La forza di due donne che hanno sconfitto la rabbia e il rancore Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2014 AmiCainoAbele è una nuova associazione di volontariato, a fondarla sono state Claudia Francardi, vedova dell’appuntato Santarelli, vittima di un’aggressione a un posto di blocco, e Irene Sisi, madre di Matteo, il ragazzo che ha colpito mortalmente il carabiniere. Due donne coraggiose, che sono state ospiti la settimana scorsa in carcere a Padova per la seconda volta e sono riuscite a far piangere anche i più duri: un pianto "bello", sincero, perché in una società in cui domina la "cattiveria sociale" e la voglia di vedere ovunque dei nemici, è straordinario che la moglie di un uomo che è stato ucciso da un ragazzo di neanche vent’anni trovi la forza di "prendersi cura" anche di quel ragazzo, di diventare amica di sua madre, di costruire con lei un progetto per diffondere una idea di giustizia che abbia il coraggio di rispondere al male con il bene. Claudia e Irene, con la forza della loro terribile esperienza, sostengono la battaglia di Ristretti Orizzonti per cambiare la legge che riguarda i rapporti delle persone detenute con i loro cari. Vittime e persone che hanno commesso un reato devono poter fare un pezzo di strada insieme Io ho visto il carcere per la prima volta da mamma, dove stava mio figlio i colloqui venivano fatti a un tavolo, tipo un banco di scuola, io lo potevo abbracciare pochissimo, quindi ho sempre vissuto questa cosa come una vendetta. Per cui sì, se possiamo aiutare in qualche modo questa battaglia per gli affetti delle persone detenute, sicuramente siamo disposte a farlo. Per quanto riguarda l’associazione AmiCainoAbele, i nostri obiettivi sono quelli di far conoscere il più possibile la giustizia riparativa, dalla nostra esperienza non ci sembra che sia messa molto in atto in Italia, ma noi siamo la dimostrazione che è un percorso che può essere fatto. E quindi ci batteremo per questo, perché per noi uno dei grandi strumenti della rieducazione passa dal fatto che vittime e persone che hanno commesso un reato si possano incontrare e insieme possano fare un pezzo di strada. Nel caso di mio figlio posso dire però che la giustizia ha funzionato, a Matteo sono stati dati tutti gli strumenti per rieducarsi, gli sono stati concessi gli arresti domiciliari, è in comunità, è stato autorizzato ad andare all’università. Quindi per adesso quello che si chiama recupero e rieducazione in Matteo c’è stato, ecco perché alcune volte quando mi trovo nelle carceri mi sento un po’ a disagio perché so che per la maggior parte delle persone detenute non è così. Uno dei nostri punti forti sarà quello di batterci per pene alternative al carcere e organizzare degli incontri dove inviteremo vittime e chi ha commesso un reato a parlare, a guardarsi negli occhi, a capire, a trovare un punto di contatto in un terreno neutro dove poter dialogare. Queste sono le nostre idee, i nostri progetti, noi ci stiamo riuscendo, e speriamo di aiutare altri a crederci. Ma vorrei anche dire che è giusto parlare di carcere, però è giusto parlare soprattutto dei carcerati, nel senso che io tante volte mi sono ritrovata a parlare di Matteo, Matteo ha fatto un reato gravissimo, è stato chiamato con tutti gli appellativi possibili sui giornali. Quando sono andata alle messe per Antonio, la persona che lui ha ucciso, voi capite che io ero circondata da centinaia di carabinieri, la prima volta che sono entrata loro si sono girati e mi hanno guardato in maniera non molto amichevole, giustamente dal loro punto di vista. Ma la seconda volta è andata un po’ meglio, quando ho partecipato a un convegno su Antonio, perché agli stessi carabinieri che erano presenti io ho parlato di Matteo, di ciò che Matteo ha fatto, di ciò che era e di ciò che vuole diventare. E la cosa pazzesca è che quando sono uscita loro mi stringevano la mano dicendomi di salutare Matteo, perché Matteo in quel momento, quando io lo racconto, non è più solo il reato, ma è anche la persona. Quindi per far capire il carcere, per far capire che cosa è la giustizia riparativa, che cosa stiamo facendo noi c’è bisogno di raccontare storie e che le persone ci mettano anche la faccia come abbiamo fatto noi, perché io penso che molto importante cercare di dare una identità, un volto alle persone di cui stiamo parlando, di raccontare la loro storia e di far capire che comunque sono persone. Irene Sisi Oggi si va avanti con quei maledetti slogan "che marciscano in galera perché devono pagare" Io sono felice di essere qui perché è da quando ho cominciato a conoscere Matteo, e sono entrata in carcere, sono stata a Volterra, sono stata a Rebibbia, sono stata qui, mi si è aperto un mondo. Io appartenevo prima a quel mondo di persone che si sentono "sane", ma ecco, entrare in questa realtà mi sta facendo un bene incredibile perché sento umanità, sento verità. Io lavoro in banca e l’ambiente mi suscita un sentimento di estraneità, ci lavoro perché comunque mi dà il pane, comunque mi piace fare il lavoro perché credo che poi il bisogno di lavorare bene e di essere se stessi serva in tutti gli ambienti. Però quando dico che preferisco stare a volte in carcere con le persone che ho conosciuto qui dentro piuttosto che con certi dirigenti, quelli che si sentono perfetti, che mirano solo al denaro, al potere, anche se sembrano luoghi comuni, a me questo genera un grosso contraccolpo perché lì in quegli ambienti mi sento ipocrita, sento tanta falsità, e nei rari momenti in cui sono stata qui dentro o in altre carceri invece ho sentito tutta l’umanità, tutta la sofferenza. E quindi questa vicenda terribile che mi è capitata mi ha messo a contatto con un mondo autentico, vero, è per questo che credo in quello che stiamo facendo profondamente, credo che Antonio, mio marito, e Matteo non si sono incontrati per caso e che alla fine tutta questa storia sia qualcosa di più alto che ci sta guidando. Anche perché non è facile pensare di mettere in piedi un’associazione senza nemmeno sapere da che parte incominciare, quindi dateci una mano perché non so dove ci porterà questa strada, ma sento che è quella giusta, che tutto ha un senso, anche se la nostra è una storia piccola, a confronto di tanti conflitti che stanno nascendo in tutto il mondo, e però è anche una testimonianza che da questo piccolo seme, di amicizia invece che di odio, può nascere qualcosa di più grande se ci diamo una mano. Anche se a volte mi sento inadeguata, forse poi non riusciremo nemmeno a fare tutte queste cose, però già è successo il fatto che quando ci siamo incontrati alcuni di voi abbiano pianto, magari, come ci ha scritto Carmelo, è la prima volta che qualcuno piangeva, e forse queste sono le grandi cose alle quali dobbiamo puntare. Ma vi assicuro che è bello per me anche vedere i progressi di Matteo, in questi giorni lui ha pubblicato questo libro di poesie e mi hanno telefonato in tanti, giornalisti che mi chiedevano se io ero arrabbiata, probabilmente volevano scatenare l’odio, perché oggi va di moda questo, metterci uno contro l’altro, e quando io gli ho detto che per me è gioia vera vedere il percorso che lui sta facendo, parecchi ci sono rimasti male, mentre qualcuno è stato affascinato e ha voluto approfondire l’argomento. Alla fine bisogna crederci, che ci sono dei germi di bontà, di speranza in questo mondo che sembra veramente così chiuso, così diviso in categorie, mentre noi non vogliamo dividere il mondo in categorie, buoni, cattivi, credenti e non credenti, musulmani e cristiani, noi vogliamo mettere l’uomo al centro. Io so che quello che noi due, Claudia e Irene, stiamo facendo è un ritorno alle origini, è un ritorno al bambino che nasce, perché un bambino, nel momento stesso in cui esce dalla pancia della mamma, è in pace col mondo. Forse qualche minuto dopo, magari con i genitori che se lo contendono, cominciano i conflitti, però in quel momento è in pace. E quindi questa associazione, e il fatto che io e Irene siamo state "illuminate" per metterci insieme, è proprio il ritorno a quel momento. Credo veramente che siamo state illuminate perché di associazioni ne esistono tante, però forse è la prima che vede due parti contrapposte che si uniscono e che continuano un percorso insieme. Io credo tantissimo in questo aspetto, del mettersi proprio sullo stesso piano, e del resto non sono andata da Matteo per puntargli il dito addosso, sono andata lì per camminare con lui. Le persone oggi sono piene di tante preoccupazioni, io lavoro in banca e veramente c’è gente che mi viene a chiedere pochi euro perché deve arrivare a fine mese, quindi a quelle persone non gliene frega niente delle carceri, ma giustamente, perché hanno prima di tutto da sfamare i propri figli, però bisogna trovare il modo giusto per parlare di temi così difficili come il carcere, perché poi le persone, anche quelle più incattivite, quando ti incontrano e tu gli parli di questa esperienza, ti ascoltano, però hanno bisogno di incontrarti, di sentire questa empatia. Oggi si va avanti con questi maledetti slogan che vorrebbero che io condividessi "che marciscano dentro perché hanno sbagliato e devono pagare", non sapendo che gli sbagli li possiamo fare anche noi. Quindi per crescere dobbiamo veramente trovare un sistema per coinvolgere gli altri, sapendo che tutti potremmo cadere in certe situazioni e fare degli errori, delle scelte sbagliate, e quindi il carcere ci riguarda da vicino, e la crescita dell’essere umano che deve scontare una pena ci riguarda tutti quanti. Claudia Francardi Giustizia: il vero ministro guardasigilli si chiama Gratteri di Valerio Spigarelli Il Garantista, 6 ottobre 2014 Come è possibile che un ministro venga messo sotto tutela da chi non siede in via Arenula? Quel foglio con su scritto il nome di Gratteri che il presidente incaricato Renzi, improvvidamente, fece fotografare al momento del suo ingresso al Quirinale, sembrava far parte della aneddotica politica. I cronisti, all’epoca, si sbizzarrirono ad immaginare cosa potesse essere successo nel corso del colloquio con Napolitano ma l’esito appariva chiaro: salito al Colle con il nome del pm calabrese come futuro ministro di Giustizia, Renzi ne era disceso con la diversa indicazione di Orlando. A Gratteri rimase il premio di consolazione di una commissione istituita presso la presidenza del Consiglio, una delle tante, si pensò, rassegnate a produrre lavori inutili. Se non che, in questi giorni, pare che il vento stia cambiando e, al contrario, il "ministro mancato" si stia guadagnando nei fatti l’appellativo di "ministro ombra" che qualcuno da subito gli aveva attribuito. Alcune circostanze confermano questa conclusione. In primo luogo il curioso cammino della "riforma della giustizia" che in pompa magna lo stesso Renzi, assieme al ministro Orlando, aveva illustrato all’esito del consiglio dei ministri del 29 agosto scorso. Riforma "epocale", si disse, l’ennesima dopo quelle annunciate nel ventennio berlusconiano, e come quelle non solo ben poco strutturale già di suo come più volte segnalato su questo giornale ma anche dal destino incerto. Che, infatti, il pacchetto contenente interventi sul processo penale, sulla responsabilità civile dei magistrati, sui reati di falso in bilancio e riciclaggio, oltre che un diffuso articolato in tema di misure di prevenzione, risulti allo stato desparecido negli uffici ministeriali è un dato evidente. Talmente evidente che una delle, poche, iniziative positive che comprendeva, cioè il disegno di legge sulla responsabilità civile, è già stato superato, o comunque degradato sul campo fino a ridursi a possibile emendamento al disegno di legge parlamentare che porta il nome del senatore Buemi. Poco male, si potrebbe concludere: il parlamento per una volta va più veloce dell’esecutivo, ma non è così. Il fatto è, invece, che il lavoro del ministro "vero" si è pericolosamente incrociato con quello del ministro "ombra", e chi ne sta facendo le spese è il primo, che deve segnare il passo: la responsabilità civile è solo il primo esempio. Ancora peggio va su altre materie. È un fatto certo che la commissione Gratteri, infatti, sta valutando una serie di interventi su temi che erano oggetto della riforma "epocale", e si può stimare con esiti ancor più discutibili dell’originale, ad essere generosi, viste le idee che alcuni dei suoi componenti professano. Senza fare grandi sforzi di immaginazione, e raccogliendo quello che alcuni dei commissari hanno sostenuto nel corso del tempo, si può dare per certo che uno dei componenti della commissione, il dottor Davigo, abbia già proposto di falcidiare il ricorso per Cassazione, tanto per dire una, magari proponendo l’abrogazione proprio di quel controllo sulla motivazione delle sentenze che in quella riunione del Consiglio dei ministri era uscito rafforzato rispetto alle iniziali proposte dello stesso ministro di Giustizia, quello vero. Oppure, a seguire le esternazioni del dottor Gratteri, è pacifico che proporrà l’estensione del sistema delle videoconferenze, escludendo gli imputati, non solo di reati di mafia, dalla personale partecipazione al processo a loro carico, e magari proporrà di fare lo stesso per gli avvocati. Rimanendo sugli avvocati non si va certo lontani dal vero se si pensa che quella commissione stia traducendo in pratica l’idea, sempre avanzata da Davigo, di far pagare in solido agli avvocati le sanzioni processuali che oggi spettano agli imputati in caso di inammissibilità dei ricorsi. Peraltro, i rumors che già circolano confermano che sarebbe stato proposto, all’interno della commissione, di estendere i casi di acquisizione libera di denunce, querele, informative di polizia e via discorrendo; cioè, in pratica, impedire di interrogare i testi nel processo liquidando quel principio del contraddittorio che la Costituzione impone e per il quale l’avvocatura si è battuta, Unione delle Camere Penali in testa, negli anni Novanta. Insomma, se quella commissione farà un terzo di quello che alcuno dei suoi componenti propugna, il primo a farne le spese sarà il metodo adottato da Orlando, quello del confronto con tutte le componenti del mondo forense, perché, si può starne certi, quelle idee produrrebbero la rivolta dell’avvocatura penale. Ma non è questo il punto più importante, perlomeno non lo è ancora visto che Gratteri fin qui non ha depositato i lavori, il punto è, piuttosto, come sia possibile che un ministro di Giustizia venga messo sotto tutela e il suo lavoro sia liquidato da chi neppure siede a via Arenula; oppure come sia possibile che un governo discuta e decida qualcosa e poi lo accantoni per sottoporlo al checkup di un Procuratore della Repubblica in servizio permanente effettivo. Insomma, se non mancherà il tempo per contrastare le proposte di Gratteri e della sua commissione, invece del discutibile metodo tecnocratico che questa vicenda sottintende bisogna parlare subito. Devono parlarne i politici, soprattutto il ministro di Giustizia e le forze di governo che sulla riforma della Giustizia si sono spesi in questi mesi; e devono farlo non solo per salvare il sistema da progetti degni di un dottor Stranamore dell’inquisitorio, ma per salvaguardare il corretto funzionamento dei processi decisionali che è fondamentale per la democrazia. Giustizia: Orlando; presto l’Italia avrà nuovi strumenti contro criminalità economica Adnkronos, 6 ottobre 2014 "Nei prossimi giorni la commissione Finanze della camera licenzierà il testo sul rientro dei capitali, all’interno del quale è contenuta la norma sull’auto-riciclaggio. Il falso in bilancio e la confisca per sproporzione sono invece provvedimenti contenuti nel disegno di legge anticorruzione che la Ragioneria dello Stato provvederà a bollinare, molto probabilmente, entro la prossima settimana". È quanto afferma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a poche ore dalla "VI Conferenza degli Stati Parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale", a cui parteciperà domani a Vienna. "Ci sono quindi le condizioni -assicura il Guardasigilli - perché entro la fine dell’anno gli strumenti contro la criminalità economica siano decisamente potenziati, soddisfacendo anche le aspettative della comunità internazionale". Orlando: "Tutto entro il 2015", di Sara Nicoli (Il Fatto Quotidiano) L’appuntamento è per domani. Quando la commissione Finanze della Camera darà (forse) il via libera all’emendamento con cui è stato riformulato, per l’ennesima volta, il reato di auto-riciclaggio. Il voto della commissione è atteso come un evento, anche perché il compromesso raggiunto ancora scricchiola da più parti. E non è detto che all’ultimo non si decida di rinviare ulteriormente la partita. Il ministro Orlando, ieri a Vienna, ha risposto in modo piccato alle critiche che gli sono arrivate da più fronti sul tema, annunciando, non senza una dose di vera temerarietà, che "la norma sull’auto-riciclaggio vedrà la luce in settimana". Falso in bilancio e confisca per sproporzione sono invece provvedimento "contenuti nel disegno di legge anticorruzione - ha proseguito il guardasigilli - che la Ragioneria dello Stato provvederà a bollinare molto probabilmente entro la prossima settimana; ci sono quindi le condizioni perché entro fine anno gli strumenti contro la criminalità economica siano decisamente potenziati". Un annuncio a cui crede poco anche Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia: "Sono tutti provvedimenti che vanno concretizzati in modo rigoroso - ha sottolineato, quasi incalzando Orlando - perché l’Italia non è un Paese normale, la politica non può permettersi di mantenere una legislazione che non è rigorosa in questa materia, perché i mafiosi sono tutti corruttori". Il "compromesso" che è ora alla valutazione della commissione Bilancio, ma che trova ancora forti resistenze da parte di Ncd e Forza Italia, prevede che chi ricicla i proventi derivanti dalla propria attività illecita sia passibile di una condanna tra i 2 e gli 8 anni, con applicazione di una multa tra i 5 mila e i 25 mila euro. La pena è tuttavia ridotta (tra 1 e 4 anni) se il reato presupposto è punito con una sanzione inferiore a 5 anni di carcere, così come sono previste sanzioni più lievi ove l’indagato mostri un comportamento pienamente leale e collaborativo. Questa "differenza" tra le due sanzioni è il frutto di un ulteriore compromesso tra Orlando e Padoan che invece ha sempre richiesto che il reato scattasse indipendentemente dalla pena prevista. Rimangono però ferme le pene più aspre se l’auto-riciclaggio è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. Secondo le prime indiscrezioni, sembra inoltre che sia stato finalmente raggiunto un compromesso sul cosiddetto "auto-reimpiego", ma la partita politica è ancora tutta in salita. Giustizia: dalle carceri tre vicende surreali, tra malasanità e ottusa burocrazia di Valter Vecellio Notizie Radicali, 6 ottobre 2014 L’appuntamento è fissato al 2 febbraio 2015. Cosa accadrà quel giorno? Un sopralluogo, nel carcere di Imperia. È in corso il processo che vede alla sbarra un immigrato tunisino, Farah Ben Faical Trabelsi, e due operatori della Polizia penitenziaria, l’assistente capo F.S. e l’agente scelto E.L.; il tunisino è colpevole di evasione, i due agenti di omissione colposa. Il sopralluogo nel carcere, si immagina, è stato disposto per raccogliere elementi sul campo che possano aiutare a comprendere quello che è accaduto. Nel corso dell’ultima udienza, qualche giorno fa, viene ascoltato l’ultimo teste, il maresciallo dei carabinieri di Imperia che si occupò delle indagini; racconta che è impossibile stabilire l’ora esatta dell’evasione, perché il computer, la macchina per timbrare i cartellini e le telecamere (quest’ultime anche con uno scarto di venti e quaranta minuti) davano tutti orari diversi. Gli stessi orari vennero rilevati nove giorni dopo l’accaduto, cosicché non si può escludere che qualcuno abbia potuto manomettere i vari sistemi. Ma quello che appare incomprensibile è che si sta parlando di un’evasione accaduta il 7 luglio del 2009. Sei anni per disporre un sopralluogo, con tutta la buona volontà, sono difficili da comprendere e giustificare. Piccola vicenda, in una città di provincia…indicativa di come funziona la giustizia e di quali sono i suoi tempi. Ben più grave il caso di Ioan Lacatus, un rumeno domiciliato a Cosenza. Liquidarlo come l’ennesimo errore giudiziario, è poco. Definirlo l’ennesima dimostrazione delle contraddizioni quotidiane che segnano il corso di una giustizia spesso e volentieri ingiusta, ci avvicina alla realtà. Lacatus, si è fatto cinque mesi di galera per il presunto furto di una banconota da 10 euro. Solo che Lacatus non ha rubato un bel nulla; chiamiamola svista ma per quella svista Lacatus ha trascorso cinque mesi e quattro giorni in carcere preventivo. Per l’ingiusta detenzione ha ottenuto un risarcimento di circa 33mila euro. Ma vediamo i fatti. Lacatus, viene arrestato il 4 febbraio del 2009 il reato contestato è concorso una rapina. In particolare avrebbe istigato i due figli minori S. L., e A. B. assieme a un altro ragazzo, V. F. S., a "derubare" una persona che successive indagini accertano affetto da problemi "di natura neuro-psichica sin dalla nascita, tant’è vero - scrive Michelangelo Russo, difensore di Lacatus, nell’istanza di riparazione per ingiusta detenzione - che risulta invalido al 100 per cento". Il tribunale di Cosenza prima, la corte d’Appello di Catanzaro poi, hanno scagionato Lacatus per "non aver commesso il fatto". La lunga detenzione patita prima del processo gli poteva benissimo essere risparmiata, racconta l’avvocato Russo: "Che i magistrati, ad eccezione della Procura generale che a suo tempo invocò l’assoluzione, oltre alla difesa, avessero sbagliato a valutare il caso in questione, si cercò di farlo capire attraverso le dichiarazioni di tre testi, L. L., A. D. T., e G. M. T., che furono "ignorate" dal Tribunale del Riesame. L’autorità giudiziaria procedente non ha ritenuto di revocare, o quantomeno sostituire, la misura cautelare in carcere in presenza di elementi prognostici positivi quale il decorso del tempo, la disponibilità di una abitazione, il legame con il territorio italiano e la presenza della famiglia in Italia". In poche parole, avrebbe potuto affrontare il processo a piede libero. Altra storia, protagonista-vittima Claudio B, quella che denuncia il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "Una vicenda surreale a metà strada fra malasanità ed eccesso di ottusa burocrazia. Ed intanto, secondo i medici, ogni giorno che passa allontana sempre di più la possibilità per Claudio di recuperare il normale uso degli arti. Proprio in queste ore ho inviato un telegramma al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quest’uomo deve essere curato al più presto". Il 21 aprile scorso Claudio, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, cade in carcere e da quel momento inizia la sua odissea. L’uomo viene subito ricoverato nel reparto protetto dell’ospedale Pertini con una diagnosi di "Plegia arto superiore dx ed arti inferiori bilateralmente associata ad alterazioni del visus e a deficit campo visivo in occhio dx insorte dopo trauma da caduta". Al momento della dimissione, i medici raccomandano il trasferimento in una struttura carceraria dove sia possibile eseguire cicli di fisioterapia e il costante monitoraggio neurologico. Il 13 giugno Claudio viene però trasferito al Centro Clinico di Regina Coeli dove è universalmente noto che non viene effettuata la fisioterapia. Il 7 luglio, viste la sue condizioni e le segnalazioni dei medici di Regina Coeli, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dispone l’assegnazione dell’uomo nel carcere di Velletri, trasferimento che avviene solo il 20 settembre, dopo il pressante intervento del Garante. Arrivato a Velletri, Claudio trova un’altra sorpresa. I medici del carcere decidono di non accettarlo, non ritenendo gestibili le sue problematiche cliniche e l’uomo viene rispedito in ambulanza a Regina Coeli. "La sostanza di questa odissea - dice il Garante - è che a cinque mesi dalla caduta, Claudio non ha ancora beneficiato della fisioterapia con gravi rischi per la sua integrità fisica. Come dimostra questa vicenda, i problemi del carcere non sono legati solo al sovraffollamento. Errori, eccessi di burocrazia, leggerezze e mancanze di comunicazione possono creare danni ancor più gravi". Per oggi può bastare. Giustizia: il nuovo papello si chiama "Protocollo farfalla" di Emanuele Boffi Tempi, 6 ottobre 2014 "Il più grave errore della mia vita è stato arrestare Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal 1994 che sono sotto processo, mediatico e giudiziario". Così disse il generale Mario Mori nel settembre 2012, quando partecipò a un incontro organizzato da Tempi dal titolo "Aspettando giustizia". E la giustizia arrivò nel luglio 2013 quando la IV sezione penale del tribunale di Palermo assolse lui e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, per aver impedito la cattura del boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Con quell’assoluzione si concluse un processo durato cinque anni e cento udienze, la maggior parte delle quali Mori visse in aula. Da "servitore dello Stato", quale si è sempre definito, l’ex capo dei nostri servizi segreti ha sempre sentito come proprio dovere essere presente in tribunale. Rare, invece, sono state le sue apparizioni in tv e sui giornali. In quei cinque anni non ha fatto il giro delle sette chiese dei talk show politici, ha centellinato le sue interviste, ha evitato le apparizioni in pubblico. Quando lo fece - come nel caso dell’incontro di Tempi - intervenne sempre in modo pacato, poggiando le sue parole su dati di fatto, non su "ricostruzioni". Fu in quella occasione che, con amara ironia, Mori disse: "Io ho fatto tanti errori nella mia vita, ma quello più grande l’ho commesso quando un giorno i militari da me diretti hanno arrestato Totò Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal 1994 che io sono sotto processo, mediatico e giudiziario. Scatenando l’ira dei miei avvocati ho rifiutato la prescrizione perché io non mi voglio difendere dal processo, ma nel processo e come uomo delle istituzioni non voglio rifiutare questa giustizia, anche se a volte è malagiustizia". Ora l’ex capo del Sisde dovrà ricominciare ad "aspettare giustizia". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha chiesto di riaprire la fase dibattimentale avendo raccolto nuovi elementi probatori a carico degli ex alti ufficiali. La nuova suggestione riguarda il cosiddetto "protocollo farfalla", un accordo segreto stipulato nel 2003-04 tra gli uomini dei servizi segreti e il Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) per gestire le informazioni rilasciate dai mafiosi detenuti in regime di 41 bis. In cambio di queste, fa intendere la procura, sarebbero stati fatti favori e rilasciate somme di denaro ai padrini. Da parte sua, il generale non ha commentato la nuova mossa della procura, mantenendo lo stile che fino ad ora ha contraddistinto la sua condotta processuale: "Ho grande rispetto per lo Stato e le sue istituzioni - ha detto. A differenza di altri non voglio dare spettacolo, mi difenderò nelle aule di tribunale". Si vedrà. E si vedrà quanto ancora dovrà aspettare il generale per "avere giustizia". Intanto, però, ha ricominciato a suonare la banda che conosciamo e così il nuovo papello, il "protocollo farfalla", è diventato il centro gravitazionale attorno cui far ruotare tutti i misteri italiani. Ovviamente c’entrano i servizi segreti deviati, la massoneria, la P2, la trattativa Stato-Mafia, le stragi del ‘92-’93 e scusateci se abbiamo dimenticato qualcosa. Secondo Scarpinato, Mori avrebbe "sistematicamente disatteso" i suoi "doveri istituzionali" e cioè di informare la magistratura delle sue mosse. È proprio il motivo che disse Mori nell’incontro di Tempi e che qui volgarizziamo: poiché ho arrestato io Riina e non loro, ora me la fanno pagare. E aggiungiamo: forse il generale aveva anche le sue buone ragioni per portare avanti certe iniziative all’oscuro di tutti. Non era forse il capo dei servizi "segreti"? Non era stata forse una fuga di notizie a impedirgli la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro? Ma c’è ancora qualcosa da aggiungere. In aula, Scarpinato ha ripercorso la carriera di Mori a partire dagli anni Settanta. Dico: dagli anni Settanta. Come hanno detto i legali di Mori dopo la richiesta del pg: "È un tentativo di rivisitare la storia d’Italia". L’ennesimo tentativo che, in nome della "trasparenza" ("fare luce", dicono) vorrebbe che i servizi e il segreto di Stato, semplicemente, non siano più tali, ma sottoposti al "controllo di legalità" da parte di un giudice: l’unico, l’illuminato, a sapere cosa andava fatto in quella determinata situazione. E così, intorno alla "rivisitazione" della storia italiana germogliano copiosi conti in banca, carriere politiche, giudiziarie e persino cinematografiche di chi si proclama aedo e unico cantore di quella "riscrittura". Ma bisogna sempre ricordare che il metodo più astuto per occultare qualcosa non è nasconderlo. Ma è lasciarlo sotto gli occhi di tutti, inondando la scena di una luce accecante. Giustizia: Cassazione; Cuffaro resti in carcere, respinto ricorso per affidamento servizi Ansa, 6 ottobre 2014 Resta in cella l’ex governatore siciliano Salvatore Cuffaro che sta scontando una condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, nel carcere di Rebibbia. La Cassazione ha rigettato il ricorso del suo avvocato, Maria Brucale, contro l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Roma che, l’anno scorso, ha negato all’ex presidente della Regione la possibilità di finire di scontare la pena usufruendo dell’affidamento ai servizi sociali. La Procura generale della Cassazione aveva espresso parere favorevole all’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali. Non sono ancora note le motivazioni della decisione. I giudici del tribunale di sorveglianza argomentarono il loro no sostenendo che l’ex presidente non aveva collaborato alle indagini consentendo il chiarimento delle zone d’ombra che ancora restano su alcuni fatti a lui contestati. E siccome la legge vede proprio nella collaborazione uno dei requisiti per la concessione del beneficio carcerario, il no fu secco. Anche in quel caso c’era stato il parere favorevole della procura dell’istituto di pena, il carcere di Rebibbia, che aveva parlato di ravvedimento del detenuto. Giustizia: il caso Ferulli, la "tempesta emotiva", l’italiano e il ragionare di Valter Vecellio Notizie Radicali, 6 ottobre 2014 Cos’è mai, l’italiano? Un qualcosa in cui "ero piuttosto debole", dice il magistrato che Leonardo Sciascia tratteggia nel racconto "Una storia semplice" (che tutto è, ma certo non semplice); e tuttavia, aggiunge il magistrato che dopo tanti anni incontra il suo vecchio professore, questa debolezza "non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica". L’anziano professore lo gela: "L’Italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto". Battuta ferocissima, e non è solo una battuta. Si prenda il caso di Michele Ferulli, il manovale morto per arresto cardiaco nel 2011, mentre quattro poliziotti lo stanno ammanettando. I quattro agenti vengono accusati di omicidio preterintenzionale: in buona sostanza con un loro comportamento violento avrebbero causato la morte dell’uomo. Però la Corte d’Assise di Milano stabilisce che il fatto non sussiste. Ovvero: Ferulli è morto, ma nessuna responsabilità è da addebitare ai quattro agenti, intervenuti in seguito alla segnalazione di una rissa in strada. Possiamo oggi leggere le motivazioni di questa sentenza: il comportamento degli agenti è da ritenersi corretto, aver colpito Ferulli mentre cercavano di ammanettarlo e lui, divincolandosi, opponeva resistenza, non è cosa che si possa e si debba punire. Perché Ferulli quella sera aveva bevuto molto, in più soffriva di iper tensione; e nel corso del parapiglia è stato colpito da "tempesta emotiva" che ha poi provocato l’arresto cardiaco. Questa storia della "tempesta emotiva" non è una novità, è stata tirata in ballo anche in altre occasioni. Per esempio per il caso di Giuseppe Uva, il 43enne di Varese fermato e portato in una caserma dei carabinieri, da dove è poi uscito agonizzante, per morire infine in ospedale. Anche nel suo caso si è parlato di "tempesta emotiva"; e lo si può leggere nella risposta a una interrogazione presentata dai deputati radicali la passata legislatura. Gli indumenti di Uva erano sporchi di sangue, l’uomo presentava vistose ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, macchie rosse tra pube e ano; in più i medici gli avevano somministrato sedativi e psicofarmaci incompatibili con l’alcol che Uva aveva bevuto prima di essere fermato. Chiamala "tempesta emotiva"… Per tornare a Ferulli: non vuole saperne di farsi ammanettare, è "un non collaborante", cosicché subisce "colpi…a mani nude", ma "non particolarmente violenti", per cui non si può parlare di "gratuita aggressione". E le disperate grida e invocazioni di aiuto? A tutto c’è una spiegazione: Il tentativo, forse, di evitare l’arresto. E i testimoni che raccontano di colpi alla testa? Furono costretti, i poliziotti, "a colpire Ferulli in un paio di occasioni, dai tre ai sette colpi, sulla spalla e sulla scapola, ma in modo non particolarmente violento, come dimostra l’assenza di ecchimosi o escoriazioni alla cute". Non fu dunque pestaggio? No, piuttosto "adempimento del dovere", che si è mantenuto "entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione"; una condotta che "ne esclude dunque l’antigiuridicità". I colpi dati sono rilevanti sono per la loro "dimensione stressogena", mentre risulta "dubbia la loro efficacia causale sull’evento morte in termini condizionalistici, stante la concomitanza di altri numerosi e rilevanti attori stressogeni". Il campionario si arricchisce con il sospetto che la procura di Milano si sia fatta influenzare, e di conseguenza abbia ceduto alla "vox populi": che com’è noto, "è un dato assai pericoloso, perché il suo acritico recepimento nelle aule di giustizia può essere all’origine delle peggiori generazioni della giustizia". Ce n’è anche per Domenica, la figlia di Ferulli: colpevole di aver messo in essere "un condizionamento negativo di alcuni testimoni". Rileggetela, rileggiamola questa prosa ampollosa, farraginosa, di faticosissima lettura. Nulla che somigli a un discorso con "elementare" premessa, comprensibile svolgimento, conclusione logica. E torniamo allora a Sciascia, al professore, all’italiano che è il ragionare... I giudici che hanno scritto la sentenza del caso Ferulli meritano di fare carriera. Napoli: malasanità in carcere, i parenti dei detenuti in sciopero della fame www.fanpage.it, 6 ottobre 2014 Scioperi della fame in staffetta, presìdi, manifestazioni e ispezioni: si intensificano le iniziative per il diritto alla salute e contro la malasanità nelle carceri, una piaga che solo in Campania conta più di 300 casi. Sciopero della fame in staffetta per il diritto alla salute nelle carceri: è quello che sta avvenendo, da qualche giorno, per iniziativa dell’associazione radicale "Per la Grande Napoli". Una brutta storia di diritti negati e malasanità che coinvolge tante e diverse realtà carcerarie in tutto il Paese e che ha mobilitato diverse associazioni e movimenti, dai Radicali alle associazioni che si occupano di detenuti e fanno volontariato in carcere. Venerdì si è tenuto un presidio davanti al carcere di Secondigliano, a Napoli, dove è detenuto tra gli altri Fabio Ferrara, un uomo di 35 anni che versa in condizioni di salute molto precarie, vive su una sedia a rotelle e andrebbe operato. Ma non riesce ad accedere alle cure delle quali ha bisogno, come Fanpage.it ha testimoniato più di un mese fa. Da allora, è stata presentata un’altra istanza per ottenere gli arresti domiciliari: niente. Né ci risulta che il giovane sia stato inserito in lista d’attesa per l’operazione. Lui stesso, il mese scorso, ha intrapreso uno sciopero della fame nella speranza di veder rispettati i suoi diritti. Per il giovane, infatti, anche essere lavato è un’impresa, poiché bisogna salire e scendere le scale, e perché non è in grado di uscire dalla cella autonomamente: deve essere continuamente trasportato in braccio poiché ci sono molte scale; anche per accedere ai colloqui e andare in bagno. Lo aiutano altri detenuti, racconta la moglie Anna Belladonna ai microfoni di Fanpage.it: se non fosse così, "non potrebbe fare nulla, ma resterebbe imprigionato in uno spazio che è quanto la metà di un tavolo da pranzo". A stento 3 metri quadri. Quello di Fabio Ferrara non è un caso isolato: sono stati contati almeno 300 casi in Campania. Per questo, quasi settanta parenti di detenuti hanno fatto uno sciopero della fame insieme a Luigi Mazzotta e Angela Micieli, militanti "storici" dell’associazione Per La Grande Napoli, in una staffetta simbolica il cui testimone viene "consegnato" lunedì 6 ottobre ad altrettanti manifestanti, che si ritrovano davanti al carcere di Poggioreale per chiedere, allo stesso modo, il diritto di cura dei detenuti, e iniziano un digiuno di protesta. Una mattinata che prevede anche una visita ispettiva nel carcere partenopeo, che Mazzotta effettua insieme al consigliere regionale Corrado Gabriele, alla quale segue una conferenza stampa. Dopo il 10 Ottobre, sul caso di Fabio Ferrara sarà presentata una interrogazione parlamentare dal senatore Luigi Compagna. Padova: "evade" dall’obbligo di firma l’omicida del Suv, falciò un anziano sulle strisce di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2014 Scarcerato con l’obbligo di firma, il rumeno Cristian Ioan è sparito nel nulla. Mercoledì il processo d’appello, in primo grado era stato condannato a 6 anni. Nessuna traccia di Cristian Ioan, 24 anni, originario di Tecuci in Romania, condannato in primo grado a sei anni di reclusione per l’investimento mortale del pensionato 76enne Goffredo Macolino a Chiesanuova. Erano le 18.30 del 28 marzo 2012: salito a bordo di una Toyota Rav4 (rubata a Tombolo il giorno precedente), il ragazzo aveva imboccato contromano e a tutta velocità via Tirana. Poi s’era fiondato lungo quella stradina stretta, in piena zona residenziale. Poco prima di sbucare ai piedi del cavalcavia, la tragedia: sulle strisce pedonali aveva falciato Goffredo Macolino, trascinato per oltre cinque metri in via Vicenza e stritolato tra il parabrezza e il guard rail. Venerdì 19 settembre 2014, due anni e mezzo più tardi: viene autorizzata ed eseguita la scarcerazione di Cristian Ioan in base all’istanza presentata dall’imputato, difeso dall’avvocato Roberto Rigoni Stern (il sindaco di Asiago). La detenzione in carcere è sostituita con la misura cautelare più lieve dell’obbligo di firma nella questura di Padova per tre volte alla settimana. Questura dove, a qualche ora dalla scarcerazione, Cristian Ioan provvede a firmare. Sarà la prima e unica firma. Da quel giorno di lui non c’è più traccia: ora una volta "certificata" l’irreperibilità, l’autorità giudiziaria potrebbe chiedere di nuovo l’arresto. Difficile sapere dove sia finito: non ha mai avuto un lavoro, non ha mai indicato un domicilio e neppure una residenza. Fino al giorno dell’arresto dormiva in un appartamento in via Melette 3, un unico stanzone (e un unico letto) condiviso con altri romeni membri di una banda di predoni-trasfertisti attivi tra il Veneto e il Piemonte. Potrebbe essere finito in qualche altra parte d’Italia oppure essere rientrato in patria: la sentenza di primo grado pronunciata il 23 ottobre 2013 lo aveva condannato a 4 anni e 6 mesi per omicidio volontario e un anno e mezzo per ricettazione, disponendo l’allontanamento dallo Stato italiano a pena espiata. Ad "allontanarsi", Cristian Ioan ci ha pensato da solo, ben prima di aver scontato la pena dietro le sbarre. Legittimo chiedersi: non era forse, se non prevedibile, quantomeno da mettere in conto, una possibile fuga non appena fuori dal cancello del carcere di Vicenza dove si trovava detenuto? Tra qualche giorno Cristian Ioan aveva un appuntamento importante con la giustizia: mercoledì prossimo sarà celebrato il processo di secondo grado davanti alla Corte d’assise d’appello di Venezia per la morte di Goffredo Macolino, travolto e ucciso dal Suv-killer guidato dal 24enne. Il pm Benedetto Roberti, titolare dell’inchiesta, lo aveva incriminato per omicidio volontario, guida senza patente e ricettazione dell’auto che risultava rubata. Un’accusa forte quella di omicidio volontario - sostenuta dalla procura di Padova, guidata dal procuratore Matteo Stuccilli - derubricata dal tribunale che in primo grado ha riqualificato il reato in omicidio colposo concedendo le attenuanti generiche. Il 3 aprile 2012 Cristian Ioan si era consegnato ai carabinieri padovani del Nucleo investigativo al confine italo-sloveno di Fernetti dove era stato accompagnato da parenti. Non era stato il pentimento a spingerlo a costituirsi. Per la morte del pensionato era stato arrestato Marius Bacnasu, il capo della batteria di predoni nelle cui fila era stato assoldato il giovane, scappato in patria con i soldi offerti da un connazionale subito dopo l’incidente. Le forze dell’ordine si erano scatenate: il colpevole andava trovato. Le bande dell’Est sentivano il fiato sul collo e uno dei capi aveva "consigliato" Cristian di tornare in Italia: "Se non torni ti spacco le gambe". Caserta: visita ispettiva a sorpresa di Radicali e Gal alla Casa circondariale di Arienzo www.casertanews.it, 6 ottobre 2014 Nella mattinata del 4 ottobre 2014, il segretario dell’Associazione Radicale "Legalità e Trasparenza", Domenico Letizia, insieme con il militante Giuseppe Ferraro hanno svolto una visita ispettiva a sorpresa con il senatore del Gruppo Gal, Vincenzo D’Anna. La Casa circondariale di Arienzo risulta dai dati del Ministero della Giustizia la terza più sovraffollata d’Italia. Ad accompagnare i militanti radicali e il senatore D’Anna durante la visita ispettiva è stato il Vice Comandante Spammanato Pasquale, mentre la direttrice della struttura penitenziaria, Mariarosaria Casaburo, durante la mattinata era assente. La struttura penitenziaria di Arienzo ha una capienza regolamentare di 52 persone mentre i detenuti risultano essere 89. I poliziotti penitenziari presenti nella struttura a turnazione risultano essere tra i 60 e i 65 individui. La situazione edilizia della struttura risulta in buone condizioni con una capienza media di due detenuti a cella, doccia in stanza e sono presenti due salette d’intrattenimento ove possono recarsi i detenuti ad orari stabiliti con la presenza di televisori. Alcuni detenuti hanno lamentato le stanze piccole e le dimensioni di alcuni bagni. Nella struttura sono presenti una psicologa, due educatori, tre infermieri e un medico. Sono presenti un defibrillatore semiautomatico e un carrello per le emergenze. Il personale medico ha lamentato gli orari delle turnazioni e ha avanzato richiesta di un allargamento della stanza infermieristica. Nella struttura è presente anche un ecografo ma manca il personale adatto per il suo utilizzo. Tutti i detenuti hanno lamentato una grave situazione riguardante le funzioni del Tribunale di Sorveglianza. Viene riscontrata una infinita burocrazia che non permette l’attuazione dei permessi premio e dei giorni premio. Molti detenuti hanno denunciato l’ottenimento di permessi premio che poi non vengono applicati a causa delle problematiche legate alla burocrazia. Risulta istaurato un ottimo rapporto tra la popolazione detenuta e gli ufficiali di polizia penitenziaria. Domenico Letizia e Giuseppe Ferraro hanno ribadito la proposta di "Amnistia per la Repubblica" e hanno riscontrato simpatia da parte del popolo carcerario per le battaglie di Marco Pannella e dei Radicali. Inoltre, Letizia dichiara: "Il 2 Ottobre si celebra la giornata internazionale della nonviolenza, stamattina, anche se con qualche giorno di differenza, abbiamo cercato di onore tale data ricordando l’iniziativa non violenta dei radicali e della comunità penitenziaria per la dignità umana e la giustizia giusta". Pisa: porta droga al figlio detenuto al Don Bosco, ma viene scoperta e denunciata www.gonews.it, 6 ottobre 2014 Portava droga al figlio detenuto al Don Bosco, ma è stata scoperta e denunciata. La donna, durante la sua ultima visita al figlio, ha tentato di sbarazzarsi di un involucro contenente hashish dopo aver visto che nel parlatorio erano presenti alcuni cani antidroga della Guardia di Finanza. Spaventata ha tentato di separarsi dalla sostanza lanciandola in terra, ma è stata vista e denunciata per detenzione di sostanza stupefacente: rischia di non poter vedere più il figlio. La donna era già stata notata dagli agenti della polizia penitenziaria per alcuni atteggiamenti sospetti. Ma questo episodio non sarebbe un caso isolato: per far fronte alla situazione sono stati attivati controlli specifici soprattutto per i visitatori esterni ed è nata una stretta collaborazione tra Guardia di Finanza, Istituto e Polizia Penitenziaria. Modena: il Sappe lancia un allarme sullo "sballo" alcoolico dei detenuti Agi, 6 ottobre 2014 È accaduto sabato nel carcere di Modena dove alcuni detenuti sono stati trovati ubriachi all’interno della sezione detentiva dal personale di polizia penitenziaria. Un agente si è accorto che un detenuto era addirittura caduto a terra. Gli accertamenti hanno portato all’identificazione del gruppo di detenuti che, attraverso il macero della frutta producevano quantità di alcool sufficienti a ubriacarsi in gruppo. Sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale, a renderlo noto e ad avvertire che "si tratta di una pratica che si sta diffondendo sempre di più in carcere, soprattutto a causa dei controlli ormai allentati per consentire la vigilanza dinamica". "Ricordiamo - proseguono - che i detenuti possono comunque acquistare l’alcool dalla ditta che fornisce il vitto in carcere. Spesso si verifica un accumulo di alcool a seguito della cessione che alcuni detenuti fanno nei confronti di altri. Sarebbe opportuno - rilevano ancora - intensificare i controlli per evitare che lo sballo in carcere possa diventare abituale". Nuoro: la Nuorese Calcio è scesa in campo con i detenuti di Badu e Carros La Nuova Sardegna, 6 ottobre 2014 Hanno indossato con orgoglio le magliette rosse e in campo non hanno lesinato l’impegno per contrastare i giocatori di quella squadra che li sta facendo sognare e che la domenica li fa esultare dopo ogni gol: la Nuorese. Che ha voluto regalare una giornata diversa ai detenuti di Badu e Carros, tifosi costretti dai casi della vita a vedere i giocatori soltanto attraverso la Tv o i giornali. Giovani che hanno sbagliato e che stanno pagando il loro conto con la giustizia. Ma che per un giorno si sono sentiti uguali a chi vive al di la del muro. Anzi, forse un tantino privilegiati, visto che giocare con questa Nuorese stellare non capita a tutti. "È veramente un piacere - ha commentato il direttore della Casa circondariale Paolo Sanna - sentire l’entusiasmo con il quale la Nuorese ha aderito all’iniziativa. Così deve essere per il bene del carcere. Credo che queste manifestazioni sono solo da incentivare se vogliamo che esista un ponte di comunicazione tra Badu e Carros e il mondo esterno, pur con tutti i limiti che una struttura penitenziaria comporta". Non a caso il sogno di Sanna è quello di "portare presto il Cagliari a Badu e Carros". Intanto ieri l’aria di festa e l’entusiasmo si toccavano con mano. A ricordare che si stava giocando dentro un carcere c’erano i reticolati e le altissime mura sui quali passeggiavano agenti in mimetica e mitraglietta. Per una sera, il carcere di Badu e Carros è così sembrato meno tetro, più umano. Grazie a una partita, equilibrata, corretta, spettacolare e, alla fine quando i detenuti erano stanchi, ricca di gol. Sicuramente un bell’allenamento per la Nuorese. Qualcosa d’indimenticabile, invece, per i "padroni di casa" vestiti di rosso. Catanzaro: con "Teatro6" risate e divertimento per i detenuti della Casa circondariale di Domenico Iozzo www.catanzaroinforma.it, 6 ottobre 2014 Messa in scena "A tecnologi@ fu a ruvina mia" nell’ambito delle attività rieducative. L’utilizzo smodato di internet e social network può mettere a rischio la serenità di una famiglia? È questa la premessa del lavoro teatrale di Mario Sei, "A tecnologi@ fu a ruvina mia", che attraverso i toni della commedia fa riflettere su sentimenti e relazioni nell’era di Facebook. Tra gags, equivoci e giochi di parole a pieno ritmo, lo spettacolo di Teatro6 è andato in scena ieri pomeriggio nella Casa circondariale di Catanzaro per un offrire un momento di spensieratezza ai detenuti nell’ambito di un programma rieducativo teso a promuovere la cultura teatrale all’interno dell’Istituto. Un’iniziativa, offerta a titolo volontaristico dallo stesso autore e regista che è impegnato da qualche mese in attività di laboratorio teatrale con un gruppo di detenuti che saranno i protagonisti della prossima commedia in vernacolo, scritta appositamente per loro. D’accordo con la direzione dell’istituto penitenziario, Mario Sei ha offerto la possibilità di assistere allo spettacolo "A tecnologi@ fu a ruvina mia" - nonostante la scarna scenografia dettata da ragioni logistiche - per stimolare negli stessi detenuti la curiosità su tutto ciò che si cela dietro le quinte e, specialmente, sul particolare lavoro di squadra che gli attori sono chiamati a fare. Alla fine per tutta la compagnia è arrivata un’autentica ovazione con applausi scroscianti per il protagonista Ivan Valle, Brunella Scozzafava, Vanessa Mazza e Nicola Scozzafava, Mila Martino, Totò Amelio, Elena Critelli, Massimo Ruga e Consuelo Citriniti. Per la direttrice del carcere, Angela Paravati, l’iniziativa rientra a pieno nel programma di attività promosso durante l’anno a sostegno dei detenuti con l’obiettivo di consentire la piena rieducazione sociale: "Voglio rivolgere un plauso a Mario Sei - ha detto - per essersi messo a disposizione spontaneamente ed aver dimostrato vicinanza alla nostra struttura in un momento in cui siamo poco assistiti dagli enti e dalla società civile. Oltre alle attività teatrali, abbiamo promosso anche diversi corsi per praticare lo yoga e imparare il riciclo, senza dimenticare la pratica sportiva in attesa di completare la dotazione della palestra". Il lavoro di Mario Sei all’interno del carcere - coadiuvato dalle educatrici Vincenza De Filippo e Letizia De Simone - proseguirà, quindi, a stretto contatto con i detenuti della media sicurezza per presentare a fine anno una nuova commedia: "Si intitolerà "L’ora d’aria" - ha raccontato il regista - ed è stata scritta in dialetto. Saranno 16 gli attori coinvolti in una rappresentazione che mira a riscoprire i valori della tradizione e dell’identità locale specialmente tra le nuove generazioni. Nonostante la mescolanza di etnie, il risultato è assolutamente esilarante". Il regista è impegnato contestualmente anche con un altro gruppo di alta sicurezza: "Sto affiancando - continua - un detenuto nella stesura di un altro testo teatrale scritto da lui stesso. Finora ho ricevuto grandi gratificazioni da parte di tutte le persone coinvolte, il più grande sforzo è stato quello di superare gli iniziali pregiudizi per donarsi all’ascolto e al confronto più sincero". Libri: per "Malerba", di Giuseppe Grassonelli e Carmelo Sardo, successo anche all’estero www.agrigentonotizie.it, 6 ottobre 2014 Il libro edito da Mondadori che racconta la storia criminale e il recupero in carcere del detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, scritto a quattro mani dallo stesso con il giornalista e scrittore Carmelo Sardo. "Malerba", il libro edito da Mondadori che racconta la storia criminale e il recupero in carcere del detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, scritto a quattro mani dallo stesso con il giornalista e scrittore Carmelo Sardo, sfonda anche all’estero. Dopo il clamore suscitato con la vittoria del premio "Sciascia-Racalmare" e l’interesse di tutta la stampa mondiale, i diritti del libro sono già stati venduti in tre paesi: Francia (casa editrice Lattes), Germania (casa editrice Luebbe) e Russia (casa editrice Corpus) e sono già arrivate offerte anche dalla Spagna dove si profila un’asta. "Malerba" sarà uno dei titoli di punta che Mondadori porterà alla prestigiosa e imponente fiera del libro di Francoforte, dall’8 al 12 ottobre, dove conta di vendere i diritti in altri paesi. In Italia intanto il libro è alla terza ristampa, l’ultima delle quali con una tiratura di diecimila copie per celebrare il successo al premio Sciascia con tanto di fascetta che reca anche due citazioni: dei giornali inglese "The Guardian" e spagnolo "El mundo". Il docufilm di Carmelo Sardo e Toni Trupia, tratto dal libro, è in fase di montaggio ed è a buon punto il progetto per farne un film sul grande schermo, con l’interesse di produttori americani e tedeschi. Immigrazione: nel Cie di Bari tunisino in sciopero di fame "aiutatemi sono un cadavere" Ansa, 6 ottobre 2014 Il filo che teneva cucite le sue labbra da dieci giorni si è ormai staccato. E Fatì, il tunisino che aveva scelto quella forma di protesta nel Centro identificazione ed espulsione (Cie) di Bari, ha deciso di affidare all’Ansa quello che definisce il suo "ultimo appello: sono ormai un cadavere - dice al telefono - fatemi uscire da qui". Fatì è comunque ancora in sciopero della fame da 13 giorni. "Qui - aggiunge - è come ai tempi dei nazisti". Il tunisino, che ha circa 30 anni, racconta di essere stato trasferito a Bari dal Cie di Ponte Galeria due giorni prima di conoscere l’esito della sua richiesta di protezione internazionale. Protestava per i diritti "dei detenuti nel Cie - dice - e per questo mi hanno detto che la protezione potevo scordarmela". Ricorda di essere arrivato "in Italia da bambino, nel 1987, con il passaporto, dopo essere fuggito dalla mia terra dove ero stato violentato". Poi in Italia, aggiunge, "sono stato accusato di due piccoli reati che non ho commesso e ho scontato in tutto circa nove anni di carcere". "Non ne posso più - dice ancora Fatì - fatemi sapere cosa ne sarà di me: qui le condizioni di vita sono disumane. Non ci cambiano neppure le lenzuola e, ora che ha piovuto, dentro la struttura è tutto bagnato". Fatì ricorda di aver "scritto anche alla Corte europea" ma è convinto che "non mi faranno mai sapere la risposta". Inoltre dice che l’avvocato d’ufficio che gli è stato assegnato a Bari, "ha chiesto di avere la relazione sul mio stato di salute per darla ai giudici", ma "non l’ha ottenuta perché deve chiederla al dirigente sanitario che io - sottolinea - non ho mai visto, e poi lui dovrà chiederla alla prefettura". Sono in sciopero della fame "da 13 giorni - ricorda - e continuerò così finché non uscirò da qui: non importa dove, ma voglio andare via dai Cie dove stiamo come gli ebrei ai tempi dei nazisti". La "mia pressione - evidenzia Fatì - è oggi a 80 su 50, e da 68 chili sono arrivato a pesarne 55: fatemi almeno parlare con un garante per i diritti dei detenuti - conclude - io ho già pagato ingiustamente. Adesso basta". Immigrazione: "Clandestini, passano all’asta i sogni", sans papier visti dall’artista Gulino www.tgcom24.mediaset.it, 6 ottobre 2014 Palazzo Steri a Palermo ospita nelle sale delle carceri spagnole le ultime opere del siciliano Franco Accursio Gulino, ispirate al concetto di clandestinità. "Gulino lavora con un sistema di temporalità circolare, una rete delle reti in cui confluiscono contemporaneamente passato, presente e futuro con le loro determinazioni in termini di cultura, di geografia umana e di vissuti individuali e collettivi". Nella personale di Franco Accursio Gulino, ispirata al concetto di clandestinità, passato, presente e futuro si incrociano e si annodano nelle sale di Palazzo Steri. I sommersi e i salvati libici o messicani incontrano le vittime dell’Inquisizione spagnola in Sicilia, nelle cui carceri ha luogo la mostra. Palazzo Steri, in precedenza residenza degli Aragonesi a Palermo, è stato sede per tre secoli del terribile tribunale dell’Inquisizione spagnola, che nella sua lunga attività (è abolito solo nel 1782) inquisì in completa segretezza migliaia di persone per eresia, poligamia, nefandezza, stregoneria e molti altri reati. Bastava una denuncia anonima, e il processo era inappellabile. I condannati dai giudici spagnoli subivano il rogo davanti allo Steri. Le carceri, che ospitano le tele di Gulino, recano sulle proprie pareti un documento ricchissimo e straziante di quelle migliaia di persone: preghiere, disegni, grida d’aiuto e di vendetta sono l’unica traccia del loro passaggio. Molti di questi segni si ritrovano nelle tele di Gulino. Allo stesso modo scompaiono senza lasciare traccia, come nel nulla, i clandestini che si imbarcano in Libia: chi lascia una costa avendo un nome, una famiglia e una storia, ma perderà vita, nome, famiglia e identità prima di arrivare dall’altra parte. Custode di queste vicende è solo il mare, che l’artista osserva dal suo studio arroccato su un promontorio vicino Sciacca. Cimitero di barche, di speranze e di persone, il mare ogni tanto qualcosa rende a Gulino: pezzi di imbarcazioni, legni, relitti che l’artista utilizza come supporti per le proprie installazioni. Franco Accursio Gulino: "Clandestini, Passano all’asta i sogni". Palazzo Steri, Carceri dell’Inquisizione spagnola. Piazza Marina, 61 Palermo. 4-26 ottobre 2014, da lunedì a domenica dalle 10 alle 18. Per informazioni: www.francoaccursiogulino.it. Iran: sciopero della fame per Ghoncheh Ghavami, da 100 giorni in prigione a Teheran Agi, 6 ottobre 2014 Da 5 giorni è in sciopero della fame la 25enne anglo-iraniana Ghoncheh Ghavami, da 100 giorni in prigione a Teheran, nel famigerato carcere di Evin, per aver assistito ad una partita di Volley maschile tra la nazionale e la squadra italiana allo stadio Azadi della capitale, lo scorso 20 giugno. Riconosciuta colpevole di "immoralità" perché violò la legge iraniana che vieta alle donne di assistere a eventi sportivi maschili. La madre, Susan Moshtaghian ha detto di temere per la salute della figlia. Iran: scarcerata moglie del corrispondente Washington Post, il marito resta detenuto Tm News, 6 ottobre 2014 Le autorità iraniane hanno scarcerato su cauzione una giornalista che si trovava in prigione da luglio scorso. La donna, Yeganeh Salehi, è la moglie del corrispondente in Iran del Washington Post, Jason Rezaian, che ha doppia cittadinanza iraniana e americana, ed è anch’egli agli arresti. "Restiamo e siamo certi che Jason non abbia commesso alcun reato. Preghiamo affinché le autorità iraniane liberino presto anche lui", ha commentato il fratello del giornalista. Non è chiaro perché Rezaian, 38 anni, e sua moglie Salehi siano stati arrestati il 22 luglio scorso, né quali siano le accuse a loro carico. Il mese scorso il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif ha detto che Rezaian è indagato "per quanto ha fatto in qualità di cittadino iraniano". L’Iran non riconosce la doppia cittadinanza e quindi ha respinto le richieste di chiarimenti avanzate dal Dipartimento di stato usa. Mauritania: arrestate cinque donne, hanno avuto un figlio fuori dal matrimonio Nova, 6 ottobre 2014 La polizia mauritana ha arrestato a Tirs Zamur, nel nord del paese, cinque ragazze sospettate di aver avuto dei figli al di fuori del matrimonio. Al momento dell’arresto, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa mauritana "Ani", il bambino di una di loro non erano con la madre e si sospetta che sia morto per cause naturali dopo il parto avvenuto clandestinamente. Al momento le donne sono state rinviate a giudizio ma non è chiaro come si comporterà la giustizia perchè non c’è una prigione femminile nella loro zona e non esistono leggi specifiche a riguardo.