Giustizia: una riforma a costo zero? basterebbe rispettare le leggi che già ci sono di Stefano Cappellini Il Messaggero, 16 settembre 2014 Da anni si attende una compiuta riforma dell’ordinamento giudiziario. Ce n’è bisogno, e quanto. I temi sono noti da tempo e, almeno in parte, contenuti nei provvedimenti che il governo ha presentato nel Consiglio dei ministri del 29 agosto: velocizzare i tempi del processo, rafforzare i meccanismi che garantiscono la terzietà del giudizio, razionalizzare i tempi di prescrizione, disciplinare la pubblicazione degli atti giudiziari. Il veicolo scelto dal governo per intervenire su alcune di queste materie è quello del disegno di legge: significa che la parola passa al Parlamento e i tempi per arrivare all’approvazione di nuove leggi, ammesso che ci si arrivi davvero, potrebbero essere lunghi. C’è però una prima riforma della giustizia che si potrebbe varare a costo zero, senza toccare nulla. Basterebbe riaffermare con forza alcuni principi fondanti dello Stato di diritto che, per varie ragioni, si sono smarriti strada facendo, anche perché da anni una agguerrita pattuglia di editorialisti, tribuni e cabarettisti - in alcuni casi le figure coincidono - si dedica quotidianamente con successo alla loro demolizione. Ecco otto punti per una riforma che può entrare in vigore da domattina, per il semplice fatto che è composta di principi già contenuti nella Costituzione, nelle leggi dello Stato e nei codici di giustizia. 1) La presunzione di innocenza. Il garantismo non è, a dispetto di quanto ormai pensano in molti, un sinonimo di innocentismo. Non significa propendere a priori per l’innocenza di un indagato o di un imputato, ma solo pretendere che l’iter giudiziario rispetti tutte le garanzie della difesa e che nessuno si trovi a pagare una sanzione - penale, mediatica, professionale - prima di essere stato giudicato colpevole. L’utilizzo del termine inquisito come marchio di infamia può facilmente diventare uno strumento nelle mani di poteri più o meno occulti, determinati a usare la magistratura come arma di regolamento di conti personali o politici, fino ad arrivare al paradosso per cui è sufficiente l’esposto di un avversario o la leggerezza di un pm per cambiare il corso della vita pubblica di un Paese. Naturalmente esistono situazioni - parliamo soprattutto di ruoli pubblici - nelle quali può essere opportuno un passo indietro davanti alla semplice notizia di indagine, soprattutto quando può scatenarsi un conflitto di interessi tra la conduzione della difesa e il mantenimento della carica, o quando sono particolarmente forti gli elementi a carico, ma un cittadino indagato non ha meno diritti di uno non. E questo vale ancora di più per chi, la maggior parte, non fa nemmeno notizia e non ha altra tutela se non il rispetto rigoroso delle forme. 2) L’inversione dell’onere della prova. L’indagato ha diritto - urgenza, dal suo punto di vista - di produrre le ragioni della propria difesa. Ma il destino giudiziario di un cittadino non dipende - non dovrebbe dipendere - dalla capacità di difesa. È l’accusa che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Al contrario funzionava l’Inquisizione, dove all’accusa di stregoneria o di eresia - elevata a insindacabile arbitrio dell’inquisitore - ci si poteva sottrarre solo dimostrando di non essere colpevoli. Non ci si riusciva, di solito. 3) La sede naturale del processo è l’aula di tribunale. Da tempo alcuni pm, fortunatamente una minoranza, sono invece convinti che non sia così. Il loro obiettivo è teso a concentrare in pochi giorni, quelli in cui la notizia di reato finisce sui media, e nelle settimane successive, tutto lo sforzo investigativo. Il successo di un’inchiesta, in questo format giudiziario pluri-sperimentato, non si fonda più sul processo, la sentenza e i tre gradi di giudizio. Ciò che conta è la copertura mediatica dell’inchiesta, cui si offre benzina grazie alla pubblicazione indiscriminata di atti in teoria coperti da segreto istruttorio. Abbiamo assistito anche a casi di inchieste congegnate, di fatto, per esplodere solo mediaticamente. In tali casi, più i nomi coinvolti sono di rango, più la tesi accusatoria è ampia e generica ma roboante, più il pm potrà spiegare il successivo flop con la tesi dei poteri forti che hanno impedito lo sviluppo dell’azione penale. Una tesi che frotte di dietrologi sono felici di trangugiare. E che spesso apre le porte della politica all’ex toga. 4) La pubblicazione di intercettazioni. Da anni si battibecca su questo punto, eppure non è difficile venirne a capo. Le intercettazioni sono uno strumento essenziale di indagine e la loro limitazione rischia di essere un ostacolo all’azione di molti bravi magistrati. In questi anni la loro divulgazione illimitata ha però fatto scempio dei diritti. Il problema non riguarda solo tutti quei cittadini che, pur non oggetto di indagine, hanno visto le loro conversazioni pubblicate sui giornali ma anche gli stessi indagati, le cui conversazioni telefoniche sono state date in pasto all’opinione pubblica a prescindere dalla rilevanza penale. Si tratta di un circuito perverso: i media alimentano il voyeurismo, alcuni pm se ne servono per riscuotere attenzione. Una battuta antipatica, una frase razzista, un commento sboccato difficilmente hanno a che fare con il codice penale, però contribuiscono a spostare il consenso verso l’accusa. Una legge che fissi dei paletti è auspicabile, ma intanto ci sarebbe già il segreto istruttorio da rispettare. Ci sarebbe. 5) La tentazione del giudizio morale. Un magistrato non è un prete. Non deve sindacare sul rispetto di comandamenti ma delle leggi. Non gli competono giudizi sulla moralità delle persone su cui indaga o che è chiamato a giudicare. È diventata invece prassi consolidata infarcire gli atti di valutazioni etiche o aggettivi ("turpe", "spregevole", ecc.) che, spesso, non hanno alcuna relazione con il reato contestato. Perché di un tangentista non importa sapere se è un traditore della fedeltà coniugale ma solo se ha rubato, di un corruttore non conta se ha riso di disgrazie ma se ha corrotto o no. La demolizione della personalità dell’indagato è invece strumento largamente perseguito, spesso per surrogare la mancanza di prove concrete. 6) Inchiesta sull’universo mondo. Il raggio di azione di un pm è necessariamente soggetto ad alcune limitazioni. La prima delle quali è territoriale e prescrive che a occuparsi di una notizia di reato sia la Procura competente. Questo principio è più volte saltato e ormai ci sono pm che non riconoscono confini alla loro azione, se non quelli della notiziabilità delle inchieste da intraprendere. 7) La differenza tra giudice e storico. La missione di un magistrato non è riscrivere la storia, magari con l’idea - esplicitamente teorizzata a proposito del processo sulla trattativa Stato-mafia - che gli strumenti coercitivi dell’azione giudiziaria possano arrivare laddove lo storico non arriva con le sue fonti e i suoi strumenti. 8) Le invasioni di campo. La missione della magistratura non è riformare il sistema politico ma perseguire i reati. Né le toghe possono rappresentare un contropotere legislativo. I pm hanno lamentato, spesso a ragione, invasioni di campo da parte della politica, ma sconfinano a loro volta tutte le volte che usano la forza sindacale per inibire il legislatore dal mettere mano alle riforme di settore. Giustizia: Italia ventitreesima nell’Ue per equità sociale, il peso del gap generazionale di Maurizio Molinari Redattore Sociale, 16 settembre 2014 Peggio di noi solo Ungheria, Bulgaria, Romania e Grecia. Cattiva la gestione dei tagli attuati dai paesi più colpiti dalla crisi. Il rapporto della fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung rileva come negli ultimi anni si sia allargata la forbice fra nord e sud-est Europa. L’Italia si colloca al ventitreesimo posto, insieme alla Lettonia, per quanto riguarda la giustizia sociale, sui ventotto Stati membri Ue, insomma in zona retrocessione. Il nostro paese prende appena un 4,7 su 10 nella media di tutti gli indicatori analizzati. Nel 2008 e nel 2011, l’indice di giustizia sociale per l’Italia era al 5,16. Peggio di noi solo l’Ungheria, con 4,44, la Bulgaria con 3,75, la Romania con 3,69 e la Grecia (ultima per tantissimi dei parametri presi in considerazione) con 3,57. A dirlo è il rapporto della fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung, che rileva come negli ultimi anni si sia allargata la forbice fra i paesi del Nord Europa a più forte inclusione sociale (la Svezia, che prende ben 7,48, la Finlandia con 7,13, la Danimarca con 7,06 e i Paesi Bassi con 6,96) e quelli del Sud e dell’Est, dove il livello di giustizia sociale è drammaticamente crollato (fra questi oltre all’Italia la Grecia, la Spagna e l’Ungheria, ma anche l’Irlanda). La principale ragione per queste differenze è, secondo lo studio, da attribuire a una cattiva gestione dei tagli che i paesi più colpiti dalla crisi hanno messo in atto: invece di risparmiare colpendo le posizioni di privilegio, infatti, si è preferito adottare tagli che andassero a colpire indiscriminatamente anche le categorie più deboli di cittadini. Un’altra differenza degna di nota a livello europeo è quella demografica, laddove i giovani sono più colpiti dall’ingiustizia sociale rispetto agli anziani (il 28% dei bambini e dei giovani europei è a rischio di povertà mentre gli anziani a rischio sono in calo). Lo stesso dato si può ritrovare anche in Italia, dove la disoccupazione giovanile - com’è purtroppo arcinoto - ha raggiunto e superato il 40%. Inoltre, il nostro paese si colloca al ventisettesimo posto su ventotto, seguito solo dalla Grecia, per quanto riguarda la giustizia intergenerazionale, con uno score di 3,73. Questo perché ad esempio il trattamento pensionistico degli anziani è molto più favorevole rispetto a quello che si potranno attendere i giovani fra qualche decennio. Se la situazione sembra in peggioramento in tutta l’Ue, ci sono tre eccezioni, la Germania, il Lussemburgo e la Polonia, in cui si stanno facendo miglioramenti verso una società più equa. La media dell’indice di giustizia dell’Unione Europea è di 5,6, con dodici paesi che prendono almeno sei (oltre ai primi quattro già citati ci sono in ordine dal quinto in poi la Repubblica Ceca, l’Austria, la Germania, il Lussemburgo, la Slovenia, l’Estonia, il Belgio e la Francia).Gli squilibri geografici e generazionali, nota il rapporto, possono portare a situazioni di tensione e a una perdita di fiducia che può minare il progetto di integrazione europea. Per tornare all’Italia, la sua ventitreesima posizione nella classifica generale dell’indice di giustizia sociale è dovuta al fatto che, nella stragrande maggioranza degli indicatori analizzati, il nostro paese risulta ben al di sotto della media e le cose tendono ad andare sempre peggio. Ad esempio, il numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta è quasi raddoppiato negli ultimi anni, passando dal 6,8% del 2007 al 12,4% del 2013, e quasi tre italiani su dieci vivono in condizioni di povertà relativa. Inoltre, col 32% di Neet, siamo gli ultimi in Europa nella graduatoria dei giovani fra i venti e i ventiquattro anni che né studiano né cercano lavoro. Una piccola luce di speranza è data invece dal fatto che in Italia sembra ci sia un legame molto blando fra il ceto sociale di appartenenza di un individuo e il suo successo accademico, il che è un buon segno per le pari opportunità (in questo speciale indicatore siamo quarti). Non facciamo poi tanto male neanche per quel che riguarda la non discriminazione (ci piazziamo al dodicesimo posto insieme a una serie di altri paesi, ma con un punteggio di sette su dieci). Un’altra tendenza rilevata dal rapporto è come non sempre, a performance economiche positive di un paese corrisponda poi un alto grado di giustizia sociale. Ad esempio la Svezia e l’Irlanda, pur avendo un Pil pro capite simile, raggiungono risultati molto differenti in questo specifico indice, col paese scandinavo a guidare la classifica degli Stati più "giusti socialmente" mentre l’Irlanda si colloca solo al diciottesimo posto. E un’altra prova è data da paesi come la Slovenia (quinta), la Repubblica Ceca (nona) e l’Estonia (decima che, pur avendo economie nella media e non particolarmente performanti, mostrano un alto grado di giustizia sociale. Con questo nuovo indice, la fondazione Bertelsmann si propone di misurare il livello di giustizia sociale di un paese basandosi su sei aree tematiche e trentacinque indicatori. Le aree sono: povertà, istruzione, giustizia fra le generazioni, occupazione, salute e coesione sociale e non discriminazione. Questo è il primo anno in cui un tale indice viene pubblicato, ma si continuerà a monitorare la situazione anche perché esso verrà completato dal cosiddetto Barometro Eu delle Riforme. I due strumenti, messi insieme, daranno un nuovo indicatore a livello europeo, il cosiddetto Sim (Social Inclusion Monitor). Giustizia: in arrivo "tagli" al budget per 240 milioni… ma il conto arriverà ai Comuni di Francesco Grignetti La Stampa, 16 settembre 2014 Per ridurre le uscite di 240 milioni saranno limati i rimborsi alle città. Il piano dei tagli è da ieri sul tavolo del ministro Andrea Orlando, pronto per essere girato a palazzo Chigi. Tagli dolorosi. Al ministero della Giustizia viene chiesto di rinunciare a 240 milioni di euro. Si consideri però che il bilancio complessivo del ministero ammonta a circa 8 miliardi di euro e di questa montagna di soldi, ben 6,5 miliardi sono destinati agli stipendi e quindi per definizione intangibili. Restano 1,5 miliardi di spese considerate "discrezionali" e su quelle si abbatterà la mannaia. Subito, immediati, occorrono 120 milioni di euro da sacrificare sull’altare della nuova legge di Stabilità che vanno a sommarsi ad altri 120 milioni di tagli come da precedente spending review. Per Orlando non sarà un’operazione facile. Se si guarda al complesso della spesa, quei 240 milioni di euro da risparmiare sembrano poca cosa. Appena il 3% delle spese. Ma se si escludono i capitoli di spesa intoccabili, perché certo non si possono decurtare gli stipendi, ché anzi alla Giustizia servirebbero più magistrati, più personale amministrativo nei tribunali, e più agenti penitenziari, allora le percentuali suonano molto diverse: a via Arenula dovranno tagliare le spese "discrezionali" del 13,5% circa. Significa ad esempio che salteranno molti rimborsi ai Comuni (salvo Roma e Napoli che chissà perché dipendono direttamente dal ministero), i quali sono costretti per legge ad anticipare le spese di funzionamento dei palazzi di Giustizia nel proprio territorio e avrebbero poi diritto a un rimborso a piè di lista. In teoria. Capita già da qualche tempo, infatti, che il ministero non saldi né in tempo, né per intero. Nel 2014 e nel 2015 di questo passo i rimborsi del ministero ai Comuni saranno ancora più lesinati. Ci saranno proteste, ma tant’è. A via Arenula, anzi, hanno cominciato a esaminare più occhiutamente di un tempo quelle spese e non è sfuggito che esistono enormi discrepanze tra un appalto per pulizie e l’altro, come anche per la vigilanza, o per la piccola manutenzione. Quanto al resto, non saranno tagli lineari, nel senso che il ministro ha fissato alcune priorità. La prima, non è accettabile tagliare sulle spese per il vitto ai detenuti e sul lavoro per chi è ristretto nei penitenziari. Lo Stato spende già troppo poco su questo versante i tagli sarebbero considerati vergognosi. La seconda priorità è salvaguardare l’informatica. Il Processo civile telematico è il fiore all’occhiello di questo governo. Dalla telematica stanno giungendo le soddisfazioni maggiori, sia in termini di tempo, sia di soldi risparmiati. Si pensa anzi al prossimo passo, ossia all’estensione del Processo telematico anche alle corti civili di appello, e poi alla giustizia contabile e amministrativa. Il sogno proibito è una accentuazione della informatizzazione pure nel penale. Figurarsi se il ministro può permettersi di tagliare sui computer e sul software. Ad Orlando non resterà che tagliare su tutto il resto: sull’acquisto di beni e servizi, cercando di garantire almeno la benzina alle macchine blindate e la carta per le fotocopie degli atti; sull’edilizia; sulle spese di giustizia in senso lato; sulle intercettazioni. La speranza è che si possa razionalizzare qualche voce di spesa lungo la strada, ma è anche altamente probabile che aumenterà il debito occulto del dicastero. Già oggi è debitore per almeno 500 milioni di euro nei confronti dei fornitori e dei Comuni di cui si diceva. Dall’anno prossimo, il debito rischia di aumentare ancor di più. Giustizia: il ministro Orlando; non solo tagli lineari… ma anche 1.000 nuovi assunti La Presse, 16 settembre 2014 Se da una parte il ministero della Giustizia farà spending review effettuando tagli lineari, dall’altra la riforma darà la possibilità al ministro Andrea Orlando di assumere personale amministrativo per i Tribunali italiani. Lo ha spiegato lo stesso Orlando a margine di un convegno a Milano su Giustizia e legalità. "L’invito da raccogliere - ha precisato Orlando - è che accanto ai tagli si tratta anche di realizzare degli investimenti. Per questo tutti i nostri sforzi vanno nella direzione che è quella di prevedere nel prossimo anno lamento 1000 assunzioni del personale amministrativo e di cancelleria perché in questo momento quella è l’emergenza più grave. Senza un reclutamento in quel settore rischiano un collasso della giurisdizione". "Tagli sì, ma anche investimenti - ha concluso Orlando - e in questo caso dicendo anche quali". Giustizia: mangiare in carcere? un business d’oro in mano a poche ditte di Damiano Aliprandi Il Garantista, 16 settembre 2014 Si chiama "sopravvitto", quel cibo in più che il singolo può acquistare ma è impossibile scegliere tra offerte diverse. Nelle carceri italiane si fanno spese d’oro. I pasti forniti dall’amministrazione penitenziaria sono inadeguati, per qualità e quantità, a sfamare le persone. Quindi i detenuti, soprattutto chi se lo può permettere, sono costretti ad acquistare prodotti alimentari e beni di prima necessità tramite negozi interni al carcere, La gestione, è in mano ad una ditta esterna che effettua le gare d’appalto, al livello regionale, ogni tre anni. E solitamente vince sempre la stessa. Come l’ormai nota Saep Spa, la quale gestisce gli spacci di 26 istituti penitenziari e che nel 2010 (unici dati a nostra disposizione) ha registrato oltre quattro milioni di euro di utili. Società, tra l’altro, controllata dalla Tarricone Srl che è una holding con un giro d’affari nel gioco d’azzardo: sale bingo, poker online, scommesse sportive ed ippiche. Immancabile anche la ditta Arturo Berselli Spa che vince appalti dal 1930 e continua ad avere utili per oltre un milione e mezzo di euro. Società indirettamente aiutate dal ministero della Giustizia, il quale nel passato aveva dato indicazioni ben precise circa lo svolgimento delle gare d’appalto: ovvero che siano effettuate dalle ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con gli enti pubblici. Quindi sempre le stesse. All’interno del carcere non c’è tanta scelta e il "sopravvitto", ovvero la spesa extra, è in mano ad un monopolio che decide i prezzi. E, sulla pelle dei detenuti, possono ricavare tantissimi soldi. D’altronde le ditte esterne che operano all’interno delle carceri hanno anche il privilegio di usufruire dei magazzini dell’amministrazione penitenziaria e della sua "forza-lavoro": tutto a carico del ministero della Giustizia. Da anni i detenuti segnalano che i prezzi sono troppo cari, e da armi i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona hanno verificato che i prezzi interni al carcere sono uguali a quelli dei negozi. Apparentemente quindi sembrerebbe che il costo del "sopravvitto" rispetti l’ordinamento penitenziario, il quale recita: "I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è gito l’Istituto". Ma non è esattamente così. La regola dell’ordinamento è vecchia e andrebbe aggiornata. Era l’epoca in cui non esistevano i discount, e i prezzi erano accessibili. Oggi, soprattutto con la crisi economica, molte persone non possono permettersi di fare la spesa nei negozietti e quindi ricorrono ai discount, oppure fanno acquisti nei mercati a Km zero dove hanno tagliato i costi del trasporto e distribuzione. Ma per i detenuti non è così. Per loro vale la dittatura del prezzo unico e ciò ha scatenato numerose "rivolte" nelle carceri. Ad agosto si sono segnalate proteste in vari istituti penitenziari. Nel carcere "Lorusso- Cutugno" di Torino, quaranta detenuti si sono rifiutati di entrare in cella come previsto per la distribuzione del pasto e hanno cominciato a sbattere posate e stoviglie contro le inferriate e le porte blindate. Poi hanno incendiato giornali e cartoni. Stessa storia nel carcere Porto Azzurro dell’isola d’Elba, Oltre alle condizioni disumane, hanno esposto denuncia per il sopravvitto inaccessibile per i detenuti più poveri. Denunciano che il pasto distribuito non basta e spesso la carne è rancida, di cattivo odore e al limite delle norme di sicurezza. Anche le bombolette del gas vengono vendute ad un prezzo superiore perfino rispetto alle altre carceri. Rivolta del vitto anche al carcere femminile di Pontedecimo. Le detenute denunciano che hanno difficoltà ad affrontare le spese perché le loro famiglie vivono di stipendi e pensioni molto basse. E chi ha la possibilità di mandargli qualcosa da mangiare,. deve sottostare a dei limiti molto stretti e quindi non sufficienti per la sopravvivenza. Ancora oggi, nonostante l’inchiesta di Ristretti del 2011 e le interrogazioni parlamentari presentate dalla radicale Rita Bernardini, il problema del caro prezzi all’interno delle nostri carceri è di estrema attualità. Eppure proprio grazie ai radicali, nel 2011, l’allora capo del Dap aveva predisposto un’indagine approfondita e una valutazione attenta sui costi del sopravvitto. Indagine mai resa pubblica. Giustizia: 30 suicidi in 3 anni tra gli agenti di Polizia penitenziaria, 8 da inizio anno Redattore Sociale, 16 settembre 2014 I suicidi sono otto solo da inizio anno. Il Sappe denuncia il "male di vivere" e lo stato di abbandono. Per lo psichiatra De Leo il burnout è frequente ma si può fare prevenzione. Favero (Ristretti Orizzonti): "Senza capo del Dap non c’è nessuno che si senta responsabile". Otto agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita in otto mesi, 30 negli ultimi tre anni: "Il male di vivere sembra non avere fine", denuncia il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria). A pochi giorni dall’ultimo caso di suicidio, avvenuto giovedì a Saluzzo, si rinfiamma la polemica sulle condizioni lavorative degli agenti e sullo stress lavoro correlato. A denunciare la situazione è Donato Capece, segretario del Sappe, che parla di "stato di abbandono in cui è lasciato il corpo di polizia penitenziaria". E aggiunge: "Siamo sotto organico di circa ottomila agenti e se uno sbaglia non glielo perdonano. Eppure riusciamo ancora a salvare la vita a tanti detenuti disperati". Intanto l’amministrazione "sta a guardare": nessun punto di ascolto è stato attivato, nessuna azione concreta per aiutare gli agenti. Che la prevenzione sia possibile lo sostiene Diego De Leo, psichiatra: "Il burnout è un fenomeno frequente, che sfocia spesso in esaurimento emozionale, perdita di significato del proprio lavoro, disinvestimento. Ma molti interventi preventivi sono possibili: una valutazione attenta degli accadimenti più recenti dovrebbe poter permettere la messa a punto di contromisure per arginare il fenomeno". Per Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, i problemi principali sono il degrado delle carceri e la mancata nomina del nuovo capo del Dap: "Non c’è nessuno che si senta responsabile". Per migliorare la qualità del lavoro è fondamentale "introdurre attività che non siano di pura custodia". Giustizia: chiusura Ospedali Psichiatrici Giudiziari, superare ritardi e incongruenze da Comitato Stop Opg Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2014 Con oltre due mesi di ritardo la Conferenza delle Regioni ha finalmente nominato i propri rappresentanti nell’Organismo di coordinamento per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (previsto dalla nuova Legge n. 81/2014 all’articolo 1 comma 2 bis). Sono gli Assessori regionali alla Salute di: Emilia Romagna, Liguria, Puglia, Sardegna e Toscana che rappresenteranno tutte le regioni italiane. L’Organismo ha il compito delicatissimo di esercitare funzioni di monitoraggio e di coordinamento delle iniziative assunte per garantire il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e di relazionare al Parlamento. Sollecitiamo il Ministero della Salute a convocarlo immediatamente. Il nuovo Organismo deve agire subito, perché vi sono ritardi e incongruenze nell’attuazione della nuova legge: dopo una flessione iniziale risultano in aumento i "nuovi ingressi" in Opg, mentre molte regioni invece di ridurre al minimo indispensabile i posti nelle Rems (i "mini Opg") insistono per costruire queste neo strutture manicomiali, trascurando i progetti terapeutico riabilitativi individuali alternativi all’internamento. Si profila così il rischio non solo di un’ulteriore inaccettabile proroga, ma di uno stravolgimento della nuova legge: i vecchi Opg sarebbero sostituiti da nuove strutture regionali di tipo manicomiale. Ancora una volta la custodia e la segregazione delle persone al posto della cura e del reinserimento sociale. Per questo stop opg riprende la sua mobilitazione: l’obbiettivo resta abolire le parti del codice penale che tengono in vita l’Opg e quindi la logica manicomiale. E nel frattempo attuare questa buona legge, che ha finalmente considerato l’Opg, come era il manicomio, luogo "inadatto" alla cura e ha fornito concrete opportunità per chiuderli. Giustizia: così il "patto del Nazareno" tiene la Consulta in ostaggio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 settembre 2014 Parlamento. Scrutinio per la Corte Costituzionale, il duo Violante (Pd) e Bruno (Fi) ancora non passa Renzi si gioca la faccia. Tre eletti per il Csm: sì a Bene, Balduzzi e Casellati. Valanga trasversale di assenti e dissidenti. Il Pd: "L’accordo tiene". Ma il premier potrebbe incontrare Berlusconi. Squadra che perde non si cambia. Bisogna rovesciare la saggezza di Vujadin Boskov per capire il parlamento italiano. Dopo tre mesi e dieci votazioni, per ognuna delle quali servono circa sei ore, Luciano Violante proprio non ce la fa a essere scelto come giudice della Corte Costituzionale. Ragione per cui ci riproverà oggi, assieme al forzista previtiano Donato Bruno entrato ufficialmente in campo ieri, una volta logorate le altre candidature. Violante e Bruno hanno raccolto praticamente lo stesso numero di preferenze - solo una in più l’ex presidente della camera, 530 - restando comunque sotto il quorum richiesto di 570 voti. La coincidenza viene letta sia dal Pd che da Forza Italia come prova che il patto tra Renzi e Berlusconi tiene; per questo si insiste. La colpa dell’ennesima fumata nera viene data agli assenti, in effetti tanti, 107, troppi per essere messi in carico al lunedì, giornata in cui per i parlamentari è tradizionalmente difficile rientrare a Roma. Ma la posta in gioco era assai alta, richiamata più volte da Napolitano e dai presidenti di senato e camera, e dunque almeno a una parte delle assenze bisogna dare il valore politico di rifiuto del patto Renzi-Berlusconi. In più ai 107 assenti (tra i quali 10 Pd, 16 Forza Italia, 9 Ncd) vanno aggiunti 108 voti dispersi, schede nulle, bianche o intestate a candidati non eleggibili. E così il ticket Violante-Bruno che sulla carta dovrebbe contare oltre settecento voti, se ne trova regolarmente un paio di centinaia in meno. Oggi ennesimo tentativo - "l’accordo tiene e il problema legato alle assenze si risolverà", assicura il vicesegretario del Pd Guerini - in quello che ormai è un braccio di ferro tra il governo e la sua maggioranza occulta, riassunta dal patto del Nazareno, e l’opposizione interna a Pd e Fi alla cordiale intesa Renzi-Berlusconi. Ma è chiaro che né la candidatura di Bruno né soprattutto quella di Violante potrebbero sopravvivere a un’ulteriore bocciatura, stasera (risultato atteso molto tardi, perché si comincerà a votare alle sei, una volta esaurite le comunicazioni di Renzi sui famosi mille giorni). Dunque il presidente del Consiglio si gioca molto in questa sfida e per questo ieri si parlava di un possibile nuovo incontro con Berlusconi, quasi inevitabile nel caso di una nuova fumata nera. Per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura invece la fumata di ieri è stata grigia. Sono stati eletti altri tre consiglieri "laici" in quello che somiglia a uno stillicidio: dopo sette votazioni restano ancora due poltrone da assegnare al parlamento. I magistrati eletti dalla categoria, spesso accusati di ritardare il lavoro del Csm, restano in attesa. Gli eletti di ieri sono la professoressa Teresa Bene in quota Pd (indicata direttamente dal ministro della giustizia Orlando, di cui è stata collaboratrice nel Pd a Napoli e consigliera al ministero dell’ambiente), il costituzionalista di Scelta civica ed ex ministro della sanità Renato Balduzzi e la senatrice berlusconiana Elisabetta Casellati. Per tutti si può parlare di un’elezione per il rotto della cuffia, in questo caso favorita e non ostacolata dalle tante assenze. Perché per il Csm la legge prevede che il quorum dei 3/5 sia calcolato non sugli aventi diritto ma sui parlamentari effettivamente votanti, dunque ieri era piuttosto basso: 482 voti. Casellati è risultata eletta per soli 7 voti (489), Balduzzi e Bene anche meno (486), segno di un ulteriore malessere nei partiti (mancano una cinquantina di voti rispetto a quelli raccolti dai candidati alla Consulta). Niente da fare invece per Luigi Vitali, l’avvocato brindisino che fu punta di lancia in parlamento e al governo delle leggi "ad personam" del governo Berlusconi. Ma più che il curriculum politico il suo problema è risultato essere quello giudiziario, è infatti indagato e imputato in diversi procedimenti penali. Berlusconi l’ha messo in pista ugualmente, la maggioranza del Pd l’ha comunque sostenuto, ma ha prevalso lo scrupolo della minoranza: a Vitali sono andati solo 418 voti e verosimilmente dovrà rinunciare al Csm. Diverso il discorso per il candidato ufficiale grillino, Alessio Zaccaria, risultato primo in una sorta di primarie online che ha tenuto il M5S. Il Pd che pure si era detto disponibile a votare un consigliere in quota Grillo ha prima preteso di scegliere un altro nome dalla lista, quello del secondo classificato alle primarie Nicola Colaianni, che è stato senatore del Pds nei primi anni ‘90. Poi, di fronte alla decisione dei parlamentari del Movimento di non votare per Violante, lo stato maggiore democratico ha cambiato strategia. Rendendosi a questo punto disponibile a sacrificare per un’altra forza di opposizione il suo quinto posto al Csm, che sembrava destinato alla deputata Pd Anna Rosamundo. E così i capigruppo del Pd hanno considerato con Sel la possibilità di eleggere l’avvocata ex dei verdi Paola Balducci. Giustizia: negoziazione assistita contro media conciliazione, i due strumenti a confronto di Catia Barone Affari e Finanza, 16 settembre 2014 Il nuovo istituto giuridico introdotto dal Governo potrebbe mostrarsi più efficace di quello vecchio, che pur sopravvive con un suo ruolo. il peso degli interessi e delle lobby di professionisti che sta dietro a entrambi. n Italia il numero delle liti non è mai diminuito, ma aumentano le strade per evitare il processo. Lungo questi percorsi i cittadini inciampano inevitabilmente in tempi di attesa che a volte sembrano essere infiniti, e in spese che possono diventare piuttosto sostanziose. Da quando il pacchetto Giustizia è stato varato a fine agosto, anche se si attende ancora la versione definitiva del decreto, il tema ha riacceso il dibattito dei professionisti coinvolti specie sullo strumento della negoziazione assistita dall’avvocato. Secondo le anticipazioni, il procedimento (basato per molte materie sulla volontà delle parti ma obbligatorio per incidenti stradali e nautici, controversie dei consumatori, e richieste di pagamento sino alla soglia di 50mila euro) dovrebbe essere molto più semplice e anche meno oneroso rispetto alla "media conciliazione" (che richiede la presenza di un terzo nominato mediatore). "La mediazione - spiegano al Consiglio Nazionale Forense - ha rappresentato un sostanziale fallimento perché pur essendo una misura legata alla scelta volontaria delle parti di giungere a un accordo, è stata disciplinata come un quarto grado di giudizio, con costi e tempi "giudiziari": ossia alti e lunghi, e con una concezione punitiva in caso di fallimento nell’accordo. Sarà anche per questo che, secondo i dati dello stesso ministero della Giustizia, da gennaio a marzo 2014 solo il 22% delle mediazioni obbligatorie si è conclusa con un accordo, nonostante ci fosse l’aderente comparso". Secondo il Cnf nuovi sistemi alternativi della negoziazione e dell’arbitrato non dovrebbero essere pensati con il solo scopo di ridurre il numero delle cause, ma come ulteriori possibilità per i cittadini di ottenere il riconoscimento di un proprio diritto. Senza dimenticare però di promuoverli "con incentivi come la possibilità di scaricare le spese sostenute o ridurre le tasse di registro". "Anche se - concludono dal Cnf - il Ministro Orlando ha già fatto sapere che è una misura allo studio". Ma quali sono le differenze tra "negoziazione assistita" e "media conciliazione"? La negoziazione è fatta direttamente tra le parti assistite dall’avvocato senza intermediazione: l’avvocato scrive una lettera e la controparte può rispondere positivamente, negativamente o non farlo affatto nei 30 giorni. Negli ultimi due casi si procede con la causa. Se la risposta è, invece, positiva e si raggiunge un accordo. Il verbale di conciliazione, sotto scritto dagli avvocati, diventa esecutivo ed è assimilato a una sentenza. "È una procedura semplice e poco onerosa - spiega Maurizio De Tilla, presidente dell’Associazione nazionale avvocati italiani - l’unico costo è la raccomandata. Per la media conciliazione è invece necessario fare una domanda alla camera di conciliazione e spendere 48 euro. Poi, il convenuto versa altri 48 euro, e se si va avanti si sborsano ancora più soldi in percentuale almeno all’importo della causa e ad altre spese che possono arrivare a mille, duemila o tremila euro. Insomma, più complicato e oneroso: c’è un mediatore che va pagato, ci sono le spese della camera di conciliazione, un’organizzazione che costa (dipendenti e così via)". Senza dimenticare la tempistica per uscirne fuori (tre mesi per la media conciliazione, un mese per la negoziazione assistita). Il problema, secondo De Tilla, è che si può ricorrere alla negoziazione assistita solo in alcuni casi: "Diciamo la verità. È una mossa molto furba: diventerà obbligatoria per alcune materie dove la mediazione è facoltativa. Perché non è prevista l’alternativa? Solo per agevolare le camere di conciliazione che non sono tutte dei consigli dell’Ordine e delle Camere di commercio (nel 70% dei casi sono private, ovvero di soggetti che hanno costituito una società che ha aperto una camera di conciliazione)". Nel frattempo i commercialisti continuano a chiedere un ruolo nella negoziazione e sottolineano quelle che sono, dal loro punto di vista, le crepe del sistema: "Per com’è concepita oggi la norma - sottolineano i consiglieri nazionali dei commercialisti Maria Luisa Campise e Felice Ruscetta, delegata e co-delegato alle funzioni giudiziarie - la negoziazione potrebbe forse funzionare meglio nelle controversie relative al risarcimento danni. In altri ambiti, si rischia invece il fallimento dell’istituto o un notevole aggravio dei costi per i consumatori". I due consiglieri si riferiscono alle cause di cessazione degli effetti civili del matrimonio: "Quando non esistono problematiche relative all’affidamento di figli minori, ma si tratta di stabilire assetti patrimoniali, la competenza è soprattutto dei commercialisti. Estrometterci oggi da questo ambito di negoziazione, mentre in altre procedure, sulle stesse materie il legislatore prevede espressamente il nostro contributo, è una contraddizione in termini che comporta una rinuncia a competenze che sarebbero invece determinanti perché la negoziazione possa funzionare al meglio. I danni di una simile scelta non ricadrebbero solo sui commercialisti, ma anche e soprattutto sulle parti e soprattutto in termini di maggiori oneri". Giustizia: trattato Italia-Brasile, il Ddl discusso ieri mattina in Aula alla Camera Public Policy, 16 settembre 2014 Con l’approvazione del disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il governo italiano e quello brasiliano, fatto a Brasilia il 27 marzo 2008, i condannati detenuti o in Italia o in Brasile potranno scontare la pena nel Paese di cui sono cittadini. Il ddl di ratifica, che ieri ha iniziato ad essere discusso dall’aula della Camera, dovrà poi essere approvato anche dal Senato. Secondo gli ultimi dati presenti nella relazione illustrativa del ddl di ratifica gli italiani detenuti in Brasile sono 70, mentre i brasiliani detenuti nelle nostre carceri sono 168. Il testo, varato dal governo Letta, rende quindi operativo il trattato firmato ormai sei anni fa tra i due Stati sui quali pesa il caso dell’ex leader dei "Proletari armati per il comunismo" Cesare Battisti (e della sua estradizione). "Con tale accordo i rapporti italo-brasiliani nel campo della cooperazione giudiziaria penale registrano un notevole passo in avanti - si legge sul sito del ministero della Giustizia - considerato il rinnovato interesse che le parti hanno dimostrato anche in considerazione delle note condizioni di disagio in cui versano i detenuti stranieri negli istituti penitenziari brasiliani". Ma in quali casi potrà essere concesso il trasferimento dei detenuti? Il ministero di via Arenula spiega che il trasferimento dei detenuti potrà avvenire solamente se la sentenza di condanna sia passata in giudicato, se la parte della condanna ancora da espiare sia perlomeno di un anno, se l’infrazione penale che ha dato luogo alla condanna rappresenti un’infrazione penale anche per la legge dello Stato in cui il detenuto deve essere trasferito e se lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione siano d’accordo sul trasferimento. Ogni persona condannata, alla quale può essere applicato il trattato, dovrà dare il consenso al trasferimento volontariamente e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano. Per ottenere il trasferimento, il detenuto dovrà presentare una richiesta scritta alle competenti autorità dello Stato di condanna. "La durata della condanna nello Stato di esecuzione dovrà corrispondere, nei limiti del possibile, a quella indicata nella sentenza emanata nello Stato richiesto - si legge ancora - in ogni caso, essa non potrà superare il massimo della pena prevista per quel reato nello Stato in cui si effettua il trasferimento". Il trattato prevede che le spese di trasferimento dei condannati saranno a carico degli Stati riceventi. Per questo l’Italia, che ha ipotizzato il rientro di 10 connazionali che potranno avvalersi degli accordi, ha previsto uno stanziamento di 31.291 euro annui a decorrere dal 2014 e, per le rimanenti spese, di 6mila euro annui a decorrere dall’anno 2015, tutti provenienti dal programma Fondi di riserva e speciali della missione Fondi da ripartire del Mef. Emila Romagna: in regione un sovraffollamento del 115,8%, il dato nazionale al 130% www.sociale.emilia-romagna.it, 16 settembre 2014 Il rapporto sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna - l’ultimo firmato dalla giunta Errani, che diffonde questa nota - è frutto del lavoro degli assessorati alle Politiche sociali e alle Politiche per la salute e non sarebbe stato possibile senza la collaborazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il rapporto fotografa la situazione nelle carceri regionali al 31 dicembre 2013 e, purtroppo, non tiene conto dei cambiamenti significativi intervenuti nei primi mesi del 2014. Al 31 maggio di quest’anno, infatti, si registra una presenza di 3.241 detenuti con una capienza regolamentare aumentata a 2.798 (in seguito all’apertura di un nuovo padiglione a Piacenza) e con una percentuale di sovraffollamento pari al 115,8%. I dati nazionali ci dicono che il sovraffollamento non è stato superato anche se i nuovi padiglioni e le norme entrate in vigore dal 2010 hanno portato la media italiana dal 144% al 130%. Le cause sono le stesse, e sono quelle evidenziate anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: l’alto tasso di popolazione detenuta in custodia cautelare (oltre il 39%), l’alta presenza di detenuti stranieri (35,8%) e di tossicodipendenti (circa il 30%) e le riduzioni di organico della polizia penitenziaria. "Le carceri del nostro territorio non escono da questo quadro oggettivamente desolante", si legge nella prefazione del rapporto. Anche se si sottolinea come il Consiglio d’Europa, il 5 giugno scorso, ha riconosciuto l’impegno dell’Italia e ha rinviato l’applicazione della sanzione a una nuova valutazione (prevista per il giugno del 2015). Sono numerosi i progetti promossi dai due assessorati in collaborazione con enti locali, associazionismo e terzo settore per facilitare i percorsi di inserimento sociale e lavorativo dei detenuti (progetto Acero e Raee), per garantire e ampliare i servizi di assistenza sanitaria in carcere, dalle cure primarie a quelle specialistiche, con particolare attenzione alla salute mentale. "I confini del sistema del welfare regionale, universalistico e solidale si sono così allargati fino a comprendere sempre più la comunità carceraria", scrivono gli assessori Teresa Marzocchi e Carlo Lusenti che ricordano a tutti, "la necessità di fare di più e che il cammino è ancora lungo per colmare l’abisso che purtroppo ancora separa la condizione carceraria dal dettato costituzionale sulla finalità rieducativa della pena e sulla tutela dei diritti e della dignità della persona". Liguria: l’assessore Montaldo a Orlando "serve un nuovo carcere in provincia di Savona" www.regione.liguria.it, 16 settembre 2014 "Le condizioni dei detenuti nel carcere di Savona sono migliorate e, in questo senso, si vedono gli effetti positivi della politica del ministro Orlando che, agendo sulle misure alternative, ha già ottenuto una rilevante riduzione del numero dei detenuti". Lo ha detto il vice presidente della Regione Liguria e assessore alla salute e alla sicurezza urbana, Claudio Montaldo, al termine della visita al carcere di Savona, il primo di un giro che nelle prossime settimane lo vedrà anche in altri istituti penitenziari della regione. "Il carcere di Savona - ha detto Montaldo - rappresenta la realtà ligure sicuramente più difficile a causa delle oggettive condizioni strutturali, un convento del 1600, che ne rendono complesso qualsiasi intervento di ristrutturazione. Pertanto il Ministero della Giustizia deve prevedere, nella programmazione dei nuovi istituti di pena, la realizzazione di un nuova struttura in provincia di Savona". Il vicepresidente della Regione Liguria, nel corso della visita ha apprezzato i "miglioramenti avvenuti nel carcere, come testimoniato dagli stesse detenuti, attraverso la dotazione di nuovi servizi igienici e di docce, così come il prolungamento dei tempi fuori cella, con la possibilità di utilizzo di spazi dedicati a differenti attività, anche sportive e la presenza di una palestra dotata di molte attrezzature". "Si tratta di azioni non certo risolutive di una condizione carceraria anacronistica - ha sottolineato Montaldo - che deve diventare una sfida per l’Italia, non solo perché sollecitati dalle possibili sanzioni europee, ma sotto lo stimolo di una coscienza civile nazionale". "In Liguria - ha continuato Montaldo - i detenuti oggi ammontano a 1.300, circa 400 in meno rispetto ad alcuni mesi fa, e nessun carcere è più nelle paurose condizioni del passato". Un miglioramento che, secondo Montaldo, è da ascrivere anche ai risultati generati dall’accordo dello scorso maggio tra Regione Liguria e il Ministero della Giustizia per favorire l’adozione di misure alternative. Nonostante i passi avanti in Liguria, Montaldo si augura che il Parlamento adotti "ulteriori misure per pene alternative alla detenzione, consentendo di passare a ulteriori obiettivi di vivibilità, in primis la riduzione del numero di persone per cella e nuove opportunità di lavoro esterno". Giudizio positivo è stato espresso dall’assessore regionale alla salute sull’assistenza sanitaria che i servizi delle Asl stanno svolgendo in carcere da quando la competenza è integralmente passata al sistema sanitario. Al termine della visita Montaldo ha rivolto un invito al Ministro Orlando affinché in Liguria "sia conservata una struttura di interlocuzione con le istituzioni locali e col mondo del volontariato che si occupa di carcere, perché entrambi possano continuare a progettare ulteriori relazioni col territorio nel segno dell’umanizzazione e del ruolo rieducativo della pena". Napoli: emergenza carceri, a Poggioreale il maggior numero di detenuti suicidi Il Velino, 16 settembre 2014 Il 9 settembre, a Poggioreale, il detenuto Vincenzo De Matteo (63 anni) si è impiccato. Si tratta del decesso numero 103 nei penitenziari italiani nel 2014, di cui 31 suicidi. Scorrendo i dati di Ristretti Orizzonti si intuisce che in alcune carceri si muore di più. È il caso di Poggioreale, gravato non solo dal più alto numero di suicidi ma anche da centinaia di malati in attesa di ricovero e cure. Il suicidio di De Matteo è il sesto in un carcere napoletano quest’anno e più di un quinto dei suicidi verificatisi nel 2014, sono avvenuti in Campania. Da gennaio si sono uccisi quattro detenuti a Poggioreale, due a Secondigliano (uno in Opg) e uno a Santa Maria Capua Vetere. Numeri che possono sembrare insignificanti, eppure non esistono in Italia carceri con più di due suicidi dall’inizio dell’anno. I quattro suicidi a Poggioreale sono dovuti non solo al sovraffollamento (che ha toccato 2.800 detenuti su 1.400 posti negli anni scorsi) che a seguito degli ultimi provvedimenti e dei trasferimenti è sceso (circa 1.800). A Poggioreale si muore per assenza di lavoro, di reinserimento e per mancanza di cure: "Un carcere che restituisce alla società persone incattivite, che andrebbe raso al suolo per essere ricostruito in forma umana", così ha più volte descritto Poggioreale uno che lo conosce molto bene come il cappellano Don Franco Esposito. Livorno: carcere Sughere, slitta ancora l’apertura del padiglione, tra sprechi e polemiche di Lara Loreti Il Tirreno, 16 settembre 2014 Marta Gazzarri e Giovanni De Peppo in visita al carcere. Mistero sul tipo di detenuti che andrà nella nuova struttura. Celle per una o due persone al massimo, con televisori al led di 16 pollici montati ad altezza d’uomo e quindi facilmente prendibili dai detenuti, vetrate che dividono l’angolo cottura dal bagno e altri séparé in vetro, sempre nei bagni; poi toilette in ogni lato della struttura, cucina troppo grande, nessuna struttura che divida l’area dei detenuti da quella dei poliziotti. Apre per la prima volta le porte all’esterno il nuovo padiglione delle Sughere: un vero evento, dopo 7 anni tra progettazione e lavori, in ritardo e sbagliati. E si mostra agli occhi dei visitatori in tutte le sue contraddizioni: polemiche, sprechi e le solite incognite. E cioè: quando aprirà? E che tipo di detenuti alloggeranno all’interno? E poi: gli accessori che si trovano nelle celle come tv, vetrate, sifoni in plastica e lavandini in acciaio, sono abbastanza sicuri per ospitare persone che spesso sono agitate e vivono in una condizione difficile? Tutte domande che si sono posti gli ospiti che ieri mattina hanno fatto un tour all’interno dei quattro piani della nuova struttura: si tratta di Marta Gazzarri, consigliera regionale di Toscana Civica Riformista, e Giovanni De Peppo, presidente dell’associazione Confronto ed esperto di servizi sociali. Ad accompagnarli ci sono la direttrice Santina Savoca, la comandante della polizia penitenziaria Morgana Fantozzi, e il sindacalista Uil Mauro Barile. Mentre il gruppo fa visita al padiglione, all’interno c’è fermento. L’incognita della data. Gli operai stanno mettendo gli ultimi arredi e stanno facendo pulizie, cose che farebbero pensare a un’inaugurazione a breve. Eppure, slittata l’apertura "subito dopo l’estate", che era stata annunciata a giugno, tuttora non c’è una data precisa. C’è chi dice che il fatidico giorno sarà fissato per metà ottobre, chi alla fine di quel mese. E chi addirittura sostiene che entro fine ottobre aprirà solo un’ala del padiglione mentre tutto il resto non prima di gennaio. "Probabilmente - spiega la Gazzarri - ci vorranno un paio di mesi prima che il padiglione sia pronto. Ma tutto dipenderà da che tipo di detenuti saranno alloggiati all’interno". Ed ecco che la consigliera regionale introduce un tema caldo della questione. Trani: il Consigliere regionale Franco Pastore (Psi) difende la "vigilanza dinamica" di Martina Tortosa www.traniviva.it, 16 settembre 2014 "Quanto accaduto nel carcere di Trani è un episodio sul quale c’è poco da dire, ma sulla polemica, che l’aggressione ai due agenti di polizia penitenziaria ha provocato, evidentemente, c’è qualcosa da aggiungere". Con queste parole il consigliere regionale Franco Pastore (gruppo Misto-Psi) è intervenuto sull’increscioso episodio avvenuto nella tarda serata di sabato 13. "L’ aggressione - ha affermato Pastore - avvenuta ai danni di due agenti di Polizia Penitenziaria, tende a mettere in dubbio la bontà di una misura quale la vigilanza dinamica". Il consigliere ha ritenuto, così, opportuno difendere il sistema della vigilanza penitenziaria contro la quale si è scagliata l’opinione pubblica. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, come disposto dalla Corte Europea, ha stabilito la presenza, nelle carceri, di un padiglione all’interno del quale, per un massimo di otto ore al giorno, le porte delle celle devono restare aperte. "Certo questo - ha chiarito Pastore - non è previsto per tutti, ma "per i detenuti a media e bassa pericolosità", con lo scopo di offrire maggiori opportunità, iniziative e percorsi che rendano la pena non solo punitiva ma anche riabilitativa". "Qualcosa - ha concluso il consigliere regionale - non ha funzionato a Trani, ci sono delle responsabilità e certo è da recriminare l’autore dell’aggressione il quale, probabilmente, non merita di godere dei privilegi della "vigilanza dinamica". Ma questo non deve negarla ad altri detenuti che, prima o poi, dal carcere usciranno e, a quel punto, è meglio per tutti che siano persone migliori e che non tornino a delinquere". Savona: a Cairo Montenotte il viceministro della Giustizia incontra i poliziotti in protesta www.savonanews.it, 16 settembre 2014 Costa: "Dignità fondamentale per chi lavori nelle carceri. Svolgete un lavoro molto importante e sono consapevole dei disagi che state vivendo". "Penso che la dignità sia fondamentale per chi lavori nelle carceri". Queste le parole pronunciate dal vice-ministro della Giustizia Enrico Costa, intervenuto oggi a Cairo Montenotte per il 60° anniversario dell’inizio delle attività della Scuola Penitenziaria. Il politico piemontese ha incontrato i manifestanti del sindacato di Polizia Penitenziaria, che da questa mattina hanno organizzato un sit-di protesta davanti alla struttura. Al centro della manifestazione i tagli imposti al comparto, dal blocco degli stipendi ed avanzamento dei gradi, al taglio dei fondi al comparto giustizia. "Ringrazio di avere avuto l’opportunità di questo incontro, ha sottolineato Costa, per verificare nero su bianco le vostre rimostranze, che cercherò di verificare ed approfondire nei prossimi giorni". "Svolgete un lavoro molto importante e sono consapevole dei disagi che state vivendo: sicuramente daremmo un seguito a questo colloquio", ha concluso il viceministro. La protesta si è così conclusa con un applauso generale dei manifestanti, che hanno consegnato a Costa due lettere nella quale erano contenute tutte le rimostranze. Roma: Istituto Tecnico Agrario "Sereni", inaugurato micro-birrificio di alunni e detenuti www.romanotizie.it, 16 settembre 2014 "La scuola è il luogo della libertà". Ha chiuso così il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini il suo saluto agli studenti dell’istituto agrario ‘Emilio Sereni’ dove ha inaugurato l’anno scolastico. Una scuola dove l’alternanza scuola-lavoro è alla base del percorso di studi come anche l’educazione alla legalità e l’integrazione. In occasione del primo giorno di scuola è stato infatti inaugurato il micro birrificio dove alunni e detenuti lavorano fianco a fianco, imparando gli uni dagli altri. Imparano un mestiere e soprattutto la "possibilità di rialzarsi dopo una caduta", ha commentato Luigi Manconi, senatore e presidente di "A buon diritto". "Voi studenti dovete essere fieri di aver offerto un’opportunità a un certo numero di detenuti per la quale la possibilità di imparare e lavorare diventa la più ricca occasione di liberazione - ha proseguito Manconi - e se voi state dando loro una possibilità anche i detenuti possono darvi una grande opportunità: conoscere la vita non solo nei suoi aspetti piacevoli ma anche nelle sue sofferenze e nelle cadute perché da quelle cadute si può risalire". Dopo il taglio del nastro il ministro, accompagnato dalla preside Patrizia Marini, ha visitato la struttura dove si produce la birra per poi raggiungere l’aula magna. "Il nostro primo pensiero - ha esordito il ministro - è la scuola, per questo io e miei colleghi di governo siamo nelle scuole il primo giorno. Siamo qui anche per invitare tutti voi a cliccare su "La buona scuola", leggere il rapporto e cliccare su partecipa per rispondere al questionario e dire la vostra". Il ministro ha poi sottolineato l’importanza di puntare sull’istruzione come leva per lo sviluppo, un obiettivo che porterà anche in Europa considerando il semestre di presidenza italiana e non solo. Un richiamo è stato fatto anche all’Expo 2015, ormai alle porte, annunciando che l’anno scolastico appena iniziato sarà dedicato all’educazione alimentare nelle scuole. Aggiunge Marta Bonafoni, vicecapogruppo del gruppo regionale Per il Lazio, intervenuta questa mattina all’inaugurazione dell’anno scolastico dell’Istituto tecnico agrario E. Sereni: "Davvero contiene molti ingredienti il progetto che questa mattina l’associazione Semi di libertà ha presentato grazie ai fondi del Miur dentro l’Istituto tecnico agrario Emilio Sereni alla Bufalotta. L’inaugurazione del micro-birrificio, in cui troveranno spazio la formazione degli studenti che frequentano l’istituto accanto a quella di alcuni detenuti degli istituti di pena romani, è l’esempio riuscito di una buona pratica da incoraggiare anche da parte della Regione Lazio. Nel giro che come componente della commissione Politiche sociali della Pisana ho intrapreso nelle carceri, sto riscontrando quanto importante sia per i detenuti poter avere un’occupazione che permetta loro di uscire da una dimensione unicamente punitiva della detenzione, e quanto essenziale sia avere un introito mensile che permetta di iniziare a immaginare un nuovo inizio, un futuro. Come membro della commissione Scuola so quanto importante e fertile sia il terreno delle relazioni fra i ragazzi per promuovere una società veramente libera, da pregiudizi e condizionamenti, capace di accogliere anche chi ha sbagliato rifiutando ogni tipo di stigma sociale. Infine come promotrice della proposta di legge sulle terre pubbliche sono da sempre convinta che proprio la terra possa essere utilizzata a pieno come strumento di nuovo welfare, capace di innovare il settore dell’agricoltura producendo lavoro e nuovi stili di vita. Per tutte queste ragioni il mio impegno sarà quello di affiancare e sostenere iniziative come quella di Semi di libertà. Affinché quella di oggi non resti solo una bellissima cerimonia d’inaugurazione, ma un progetto esportabile e di ampio respiro. Per un nuovo modello di società". Roma: detenuto condannato per omicidio alla Magliana non torna dal permesso premio di Fabio Di Chio Il Tempo, 16 settembre 2014 Non è rientrato dal permesso. Dalle 22 di domenica scorsa un detenuto del carcere di Rebibbia, dietro le sbarre per omicidio, non si è presentato ai cancelli dell’istituto penitenziario. Si tratta di Luciano Calisti, 42 anni, nel marzo 2008 condannato dalla Cassazione, confermando la pena a 16 anni e otto mesi per aver ucciso per motivi di viabilità l’imprenditore edile romano Giuseppe Silvestri. La sera del 5 novembre 2005, dopo una prima discussione con la vittima, l’aggressore tornò nel locale "Re per una notte" per saldare i conti e con una serie di colpi di pistola tolse la vita a Silvestri. La polizia accertò che Calisti non era da solo. Infatti, per quell’episodio la Corte di Assise di appello il 17 luglio 2007 inflisse 17 anni e quattro mesi di reclusione a Gianluca Calisti e 16 anni a Massimo Di Placido. Inoltre, nel gruppo di fuoco furono accertate le responsabilità di altri due complici, Alessandro Ciriaci (13 anni) e Andrea Calisti (12 anni e sei mesi), condannati con rito abbreviato in appello. Dal fatto è passato molto tempo. In più il comportamento modello del detenuto Calisti è stato premiato con una serie di permessi, attraverso i quali il pregiudicato si poteva allontanare dalla casa circondariale, con l’obbligo però di tornare alla scadenza del provvedimento. Una regola che a quanto pare non è stata rispettata. La comunicazione della sua assenza dal carcere è stata diramata alle varie forze di polizia, e da domenica scorsa non risultano aggiornate: Luciano Calisti non risulta sia rientrato. Lui era nella terza casa circondariale di Rebibbia, alla dell’istituto dove viene applicata la custodia attenuata, regime carcerario che appunto si applica ai detenuti meritevoli. L’episodio accade a pochi mesi di distanza da un altro evento che ha scosso la sicurezza nel carcere romano. Nella notte dell’11 febbraio sono evasi due detenuti. Lo hanno fatto nella maniera più classica, da film: gettando delle lenzuola annodate dal muro di cinta e calandosi fino all’esterno. Giampiero Cattini, di 41 anni e Sergio Di Palo di 35, hanno assaporato la libertà. A causa di furti e rapine, avrebbero dovuto scontare la pena sino al 2018. Poche ore dopo, in zona San Basilio il primo è stato riacciuffato nella casa dei suoi familiari: "Mio figlio è tutta la mia vita, avrei voluto rivederlo per questo sono evaso", ha detto ai poliziotti che gli hanno rimesso le manette. Il 18 febbraio, gli investigatori della Squadra mobile hanno ripreso anche il secondo. La sera della fuga Di Palo si era ferito a una gamba. Utilizzando un falso nome, si era fatto medicare presso l’ospedale San Filippo Neri di Roma. Dopo poco era stato prelevato da alcuni suoi complici, che gli avevano fornito carte false e lo avevano accompagnato all’ospedale di San Benedetto del Tronto, dove era stato poi ricoverato e sottoposto a un intervento chirurgico, finendo ad Ascoli Piceno. Dov’è stato arrestato dagli uomini di Renato Cortese. Bergamo: mostra "Effetto serra", i detenuti disegnano le erbe lombarde La Repubblica, 16 settembre 2014 L’arte e la botanica entrano in carcere: fino al 21 settembre la Gamec - Galleria d’arte moderna e contemporanea (via San Tommaso 53 a Bergamo) ospita la mostra "Effetto serra", che propone una serie di disegni realizzati con la penna Bic dai detenuti delle case circondariali di Bergamo e Voghera. I soggetti scelti sono le piante e i fiori tipici del territorio lombardo, che i neo-artisti hanno riprodotto grazie a un percorso condotto dai servizi educativi della Gamec in collaborazione con l’Orto botanico di Bergamo con il patrocinio di Wwf Lombardia. "Giovanni Fornoni, educatore museale della Gamec e artista, ha tenuto un corso in carcere, facendo prima lavorare i detenuti sul disegno a penna a tema libero e poi chiedendo loro di concentrarsi su un ambito specifico - spiega Giovanna Brambilla, responsabile dei servizi educativi della galleria d’arte bergamasca. Hanno anche avuto la possibilità di vedere dal vivo alcune tavole dell’opera "Trenta studi di erbe e fiori" di Giacomo Manzù, che è di proprietà della Fondazione credito bergamasco e in deposito presso la Gamec, per trarne ispirazione". Immigrazione: per non finire dentro un Cie, scappa e muore a diciotto anni di Riccardo Chiari Il Manifesto, 16 settembre 2014 Migranti. Giovane nigeriano precipita da una grondaia al quarto piano cercando di evitare un controllo di polizia durante una festa. Era già stato espulso perché senza i documenti in regola, ma non voleva essere rimpatriato. Aveva solo diciotto anni e un decreto di espulsione dall’Italia, è morto per la paura di essere identificato dalla polizia e buttato in un Cie prima di essere rimpatriato. Raphael Godwin, nigeriano, non aveva fatto niente di male nel suo nuovo paese. Ma non aveva i documenti in regola ed era già stato fermato in un controllo. Per questo, quando ha visto gli agenti alla porta d’ingresso dell’appartamento dove era capitato per una festa, ha pensato solo a scappare in qualche modo. Salito ai piani di sopra del condominio, ha aperto una finestra e ha cercato di calarsi da una grondaia, che però non ha retto il suo peso. È precipitato da un’altezza di una quindicina di metri ed è morto sul colpo, in un cortile interno di un palazzone del quartiere di Novoli. Erano solo le dieci e mezzo di sera, eppure per alcuni vicini quella festa di immigrati doveva già finire. Troppo rumore, troppo casino, bisogna chiamare la polizia e farli smettere. Nessuno ha pensato di bussare alla porta e chiedere di abbassare il volume della musica perché domani i ragazzi devono andare a scuola, meglio avvertire gli agenti e lasciare a loro il compito di far finire quella festa di negri. Così imparano a disturbare il riposo della gente per bene. Una volta che la pattuglia è arrivata in zona fermandosi sotto lo stabile, gli agenti sono saliti al secondo piano e hanno bussato alla porta dell’appartamento. Tra i festaioli, in massima parte nigeriani, alcuni hanno capito al volo la situazione: sono usciti rapidamente dal palazzo scendendo le scale mentre veniva identificata la sola padrona di casa, una trentenne che era agli arresti domiciliari per "falsa attestazione" di generalità. Invece Raphael Godwin ha preso una strada diversa, nella confusione ha salito le scale invece di scendere. Quando si è trovato fra il quarto e il quinto piano dello stabile, nonostante che nessuno lo inseguisse, ha visto in quella finestra affacciata su un cortile, e nella piccola grondaia addossata ai muri esterni, l’unica via di salvezza. Quando un agente si è insospettito per i rumori, era già troppo tardi: il giovane nigeriano era sceso per qualche metro lungo la grondaia ma ha finito per perdere la presa di quell’appiglio così leggero, instabile, scivoloso. Il resto è cronaca: un tonfo sordo, il corpo di Raphael Godwin sul cemento del cortile interno, la chiamata urgente al 118 e gli inutili tentativi del medico e degli infermieri di rianimarlo, fra la disperazione e la rabbia degli invitati rimasti. Il ragazzo non aveva con sé i documenti, poche ore dopo la polizia è riuscita a identificarlo, proprio grazie a quel certificato di espulsione che pesava come una spada di Damocle sul giovane nigeriano. A Novoli è arrivato anche il sostituto procuratore di turno nella notte di domenica, Paolo Barlucchi, che ha avviato le indagini ma al momento non ha iscritto alcun nome nel registro degli indagati. Droghe: presentata la Relazione al Parlamento "cannabis in crescita tra gli adolescenti" Redattore Sociale, 16 settembre 2014 È arrivata con due mesi e mezzo di ritardo, spoglia di qualsiasi introduzione, senza la firma di un capo dipartimento e soprattutto con dati vecchi per quanto riguarda i consumi di sostanze stupefacenti nella popolazione adulta: è la "Relazione annuale al Parlamento sull’uso delle sostanze stupefacenti e sulle tossicodipendenze in Italia" per l’anno 2013 e per il primo semestre 2014 presentata in questi giorni dal Dipartimento politiche antidroga (Dpa). Chi si aspettava una relazione "diversa" rispetto a quelle degli ultimi anni, però, rimarrà deluso. Sebbene l’ex capo del Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni, non abbia più l’ultima parola sulla stesura del testo, non essendo stato riconfermato a capo del Dpa, la relazione messa a disposizione di senatori e deputati raccoglie ancora una volta i dati elaborati dal suo staff. Nuovi i dati su consumi tra studenti e gioco d’azzardo. La relazione parte con i dati aggiornati al primo semestre del 2014 (oltre che quelli del 2013) rilevati tra i ragazzi di 15-19 anni sia per quel che riguarda le sostanze stupefacenti che il fenomeno del gioco d’azzardo. Si tratta di dati Sps-Dpa, quindi ricavati con le stesse procedure utilizzate da Serpelloni, e mostrano un incremento dell’uso di cannabis (almeno una volta negli ultimi 12 mesi) dal 2011 ad oggi, un aumento dell’uso di cocaina dal 2012 al 2013 e un "costante e continuo calo del consumo di eroina sin dal 2004, anno in cui è stata osservata la prevalenza di consumatori più elevata nel periodo di riferimento. Negli ultimi anni il fenomeno si è stabilizzato con un ulteriore lieve calo nel 2014". Variabili i dati relativi alle altre sostanze stimolanti, anche se, spiega il testo, "negli ultimi anni si osserva una lieve tendenza alla ripresa nei consumi". Per quanto riguarda la prevalenza del consumo di allucinogeni, invece, "essa ha seguito un trend in leggero aumento nel primo periodo di osservazione, fino al 2008, seguito da una situazione di relativa stabilità nel periodo successivo, con una contrazione dal 2010 al 2012. Nell’anno successivo si osserva una lieve tendenza all’aumento del fenomeno che si stabilizza nel 2014". I dati del 2014 e la geografia dei consumi. Gli ultimi dati raccolti dal Dipartimento antidroga con uno studio condotto nel 2014 su un di 31.661 studenti di età compresa tra 15-19 anni, infatti, mostrano l’aumento di consumatori (una o più volte negli ultimi 12 mesi) quasi esclusivamente per cannabis: 23,46 per cento (21,56 per cento nel 2013), per la cocaina si è passati a 1,58 per cento contro il 2,05 per cento nel 2013; per l’eroina 0,21 per cento contro 0,36 per cento nel 2013, stimolanti (amfetamine e/o ecstasy) il 1,36 per cento contro l’1,35 per cento nel 2013 ed allucinogeni 2,03 per cento contro 2,13 per cento nel 2013. È il Centro Italia ad avere percentuali più alte per quanto riguarda i consumi di cannabis, cocaina ed eroina. Gli stimolanti vengono consumati maggiormente nell’Italia nord-occidentale mentre gli allucinogeni presentano una prevalenza di consumo maggiore nell’Italia nord-orientale. "Con riferimento al consumo di almeno una sostanza illegale negli ultimi 12 mesi - si legge nel testo -, la prevalenza maggiore si rileva al centro (28,45), seguita dal Nord-Ovest (26,76); i valori più bassi si osservano al Nord-Est (24,04) e al Sud (21.17). Quinto posto in Europa per eroina tra i sedicenni. Nonostante i dati mostrino un calo tra gli studenti per l’eroina, per i sedicenni italiani il suo consumo è molto più alto rispetto a tanti altri coetanei europei. Secondo il rapporto, infatti, "confrontando le prevalenze di consumo (almeno una volta nella vita) osservate per gli studenti 16enni italiani con quelle degli altri paesi europei - si legge nel testo -, si osserva che l’Italia si attesta attorno al dodicesimo posto per consumo di cannabis e al decimo posto per consumo di cocaina; per quanto riguarda il consumo di eroina, l’Italia si colloca al quinto posto in Europa. Infine, i consumi di amfetamine ed ecstasy si collocano rispettivamente al diciannovesimo e al diciottesimo posto nel relativo degli altri Stati europei". Gioco d’azzardo tra gli studenti. Sempre attinenti alla popolazione giovanile tra i 15 e i 19 anni, i dati che riguardano il Gambling e il gioco d’azzardo e patologico. "In Italia il fenomeno del gioco d’azzardo è in continua crescita e in questi anni sta assumendo dimensioni sempre più rilevant", spiega la relazione. Tuttavia, "ad oggi tuttavia non esistono studi e dati epidemiologici accreditati in grado di quantificare correttamente il problema, sia nella dimensione che nella diffusione ed eventuali trend di evoluzione". Tra i dati presentati al Parlamento, però, ci sono anche alcuni che riguardano il gioco tra gli studenti e sono relativi proprio al 2014. "All’interno della popolazione scolastica - spiega la relazione -, è stato possibile identificare una quota di giocatori sociali pari al 6,0 per cento degli intervistati, una quota di giocatori problematici (4,3 per cento) ed una quota di giocatori patologici (3,8 per cento). Si stima, quindi, che circa l’8 per cento degli studenti 15-19 anni abbia un approccio problematico o addirittura patologico al gioco d’azzardo. Tuttavia, spiega la relazione, "osservando tale fenomeno nel biennio 2013-2014, si riscontra una tendenza alla contrazione dei casi di studenti problematici e patologici rispetto al comportamento del gioco d’azzardo". Belgio: ergastolano 50enne, in carcere da 25 anni, ottiene il diritto all’eutanasia www.informazione.it, 16 settembre 2014 È la prima volta che un recluso ottiene il diritto all’eutanasia. Accolta la richiesta di un 50enne che non riuscirà mai a controllare le sue pulsioni sessuali. Il Belgio apre l’eutanasia anche ai detenuti. Frank Van Den Bleeken, un detenuto belga, condannato alla prigione a vita 25 anni fa, ha ottenuto il diritto di ricorrere alla morte assistita. È il primo caso del genere dall’adozione, in Belgio, della legge sull’eutanasia, 12 anni fa. Era finito in prigione per aver violentato e ucciso una giovane donna, aveva chiesto al ministro della Giustizia di poter morire perché vittima di una "sofferenza psichica insopportabile". Gli psicologi avevano stabilito che non sarebbe mai riuscito a controllare le sue pulsioni sessuali violente escludendo ogni possibilità di liberazione. Il 50enne, dopo un primo rifiuto, aveva ricorso contro l’avviso negativo del ministro. Ora ha ottenuto un accordo che prevede il suo trasferimento in un ospedale dove riceverà la morte medicalizzata. La data non è ancora stata fissata. Per Giovanni D’Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", il fenomeno dell’eutanasia appare ormai fuori controllo. Infatti secondo lo studio condotto in merito dall’Istituto europeo di Bioetica, le morti ufficiali per morte assistita sarebbero quintuplicate, passando dai 235 casi del 2003 ai 1.133 del 2011. In Olanda il 47% dei decessi per eutanasia non verrebbe riportato, mentre il 32% delle vittime non avrebbe richiesto di morire inoltre non sarebbe più neanche necessario presentare richiesta scritta. La preoccupazione è che tale liberalizzazione si estenda nella pratica, anche con violazioni della norma, che le Istituzioni non saranno in grado di arginare come è già successo nei Paesi Bassi dove la stessa commissione di vigilanza appositamente istituita si sarebbe dichiarata "impotente" nello svolgere il proprio compito. Una vera e propria anomalia da tener presente, anche nel nostro paese. Iran: i detenuti dervisci in sciopero della fame chiedono giustizia da Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Notizie Radicali, 16 settembre 2014 Con un comunicato intitolato "Il Testamento", i dervisci Gonabadi detenuti in Iran, che continuano il loro sciopero della fame iniziato il 31 Agosto, chiedono alla gente amante della libertà di assicurare alla giustizia le autorità del regime iraniano responsabili delle torture ai prigionieri. Alcuni membri di questo gruppo di nove dervisci Gonabadi in sciopero della fame, detenuti nella prigione di Evin a Tehran e in una prigione della città di Shiraz, nelle ultime settimane si sono rifiutati di prendere le medicine. Nel loro "Testamento" hanno detto: "I nemici della religione e della legge ci stanno torturando a morte con la scusa della religione e dell’applicazione della legge. Noi non moriremo a causa di questo sciopero della fame, ma piuttosto ne verremo uccisi. È nostra volontà che tutta la gente amante della libertà del mondo, in particolare i nostri fratelli Nematollahi Gonabadi, facciano sì che i responsabili di questa tortura affrontino pienamente la giustizia". I detenuti dervisci hanno subito gravissime pressioni da parte degli aguzzini del regime iraniano negli ultimi anni. Oltre alla tortura fisica, molte volte sono stati trasferiti in isolamento o in prigioni nelle quali sono detenuti soggetti pericolosi. I loro aguzzini gli hanno anche rasato i baffi con la forza per punirli ed umiliarli. I prigionieri in sciopero della fame Hamidreza Moradi Sarvestani, Afshin Karampour, Farshid Yadollahi, Reza Entesari, Amir Eslami, Omid Behrouzi, Mostafa Daneshjou, Mostafa Abdi e Kasra Nouri chiedono il rilascio di tutti i membri della comunità derviscia e che le autorità del regime vengano perseguite per aver violato i loro diritti per anni. La Resistenza Iraniana chiede a tutti gli organismi internazionali e alle organizzazioni per i diritti umani di adottare misure efficaci per salvare le vite dei dervisci in sciopero della fame e per rispondere alle loro richieste. Iran: Nichi Vendola incontra ambasciatore e lancia un appello per Ghoncheh Ghavami www.marketpress.info, 16 settembre 2014 Un colloquio intenso, chiaro fra l’ambasciatore iraniano Jahanbakhsh Mozaffari e il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. L’incontro si è svolto ieri pomeriggio nel padiglione 152 della Regione Puglia in Fiera del Levante. Insieme hanno parlato di questioni relative al rispetto dei diritti civili in Iran a quelle legate alle relazioni economiche, commerciali e culturali fra il paese asiatico e la Puglia. "Io credo che noi dobbiamo stimolare sempre gli incontri che hanno una natura economica, commerciale, turistica e culturale - ha detto il Presidente Vendola al termine del colloquio con l’Ambasciatore Mozaffari - perché abbiamo il dovere di lavorare affinché si possa tessere la tela dell’amicizia dei popoli, della reciproca conoscenza e della reciproca comprensione. Il colloquio che abbiamo avuto con l’Ambasciatore dell’Iran in Italia è stato un colloquio molto interessante, molto franco. Non abbiamo nascosto nessuna delle divergenze che talvolta hanno reso particolarmente difficile, e a volte anche incandescente, il rapporto fra Occidente, Europa e Iran. Credo che dirsi la verità sia una buona base per fare un cammino autentico. Ho sottolineato all’Ambasciatore dell’Iran l’importanza di costruire un processo di pace che possa, da parte di tutti, contribuire affinché il popolo palestinese trovi una patria e Israele viva con un sentimento di sicurezza. Abbiamo affrontato le questioni della politica che riguardano gli standard dei diritti umani ma abbiamo anche parlato di quanto interesse ci possa essere in sistemi di impresa innovativi, da una parte e dall’altra, per incontrarsi e costruire relazioni economiche". E a proposito di diritti umani - ha sottolineato il Presidente della Regione Puglia - ho chiesto all’ambasciatore Mozaffari di sollevare nel suo Paese una questione che è al centro dell’attenzione di Amnesty International. Riguarda la detenzione a Teheran di una donna di 25 anni, studentessa che vive a Londra, iraniana, con cittadinanza britannica. Ghoncheh Ghavami è in carcere da due mesi per aver assistito a una partita di pallavolo maschile della World League. Per me non era possibile non approfittare di questo incontro con l’Ambasciatore, non solo per alludere generalmente alla questione dei diritti umani e dei diritti delle donne in Iran, ma per sollevare una questione specifica. Mozaffari ha detto che sarà sua cura intervenire sulle autorità governative per sensibilizzare quelle giudiziarie del suo Paese e spero che si possa ricevere una buona notizia". "La Puglia - ha continuato il Presidente Vendola - è allineata alla politica del governo italiano, della Comunità Europea, ma noi pensiamo che debba essere sempre di più una politica di pace e di dialogo. Vorrei ringraziare l’ambasciatore dell’Iran perché ha avuto la stessa sincerità del suo interlocutore. Non c’è stata reticenza o ipocrisia nel suo discorso. Certo, restano delle divergenze ma resta anche la curiosità e la volontà di fare in modo che importanti relazioni, non solo di carattere economico e commerciale ma anche di carattere culturale e turistico, possano essere, a partire dalla Puglia e da questa terra che guarda sempre a Oriente con simpatia e curiosità, un contributo teso a costruire un mondo migliore, un mondo più armonico". "Questa visita in Puglia, a Bari - ha aggiunto l’Ambasciatore Mozaffari - è stata una visita esplorativa, per vedere quali potrebbero essere i settori di collaborazione. Per dare avvio a una nuova stagione di lavoro e di collaborazione fra l’Iran e l’Italia, ma più che altro fra le realtà regionali iraniane e italiane nella fattispecie della Puglia. Ho trovato una buona accoglienza nell’incontro con il governatore Vendola, ho trovato un sostegno da parte della politica anche regionale al lavoro degli imprenditori italiani e di conseguenza alle loro controparti in Iran. Perciò, visto che c’è la volontà di riprendere il filo di un rapporto di collaborazione economica e commerciale, potremo andare avanti. Sono fiducioso". Infine a proposito dei settori nei quali potrebbe esserci collaborazione con la Puglia, l’Ambasciatore Mozaffari ha individuato quelli come la meccanica, l’elettronica applicata alla meccanica, l’agricoltura (prodotti e macchinari) e la farmaceutica. Bolivia: 4 morti e 11 feriti per rivolta in carcere, la polizia cerca riguadagnarne controllo Tm News, 16 settembre 2014 Le autorità stanno centrando di riguadagnare il controllo di una prigione nel centro della Bolivia, dove è scoppiata una rivolta nel corso della notte che ha provocato vittime e feriti. Lo ha annunciato la polizia. Secondo indiscrezioni di stampa, dai tre ai quattro detenuti sono stati uccisi e tra i nove e gli undici sono rimasti feriti, ma il comandante della polizia regionale ha riferito che gli agenti non sono ancora riusciti a entrare nella struttura a El Abra. "Abbiamo notizia sulla presenza di vittime all’interno del carcere. Al momento non è stato possibile determinare quante persone abbiano perso la vita", ha dichiarato alla radio il colonnello Alberto Suarez. A scatenare la rivolta sarebbe stata una lotta di potere tra bande di boliviani e detenuti stranieri, la nazionalità dei quali non è stata fornita. Nel penitenziario sono sotto custodia circa 280 persone. Egitto: l’attivista Alaa Abdel Fattah rilasciato con altre due persone Il Giornale, 16 settembre 2014 Condannato a 15 anni in absentia con altri 24 per avere partecipato a una protesta non autorizzata, Alaa Abdel Fattah sta affrontando l’Appello. In carcere da giugno, quando era stato condannato a quindici anni in absentia insieme ad altre ventiquattro persone, accusate di avere organizzato una protesta non autorizzata e aggredito un poliziotto, il blogger e attivista egiziano Alaa Abd El Fattah è stato liberato oggi, insieme a Mohamed Nouby e Wael Metwalli. I tre, che hanno intentato un processo d’Appello contro la sentenza, sono stati rilasciati dietro pagamento di 5.000 sterline egiziane di cauzione, una cifra che ammonta a circa 540 euro. Secondo quanto scrive la stampa egiziana, il giudice chiamato a presiedere il caso ha lasciato il suo posto, probabilmente dietro richiesta della difesa. In un’udienza il 10 settembre scorso, l’accusa aveva presentato come prova contro Alaa Abd El Fattah un video privato che mostrava la moglie, Manal Hassan, che nulla aveva a che fare con il caso. Ad agosto, Alaa aveva lanciato uno sciopero della fame al quale si erano uniti diversi detenuti, ma anche giornalisti e attivisti, per protestare contro la controversa legge che in Egitto può portare al carcere per avere organizzato proteste non autorizzate. L’autorità delle carceri continua a negare che nelle celle ci siano prigionieri in sciopero della fame. Alcuni giorni prima della decisione di lanciare lo sciopero della fame, il padre di Alaa, l’avvocato Ahmed Seif al-Islam, era entrato in coma per complicanze dovute a un’operazione. Alaa e la sorella Sanaa, anche lei in carcere, avevano potuto visitarlo soltanto quando non era più cosciente. Nei giorni successivi Ahmed Seif è morto. Le autorità carcerarie hanno concesso ai due di uscire di cella per partecipare al funerale e a una commemorazione. Alaa, attivista come il padre e le sorelle, ha subito negli anni diversi arresti, finendo in carcere sotto Mubarak, ma poi anche durante la presidenza di Mohammed Morsi e ora con Al-Sisi. A marzo di quest’anno era stato rilasciato dopo quattro mesi trascorsi in carcere, per la stessa accusa per cui è poi stato condannato a giugno.