La riforma stracciata di Elisabetta Laganà (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2014 C’era, una volta, una riforma penitenziaria; la stessa di cui, il prossimo luglio, si celebreranno i 40 anni. La legge penitenziaria è un triste esempio di quelle buone intenzioni elaborate dal legislatore di cui si è progressivamente lastricata la via dell’inferno della nostra attuale realtà comunitaria e sociale. Il clima attuale non è dei migliori. L’ottimismo della volontà deve, a questo punto, necessariamente cedere lo spazio al pessimismo della ragione e della constatazione degli eventi. Nel piano previsto dalle proposte del Governo di riforma della giustizia vi sono vari punti sui quali, come volontariato, per ora non ci soffermeremo; è invece indispensabile ragionare sulle proposte che riguardano il carcere. Nel paragrafo "Riforma del sistema carcerario" del documento elaborato dalla Commissione Gratteri voluta dal premier Renzi, si elencano possibili rimedi per una riforma del sistema carcerario e della risoluzione del problema del sovraffollamento, le cui soluzioni sono ravvisate nella costruzioni di nuove carceri e nella riapertura delle isole di Pianosa e Asinara. Ancora, si propone di inserire massivamente in comunità terapeutica i tossicodipendenti finiti in galera per reati di vario genere. Inoltre, l’uso massivo del lavoro in carcere non pagato quale elemento riabilitativo, compresi i lavori di pubblica utilità. Ora, solo alcune riflessioni. Analoga proposta fu lanciata dal Consiglio dei Ministri nel 2009, che approvò il "piano carceri", creato per dare risposta all’emergenza del sovraffollamento penitenziario, per poter ampliare la capienza degli istituti fino ad oltre 60mila detenuti (a fronte degli attuali circa 44 mila posti). La copertura economica di questo piano prevedeva che una parte dei fondi fosse tratta dalla Cassa delle Ammende per la costruzioni dei nuovi edifici. Già quella volta questa decisione sollevò non poche proteste da parte del volontariato. Si decise di destinare più di 100 milioni di Euro della Cassa Ammende, la cui destinazione, era riservata al Consiglio di aiuto sociale per le attività dello stesso art. 74 Ord. Penit., comma 5, n.1; attività individuate dai successivi articoli 75 e 76: assistenza penitenziaria e post-penitenziaria ai detenuti e alle loro famiglie, nonché soccorso e assistenza alle vittime del delitto. I dubbi sollevati da tutti coloro che protestarono su tale utilizzo, sollevando dubbi sulla legittimità della diversa destinazione di tali fondi decisa dal ministro, vennero rapidamente appianati tramite un decreto "mille proroghe", in cui venne modificata la normativa sulla Cassa Ammende, prevedendo in tal modo che con le stesse risorse si potessero costruire anche le carceri. In tal modo, la Cassa Ammende fu decurtata della sua metà dei fondi. Ciò che avrebbe dovuto essere destinato per la risocializzazione veniva utilizzato per la reclusione; ciò che avrebbe potuto favorire la rieducazione del condannato, la sua possibilità di integrazione e quindi la minore recidiva, era ridotto o tolto. La destinazione di tale notevole cifra all’uso originario avrebbe permesso di realizzare laboratori, attività professionali, progetti di reinserimento, case di accoglienza, tutto ciò che avrebbe permesso una consistente deflazione dei numeri del carcere e ridestinare al sociale problematiche impropriamente dirottate al penale. Sul tema delle comunità, è ben nota la difficoltà dei Ser.T. di favorire gli ingressi a causa di mere e stringenti ragioni di ordine economico. I tossicodipendenti in carcere intenzionati ad entrare in comunità sanno bene che esiste una lista degli ingressi stabilita dai fondi a disposizione, che può impiegare molti mesi per esaurirsi. Sul punto della terapia, poi, ogni tecnico della relazione sa perfettamente quanto sia impossibile costringere una persona a cambiare, a meno che non ci si prefiggano risultati di facciata; non vi è vero cambiamento se non vi è libera decisione di perseguirlo. Vero è che il lavoro deve essere tema centrale per il miglioramento della qualità della vita dei detenuti sia all’interno delle carceri che per chi è in esecuzione penale esterna. Il tasso di disoccupazione nelle carceri italiane è elevatissimo; ma è di necessità di lavoro retribuito che si sta asserendo. Il lavoro qualificato è essenziale quale consistente fattore di riduzione della recidiva e va concretamente incentivato, riducendo quegli intoppi burocratici che spesso non consentono il pieno funzionamento di pur positive leggi esistenti. Sarebbe quindi invece necessaria una forte cabina di regia pubblico-privato di impronta manageriale come già da alcune parti avviene, ma che, nello stesso tempo, creda nell’investimento in termini umani e che ambisca a realizzare il principio rieducativo del carcere secondo la Costituzione, a diminuire il grado di recidiva ed a promuovere la responsabilità sociale delle imprese italiane. Altra cosa sono i lavori socialmente utili, come descritti nel documento e già in essere in più parti d’Italia; la cui indubbia funzione riparativa è importantissimo elemento, che però non può sostituire il lavoro effettivo. Questo in estrema sintesi. Nel documento si parla poi del progressivo smaltimento dei direttori penitenziari. sempre nell’ottica della Riforma penitenziaria, frutto di una grande e complessa gestazione, è bene rammentare che sin dall’inizio, le istanze innovatrici più convinte venivano proprio dall’interno dell’Amministrazione Penitenziaria, da quella parte di direttori e operatori ai quali il contatto diretto con la brutale realtà del carcere suscitava sentimenti di reazione e l’aspirazione ad una umanizzazione della condizione detentiva; e molto hanno lavorato in questa direzione, costituendo un indispensabile avamposto difensivo verso le risacche controriformistiche. Accompagnato da quella parte del volontariato consapevole e orami rodato alla resistenza. Il terzo punto del documento della "Commissione Gratteri", parlando dell’efficacia effettiva e mediatica del lavori socialmente utili, parla di un ritorno di immagine che favorirebbe la credibilità dell’Italia. Il 5 giugno scorso l’Europa ci ha valutato come "sorvegliati speciali" per un anno. Un anno passa rapidamente. Le linee indicate dall’Europa tracciavano un percorso orientato al miglioramento della qualità della vita dei detenuti, e non solo in termini di spazi. Non ci pare di avere sinora sentito nessuno che proponga di alzare la cifra di circa 3,85 euro al giorno per detenuto per tre pasti, di elevare le cifre per il trattamento psicologico, le attività nelle sezioni. Pensiamo che il vero ritorno di immagine sarebbe un carcere che realizza le cose che ha stabilito per legge. Una rapida approvazione del reato di tortura, un reale sostegno al tema degli affetti. su questo punto la Cnvg, insieme a Ristretti Orizzonti sta promuovendo la campagna "Per qualche metro e d’amore in più", prevedendo la raccolta delle firme in tutti i carceri d’Italia. E in questo clima di linea politica sul carcere permeata di contradizioni, l’Italia non ha ancora il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’anno di tempo concesso dalla Cedu richiede rapidi passaggi e cambiamenti che necessitano di cabine di regia e di deciso governo del sistema. Sotto la spinta della Corte Europea, questo poteva essere e questo anno potrebbe davvero essere l’occasione per una rivoluzione culturale in termini di costruzione di alternative al carcere e di rovesciamento dell’ottica di un trascorso politico che si è caratterizzato come una lunga stagione orientata al privilegiare l’allargamento delle risposte penali a scapito del sociale, i cui effetti sono immediatamente visibili a chiunque solchi il suolo degli istituti penitenziari. L’urgenza della situazione delle carceri richiede che la questione non sia ulteriormente rimandata; perché rimandare significa aggiungere altri capitoli alla sofferenza del sistema, insistere nelle tragedie che quotidianamente si consumano nelle nostre carceri. Per fortuna, all’assemblea nazionale Contromafie organizzata da Libera, il Ministro Orlando ha parlato della necessità delle misure alternative; che però vanno sostenute nei fatti. Qualche anno fa, Alessandro Margara aveva parlato del carcere della resistenza, riferendosi a quegli operatori che, nonostante la carenza delle risorse e gli ostacoli, hanno creduto a questi principi e si sono adoperati per realizzarli. Il nostro Volontariato è tra questi. Giustizia: diritti, ideali e battaglie civili, ecco l’arte politica dei Radicali di Pietro De Leo Il Tempo, 31 ottobre 2014 A Chianciano Terme, ieri si è aperto il tredicesimo congresso dei Radicali Italiani, che durerà fino a domenica. I Radicali sono un po’ come un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima. Ti immergi in quell’accostamento di figure umane, in quel variopinto disordine, e non sai dove guardare. Pur avendo la sensazione di aver di fronte qualcosa di immutabile. I Radicali sono tendenzialmente l’unica opera d’arte della politica italiana. Proprio perché immutabili. Anni di piombo, craxismo, Tangentopoli, Seconda Repubblica o quella di adesso, la Repubblica "n", indefinita. Partiti distrutti, altri trasformati, altri ancora nati morti, valori ballerini. Loro invece no, radicali erano e radicali sono rimasti. Intreccio inscindibile di idealismo e fisicità, che ha permesso loro di presidiare la storia più di quanto abbiano fatto con le istituzioni. L’idealismo è nelle battaglie. Ai radicali dobbiamo la trasmissione più efficace di un principio, che dietro le questioni di diritto, e quindi di giustizia, c’è sempre una questione di diritti, e quindi di persone. Perché riguarda il rapporto dell’animo umano rispetto al percorso giudiziario. Dal giusto processo, al ruolo del giudice, fino alla dignità nelle condizioni di detenzione. Valori nel nostro Paese spesso violati e su cui, purtroppo, la comune sensibilità ancora solleva poca indignazione. D’altronde, siamo nel Paese di borghesi piccoli piccoli, del "tutto bene finché non capita a me". E per cui il sacrificio di Enzo Tortora fu, negli anni ‘80 frenetici di un’Italia edonista e farfallona, la più grande lezione morale impartita da chi moralista non era proprio. Il presentatore di Portobello finì in un monumentale processo che gli costò carriera, salute e vita. Da cui, poi, uscì completamente pulito ma altrettanto distrutto. I Radicali raccolsero la sua storia e le diedero corpo e anima politica. Non fu un testimonial, ma testimone. La democrazia scesa tra gli ultimi attraverso uno dei primi. Perché Tortora, primo lo era. Alfiere di una tv fatta in giacca e cravatta ed eloquio forbito, amico catodico delle famiglie. L’effetto collaterale più subdolo di un processo condotto in un modo così viscerale sarebbe stato far passare l’idea che uno a cui avresti lasciato le chiavi di casa era diventato nemico pubblico numero uno. E quell’idea non passò grazie anche alla sua esperienza politica. Ma il messaggio era stato chiaro, importante, perché fisicamente sbattuto in faccia a tutti gli italiani. La fisicità, appunto. Colonna dell’esperienza radicale. I digiuni infiniti di Marco Pannella, le sue comparsate in televisione a volte smagrito a volte tonico. E poi ancora gli attivisti completamente nudi al teatro Eliseo (nel 1995), i corpi divorati dalla Sla di Coscioni e di Welby, la dirompenza erotica di Cicciolina, che fu deputata nel 1987. A modo diverso, dimostrazioni del vivere l’esperienza politica nella propria totalità umana. Che è il messaggio fatto passare, sempre, da Marco Pannella. Leader strabordante, dentro e fuori il partito. Un’epica ruvida, la sua, ma pur sempre epica. La reazione idiosincratica alle teste pensanti del suo partito, si ricordano le liti con Capezzone, oppure gli scontri con Massimo Bordin, voce e testa di Radio Radicale. Oppure i confronti con gli altri "uomini forti" della politica italiana. Da Bettino Craxi, con cui condivise un tratto di strada parallela in orientamento laico e anticomunista. A Silvio Berlusconi, di cui appoggiò la discesa in campo tanto che Emma Bonino, nel 1994, fu portata dal Polo alla Commissione Europea. Fino all’ultimo uomo forte del nostro tempo. Renzi? No, Papa Francesco. Che gli ha chiesto al telefono di interrompere uno sciopero della sete. E lui ha accettato. Perché sarà pure ateo e laicista, Pannella. Ma nemmeno lui può governare quella legge soprannaturale che spinge le grandi storie, prima o poi, ad incontrarsi. Giustizia: emergenza carceri, un confronto con Luigi Manconi di Giancarlo Capozzoli www.huffingtonpost.it, 31 ottobre 2014 L’ennesimo intervento del Papa riguardo alle condizioni delle carceri, e quindi al rispetto della dignità umana mi induce a pormi qualche domanda. Una innanzitutto: in che condizioni è oggi il sistema penitenziario in Italia? La mia esperienza, culturale e artistica, si rivolge ad un numero comunque ridotto di detenuti. E solo in un carcere, a Roma. Da qui la necessità di questo confornto con il senatore Luigi Manconi, presidente dell’Associazione "A buon diritto". Se con certezza possiamo affermare che il sistema penitenziario non è più quello descritto da Foucault all’inizio del suo volume "Sorvegliare e punire", la domanda che sorge inequivocabile è: in quali condizioni verte oggi il sistema carcerario in Italia? Il punto principale da affrontare è il numero dei detenuti, e di conseguenza il grave, anzi gravissimo problema del sovraffollamento. È un dato rilevante, talmente rilevante da mutare completamente la composizione del carcere. Può spiegarcelo meglio? Partiamo proprio da ciò che significa realmente sovraffollamento. L’errore è infatti nella percezione di ciò che significa: molte persone in uno spazio ristretto, circoscritto. Il dato che sfugge però è che dentro, e sottolineo dentro, questa unità di spazio e tempo si perpetua, perdura. Non conosce tregua, sollievo. Né diurno né notturno. E proprio questa continuità del fenomeno rende lo stesso, intollerabile. Molte persone, molti corpi... Sì esatto. Una vera e propria sovrapposizione di corpi, membra, liquidi umani, fisicità. Questo è il sovraffollamento con tutto il suo effetto dirompente. Ovvero una promiscuità fisica che diventa un fattore determinante di tutti gli elementi della vita quotidiana. Insisto su questo punto perché il sovraffollamento rappresenta davvero un mutamento radicale dell’ambiente e delle persone. Ad oggi nonostante la riduzione del numero dei detenuti, la situazione è ancora di sovraffollamento. Potremmo quasi sostenere quindi che il sovraffollamento è una ulteriore pena da scontare oltre alla condanna? Assolutamente. Se dovesse dare una definizione del carcere quindi? Direi, con una battuta, che il carcere è il luogo dove si incontrano e si combinano miseria e nobiltà. Analfabetismo di ritorno e centinaia di corsi di scrittura creativa. Centinaia di altre attività. Di cui non si può dire che bene. Si oppongono a quella che senza dubbio è una abiezione, un annichilimento della personalità. Ossia? Nel carcere, sembra difficile da credere, ma c’è una prevalenza dell’ozio, forzata. Che diventa un fattore determinante di pesante mortificazione della personalità. E di alienazione. Concordo. A partire dalla sua esperienza, da chi è composta la popolazione detenuta, oggi, in Italia? Guardi, la situazione è cambiata radicalmente. Mi spiego: secondo l’ultima analisi dell’Amministrazione Penitenziaria, solo il 10% dei detenuti sono considerati socialmente pericolosi. Socialmente pericolosi sono gli associati alla mafia e altre associazioni simili, e chi ha commesso reati efferati. Il resto dei detenuti pertanto non è così pericoloso. È costituito da tre grosse categorie. Immigrati. Tossicomani. E vecchi e nuovi poveri. I tossicomani rappresentano solo un allarme sociale, non sono un vero e proprio pericolo. Nell’ultima categoria invece ci sono quelli che potremmo definire dipendenti dalle dipendenze, ed inoltre i separati, divorziati, i malati di mente, i disoccupati, gli alcolisti. Questa categoria rappresenta una novità assoluta rispetto alla popolazione reclusa. A mio avviso sono l’esito del processo di crisi del welfare-state che ha garantito protezione sociale, tutela e sussidi che oggi non si danno più. La fine dello stato sociale... Lo stato sociale si ritrae e questi individui precipitano, letteralmente, nella marginalità. E il carcere diventa la loro sede, dove o si rifugiano o vengono reclusi. Cade ogni forma di tutela... Esatto. Volevo dirle qualcos’altro sul sovraffollamento. Lei ha detto: è una pena ulteriore alla pena stessa. Certo. Pensi a tutti gli effetti indiretti del sovraffollamento. Diventa difficile frequentare la scuola. O avere visite mediche specialistiche, in tempi utili. C’è uno scadimento della qualità di tutti i servizi, persino quelli più essenziali, come l’assistenza sanitaria. Prima nelle tre categorie a cui ha fatto riferimento, ha parlato degli immigrati... Sì, gli immigrati ospiti all’interno delle carceri sono circa il 30% della popolazione detenuta. In alcuni istituti oltre il 50%. Spesso accade che l’irregolarità dell’ingresso e di conseguenza della permanenza in Italia diventano anche la causa dell’attività criminale, come il piccolo traffico di sostanze stupefacenti. Si può parlare in qualche modo di "illegalità" del sistema carcerario? Questa illegalità che lei dice parte dal sovraffollamento a cui facevamo riferimento prima. Si noti bene: la capienza è già superata di molti punti. Insisto su questo: c’è una eccedenza di diecimila unità. Guardi, la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti si basa proprio su questo: il mancato rispetto, negli istituti italiani dei tre mq almeno, necessari ad ogni individuo. Ripeto, il sovraffollamento ha come effetto dirompente, la mortificazione della dignità delle persone e la minore protezione al diritto alla salute, che come sappiamo, è uno dei diritti fondamentali della persona. Certo. Rispetto alla questione delle donne detenute e dei bambini, come è la situazione? Rispetto ai bambini le dico che nel 2001 è stata promulgata una legge, la legge Finocchiaro, che prevedeva delle misure alternative al carcere, per le madri con bambini fino a tre anni. Legge giusta, sacrosanta, ma nei fatti applicata con molte limitazioni e difficoltà. Difficoltà che derivavano dall’impossibilità di poter usufruire di queste misure alternative per l’assenza, ad esempio, di un domicilio di riferimento. O perché le madri erano recidive. Oppure perché avevano commesso dei reati tali da non poter usufruire dei benefici previsti. Vuol dire che in pratica questa legge è stata derogata? Sì. Il risultato è che in questi tredici anni (dal 2001 ad oggi) stabilmente nelle carceri italiane si sono venuti a trovare minori di tre anni. Ad oggi non sono più di cinquanta, sessanta. La legge italiana ha consentito che nelle celle ci fosse un certo numero di bambini. Eppure la situazione sarebbe superabile attraverso, ad esempio, gli Istituti Custodia Attenuata per Madri, ICAM. Tramite questi istituti si potrebbe consentire alle madri che non hanno un domicilio, una vita quotidiana decente in una struttura accogliente. A Milano è stato istituito ad esempio un appartamento. A Venezia invece all’interno dello stesso istituto penitenziario, ma distinto, protetto, separato dagli effetti visivi e sonori del carcere. Con un piccolo giardino e delle stanze colorate. Certo, è una situazione provvisoria, ma ha ridotto almeno l’effetto del carcere sui bambini che hanno potuto anche frequentare la scuola. A Roma? Si sta cercando di realizzare una Casa Rifugio Protetta. Una casa famiglia dove la madre con il figlio viva una vita protetta fuori dal carcere con delle misure di sicurezza blande. Al di fuori dell’apparato, della struttura fisica del carcere. Da quello che dice, sembrerebbe di facile realizzazione... Guardi sarebbe davvero un investimento ridotto, con poche strutture si potrebbe risolvere l’intera faccenda. La situazione dei bambini in cella è atroce. Sì certo... Torniamo un attimo alla questione dell’ozio, che si diceva prima... È un fattore poco affrontato. Un carcere dove domina l’ozio è un carcere disumano. Io insisto: una vita vuota porta ad una forte debilitazione psico-fisica. Pertanto le attività che vengono organizzate all’interno degli istituti penitenziari sono un fattore prezioso e necessario. Tali attività hanno come fine la tutela della dignità della persona umana. Frequentare la scuola, o partecipare ad un laboratorio teatrale, o leggere anche il libro più scadente diventano una fonte preziosa di progressi intellettuali. Tutte le attività trattamentali e di socializzazione hanno come fine la tutela della dignità della persona. L’ozio coatto, al contrario, è un fattore determinante di prostrazione e di abbandono. D’accordo. Se come lei dice solo il 10% della popolazione detenuta è socialmente pericolosa, c’è la possibilità di pene alternative? Sì, ma lo dice la stessa Amministrazione Penitenziaria. Il carcere non è l’unica soluzione. Un’ultima domanda, senza tornare ancora sul caso Cucchi...Vuol dire qualcosa riguardo ai casi di violenza che avvengono? Guardi fortunatamente sono casi sporadici e isolati. Le cito comunque solo due episodi recenti... Il tribunale di Parma ha acquisito la documentazione di un detenuto che ha registrato le violenze subite da parte di una guardia, ritenendole reiterate ed inquietanti. Ed invece, a settembre, il comandante del carcere di Rossano in Calabria è stato sospeso dal DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziario) in seguito al riscontro eseguito dall’On. Enza Bruno Bossio, di una situazione di vita disumana dei detenuti. Disumana per le violenze e gli abusi. Giustizia: sulla mia legge il "no" di un Csm da riformare di Enrico Buemi (Senatore Psi) Il Garantista, 31 ottobre 2014 Il Senatore socialista reagisce alla stroncatura del Consiglio Superiore sulle proposte di inasprire la sindacabilità dei giudici avanzate da lui e dal Ministro Orlando. "La contestazione arriva mentre un ricorso al tar mette dm dubbio la composizione dello stesso Csm" scrive Buemi riferendosi al caso di Teresa Bene. In tre note al parere espresso il 29 ottobre, il Csm mi gratifica di ben tre citazioni, sebbene nessuna di esse lusinghiera: sarei l’artefice del tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei giudici nell’ordinamento italiano. Il parere fa riferimento al testo del disegno di legge da me depositato il Senato un anno fa, quando già da due anni navigava per le aule parlamentari l’emendamento Pini alle varie leggi comunitarie che si succedevano nel tempo: un emendamento che, col voto favorevole della Commissione referente, prendeva spunto dalle condanne italiane a Lussemburgo per proporre la responsabilità diretta del giudice, secondo il meccanismo previsto per tutti i pubblici funzionari dall’articolo 28 della Costituzione. Si trattava di un orientamento tutt’altro che minoritario, se a voto segreto in Aula alla Camera ha addirittura registrato un’approvazione di un ramo del Parlamento. Per circoscrivere la portata di questo orientamento, il mio disegno di legge - confermato l’impianto della legge Vassalli, fondato sulla responsabilità indiretta - limitava la responsabilità diretta a due casi di assoluto ed evidente sviamento dal corretto uso del potere giurisdizionale: disattendere la consolidata giurisprudenza della Cassazione nell’interpretazione del diritto (salvo il caso di ignoranza inescusabile, per esempio per improvvidi cambi di giurisprudenza) e negare in Cassazione il diritto al rinvio pregiudiziale su un punto qualificante del diritto dell’Unione. Ricordo, a chi l’avesse dimenticato, che il primo caso di condanna italiana avvenne perché i giudici di Cassazione disattesero quello che, per loro, è obbligo e non facoltà, cioè investire Lussemburgo sull’interpretazione del diritto europeo, quando lo chieda una parte; anche qui, per non essere dirompente, limitai la responsabilità diretta al solo caso in cui gli "ermellini" ignorino una richiesta che trovi d’accordo sia le parti private che il pm. La commissione Giustizia, con un voto che mise insieme Pd e Movimento 5 stelle mentre ero in missione per conto dell’Antimafia, respinse l’articolo 1, che introduceva questa responsabilità diretta limitatissima. Mi adeguai, nella veste di relatore, alle decisioni della maggioranza, e proseguii nella parte successiva delle proposte del disegno di legge assunto a testo base, cioè quelle di snellimento e maggiore efficacia della responsabilità indiretta. Mi adeguai fino al punto di proporre il parere che invitava a stralciare dalla legge comunitaria l’emendamento Pini; in Aula su questo il Governo ci chiamò addirittura ad un voto di fiducia. Non credo, quindi, di essermi dimostrato insensibile alle esigenze della mediazione e del compromesso, che sono proprie della vita politica e della procedura parlamentare. Quando il Governo presentò il suo disegno di legge, a votazioni già iniziate in Commissione, fui proprio io ad invitare tutti a tener conto della sostanza delle proposte del ministro Orlando, anche se formalmente non era più possibile congiungerle all’iter già in corso. Ma la vita parlamentare implica mediazioni con altri modi di vedere l’interesse generale, legittimati dal voto popolare; non con le istanze corporative, di chi fa della sua professione non un’occasione per contribuire al benessere del Paese, bensì un fortilizio dentro il quale difendere rendite di potere consolidate. Ad esempio, proponiamo l’obbligo di motivare la sentenza, quando ci si discosta dalle Sezioni Unite della Cassazione; per l’Anni, invece, il precedente non vincola, anche contro la relazione dei Saggi nominati dal Capo dello Stato nella primavera del 2013. Secondo il parere approvato, "l’istituto della responsabilità civile non può essere utilizzato per mettere pressione ai magistrati al fine di aumentare la diligenza del singolo e la qualità della giurisdizione". Mentre la sfida della modernità mette pressione al Paese, la corporazione non vuole che si incrementi la qualità del servizio giustizia con la minaccia di pagare i danni: peccato che questa minaccia funzioni da sempre per i medici e gli ingegneri, che dispongono soltanto di organi di governo autonomo del loro ordine professionale. La magistratura vanta invece un organo di autogoverno e, mi pare, oggi si può apprezzare come la differenza non sia di poco conto. Nel giorno in cui il deposito di un ricorso al Tar si mette in dubbio la stessa regolarità della composizione dell’organo Csm - che ha escluso una componente, evidentemente non omologata alla lottizzazione partitica e probabilmente espressiva, su questi delicatissimi temi, di una posizione indipendente - si pone con urgenza non solo la questione della riforma della responsabilità civile, ma quella della riforma del Consiglio superiore della magistratura. Giustizia: Unione Camere Penali; no a rinvio chiusura Opg, governo rispetti termine Ansa, 31 ottobre 2014 "Ancora una volta sono rimasti tristemente inascoltati gli alti richiami rivolti sia dal Presidente della Repubblica e, solo alcuni giorni fa, dal Santo Padre, i quali auspicavano che si procedesse nel più breve tempo possibile alla chiusura degli Opg, luoghi in cui la reclusione è una forma di tortura e dove gli internati si trovano a scontare veri e propri ergastoli bianchi". L’Unione delle Camere Penali protesta per l’ulteriore rinvio della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e chiede al governo di assicurare il rispetto della scadenza del 31 marzo 2015. Il caso nasce dopo che in una relazione i ministri della Salute e della Giustizia hanno definito "irrealistico" il rispetto del termine per l’"impossibilità" che le Regioni concludano in tempo utile l’opera di riconversione delle strutture con la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Di fatto, rilevano i penalisti, il Governo "ammette che poco o nulla in questi mesi è stato fatto dalle Regioni per realizzare le nuove strutture che garantissero ai malati psichiatrici una degenza nel pieno rispetto della loro dignità". L’Ucpi chiede perciò all’esecutivo non solo di riferire sulle "attività di controllo ed impulso svolte nei riguardi delle Regioni in questi mesi, in attuazione di quanto previsto dalla risoluzione delle Commissione Igiene e sanità del Senato", ma anche a "provvedere, in applicazione di quanto statuito dall’art. 120 della Costituzione, in via sostitutiva, al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, al fine di assicurare il rispetto della scadenza del 31 marzo 2015". Perchè "la tutela della salute e della dignità umana non possono e non debbono essere vittime degli inammissibili ed ingiustificabili ritardi della politica". Giustizia: ddl diffamazione, una legge confusa da migliorare di Caterina Malavenda (Avvocato esperto in Diritto dell’informazione) Corriere della Sera, 31 ottobre 2014 Caro direttore, con la sua approvazione in seconda lettura al Senato, si avvicina il momento dell’entrata in vigore della nuova legge sulla diffamazione ed il testo finale, emendabile ancora alla Camera, dove sta per tornare, non appare la migliore soluzione ai molteplici problemi sul tappeto. Anche a voler essere ottimisti e guardare il bicchiere mezzo pieno, non si può dire che, nello scambio fra il carcere (eliminato) e la rettifica (potenziata) con l’inasprimento di pene pecuniarie ed accessorie, ci sia stato un vero miglioramento. Partiamo dalle pene: via la reclusione, per la diffamazione, qualunque ne sia il mezzo - stampa, radiotelevisione e anche testate on line, dopo l’approvazione di un emendamento dei 5 Stelle -, è prevista la multa fino a io mila euro, una somma non modesta per chi vive di accessi e pubblicità. L’equiparazione fra mezzi diversi, tutti costretti nelle stesse regole, in questo caso, come in altri, genera conseguenze paradossali. La rettifica diventa causa di non punibilità, che sia pubblicata spontaneamente o su richiesta dell’interessato, purché con modalità ulteriormente penalizzanti, in particolare senza commento, senza risposta e senza titolo, a meno che il suo contenuto sia falso o suscettibile di incriminazione penale. Bene, si dirà. Il direttore che non la pubblica perché non si può replicare, verrà condannato, se ha sbagliato, insieme con il suo giornalista: quindi rimane Ubero di decidere. In realtà, se l’interessato si rivolge al giudice, per "costringere" il direttore alla pubblicazione, ostinarsi nel rifiuto avrà per lui conseguenze economicamente pesanti - una sanzione da 8 a 16 mila euro - e professionalmente rischiose, in ragione dell’automatico deferimento all’organo disciplinare. E non basta: se il giornalista chiede la pubblicazione di una rettifica a un suo articolo, potrà denunciare il suo direttore, ce si rifiuti di farlo. Nessun alleggerimento è, peraltro, intervenuto sulla sua responsabilità, di fatto oggettiva, per omesso controllo, anche quando l’articolo è firmato. Anzi, è stata addirittura ampliata, visto che il direttore risponderà in proprio di tutto quanto è privo di firma; ed estesa ulteriormente, visto che la stessa responsabilità è ora prevista per il direttore della testata radiotelevisiva, finora immune da colpa per omesso controllo e persino per chi dirige un giornale on line registrato, prodotto soggetto, per sua natura, a continui aggiornamenti e che necessita, dunque, di un controllo senza interruzioni. Il primo e più utile consiglio, allora? Non registrare le testate on line e non assumerne la direzione, se non si ha molto denaro e non si soffre d’insonnia. Del tutto pleonastica risulta, infine, la facoltà, riconosciuta al direttore, di delegare le funzioni di controllo a un suo giornalista, peraltro senza alcun incentivo economico: quale persona sana di mente accetterebbe? Nessuna novità utile neppure sul fronte dei risarcimenti per querele o cause civili temerarie, visto che le sole modifiche introdotte ribadiscono di fatto quanto previsto da norme già in vigore. Anzi, nel caso di querele temerarie, l’emendamento approvato finisce per escludere in modo definitivo che il giornalista possa essere risarcito, visto che la formula con la quale di norma viene assolto - perché il fatto non costituisce reato - non è compresa fra quelle che consentono il risarcimento. Mentre è lecito dubitare che l’impianto normativo favorisca la circolazione delle informazioni, una novità assoluta riduce la possibilità di accedere a quelle già circolate. È stato introdotto, infatti, il diritto di chiedere, oltre che la rettifica e l’aggiornamento delle informazioni, anche l’eliminazione dai siti internet e dai motori di ricerca, senza alcun contraddittorio, di quanto l’interessato - o i suoi eredi o il suo convivente - ritenga, a suo insindacabile giudizio, diffamatorio o lesivo della sua privacy, con la facoltà di rivolgersi al giudice, in caso di rifiuto. Un contenzioso infinito rischia di travolgere chi decidesse di resistere alla probabile valanga di richieste e buchi progressivi impediranno di conservare intatta la memoria storica di eventi, anche importanti, in assenza di temperamenti ad un diritto che appare assoluto. Si sarebbe potuto fare di più e di meglio, ad esempio, diversificare le regole, a seconda del mezzo, eliminare la norma sulla responsabilità del direttore, se è noto l’autore, fissare regole più stringenti per i risarcimenti da lite temeraria, modulare meglio la rettifica, consentendo una maggiore libertà di scelta e la facoltà di replicare, quando appaia inevitabile e prevedendone la collocazione in uno spazio convenzionale. A questo punto, essendo inutile recriminare o dare suggerimenti, che rimangono inascoltati, c’è solo da sperare che questa legge, così com’è, non veda mai la luce. Giustizia: caso Daniele Franceschi; Cira Antignano "mamme continuate a lottare…" Ansa, 31 ottobre 2014 Non si arrende Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, il giovane viareggino morto nel carcere di Grasse in Francia il 25 agosto 2010. E una volta tornata a casa lancia un appello affinché tutte le mamme che hanno dei figli in carcere "continuino a lottare" perché episodi come quelli capitati a suo figlio non si verifichino mai più. "La condanna per il medico e l’infermiera francesi del carcere sono state lievi, rispetto a quello che avrebbero meritato, non faranno neppure un giorno in carcere e quello che spero è che non mettano piede in un carcere, perché hanno dimostrato di non avere una coscienza. I giudici francesi devono convincersi che rivoglio gli organi di Daniele e tornerò in Francia per questo. Me li hanno promessi, perché non li hanno ancora restituiti? Lotterò fino in fondo per averli, questo lo devono sapere". La città di Viareggio le è stata vicina durante questi quattro anni. "Ringrazio tutti coloro che sono venuti anche in Francia e chi in questi anni mi ha aiutato e mi è stato vicino lottando per dare giustizia a Daniele. Il fatto che anche se con una pena minima siano stati riconosciuti due colpevoli è un fatto importante, specialmente per un Paese come la Francia, ma andrò avanti fino a quando non torneranno a Viareggio gli organi di Daniele". Lettere: le parole di Papa Francesco contro il regime carcerario del 41-bis… di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2014 Dopo le parole del Santo Padre Francesco contro il regime carcerario del 41-bis, che ha dichiarato essere di fatto una tortura, che sviluppa paranoia, depressione e instabilità psichica, ricordo che dichiarazioni molto simili da parte mia contro il 41-bis e anche una presa di posizione in tal senso del sindaco di Milano Pisapia vennero pubblicate nel 2007 su El Pais. Allora parlare contro il 41-bis significava essere accusati di collusione con mafia, terrorismo, criminalità organizzata e abbiamo pagato tanto per aver detto che il 41-bis era ed è una forma di tortura. Gravi conseguenze ho avuto, essendo allora anche presidente di un ente regionale, per aver preso parte a L’Aquila nel 2008 ad una manifestazione contro il 41-bis. Ora le parole del Papa danno linfa ad una battaglia per il rispetto dei diritti umani e forse consentono finalmente di aprire una riflessione su questo argomento. Papa Francesco sta aprendo dei spiragli di approfondimento su questioni delicate impensabili. Gli va riconosciuto un grande coraggio e una grande sensibilità per la persona. Lettere: la riforma della Giustizia secondo i detenuti della Casa circondariale di Locri di Michele Caccamo Il Garantista, 31 ottobre 2014 Spunti e proposte per una detenzione a misura di essere umano. "in ogni prigione ci deve essere un garante". I detenuti reclusi nel carcere calabrese di Locri hanno deciso di contribuire, dal basso, alla riforma della giustizia e del sistema penitenziario. Da una sessione di scrittura creativa condotta da Michele Caccamo, poeta e scrittore contemporaneo, detenuto in attesa di giudizio dal Maggio del 2013, è emersa un’approfondita analisi sulla condizione carceraria che potrebbe essere lo spunto per un’assertiva quanto efficiente riforma della giustizia. Come dire: "Ascoltate la voce di chi vive quotidianamente la condizione carceraria sulla propria pelle, ascoltate chi sa, da dentro evidenziare i punti di intervento oggettivamente necessari per stabilizzare la riforma carceraria su una dimensione umana e necessaria alla riabilitazione alla vita, intendendo il carcere come percorso riabilitativo e non pedissequamente punitivo. In carcere in aggiunta ci sono anche uomini innocenti in attesa di giudizio, uomini di cultura e di onestà intellettuale che resistono a questo incubo per amore della vita, della libertà e della giustizia". Qui di seguito la lettera aperta pervenuta al "Garantista". Abbiamo deciso di parlarvi di riforma della giustizia con una lettera aperta che viene da dentro, da dentro le nostre celle, da dentro le nostre anime, giusto per dire la nostra e dare il nostro contributo etico sullo stallo della Riforma della Giustizia. Abbiamo individuato 10 punti che modificherebbero l’attuale condizione carceraria, ridurrebbero il sovraffollamento e renderebbero il futuro dei detenuti illuminato dalla speranza con un presente meno deprimente. Un testo di riforma discusso e condiviso dai detenuti del carcere di Locri durante uno dei miei laboratori di scrittura e lettura. Un atto dimostrativo per chiedere attenzione e interesse sulle aspettative di vita della popolazione carceraria. Nulla di provocatorio sia ben chiaro, ma proposte autentiche elaborate con senso di civiltà, di rispetto, di evoluzione; nessun privilegio richiesto ma dì più il riconoscimento umano. Ecco dunque i 10 punti, cosi riepilogati: 1) sul garante per i diritti 2) sulla carcerazione 3) sull’uguaglianza della legge 4) sull’interrogatorio di garanzia 5) sulla custodia cautelare 6) sulla certezza del reato 7) sulle indagini 8) sull’ergastolo 9) sul recupero dei detenuti e sull’idoneità delle strutture 10) sul reinserimento Nel dettaglio 1) Sul garante per i diritti anacronisticamente e volutamente messo per primo (ovvero segue in linea temporale ad altri punti ma per noi è tra i più problemi più sentiti da risolvere). Ogni istituto penitenziario dovrà avere in organico un garante per i diritti dei detenuti. La durata di ogni nomina è quinquennale. Il nominativo del garante verrà indicato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ricadente nella Procura interessata. Non sono dei comandamenti questi, seppur dieci, piuttosto sono delle indicazioni che spero qualcuno sposi, migliorandole come è naturale. In colla non abbiamo manuali né codici civili e qualcosa apparirà straordinaria. Fatene spunto di partenza, ciò che importa è che alla popolazione carceraria venga data la possibilità di rinascere e di ricredersi. Non abbiamo volutamente toccato l’argomento "responsabilità civile" per etica, perché non tocca a noi stabilire né proporre soluzioni che comunque sono indispensabili per evitare che continui lo sproposito giustizialista. Sui rapporti con gli affetti più immediati ci affidiamo alla sensibilità del governo: 6 ore al mese, per custodire e curare i legami familiari sono, non solo, poche ma umilianti sia per il detenuto che per i parenti. 2) Sulla carcerazione. È stabilito che sia le condanne che i residui di pena fino a un massimo di anni 5 andranno scontati attraverso prestazioni lavorative e/o attività sociali e/o di volontariato. Per le prestazioni lavorative presso privati è necessaria l’assunzione di responsabilità da pare dei titolari o degli amministratori. La legge ha attuazione automatica e non necessita di ulteriore approvazione, per la concessione del beneficio, da parte di organi giudiziari. 3) Sull’uguaglianza della legge. È istituita una commissione per l’equivalenza applicativa della legge nell’intero territorio nazionale. La commissione ha durata quinquennale ed è composta da magistrati in pensione. Ci si può rivolgere alla Commissione nel caso una sentenza venga giudicata, dall’imputato, in disarmonia con altre sentenze, riguardanti lo stesso reato o equivalenti, emesse dalle Procure Italiane. La commissione dovrà rappresentare l’intero territorio nazionale: Nord-Centro-Sud (di seguito nominato N.C.S.) 4) Sull’interrogatorio di garanzia. L’interrogatorio di garanzia di un imputato dovrà svolgersi alla presenza del Gip procedente coadiuvato da altri due magistrati collegati in video conferenza. La triade dovrà rappresentare l’intero territorio nazionale N.C.S. 5) Sulla custodia cautelare. È stabilito che i termini massimi previsti per la custodia cautelare siano i seguenti: 1 mese per pena massima prevista in anni 5; 2 mesi per pena massima prevista in anni 8; 3 mesi per pena massima prevista in anni 12; 4 mesi per pena massima prevista in anni 15; 5 mesi per pena massima prevista in anni 20; 6 mesi per pena massima prevista in anni 25; 7 mesi per pena massima prevista in anni 30. Sono esclusi dal provvedimento i reati di associazione mafiosa, strage, bande armate, pedofilia. Per questi ultimi, i termini di custodia cautelare hanno una durata massima di 3 anni. E detto che nel termine di 3 anni dovrà avvenire lo svolgimento del processo nelle tre fasi previste. La disattenzione di quanto disposto produrrà la scadenza termini. 6) Sulla certezza del reato. È chiarito che il reato si costituisco con l’acquisizione di prove evidenti riscontrate e inconfutabili. 7) Sulle indagini. Il Pubblico Ministero procedente ha l’obbligo di avviare due distinte indagini, contemporanee e parallele, affidandole a due differenti corpi della Polizia Giudiziaria, ciò al fine di giungere a una coincidenza delle prove o alla loro discordanza. Senza una piena e perfetta consonanza delle prove raccolte non si potrà procedere alla richiesta dì ordinanza custodiale. 8) Sull’ergastolo. Verrà abolita la pena all’ergastolo e verrà stabilito che tutte le condanne, già emesse in ergastolo, verranno commutate in pena di anni 30 di carcere. 9) Sul recupero dei detenuti e sull’idoneità strutturale delle carceri. I detenuti che conseguiranno titoli di studio durante il periodo dì carcerazione usufruiranno dei seguenti sconti di pena: licenza elementare mesi 3; attestato di formazione professionale mesi 6; licenza media mesi 12; diploma media superiore mesi 18; laurea triennale mesi 36; laurea master mesi 48. È stabilito che vengano dichiarate inidonee tutte le strutture che non abbiano al loro interno i luoghi e le caratteristiche necessarie al reinserimento ed al recupero dei detenuti: aule, laboratori tecnici, biblioteca, sala di socializzazione, palestra e cineteatro. 10) Sul reinserimento. È stabilito che potranno essere assegnati i terreni confiscati e/o di proprietà dello stato e/o di enti periferici a quelle cooperative e/o società composte da ex detenuti. Ad ogni cooperativa e/o società assegnataria verrà affidato uno o più tutor a seconda delle dimensioni della stessa, reclutati tra gli organi della Polizia Giudiziaria, per un tempo massimo di anni 5. Ad ogni cooperativa e/o società assegnataria verrà concesso un finanziamento, sull’importo calcolato del business plan, pari al 50% a fondo perduto ed il restante 50% a tasso agevolato da Istituti Bancari convenzionati. Lettere: mio marito, 'ndranghetista per sempre… ma è innocente anche per la legge di Yvone Graf Il Garantista, 31 ottobre 2014 Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. - all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia , affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ‘96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ‘98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito. Emilia Romagna: Tribunale Sorveglianza chiede magistrati per Modena e Reggio Emilia Ansa, 31 ottobre 2014 Il presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna Francesco Maisto, in una lettera al presidente della Corte Appello, chiede l’applicazione di un magistrato per l’ufficio di Sorveglianza di Modena e di un magistrato da destinare all’ufficio di Reggio Emilia. "Ho il dovere di sottoporre alla sua attenzione - scrive Maisto - la grave situazione in cui versano da mesi" i due uffici "con conseguenti ripercussioni su tutto il tribunale di Sorveglianza di Bologna". L’unico posto in organico a Modena è infatti scoperto al 30 giugno e si procede alle applicazioni con il magistrato di Reggio Emilia (dove i magistrati sono due e c’è una scopertura del 50%) e quindi si provvede con un magistrato dell’ufficio di Bologna. Inoltre il concorso per il posto a Modena non risulta bandito e quello per Reggio sembra inevaso: "il tempo di copertura dei due posti si prospetta come lontano". Maisto fa notare come "i casi di incompatibilità sono sempre più frequenti e il carico di lavoro di tutti i magistrati in servizio appare intollerabile". Al tribunale di Sorveglianza sono infatti 3.604 i nuovi procedimenti, con un aumento delle pendenze a 5.424, a Modena sono 3.936 con 1.110 pendenze, a Reggio sono 5.854 con 3.395 pendenze, all’ufficio di Bologna, 1.476 i procedimenti, 4.893 le pendenze. Le recenti leggi approvate, infine "non solo hanno risposto a legittime aspettative dei condannati (e loro difensori), ma hanno imposto anche precisi obblighi di decisioni in tempi rapidi", che in questa situazione sono estremamente difficili da avere. Gorizia: i Radicali denunciano ritardi nella ristrutturazione del carcere di Emanuela Masseria Messaggero Veneto, 31 ottobre 2014 Non ci sono problemi di sovraffollamento, ma rimane inadeguata la situazione per i detenuti e i dipendenti del carcere di Gorizia, secondo una delegazione dei Radicali ricevuta ieri nello stabile in via Barzellini. A fare un quadro esatto sono stati Marco Perduca e Michele Migliori dell’associazione "Trasparenza è partecipazione" di Gorizia, che hanno vagliato i lavori di ristrutturazione e le condizioni di vita dei 12 detenuti (7 italiani, 5 stranieri). Di questi, 8 scontano una sentenza definitiva, gli altri sono in attesa di giudizio. Nelle prossime settimane per tutti loro saranno riaperte le aree oggetto del primo lotto dei lavori, che porteranno il carcere alla capienza massima di 60 detenuti. Saranno chiuse, però, delle celle, per permettere gli adeguamenti necessari. Un’altra conseguenza è che saranno ridistribuite le zone dedicate ai servizi e alle attività giornaliere. Per il secondo lotto, però. "bisognerà appena individuare la ditta, con conseguente incertezza dei tempi di realizzazione". Un’altra criticità è costituita dal fatto che, per le 9 ore al giorno in cui le porte delle celle sono aperte, esiste solo un corridoio dove poterle passare. Inoltre - riporta Perduca, manca un giardino esterno. La delegazione segnala che non sono previste attività di inserimento al lavoro per i detenuti. Insufficiente poi, il personale in servizio. "Si tratta di 39 persone, per un organico previsto di 43, suddivise in più turni. La direttrice è una, anche per Udine, e manca un provveditore della carceri per il Triveneto. Altre problematiche che sono poi il riflesso della mancata e corretta applicazione di recenti norme nazionali". I dati raccolti nel monitoraggio saranno ora inviati ai parlamentari e al Comitato europeo del ministri per i diritti umani. Le carceri italiane sono infatti sotto osservazione in particolare dopo la violazione dell’articolo 3 del codice della Corte europea dei diritti umani. Caserta: i referenti provinciali e nazionali del Sappe in visita alle carceri della provincia Gazzetta di Caserta, 31 ottobre 2014 Ha toccato il carcere di Santa Maria Capua Vetere, Carinola e la scuola penitenziaria di Aversa la visita del segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) Donato Capece che - insieme al segretario nazionale Emilio Fattorello ed ai responsabili locali della sigla sindacale - stileranno un rapporto sull’attuale stato del mondo carcerario campano. Dopo aver ottenuto le assicurazioni di rinforzi e risoluzioni di criticità, Capece ha fatto nuovamente visita nel penitenziario sammaritano così come annunciato nei giorni scorsi per un ulteriore approfondimento. Lo screening prevede anche un incontro con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Regione Campania, Tommaso Contestabile, al quale saranno rappresentate eventuali ed ulteriori richieste. Intanto, con le richieste avanzate le scorse settimane, è stato assicurato al penitenziario di Santa Maria Capua Vetere un rinforzo di personale di polizia penitenziaria, la risoluzione di alcune criticità interne e la liquidazione di missioni e straordinari. La situazione del personale era stata richiamata nei giorni scorsi a seguito dell’aggressione ad un agente da parte di un detenuto violento. Il penitenziario sammaritano dunque, sarà dotato di altre 21 unità dì personale distaccate dalla regione, altre 5 verranno recuperate dalla chiusura di una postazione interna chiusa mentre sono state assicurate coperture finanziarie per straordinari e missioni del Nucleo traduzioni fino al 30 settembre. Ci saranno anche interventi su alcune criticità della mensa del personale e sarà riorganizzato il lavoro del personale e, infine, dal Provveditorato è arrivata anche la notizia della volontà dell’amministrazione centrale di incrementare l’organico dell’istituto e la predisposizione del decreto per rendere il penitenziario sammaritano di prima fascia come da sempre richiesto dal Sappe. Airola (Bn): formazione ai detenuti dell’Ipm, dopo la pena sarà utile per un lavoro Otto Pagine, 31 ottobre 2014 La Regione investe 5 milioni di euro per le strutture. D’Angelo: "Giunta Caldoro impegnata per il reinserimento sociale post pena". Cinque milioni di euro della Regione Campania per gli istituti di pena per promuovere corsi di formazione per 1850 detenuti. L’assessore alle Polìtiche sociali della Regione Campania, Bianca D’Angelo, evidenzia così l’impegno dell’amministrazione Caldoro per il "pianeta carcere", dove l’utilizzo di corsi di formazione e di aggiornamento professionale sono utili perchè i detenuti, adulti o giovani, possano, una volta scontata la pena, trovare un’occupazione. Il dato è stato reso noto in occasione della conferenza stampa, svoltasi a Napoli sul tema "Airola sport, spettacolo & sociale", un’iniziativa promossa dall’Associazione Scugnizzi. "Il progetto illustrato con la promessa di assunzione di un minore che ha lasciato l’area penale e verrà inserito nel mondo del lavoro grazie all’impegno di una nota azienda - ha aggiunto l’assessore - prova in concreto che esiste in Campania un modello di welfare inclusivo e produttivo". "Sul reinserimento sociale continueremo a lavorare con costanza ed intensità", ha concluso l’assessore. All’incontro hanno partecipato Antonio Franco, presidente Associazione Scugnizzi, Giuseppe Centomani (dirigente Giustizia minorile in Campania), Antonio Di Lauro (direttore Istituto penitenziario minorile Airola) e Luigi Snichelotto (amministratore società Mc Donald’s di Salerno). Roma: Tidei (Pd); trovare soluzioni per carenza personale nelle carceri di Civitavecchia www.trcgiornale.it, 31 ottobre 2014 "Vista la carenza di personale nei due istituti penitenziari di Civitavecchia, quello di via Aurelia e quello di via Tarquinia, chiediamo al ministro della Giustizia Andrea Orlando di valutare l’assegnazione di 10 vice ispettori e 2 commissari alla luce della prossima immissione in ruolo di 271 nuovi vice ispettori". Lo dichiara, in una nota, la deputata del Pd Marietta Tidei, che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia in commissione Attività Produttive alla Camera. "La situazione dei due penitenziari, come ha messo in evidenza anche la Cgil Funzione pubblica - afferma Marietta Tidei - è ormai al collasso: il lavoro aumenta, ma non c’è un adeguato incremento di personale di polizia penitenziaria. Le carenze di personale riguardano in particolare le figure dei sovrintendenti degli ispettori e dei commissari: dalle piante organiche stabilite in totale autonomia dall’amministrazione penitenziaria centrale risulta che negli istituti cittadini opera circa il 50% del personale previsto da questi due ruoli. La conseguenza di questa carenza di organico - aggiunge la deputata del Pd - è che la qualità del servizio si abbassa e viene chiesto al personale del ruolo agenti-assistenti di svolgere mansioni superiori senza aver svolto un’adeguata formazione professionale. Auspichiamo che il ministro Orlando dia risposte certe e rassicuranti". Torino: Sappe; sventata un’evasione "vecchio stile" dal carcere Lorusso e Cotugno La Repubblica, 31 ottobre 2014 L’uomo, detenuto nel carcere "Lorusso e Cotugno", ha di fronte a sé ancora 12 anni di reclusione: aveva già tagliato le sbarre della finestra e la grata al di sotto quando è stato scoperto. La denuncia del sindacato degli agenti Sappe: "Tensione crescente". Ha tentato di evadere, coi metodi di una volta, dal carcere "Lorusso e Cotugno" di Torino, alle Vallette, ma è stato scoperto dai poliziotti penitenziari. È accaduto questa mattina e a darne notizia è il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe: "Nella mattinata, presso la Casa circondariale di Torino - racconta Donato Capece, segretario generale del Sappe - al Padiglione della decima sezione a regime ordinario, un detenuto italiano con fine pena fissato al 2026 è stato sorpreso dal personale di polizia penitenziaria mentre con alcuni seghetti aveva tagliato le sbarre e la grata sottostante della finestra della propria cella". Il Sappe denuncia come "quelli di oggi nel carcere di Torino siano stati momenti di grande tensione e la possibile evasione è stata sventata dall’ottimo intervento degli agenti di Polizia penitenziaria. Avevamo diffuso la scorsa settimana, in occasione della nostre visite in alcune carceri piemontesi tra le quali proprio Torino, il numero degli eventi critici accaduti nei penitenziari regionali nel primo semestre dell’anno. E anche la tentata evasione conferma che le tensioni sono costanti". Capece sottolinea, in conclusione, le "criticità penitenziarie" in tutto il Paese: "Nei 206 istituti penitenziari italiani, nel primo semestre del 2014, si sono registrati 3.633 atti di autolesionismo, 481 tentati suicidi, 1.609 colluttazioni e 444 ferimenti: 3.530 sono stati i detenuti protagonisti di sciopero della fame, mentre purtroppo 20 sono i morti per suicidio e 30 per cause naturali". Libri: manicomi e repressione in "I matti del Duce" di Matteo Petracci Adnkronos, 31 ottobre 2014 Mania politica, schizofrenia, paranoia, isterismo, distimia, depressione. Sono queste le diagnosi che compaiono nei documenti di polizia o nelle cartelle cliniche intestate agli oppositori politici rinchiusi in manicomio negli anni del fascismo. Diagnosi più che sufficienti a motivare la segregazione per lunghi anni o per tutta la vita. A indagare sull’uso della psichiatria come arma politica in quel periodo storico è il volume "I matti del Duce - Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista" (Donzelli Editore) di Matteo Petracci. Quali ragioni medico scientifiche hanno giustificato l’internamento psichiatrico di quei pazienti? Quali, invece, le ragioni dettate dalla politica del regime contro il dissenso e l’anticonformismo sociale? Molto si è scritto rispetto all’esperienza degli antifascisti in carcere o al confino, ma la possibilità che il regime abbia utilizzato anche l’internamento psichiatrico come strumento di repressione politica resta ancora poco indagata. Attraverso carte di polizia e giudiziarie, testimonianze e relazioni mediche e psichiatriche contenute nelle cartelle cliniche, Petracci ricostruisce i diversi percorsi che hanno condotto gli antifascisti in manicomio. Alcuni antifascisti furono ricoverati d’urgenza secondo le procedure previste dalla legge del 1904 sui manicomi e gli alienati; altri vennero internati ai fini dell’osservazione psichiatrica giudiziaria o come misura di sicurezza; altri ancora furono trasferiti in manicomio quando già si trovavano in carcere e al confino. Dall’analisi degli intrecci tra ragioni politiche e ragioni di ordine medico emerge con forza il ruolo giocato dalla sovrapposizione tra scienza e politica nella segregazione di centinaia di donne e di uomini, tutti accomunati dall’essere stati schedati come oppositori del fascismo. Matteo Petracci è dottore di ricerca in Storia, politica e istituzioni dell’area euro-mediterranea nell’età contemporanea presso l’Università di Macerata; ha pubblicato "Pochissimi inevitabili bastardi. L’opposizione dei maceratesi al fascismo" (Il Lavoro Editoriale, 2009). Isil: Human Rights Watch; a Mossul esecuzione di massa di 600 detenuti a giugno La Presse, 31 ottobre 2014 A giugno scorso lo Stato islamico (ex Isil) ha ucciso circa 600 detenuti sciiti uomini della prigione di Badoosh vicino Mossul, la seconda città più grande dell’Iraq. È quanto denuncia Human Rights Watch (Hrw), spiegando che i detenuti sono stati costretti in massa a inginocchiarsi sull’orlo di un burrone e poi sono stati uccisi a colpi di armi automatiche. La ricostruzione dei fatti fornita da Hrw si fonda su interviste fatte ai sopravvissuti. Secondo quanto riporta Human Rights Watch, i prigionieri sciiti sono stati separati da diverse centinaia di sunniti e da un piccolo numero di cristiani, che invece in un secondo momento sono stati liberati. Sempre a giugno scorso lo Stato islamico annunciò di avere compiuto "esecuzioni" su circa 1.700 soldati e personale militare catturati a Camp Speicher, fuori Tikrit. Tra i prigionieri uccisi c'erano anche alcuni curdi e yazidi, riferiscono ancora i 15 sopravvissuti intervistati. I detenuti si trovavano in carcere per vari tipi di reati, da omicidio ad aggressione a reati non legati alla violenza. Prima di separare i gruppi, i militanti hanno caricato fino a 1.500 persone su alcuni furgoni e li hanno portati in una zona di deserto isolata a circa due chilometri dalla prigione. Poi, dopo avere portato via diverse centinaia di persone dai furgoni, hanno costretto gli sciiti a mettersi in fila lungo il ciglio del dirupo e li hanno contati ad alta voce prima di sparare colpi di armi automatiche. "Un proiettile mi ha colpito la testa e sono caduto a terra, a quel punto ho sentito un altro proiettile colpirmi il braccio", racconta uno dei sopravvissuti. "Sono rimasto in stato di incoscienza per cinque minuti, una persona davanti a me è stata colpita alla testa e il proiettile è passato dall'altra parte, è caduto davanti a me", ricorda. I prigionieri sopravvissuti sono fra 30 e 40, la maggior parte dei quali sono rotolati giù nella valle fingendo di essere morti o si sono riparati in mezzo ai corpi degli altri detenuti. Iran: reporter Washington Post in carcere, appello famiglia per liberazione Aki, 31 ottobre 2014 Jason Rezaian è in prigione da 100 giorni senza un’accusa. Una lettera aperta alle autorità di Teheran affinché liberino il giornalista del Washington Post, Jason Rezaian, è stata scritta dai familiari del giornalista, in prigione da 100 giorni senza un’accusa precisa. Nella lettera il fratello del reporter, Ali, e la madre, Mary Breme, hanno denunciato come Rezaian sia tenuto in cella di isolamento nel famigerato carcere di Evin, dove sono rinchiusi criminali comuni, dissidenti, intellettuali e giornalisti. Il reporter, arrestato insieme alla moglie e a un’altra coppia in circostanze ancora poco chiare, finora non ha potuto avvalersi di un avvocato perché contro di lui non è stata mossa alcuna accusa formale. "Se l’Iran avesse qualche prova contro Jason, perché allora non la comunicano", hanno scritto i familiari nella lettera, nella quale chiedono alle autorità di permettere al giornalista di Washington Post di nominare un avvocato. "Dopo 100 giorni - prosegue la lettera - è arrivato il momento per l’Iran di riconoscere l’innocenza di Jason e scarcerarlo". Rezaian, 38 anni, è il corrispondente del Washington Post da Teheran. Ha doppia cittadinanza, iraniana e statunitense. Nelle scorse settimane il dipartimento di Stato ne ha invocato il rilascio, chiedendo al corpo diplomatico della Svizzera, paese che cura gli interessi degli Usa nella Repubblica islamica, di accertare le sue condizioni di salute. Ma l’Iran non ha riconosciuto la cittadinanza americana del giornalista e ha respinto ogni intervento di Washington sul caso. Il reporter è stato arrestato insieme alla moglie, Yeganeh Salehi, anch’essa giornalista, il 22 luglio, insieme ad un’altra coppia. Tutti, ad eccezione di Rezaian, che ha bisogno di sottoporsi quotidianamente a cure mediche, sono stati rilasciati. La moglie è uscita dal carcere questo mese dietro pagamento di una cauzione. Sull’arresto di Rezaian è intervenuto nelle scorse ore Mohammed Javad Larijani, il capo del consiglio per i diritti umani della magistratura iraniana, intervistato dalla Cnn. "Purtroppo, (il giornalista e le altre tre persone arrestate, ndr) sono rimasti coinvolti in attività che la nostra sicurezza ritiene con certezza che vadano oltre il giornalismo", ha dichiarato Larijani. Il responsabile iraniano ha infine sottolineato che le accuse contro Rezaian saranno rivelate durante il processo, aggiungendo che il giornalista e gli altri avranno "ampia opportunità di difendersi". Kuwait: insulti a giudici su twitter, blogger condannato a 4 anni di carcere Aki, 31 ottobre 2014 Un blogger è stato condannato in primo grado a quattro anni di carcere in Kuwait con l’accusa di aver "insultato" su Twitter la magistratura del Paese del Golfo. Ahmad Fadhel, che era stato denunciato da alcuni giudici, potrà presentare ricorso contro la sentenza. Decine di utenti di Twitter sono stati condannati in Kuwait a pene detentive con l’accusa di aver "offeso" l’emiro, che per la Costituzione è "inviolabile". Lo scorso maggio la Corte d’Appello di Kuwait City ha confermato la condanna a due anni di carcere nei confronti dell’attivista e giornalista Ayyad al-Harbi accusato di aver "insultato" l’emiro Sabah al-Ahmad al-Sabah con messaggi inseriti sul sito di micro-blogging. Egitto: 13 sostenitori di Morsi condannati a pene detentive per proteste Aki, 31 ottobre 2014 Tredici sostenitori del presidente egiziano deposto Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani sono stati condannati da un tribunale egiziano a pene detentive che vanno dai tre a i 15 anni. Un tribunale della provincia di Sharqiya, come riferito da fonti della magistratura egiziana all’agenzia di stampa Anadolu, ha condannato un uomo a 15 anni di carcere e altri 12 a tre anni di prigione con l’accusa di aver avuto un ruolo nelle violenze esplose nel Paese a seguito della destituzione di Morsi nel luglio del 2013. Altre tre persone, secondo le fonti, sono state prosciolte da ogni accusa. Centinaia di sostenitori di Morsi e dei Fratelli Musulmani, dichiarati "organizzazione terroristica" dalle autorità del Cairo, sono stati arrestati negli ultimi mesi con diverse accuse.