratta di errori che la legge definisce "caratterizzati da negligenza inescusabile", veramente uno deve averla fatta grossa. Però in questo caso ci deve essere una rivalsa che garantisca di più, che ci sia una chiamata di corresponsabilità nei confronti del giudice, e poi abbiamo parzialmente modificato il quantum che passa dal 30% al 40% dello stipendio". "Non vogliamo una responsabilità diretta - ha proseguito Orlando - perché questo rischia di creare un giudice intimidito dall’eventualità, ma vogliamo che quando c’è un errore si sappia che alla fine in qualche modo chi è stato danneggiato ha la possibilità di avere questo tipo di risarcimento. È un tema che ci sollecita anche l’Europa e denuncia che il nostro sistema in qualche modo non copre questo tipo di danno". Giustizia: ministro Orlando; la situazione è al pre-collasso, fare subito 1.000 assunzioni Adnkronos, 18 settembre 2014 "Siamo davvero in una situazione di pre-collasso" ha affermato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervistato da Rtl 102.5 durante ‘Non Stop News’. "Stiamo lavorando per determinare procedure di mobilità da altri reparti della Pubblica Amministrazione - ha spiegato - e per fare un reclutamento nel prossimo anno, seppur in un quadro di forti riduzioni di spesa e razionalizzazione, per arrivare almeno a 1000 assunzioni". "In alcune realtà - ha aggiunto - si potrebbe moltiplicare l’attività d’aula se ci fosse un presupposto che stiamo cercando di affrontare che è quello del personale amministrativo e di cancelleria: noi abbiamo 8.000 vuoti d’organico e spesso i processi non si celebrano o lo si fa in ritardo per questo problema che è molto poco conosciuto ma è fondamentale. Abbiamo un’età media del personale che è di 55 anni, se non si fanno interventi sulla formazione e sulla riqualificazione in tempo abbiamo questi voti di organico che in alcune realtà raggiungono il 30-40%. 1000 non bastano ma sono quasi 20 anni che non si fa un’attività significativa in questo senso, dovremmo andare avanti così per i prossimi 4-5 anni". "Ma 1000 sarebbe la cifra minima che consenta un passaggio di competenze, perché il rischio è che molti vadano in pensione senza che i nuovi siano arrivati e questo rischia di cancellare anche un know-how che in questo settore è molto importante. I dipendenti della Giustizia - ha concluso il ministro - sono persone che garantiscono il funzionamento spesso anche rinunciando a ferie e straordinari, il personale amministrativo giudiziario è un settore davvero dove si lavora tantissimo e con grandi livelli di efficienza". Giustizia: Corleone (Garante Toscana); chiediamo a ministro incontri aperti con detenuti Adnkronos, 18 settembre 2014 Una ventina di "incontri aperti" nelle carceri italiane più significative. Questa la proposta avanzata da Franco Corleone, Garante regionale toscano delle persone sottoposte a misure restrittive, emersa questa mattina, nel corso della riunione dei Garanti regionali e territoriali e delle associazioni impegnate sul tema dei diritti. La richiesta ora è da sottoporre al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, mettendo in evidenza anche l’urgenza delle nomine del Garante nazionale e del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Preoccupazione è emersa tra i presenti per i ritardi di queste nomine, fondamentali per orientare la riforma penitenziaria. Secondo Corleone, queste riunioni dovrebbero essere aperte e tenersi all’interno degli istituti penitenziari, alla "presenza di detenuti, operatori del settore, rappresentanti delle associazioni, istituzioni locali e nazionali". "Proclamiamo uno stato di attenzione - ha detto Corleone - sul mondo carcere, sulla riforma del sistema penitenziario. L’obbiettivo di questi incontri dovrebbe essere proprio quello di favorire la sensibilizzazione e di portare all’esterno tematiche e argomenti di cui spesso dibattiamo tra noi addetti ai lavori". Dagli interventi dei garanti presenti è emersa una critica diffusa all’istituzione carceraria che rischia di non dare risposte né dal punto di vista punitivo né riabilitativo. "Si corre il pericolo - ha concluso il garante regionale - che il senso della pena sia il non far nulla in un luogo vuoto". Infine, Corleone ha ricordato l’appuntamento di novembre a Firenze dove il 21 e il 22 si terrà un convegno internazionale sul fallimento del carcere, a 250 anni dal saggio "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. All’incontro hanno partecipato i garanti dei detenuti del comune di Firenze Eros Cruccolini; della Val d’Aosta Enrico Formento Dojot; dell’Umbria Carlo Fiorio; del comune di Lecco Alessandra Gaetani; del Piemonte Bruno Mellano; del comune di Nuoro Gianfranco Oppo; del comune di San Gimignano Emilio Santoro; del comune di Livorno Marco Solimano; della Campania Adriana Tocco. Hanno partecipato anche delegati dei garanti dell’Emilia Romagna e del Lazio; rappresentanti delle associazioni Antigone, Forum droghe e L’altro diritto e il presidente dell’Unione camere penali di Firenze Michele Passione. Giustizia: chiusura Opg ancora in ritardo… gli internati aumentano invece di diminuire di Antonio Acerbis www.lanotiziagiornale.it, 18 settembre 2014 Verrebbe da definirla una barzelletta, se non fosse che i ritardi vergognosi del governo ricadono sulla pelle di persone inermi che altro non possono fare che attendere. Nella speranza che, prima o poi, si giunga ad una soluzione. Questo è in sintesi quello che sta accadendo con gli ormai tristemente famosi Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Sono sei in tutto: a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Napoli. La questione va avanti ormai dal 2011. È di quell’anno infatti il decreto che prevedeva la chiusura definitiva degli Opg fissata al 31 marzo 2013: 273 milioni stanziati dal governo per la riconversione in strutture regionali (180 per la riconversione stessa, più altri 93 per il personale). Tempi insufficienti, si disse poche settimane prima della scadenza. Ed ecco allora la prima proroga al 31 marzo 2014. Ma anche questa seconda scadenza non è stata rispettata: tutto rinviato al 2017, con decreto approvato a giugno di quest’anno. Passano gli anni, ma i problemi restano sempre gli stessi: l’ultimo decreto infatti prevedeva la formazione di un Organismo di coordinamento per il superamento degli Opg. Il tutto entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge. Ebbene, soltanto ieri sono arrivate le nomine. Con oltre due mesi di ritardo. E intanto - ecco l’assurdo - il numero dei detenuti negli Opg sale: solo pochi mesi fa era sceso sotto i 900. Ora sono 1085. Reclusi in "luoghi di tortura", come li definì tempo fa Amnesty International. Lettere: bene la convocazione degli Stati Generali sul carcere di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2014 Caro Ministro, da anni lavoro come giornalista nel carcere di Piacenza - con alterne fortune, per la verità - e ho letto con autentica soddisfazione il suo annuncio di una prossima convocazione degli Stati Generali sul carcere in cui si prospetta anche - e finalmente - la partecipazione del volontariato impegnato all'interno degli istituti di pena. Ma credo che, in un'ottica di reale e coraggioso cambiamento, sarebbe veramente interessante dar voce - in un contesto che le riguarda direttamente - alle persone detenute; ovviamente a una rappresentanza delle persone detenute. Non credo che sarebbe poi molto difficile chiedere ad alcune redazioni o cooperative o compagnie teatrali che lavorano da anni e dal dentro, di indicare il nominativo di qualche detenuto in grado di portare un contributo valido alla riflessione. Credo che sia arrivato il momento di proporre ai diretti interessati di assumere una responsabilità pubblica rispetto alla loro esperienza di pena. Mi sembra che potrebbe essere un arricchimento per tutti e una svolta pedagogica di profilo alto; quella di considerare le persone recluse non più come bambini inabili ma come adulti e cittadini che hanno sì commesso reati ma non hanno perso la capacità di esprimersi, di produrre proposte e letture critiche. La ringrazio di cuore per l'attenzione. Cagliari: Sdr; nel carcere di Buoncammino sono oltre 80 i detenuti con "doppia diagnosi" Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2014 "Un’ottantina di detenuti tossicodipendenti e con gravi problemi psichici, su poco più di 350 ristretti tra uomini e donne, rendono particolarmente difficile il lavoro degli operatori della Casa Circondariale di Cagliari. Una condizione intollerabile che si aggiunge a quella di un’altra trentina di pazienti-detenuti che manifestano profondo disagio relazionale a causa della tossicodipendenza o di malattie mentali. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento a diversi episodi critici, compresi alcuni tentativi di suicidio, verificatisi nel Penitenziario di viale Buoncammino. "Si tratta di due tipologie di cittadini privati della libertà, quelli in singola o doppia diagnosi che, per le condizioni di salute fisica e/o psichica, dovrebbero trovare una collocazione in strutture alternative. Il disagio mentale grave, spesso accompagnato da condizioni socio-economiche e affettive precarie, porta a episodi di autolesionismo difficilmente scongiurabili e talvolta altamente rischiosi per l’incolumità delle persone sofferenti. Diversi ristretti per lenire l’ansia che li assale - sottolinea Caligaris - compiono improvvisi atti contro se stessi procurandosi ferite, non sempre superficiali, alle braccia, alle gambe e al petto. L’intervento dei Medici può risolvere temporaneamente il problema che tuttavia si ripresenta con regolarità non appena viene nuovamente sperimentato un momento di difficoltà. Si tratta di persone fragili con alle spalle condizioni familiari e sociali precarie, talvolta senza parenti, che non sono in grado di controllare i propri impulsi autolesionistici mettendo così a rischio l’equilibrio, peraltro sempre precario, della vita dietro le sbarre". "La problematica - osserva la presidente di Sdr - non può essere gestita dalla Polizia Penitenziaria, che pure deve salvaguardare l’incolumità dei ristretti, e neppure dagli psichiatri. L’assenza di attività specifiche per queste persone, porta alcune di loro a permanere nelle celle provocando talvolta dei diverbi o delle reazioni da parte dei compagni di stanza. L’intervento degli Agenti per dirimere le controversie può talvolta rivelarsi pericoloso". "La presenza di elementi così difficili da gestire deve essere riconsiderata anche perché il trasferimento nel Villaggio Penitenziario di Uta non avrà su di loro alcun effetto positivo. Non si tratta di metterli in libertà o ai domiciliari, anche perché neppure le famiglie quando ci sono possono farsene carico, ma di disporre di strutture alternative con operatori in grado di attivare un costante monitoraggio e di promuovere iniziative di sostegno affinché la detenzione non restituisca alla società una persona uguale o peggio di prima. La vita dentro un penitenziario purtroppo non abbatte la recidiva e qualunque pena, benché severa, ha un termine, soprattutto quando i reati non sono gravi. Se però il tempo trascorso fuori dalla società non ha cambiato almeno in parte la persona allora - conclude Caligaris - è stato inutilmente sprecato insieme alle risorse. Nuove modalità di recupero sono diventate necessarie per la sicurezza della comunità e possono creare nuovi posti di lavoro in ambito sociale". Reggio Emilia: Sappe; in Opg autolesionismi tra gli internati, serve la "camera imbottita" La Gazzetta di Reggio, 18 settembre 2014 Due episodi di grave autolesionismo sono stati registrati negli ultimi giorni tra gli internati dell’Opg: il primo sabato, con un uomo che ha inghiottito alcune viti tanto da dover essere sottoposto a un intervento chirurgico; il secondo ieri, quando un altro ha rotto un lavabo e coi frammenti di questo si è ferito. E ora il sindacato Sappe lancia un appello per la predisposizione di "una camera imbottita priva di suppellettili" e l’apertura di un tavolo tecnico in prefettura. A parlare è il segretario provinciale, Michele Malorni. "Mal si comprende - dichiara - come mai lo stesso detenuto venga gestito diversamente dalla struttura sanitaria Opg rispetto a quella esterna: in Opg il detenuto in preda ad atteggiamenti rischiosi non può essere contenuto difformemente da quanto avviene all’esterno, come nei reparti di diagnosi e cura. Perché non consentire anche alla struttura detentiva di appositi mezzi in grado di arginare il verificarsi di eventi di elevata pericolosità per il detenuto e gli operatori?". "Si badi - sottolinea Malorni - solo per il tempo strettamente necessario per l’efficacia della terapia farmacologica e per il ristabilimento di condizioni di normalità". Da qualche anno, infatti, all’Opg non sono più previste queste misure, come disposto dalla Legge Marino sugli Opg. Ma dal Sappe arriva la denuncia a causa dell’"aumento spropositato degli eventi critici, con detenuti difficilmente gestibili". E la perplessità sul reparto "aperto", che per alcuni detenuti è ritenuto incompatibile. Vigevano (Pv): protesta dei No Tav per Mazzarelli "in carcere regime troppo restrittivo" La Provincia Pavese, 18 settembre 2014 "Troppo restrittivo il regime di massima sicurezza cui è sottoposto in carcere a Vigevano": proteste in tribunale a Milano e slogan di solidarietà per Graziano Mazzarelli. Secondo le accuse, avrebbe assalito, assieme ad altri anarchici, il cantiere Tav di Chiomonte. Ieri i giudici hanno sospeso il processo per motivi di ordine pubblico: i manifestanti infatti sono rimasti nell’aula mezz’ora per invocare la libertà di Mazzarelli e di altri detenuti No Tav. Se ne sono andati solo quando è stato portato fuori dall’aula, dove si sta celebrando la prima udienza del processo a carico di Mazzarelli e altri sei studenti che avrebbero partecipato a scontri con le forze dell’ordine. "Nessun commento, è una decisione del magistrato di sorveglianza", dichiara il direttore del carcere di Vigevano, Davide Pisapia. Nessun commento anche dai sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. "I ragazzi protestano perchè Mazzarelli è detenuto in un regime troppo pesante - spiega l’avvocato difensore Eugenio Losco - non si capisce per quale ragione: la Cassazione ha fatto cadere l’accusa di terrorismo". I sette imputati sono accusati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale anche per l’occupazione dell’ex libreria Cuem a Milano. Devono rispondere, a vario titolo, delle accuse di travisamento, danneggiamento, oltraggio a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e violazione delle leggi sulle armi, per la detenzione di sampietrini, sassi e un ombrello con il quale avrebbero minacciato le forze dell’ordine. Santa Maria Capua Vetere (Ce): penalisti minacciano sciopero, arriva giudice sorveglianza Il Mattino, 18 settembre 2014 Ci sarà un giudice applicato per 90 giorni, in attesa della nomina di tre giudici effettivi (l’organico di tre unità è praticamente azzerato da mesi) all’ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere che lo scorso agosto ha raggiunto picchi di congelamenti mai registrati in precedenza tant’è che molte istanze dell’avvocatura sono state trasferite al tribunale di Sorveglianza di Napoli. La presenza di un magistrato applicato, così come garantito dalla presidenza del Palazzo di Giustizia, al momento ha fatto rientrare l’eventualità di un periodo di astensione dei penalisti che ieri si sono riuniti in assemblea. La Camera Penale presieduta dall’avvocato Angelo Raucci, che aveva stabilito per ieri una giornata di sciopero concomitante con l’assemblea, non è però rimasta inerte al problema, tant’è che è stato redatto un documento sulla delicata e grave questione dell’impasse presso l’ufficio del magistrato di Sorveglianza inviato al ministero di Giustizia, al Csm e agli altri uffici competenti. "Istanze di permessi, liberazione anticipata o misura alternative, di tutela per la salute per i detenuti rinchiusi nelle carceri casertane, sono finite nell’oblio", aveva dichiarato lo scorso agosto Raucci nella fase più critica dell’anno, dopo una prima protesta avvenuta lo scorso marzo. "È possibile che nella fase definitiva della pena le garanzie e i diritti toccano meno le coscienze? In uno Stato di diritto tutto ciò non si può tollerare", recitava il documento dell’organismo forense con il quale si sensibilizzavano i vertici giudiziari. Nella stessa giornata di ieri, inoltre, il presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati, Alessandro Diana e quello della Camera Penale, Raucci, hanno salutato - con la consegna di una penna e di una targa ricordo - il procuratore capo Corrado Lembo nominato a luglio a capo della Procura di Salerno e del quale hanno sottolineato le capacità umane e professionali. Con la scadenza del termine del 13 settembre, intanto, sono risultate vane anche quelle poche speranze dell’avvocatura sammaritana e napoletana per ottenere una correzione del ridisegno della geografia giudiziaria: dal lato casertano, il possibile trasferimento di una decina di comuni facenti parte un tempo dell’ex pretura di Trentola Ducenta (da Napoli Nord a Santa Maria Capua Vetere) e dall’altro i comuni di Marano e Marano (da Napoli Nord a Napoli). La decisione di non apportare alcuna correzione alla revisione della geografia giudiziaria, sarebbe nata dalla preoccupazione che, modificando anche solo in parte il decreto si sarebbero potute scatenare pressioni localistiche e politiche in favore di altri uffici. Entro il 13 settembre scorso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando avrebbe potuto perfezionare (senza una legge apposita) il decreto sul ridisegno della geografia giudiziaria contrastato per due anni dall’ avvocatura sammaritana e partenopea in quanto contro lo smembramento degli uffici giudiziari del territorio avvenuto dopo la nascita del Tribunale di Napoli Nord ubicato nel Castello Aragonese di Aversa. Ma anche l’ipotesi di una proroga del termine del 13 settembre è subito svanita, in quanto attaccabile sotto il profilo della costituzionalità. Anche c’è chi parla di un futuro intervento legislativo la cui data è ancora misteriosa. Sassari: Osapp; sopralluogo Segretario a Bancali, per verificare stato salute dell’istituto Ansa, 18 settembre 2014 È in corso di svolgimento nel carcere sassarese di Bancali il sopralluogo di una delegazione dell’Organizzazione sindacale degli agenti di Polizia penitenziaria (Osapp), guidata dal segretario generale aggiunto del sindacato, Domenico Nicotra. "La nostra visita è legata alla volontà di capire, anche alla luce dei più recenti fatti di cronaca, se esistano a Bancali le condizioni più idonee affinché i nostri agenti possano lavorare nella maniera più adeguata e se all’interno della struttura si sia effettivamente in grado di portare avanti i progetti e l’organizzazione che erano stato prospettati al momento della sua apertura", ha spiegato Nicotra poco prima di entrare a Bancali. L’ispezione si concluderà nel primo pomeriggio, e solo a quel punto si potrà conoscere la posizione dell’Osapp rispetto allo stato di salute del carcere sassarese. Alba (Cn): Sappe; "regolamento di conti" tra detenuti, feriti due poliziotti penitenziari Ansa, 18 settembre 2014 Hanno atteso l’apertura delle celle per picchiarsi e, nella colluttazione, hanno ferito i due poliziotti penitenziari intervenuti a dividerli. Protagonisti due detenuti italiani nel carcere di Alba. "Sono stati momenti di grande tensione, gestiti a fatica ma con professionalità dagli Agenti di Polizia Penitenziaria che però sono rimasti feriti con 7 e 10 giorni di prognosi", spiega il Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece. "I detenuti, italiani, avevano evidentemente dei conti in sospeso ed hanno pensato di risolverli con la violenza. Fatto inaccettabile. Noi esprimiamo vicinanza e solidarietà ai due poliziotti rimasti feriti". Capece punta il dito contro il sistema della "vigilanza dinamica" che è in atto nel carcere di Alba, proprio nella Sezione detentiva "A" dove è accaduto il regolamento di conti dei detenuti: "In pratica, si vuole cercare di tenere tutta la giornata aperti i detenuti per farli rientrare nelle loro stanze solo per dormire, lasciando ad alcune telecamere il controllo della situazione. Il Sappe si batte da tempo contro questo improvvido che si ritiene assolutamente destabilizzante per le carceri italiane, come per altro proprio i gravi fatti accaduti a Alba dimostrano. È infatti nostra opinione che, lasciando le sezioni detentive all’autogestione dei detenuti, si potrebbero ricostituire quei rapporti di gerarchia tra detenuti per cui i più potenti e forti potrebbero spadroneggiare sui più deboli. In secondo luogo, sempre a nostro avviso, si sta ignorando l’articolo 387 del codice penale per il quale potrebbe essere comunque l’agente, anche se esiliato davanti a un monitor, a rispondere penalmente di qualsiasi cosa accada nelle sezioni detentive. Ancora più grave potrebbe essere l’accentuarsi in maniera drammatica di episodi di violenza all’interno delle stanze ove i detenuti non sono controllabili". "Altro che vigilanza dinamica e autogestione delle carceri che sembra essere l’unica risposta sterile dei vertici del DAP all’emergenza penitenziaria" conclude Capece. "Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti, come avviene ad Alba, deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza". Rimini: Cosp; nuove aggressioni a poliziotti penitenziari, pensiamo ricorso a Strasburgo Ansa, 18 settembre 2014 La polizia penitenziaria del carcere di Rimini ha proclamato lo stato d’agitazione dopo "l’ennesima aggressione subita da un appartenente al Corpo, situazione riminese aggravata da un ennesimo tentativo di un detenuto di togliersi la vita avvenuti nell’arco di pochi giorni". Lo scrive il Coordinamento Sindacale Penitenziario che ha espresso solidarietà. Per il Cosp, spiega il segretario Domenico Mastrulli, sono toppe "le aggressioni inflitte dai detenuti alla polizia penitenziaria" mentre "al Dap amano il letargo burocratico". Se continua così, aggiunge Mastrulli, ci rivolgeremo "come ha fatto Torreggiani (il riferimento è alla sentenza che condannò l’Italia per le condizioni dei detenuti, ndr), alla Corte Europea per i diritti civili del Popolo delle divise chiedendo risarcimenti per le torture lesive subite in servizio contro il Dap". Il caso Rimini, conclude, "segue di poche ore da quello di Bari e Trani e in tutto i feriti vittime di Stato sono cinque in 60 ore". Sassari: il processo per traffico di stupefacenti in carcere "droga anche nel deodorante" di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 18 settembre 2014 "La droga entrava eccome in carcere, gli stupefacenti finivano nei fazzolettini di carta, nel deodorante a stick, persino dentro le buste del pane. Io all’epoca consegnavo la spesa ai detenuti quindi sapevo perché vedevo". L’immagine di Giuseppe Bigella è sempre la stessa di due mesi fa, quando il testimone chiave del processo per il traffico di droga dentro l’ex carcere di San Sebastiano aveva deposto nell’aula della corte d’assise. Ieri era scortato come allora da agenti in borghese e poliziotti, protetto da una barriera bianca per impedire che i detenuti imputati presenti in aula potessero guardarlo o rivolgergli qualche parola da dietro le sbarre. Il processo è ripreso ieri mattina davanti al collegio presieduto da Salvatore Marinaro. L’anno di riferimento del presunto traffico di droga nell’ex istituto penitenziario di via Roma è il 2008 e per primo Giuseppe Bigella (al momento detenuto in un carcere della penisola per l’omicidio della gioielliera di Porto Torres Fernanda Zirulia e per quello di Marco Erittu di cui si è autoaccusato di fronte ai giudici di Cagliari) aveva parlato di spaccio e connivenze dentro San Sebastiano. E sempre lui aveva dato il via all’inchiesta. Poi erano arrivati gli altri collaboratori di giustizia, Pasquale Cozzolino e Giovanni Brancaccio, che in gran parte avevano confermato le sue dichiarazioni. E infine erano sopraggiunte le intercettazioni, ambientali e telefoniche, e le indagini affidate al nucleo di polizia penitenziaria, intenzionata a scoprire eventuali divise corrotte. In 45, soprattutto detenuti ed ex reclusi, erano finiti sotto accusa, molti per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, altri per singoli episodi di cessione di stupefacente, e poi c’erano i tre agenti imputati di concorso esterno. Secondo la Procura, nel penitenziario sassarese la droga entrava anzitutto grazie alla complicità di alcuni familiari di detenuti, ingegnosi nel nascondere gli stupefacenti persino nei maialetti e negli agnelli cucinati e portati ai loro cari. Poi c’erano gli agenti: uno di questi chiamati in causa da Bigella era stato per anni al vertice del carcere. Tra il 2002 e il 2007 l’allora ispettore capo Santucciu aveva le funzioni di comandante. Bigella lo aveva accusato di aver aiutato il presunto boss dell’organizzazione, Pino Vandi (assolto lo scorso luglio dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Marco Erittu), ad evitare perquisizioni, controlli, addirittura intercettazioni. Bigella anche ieri ha confermato l’esistenza di una vera e propria "organizzazione ramificata" all’interno del carcere con ruoli ben precisi affidati a ciascuno e con Pino Vandi che aveva un ruolo dominante e privilegiato. Incalzato dalle domande del pubblico ministero Giovanni Porcheddu, Bigella ha fatto i nomi di alcuni detenuti coinvolti nel "giro" e ha indicato i nascondigli in cui veniva sistemata la droga. "Qualcuno la metteva anche dentro un accendino di plastica che teneva sotto la branda della cella, ma gli stupefacenti finivano anche nei contenitori di plastica e dentro le buste del pane". Oggi, sempre in corte d’assise, il pm continuerà l’esame del superteste. Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuto frattura mandibola a un poliziotto penitenziario Il Mattino, 18 settembre 2014 Misteriosa aggressione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ai danni di un agente della Polizia Penitenziaria , intorno alle nove di ieri sera, da parte di un detenuto recluso al secondo piano del reparto Tevere (area alta sicurezza, criminalità organizzata e comune). Il detenuto, Marco Massei, stando a quanto si apprende, per motivi ancora poco chiari, avrebbe reagito nei confronti del poliziotto mentre quest’ultimo lo accompagnava in cella. L’agente penitenziario percosso, G.D.A. ha riportato diversi traumi e una frattura alla mandibola ed è stato accompagnato prima all’ospedale di Santa Maria e poi a quello di Salerno. Momenti di tensione si sono registrati nel penitenziario dopo l’aggressione da parte del detenuto (il quale non risulta essere un tossicodipendente) mentre sono state aperte due inchieste: una interna e l’altra della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. Modica (Rg): incidente probatorio per due agenti penitenziari accusati di violenza sessuale di Antonio Di Raimondo www.corrierediragusa.it, 18 settembre 2014 La complessa indagine dei carabinieri scattò nel maggio 2012, per poi concludersi quasi due anni dopo. Si attenua ulteriormente la posizione di uno dei due agenti di polizia penitenziaria tornato libero dopo l’arresto dello scorso giugno da parte dei carabinieri per i pesanti reati di violenza sessuale aggravata ai danni di detenuti dell’ex carcere di Modica, ora chiuso, nonché spaccio di sostanze stupefacenti sempre all’interno della casa circondariale in cui prestavano entrambi servizio. Il tribunale della libertà di Catania aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare per il 45enne modicano F.C., che, come accennato, aveva quindi riacquistato la libertà. Resta invece ai domiciliari il collega A.L., pure lui di 45 anni ma originario di Rosolini. La posizione dell’agente tornato libero si è ulteriormente attenuata nell’incidente probatorio svoltosi nella sede del comando provinciale dei carabinieri. I due agenti penitenziari sono stati messi a confronto con due dei tre detenuti che allora lanciarono su di loro le pesanti accuse. Si tratta di detenuti nel frattempo trasferiti in altre strutture carcerarie fuori dalla Sicilia. Entrambi gli accusatori hanno confermato quanto a suo tempo dichiarato a carico di A.L., alleggerendo notevolmente invece le responsabilità di F.C., la cui posizione era stata definita fin dal principio piuttosto marginale dai suoi difensori. La complessa indagine dei carabinieri scattò nel maggio 2012, per poi concludersi quasi due anni dopo, sulla base della testimonianza resa da un detenuto immigrato ad un agente di polizia penitenziaria di Ragusa, dove il carcerato era stato trasferito dopo un periodo di detenzione a Modica. Proprio nel carcere di Piano del Gesù si sarebbero verificati gli episodi oggetto dell’indagine che sfociò nell’arresto dei due agenti penitenziari in servizio a Modica. Come si ricorderà, secondo le accuse, i due agenti penitenziari avrebbero preteso dai detenuti prestazioni sessuali in cella, ricompensandoli con numerose regalie, in primis droga e sigarette. In caso di rifiuto, i due assistenti avrebbero minacciato i carcerati di "incastrarli" nascondendo dello stupefacente tra i loro effetti personali, da far saltare fuori al momento dei controlli periodici nelle celle. Volterra (Pi): "Cene Galeotte" si ricomincia, chef in arrivo da tutta Italia www.cenegaleotte.it, 18 settembre 2014 Tutto pronto per il nono appuntamento con Cene Galeotte, iniziativa unica capace di coniugare i piaceri della tavola con un progetto di fortissima valenza sociale. Dopo il successo crescente registrato nella passate edizioni - con oltre 1.200 partecipanti dello scorso anno, ben 11.500 dalla sua "prima". Da venerdì 19 settembre si ricomincia: lo staff della Casa di Reclusione di Volterra accoglierà il pubblico per un altro indimenticabile momento di solidarietà, con i detenuti impegnati al fianco di chef professionisti nella preparazione di cene con cadenza mensile fino a giugno 2015. Un evento dall’anima anche benefica, visto che il ricavato (il costo ogni cena è di 35 euro a persona) sarà come sempre integralmente devoluto ai progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione "Il cuore si scioglie Onlus", che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e cucina vanno acquisendo un bagaglio professionale che in ben sedici casi si è tradotto in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Nuovi chef coinvolti nel progetto, nuove emozionanti serate, ma formula vincente che resta invariata. La splendida Fortezza Medicea che ospita la Casa di Reclusione, esempio fra i più suggestivi e meglio conservati di architettura militare rinascimentale, Aprirà alle ore 19.30 le proprie porte per l’aperitivo, allestito nel cortile interno sotto le antiche mura. A seguire la cena (ore 20.30), servita nella vecchia cappella dell’Istituto trasformata per l’occasione in sala ristorante con tanto di candele, camerieri/sommelier in divisa e, nel piatto, un ricco menu preparato dai carcerati con il supporto di uno chef professionista che metterà a disposizione - gratuitamente - tutta la sua esperienza. Ad accompagnare le portate una selezione di vini di pregio offerti da aziende vinicole toscane e non. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli, che provvede ad individuare gli chef coinvolti nell’evento. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra (www.fisarvolterra.it) che è partner del progetto e si occupa sia della selezione delle aziende vinicole e del servizio dei vini ai tavoli, sia della formazione dei detenuti come sommelier , di cui ben 10 hanno già positivamente svolto il corso base di avvicinamento al vino e seguiranno il percorso formativo per raggiungere la qualifica di sommelier professionali. Francia: caso Franceschi; mamma Cira "e ora sia fatta giustizia..." di Claudio Vecoli Il Tirreno, 18 settembre 2014 Non dorme da due notti. Perché sa che stamani, quando alle 9 in punto al Tribunal correctionel di Grasse si aprirà il processo per la morte del figlio, si troverà per la prima volta di fronte il medico e le due infermiere che secondo l’accusa non fecero di tutto per salvare il suo Daniele. Cira Antignano attende questo giorno da più di quattro anni. Ovvero da quel 25 agosto 2010 quando il figlio - detenuto in un carcere della Costa Azzurra per una storia di carte di credito clonate - fu trovato senza vita nella brandina della sua cella. Da allora mamma Cira ha combattuto ogni giorno perché venisse fatta luce su quella morte dalle circostanze ancora tutt’altro che chiare. E il processo che inizia oggi sa che è l’occasione per ottenere quella verità e giustizia che attende. Signora Antignano, si apre finalmente il processo per la morte di Daniele. Qual è il suo stato d’animo? "Sono agitata. Molto agitata. È da due notti che non riesco a dormire al pensiero di trovarmi di fronte coloro che, con il loro comportamento, hanno provocato la morte di mio figlio. Mi conosco e francamente non so come reagirò quando in aula me li troverò di fronte…". Cosa si aspetta dai giudici francesi? "Che sia fatta giustizia e verità. Può sembrare una frase fatta, ma quello che pretendo è che sulla morte di mio figlio non vi siano più omissioni. Per quattro anni ho dovuto combattere contro tutto e tutti. Perché a troppe persone avrebbe fatto comodo mettere una pietra sopra questa brutta storia. Ma non è possibile che un giovane entri nel carcere di una nazione civile come la Francia, vi resti per oltre sei mesi senza che sia nemmeno sottoposto ad un processo e che vi esca cadavere. Vi sono delle responsabilità che nel corso delle indagini sono emerse con chiarezza. E chi le ha sulle spalle, deve pagare". Si attende una sentenza dura? "Purtroppo temo che chi non ha fatto nulla per salvare Daniele quando chiedeva aiuto dalla sua cella, quando diceva di stare male ma nessuno lo ascoltava, alla fine non pagherà per quello che sarebbe giusto. Vorrei che provasse di persona cosa significa stare dentro un carcere ed essere trattato come è stato trattato mio figlio. Temo però che andrà a finire diversamente…" In questi anni ha fatto di tutto perché sulla morte di Daniele non scendesse il silenzio: ha scritto a Sarkosy e Carla Bruni, è andata a manifestare di fronte al penitenziario di Grasse e, pochi giorni fa, si è appellato al presidente Renzi e al ministro Mogherini. "Certe iniziative le ho anche pagate a caro prezzo, visto che quando andai a manifestare di fronte al carcere di Grasse fui picchiata dai poliziotti che arrivarono al paradosso di arrestarmi. Ma rifarei tutto. E, forse, anche di più. Purtroppo non sempre ho trovato quella solidarietà e quell’appoggio sul quale avrei voluto poter fare affidamento. Anche in Italia…" Chi l’ha delusa maggiormente? "Sicuramente la classe politica italiana. Tante promesse, tante dichiarazioni, tante belle parole quando le luci dei riflettori erano accese sulla vicenda. Poi uno dopo l’altro tutti sono spariti, salvo poi rifarsi vivi in occasione delle elezioni, quando c’era da chiedere voti e consenso. Non tutti si sono comportati così, ma la maggior parte sì". Chi invece le ha dato davvero una mano? "Io devo ringraziare, anche pubblicamente, il comitato delle vittime della strage di Viareggio che mi è sempre stato vicino. Daniela Rombi sarà al processo a Grasse per testimoniare la sua vicinanza. Altre associazioni, come quella che combatte gli abusi in divisa, mi hanno aiutata. Da loro ho avuto una grande vicinanza. Anche dal punto di vista umano". Una madre che chiede solo giustizia Proviamo a prestare ascolto alla voce di Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, trentunenne di Viareggio morto nel carcere francese di Grasse il 25 agosto di quattro anni fa. Merita di essere ascoltato e di trovare risposta, l’appello di quella madre, perché è solo grazie alla sua tenacia che oggi finalmente, davanti al Tribunale di Grasse, verranno giudicati medici, infermieri e funzionari del carcere, accusati di responsabilità a vario titolo nella morte del detenuto italiano. Si tratta di un passaggio importantissimo. Nulla e nessuno potranno cancellare il dolore di quella morte lontana e insensata, consumata in una città straniera e in un carcere sconosciuto. E non è questo che chiedono la signora Cira e le persone che hanno voluto bene a Daniele Franceschi. Men che mai una pena pur che sia, una sorta di sacrificio rituale che rinnovi su altri la sofferenza subita da Daniele e dai suoi cari. Il momento del processo, in questo come in casi analoghi, è piuttosto il momento della verità. I familiari delle vittime chiedono giustizia, e giustizia è innanzitutto rendere omaggio a quelle vite spezzate ricostruendone la storia e la memoria, in modo che la collettività e le sue istituzioni si assumano fino in fondo la responsabilità di quanto è accaduto. Questo è ciò che da quel tragico agosto, Cira Antignano chiede alle autorità francesi. Che non nascondano, cioè, la testa sotto la sabbia, che non fuggano le loro responsabilità, che rispondano a quella ineludibile domanda di giustizia. Non è stato facile arrivare a questo processo. Il calvario di Franceschi è proseguito anche da morto. La prima reazione delle autorità francesi è stata di negazione e di nascondimento. Non è bastato alla signora Antignano andare a Grasse, parlare con il nostro console, protestare pubblicamente per la mancanza di informazioni e di giustificazioni plausibili. Anzi, tutto ciò le è costato anche qualche gesto di insofferenza, numerose scortesie e persino qualche maltrattamento. Ma col tempo e con il sostegno delle istituzioni locali della Versilia, siamo arrivati al momento della verifica giudiziaria. È un’occasione da non perdere. Oggi la madre di Daniele chiede alle autorità italiane di starle vicino, di garantire più di quanto abbiano fatto in passato il sostegno alla richiesta di verità di cui lei si è fatta dolente portavoce. Portavoce, sì, perché la morte di Daniele Franceschi non è un fatto privato, che riguarda solo chi gli ha voluto bene e non ha potuto più vederlo, salutarlo, condividere con lui gioie e dolori. La morte di una persona in una istituzione penitenziaria è un fatto pubblico, che riguarda tutti: e proprio perché l’arduo e delicato compito di applicare la pena, senza degradare e umiliare chi la subisce, ha un senso solo se posto al servizio della collettività. E la morte di un cittadino italiano in un carcere francese chiama in causa le due comunità nazionali e i valori che condividono. La domanda di verità e giustizia sulla morte di Daniele Franceschi non è dunque l’eco del dolore di una madre. É, piuttosto, una necessità comune tra quanti, in Italia come in Francia, si riconoscono in quel patrimonio di valori fondato sui diritti inviolabili della persona. Brasile: arrestato il direttore del carcere di Pedrinhas, faceva fuggire i detenuti Il Giornale, 18 settembre 2014 Un direttore di carcere che aiuta i detenuti a fuggire, come in un film in cui non ci sono spettacolari piani da organizzare in cella, ma una compiacenza da ottenere secondo un sistema che ha sbalordito gli investigatori brasiliani che si sono occupati del caso: i carcerati venivano lasciati liberi "a tempo" per commettere rapine. Claudio Barcelos, direttore del Complesso penitenziario di Pedrinhas, dove sono rinchiusi alcuni dei criminali più pericolosi del Paese e ormai definito il carcere degli orrori, è stato arrestato dalla polizia di San Luis con l’accusa di aver favorito la fuga temporanea di alcuni criminali consentendo loro di commettere rapine, e di aver concesso la libertà in cambio di soldi, probabilmente frutto dei reati commessi in libertà concordata dai suoi prigionieri. L’inchiesta era in corso da oltre un anno nel più grande istituto penitenziario dello Stato di Maranhao. Una casa di reclusione come un inferno: negli ultimi anni sono andati in scena omicidi, ribellioni, sparizioni e persino decapitazioni. Secondo le cifre del Consiglio nazionale della Giustizia Brasiliano, dal 2013 gli omicidi nelle mura di Pedrinhas sono stati addirittura 75. Il carcere ha una capacità di 1.770 posti, ma i detenuti sono costantemente molti di più. Il sovraffollamento, unito a una terribile lotta tra bande e all’atteggiamento del direttore, secondo l’ultima ricostruzione degli inquirenti, avrebbero reso la casa circondariale una sorta di Stato nello Stato, regolato da assassinii e vendette. L’ultimo omicidio è avvenuto appena quattro giorni fa , sabato, mentre l’ultima fuga mercoledì scorso: trentasei detenuti sono scappati attraverso un foro nel muro scavato da un autocarro ribaltabile rubato all’interno del carcere. Nel penitenziario si sarebbero costituite bande di fazioni rivali e Pedrinhas è ormai un luogo di scontri sanguinosi per il comando del territorio. Nei mesi scorsi nove detenuti ritenuti dei leader delle organizzazioni interne sono stati trasferiti in altri istituti penitenziari. Ma le indagini stanno facendo luce su particolari ancora più sconcertanti della vita del carcere, che alzano il velo su un microcosmo malato, dove le azioni più criminali avvenivano sotto il sole. A gennaio una commissione parlamentare ha denunciato che i familiari di alcuni reclusi erano obbligati ad avere rapporti sessuali con i capi banda. Il direttore è accusato per ora di aver agevolato le fughe e concesso favori in cambio di tangenti. Ma certamente nella prigione di San Luis non c’era alcun controllo su quanto avveniva dentro e fuori dalle celle. Lo scandalo di Pedrinhas sta riaprendo in Brasile il dibattito sul sovraffollamento delle carceri: i detenuti sono 550mila, ma si calcola che la popolazione carceraria è attestata su un 30% in più rispetto al numero dei posti disponibili. Stati Uniti: in Texas donna giustizia con iniezione letale per aver ucciso il bimbo di 9 anni Ansa, 18 settembre 2014 Mentre fa discutere il caso dello stupratore seriale del Belgio che ha ottenuto l’eutanasia perchè sopraffatto dai disturbi psichici, negli Usa Lisa Coleman riceve l’iniezione letale per aver ucciso il bimbo di 9 anni. La sua storia criminale inizia nel 2004, quando nel suo appartamento viene trovato morto il figlio della sua convivente, Marcella Williams. Davontae, 9 anni, "non ha un centimetro di pelle senza ferite, cicatrici o bruciature di sigarette", dirà in tribunale il Pubblico Ministero. Gli contano 250 ferite. Il bambino pesa 16 kg e ha i polsi legati, trattamento che ha subito spesso. Le due donne lo hanno consapevolmente denutrito forse, come sostiene l’avvocato della Coleman, perchè "aveva disturbi mentali e le due non sapevano come gestirlo". E l’hanno quindi chiuso in casa. Mentre la condanna a morte della madre, 33 anni, è stata convertita in ergastolo, Lisa Coleman - che materialmente ha ucciso il piccolo - ha ricevuto l’iniezione letale. Un trattamento che Frank Van Der Beeken stupratore e assassino belga - ha cercato per 4 anni e ottenuto pochi giorni fa, "per porre fine alle sue insopportabili sofferenze psichiche". Riceverà l’eutanasia mentre le famiglie delle vittime chiedono che resti in carcere. Dal 1976, quando la pena capitale è stata introdotta negli Stati Uniti, Lisa Coleman è la 15esima donna a finire nel braccio della morte. Gli uomini sono stati inveve quasi 1400. Secondo il Death Penalty Information Center le donne rappresentano quasi i 2% dei condannati a morte. Russia: arrestato il miliardario Vladimir Evtushenkov, è un nuovo "caso Yukos" Adnkronos, 18 settembre 2014 Arrestato in Russia con l’accusa di riciclaggio il miliardario Vladimir Evtushenkov. E Mikhail Khodorkovsky punta il dito contro lo zar del petrolio Igor Sechin, già indicato in passato dall’ex oligarca come il regista dello smembramento della sua Yukos. In un’intervista al quotidiano Vedomosti, Khodorkovsky spiega che il ceo di Rosneft, l’impero in cui sono confluite la maggior parte delle società dell’impero di Khodorkovsky, intende fare fronte al declino della produzione di petrolio cercando di assumere il controllo di Bashneft, la compagnia che negli ultimi anni ha registrato in Russia una produzione di greggio fra le più elevate al centro del caso giudiziario contro il presidente di AFK Sistema Evtushenov (secondo quanto ha reso noto il Comitato inquirente ieri, l’ipotesi di reato nei suoi confronti è il riciclaggio di denaro nell’acquisto di azioni di maggioranza Bashneft nel 2009 dal dalla regione della Baschiria). "È esattamente lo stesso Igor Ivanovich (Sechin, ndr) che in undici anni di tempo (Khodorkovsky fu arrestato nel 2003, ndr) non si è fatto più sveglio e forse è diventato più avido", ha dichiarato Khodorkovsky, secondo cui Putin, estraneo alla vicenda, "non si rende conto di quello che accade sotto il suo naso". Anzi, aggiunge, questo nuovo sviluppo segna "la completa perdita di controllo da parte del presidente". Evtushenkov, indicato da Forbes come la 15esima persona più ricca in Russia con un patrimonio valutato 6,8 miliardi di dollari, sta pagando il prezzo per aver resistito ai tentativi di Rosneft di assumere il controllo di Bashneft "alle condizioni che gli erano state proposte", ha anche detto Khodorkovsky (Rosneft avrebbe cercato di acquisire Bashneft lo scorso giugno, secondo quanto aveva riportato allora Vedomosti). Khodorkovsky, che ha tracorso dieci anni nelle carceri russe, non è l’unico a commentare in questi termini l’arresto di Evtushenkov, da ieri agli arresti domiciliari con un provvedimento valido fino al 16 novembre a cui hanno fatto seguito oggi nuove perdite della borsa a Mosca (Afk Sistema è arrivata oggi a perdere fino al 37 per cento del suo valore così come Bashneft il 20 per cento, i due titoli sono stati sospesi dalle contrattazioni alla borsa di Mosca). Il presidente dell’Unione industriali russi, Aleksandr Shokhin, ha detto che il nuovo caso "appare senza ombra di dubbio come un Yukos 2". Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha liquidato i paragoni fra l’affaire Bashneft e quella di Yukos come "privi di fondamento e inappropriati". Afk Sistema controlla anche fra l’altro Mts, il maggior operatore telefonico russo e la catena di negozi per l’infanzia Detsky Mir. Nel suo consiglio di amministrazione, siede anche l’esponente laburista britannico Lord Mandelson. Evtushenkov, nato nel 1948 a Kaminschina, nella regione di Smolensk, nel 1973 si è laureato all’Istituto di Chimica Mendeleev di Mosca (la stessa scuola in cui si è diplomato Khodorkovsky nel 1986). Nel 1987, dopo aver lavorato come ingegnere capo in due diverse fabbriche di materie plastiche, è stato chiamato a dirigere il dipartimento scienze e tecnologie del governo di Mosca, dove ha incontrato il futuro sindaco Yuri Luzhkov, l’unico esponente politico a cui è stato vicino. Nel 1993, ha lasciato la giunta per fondare Sistema, una società nata sul commercio di commodities come tutte le altre realtà industriali in quelli anni ma subito specializzata in telecomunicazioni, high-tech e microelettronica, "settori a cui nessuno in quel periodo era interessato", riuscendo così a evitare, ha sempre rivendicato l’imprenditore, il far west dei primi anni di capitalismo in Russia. Vietnam: Human Rights Watch denuncia abusi in carcere. Hanoi risponde: non ci risulta Agi, 18 settembre 2014 Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato una ricorrente situazione di abusi nelle carceri vietnamite, ma il governo di Hanoi ha definito "infondate" queste accuse. Secondo l’organizzazione per la tutela dei diritti umani, sono aumentati, soprattutto nelle aree rurali, i casi di abusi sui detenuti e anche i decessi nelle prigioni. In particolare, presentando un suo rapporto a Bangkok, Hrw ha citato 28 casi di detenuti morti in carcere su cui sono state fornite spiegazioni dubbie, dal suicidio alla malattia, e 22 episodi di brutale pestaggio, tra i quali anche quello di un di un bimbo di 11 anni. "Sono stati individuati casi in 44 delle 58 province vietnamite. Ma siamo convinti che quel che vediamo è solo la punta dell’iceberg", ha denunciato il vice direttore per l’Asia dell’Ong, Phil Robertson. Il governo però nega e anzi la portavoce ha assicurato che il Vietnam, che ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, punirà "con severità" i responsabili "qualora venissero alla luce casi di tortura o punizioni corporali". Pakistan: prima condanna a morte di un civile in 6 anni, esecuzione sospesa dopo proteste Aki, 18 settembre 2014 Le autorità di Islamabad hanno sospeso l’impiccagione di un uomo accusato di omicidio che, se eseguita, sarebbe stata la prima esecuzione di un civile in sei anni in Pakistan. Condannato il 2 luglio 1998 e detenuto nel carcere di Adiyala a Rawalpindi, Shoaib Sarwar avrebbe dovuto essere giustiziato tramite impiccagione domani. La sentenza era stata duramente contestata da gruppi nazionali e internazionali in difesa dei diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, che avevano rivolto un appello a Islamabad per una moratoria della pena di morte. In cambio, le autorità hanno deciso di rinviare di un mese l’esecuzione, come ha spiegato una fonte carceraria a condizione di anonimato all’agenzia di stampa Dpa. Di fatto, in Pakistan era in vigore da fine 2008 una moratoria delle esecuzioni di civili. Da allora solo un soldato è stato impiccato nel 2012 dopo essere stato condannato dalla Corte marziale, come rende noto il ministero degli Interni. Ci sono comunque almeno ottomila detenuti nel braccio della morte in Pakistan, dove sono sempre state respinte le richieste di appello. Il governo del primo ministro Nawaz Sharif aveva però annunciato che avrebbe ripreso le impiccagioni una volta salito al potere nel giugno del 2013, ma da allora nessuna pena capitale è stata eseguite. La moratoria sulla pena capitale è una condizione posta dall’Unione Europea per accordi preferenziali di commercio, ha reso noto un funzionari del ministero del Commercio chiedendo l’anonimato. "Se dovesse avvenire (l’esecuzione, ndr) perderemmo grandi ordini dell’export", ha spiegato alla Dpa. "Il governo dovrebbe dichiarare una moratoria ufficiale, commutando tutte le condanne a morte esistenti e unendosi alla tendenza internazionale di abolire la pena di morte una volta per tutte", ha dichiarato Brad Adams, direttore di Hrw per l’Asia.