Giustizia: il Governo chiede nuova proroga per chiusura Ospedali Psichiatrici Giudiziari Adnkronos, 30 ottobre 2014 È irrealistico pensare di chiudere gli Ospedali Psichiatrici giudiziari entro il 15 marzo 2015, come previsto dal decreto legge approvato nel marzo scorso. Servirà quindi un’ulteriore proroga. A lanciare l’allarme è la relazione sul Programma di superamento degli Opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre. "Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute - si legge nel documento - appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data. In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg". Già l’ultima proroga decisa aveva sollevato reazioni, in particolare quella del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso "estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli". Il Capo dello Stato aveva comunque "accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale". Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che "il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, ad eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale". La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, "tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale". "Le misure normative di semplificazione appaiono necessarie in quanto l’iter procedurale richiesto per la progettazione e la realizzazione delle strutture si distanzia notevolmente dai termini previsti dalle precedenti proroghe". "Fermi restando i profili di sicurezza, il presupposto sostanziale perché questo percorso politico e amministrativo prosegua - sottolinea ancora la relazione ministeriale - è la maturazione di una nuova cultura, un nuovo modo di guardare alla chiusura degli Opg e delle problematiche connesse, una attenzione qualificata degli attori politici e dei mezzi di informazione. Si cercherà di lavorare con interventi volti a contrastare il pregiudizio nei confronti dei soggetti affetti da malattia mentale, pur se autori di fatti costituenti gravi reati". Dopo l’approvazione del decreto del marzo scorso, spiega ancora la relazione trasmessa al Parlamento, "si è rilevata una leggera ma costante diminuzione delle presenze" negli Opg, "che alla data del 9 settembre 2014 vede 793 internati presenti a fronte degli 880 alla data del 31 gennaio 2014. Questo dato va comparato con quello dei flussi degli ingressi che nell’arco di un trimestre si è valutato attestarsi mediamente intorno a circa 10 pazienti per ciascun Opg, per un totale di 67 persone a trimestre". Nel periodo che va dal primo giugno 2014 (dopo la conversione in legge del decreto), al 9 settembre 2014 si è avuto l’ingresso di 84 persone". Attualmente gli ospedali psichiatrici giudiziari sono 6: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo fiorentino, Napoli, Reggio Emilia. Giustizia: il 1992 fu un anno di giustizia sommaria… come fanno a dimenticarsene? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 30 ottobre 2014 E proprio una storia di patacche e pataccari quella del circo equestre giudiziario che, imbarcatosi a Palermo, si è spinto fino alle stanze del Quirinale a celebrare il trionfo degli storiografi della "trattativa Stato-mafia". Ma per fare gli storiografi bisogna conoscere la storia, o perché la si è vissuta o perché la si è studiata. Se si è invece spacciatori di patacche, si vendono solo fandonie, addomesticando la realtà a proprio piacimento. Il succo della patacca "trattativa Stato-mafia" racconta che nel biennio 1992-93 i vertici dello Stato (presidente della Repubblica, ministri degli Interni e della Giustizia, presidenti di Camera e Senato) minacciati di morte e ricattati dalla mafia, decisero di salvare la propria vita e di sacrificare quella di magistrati e di cittadini innocenti. La mafia avrebbe così cambiato la direzione degli attentati, spostandoli dai palazzi del potere ad altri obiettivi. E in che modo i vertici dello Stato avrebbero "pagato" il pizzo alla mafia? Eliminando dagli incarichi di potere i "duri", i repressori della criminalità organizzata, sostituendoli con persone più morbide e disponibili nei confronti della criminalità organizzata. Fino a non prorogare il provvedimento di carcere duro per un notevole gruppo di mafiosi. Qualunque testimone dell’epoca dovrebbe essere in grado di smentire la Grande Patacca, se tanta smemoratezza non avesse colpito i protagonisti del tempo. Spremiamo allora un po’ le meningi. Di garantisti ne circolavano ben pochi, in quegli anni, stretti come erano governi e parlamento tra il massacro (giudiziario e carcerario) di tangentopoli e quello cruento delle stragi di mafia. Tanto che provvedimenti spesso incostituzionali (come il decreto Scotti-Martelli) o autolesionistici (come l’abrogazione dell’immunità parlamentare) venivano votati a grande maggioranza e alla velocità delle luce. Così anche un ministro socialista come il guardasigilli Claudio Martelli divenne protagonista di leggi speciali e fautore del regime di 41-bis che introdusse un regime di vera tortura nei confronti di persone in attesa di giudizio (di cui la metà verrà assolta) nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Gli aspiranti storiografi pataccari hanno persino detto che Martelli a un certo punto si dimise (o addirittura fu fatto dimettere) per lasciare il posto al duttile Conso, più propenso a trattare con la mafia. Allora va precisato prima di tutto che il ministro socialista si dimise il 10 febbraio 1993 in seguito a una telefonata del procuratore capo di Milano Saverio Borrelli il quale gli comunicava di aver emesso nei suoi confronti un avviso di garanzia. In secondo luogo che il suo successore Conso non fu affatto più "morbido". Basterebbe agli apprendisti storiografi andare a leggere il resoconto dell’audizione del ministro alla commissione giustizia della Camera il 3 novembre del 1993, quando sostenne con forza l’uso indiscriminato dell’articolo 41-bis proprio perché, diceva, attraverso questa forma di repressione si otteneva più facilmente che i mafiosi "si pentissero". Certo, gli fu obiettato, sappiamo tutti che basta torturare per far parlare le persone. Che importa se magari inventano? L’altra Grande Patacca degli apprendisti storiografi è quella della sostituzione al vertice del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) del presidente Nicolò Amato, nel giugno 1993, con la coppia Capriotti-Di Maggio. Il dottor Amato fa torto a se stesso e alla propria storia di vero garantista dicendo di esser stato cacciato dalla mafia che avrebbe preferito Di Maggio perché più "morbido". Bisognerebbe chiederlo ai detenuti dell’epoca se ci fu morbidezza nel colloqui investigativi, inventati e santificati proprio da Di Maggio, che divennero il pentitificio e crearono mostri come Domenico Scarantino, il falso pentito dell’omicidio Borsellino. La verità è il contrario di quella raccontata da pataccari e travaglini. Amato non voleva i trasferimenti dei detenuti alle isole e aveva chiesto la revoca dei provvedimenti di 41-bis addirittura in un documento del 6 marzo 1993. Fu il presidente Scalfaro in persona a sollecitarne l’allontanamento per far spazio a quel Francesco Di Maggio che creò pentiti e patacche. Questi sono pezzetti di storia vissuta, cari apprendisti storiografi. Giustizia: il Csm; responsabilità civile dei magistrati? "quella legge non s’ha da fare" di Errico Novi Il Garantista, 30 ottobre 2014 Il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura vota il parere che stronca la riforma di Orlando. Zanettin: "toni corporativi". Nessuno se la prenderà con la Procura di Palermo, per dire, che è sbarcata al Quirinale manco fosse la Normandia. Nessuno, se pure passasse la legge sulla responsabilità civile dei giudici, potrebbe chiedere un risarcimento danni ai magistrati per aver violato la più alta istituzione della Repubblica. Eppure i giudici quella legge benedetta non la vogliono. Non ne vogliono neppure sentir parlare. Chi se ne importa so grazio alla scampagnata sul Colle ora Grillo può avere l’impudenza di cianciare sulla "ammissione di colpevolezza di Napolitano". D’altronde nel suo disegno di legge il ministro della Giustizia Andrea Orlando non prevede censura alcuna per eccentricità come la torchiatura del presidente della Repubblica. Niente di tutto questo. Ma non importa. Il plenum del Csm vota, e intima di non approvare comunque quella riforma. La cautela del Guardasigilli non è servita. Non ha scritto una legge severa. Al massimo dice che se un cittadino ravvisa in una decisione di un magistrato un errore dovuto a colpa grave di quest’ultimo, e se ne sente danneggiato, e vuole essere risarcito, ha il diritto di fare un’azione civile senza dover passare per il "filtro di ammissibilità". Devo poter fare causa senza problemi. E non al giudice, ma allo Stato. Poi lo Stato è obbligato a rivalersi sul giudice, è vero. Ma tanto non gli porta via un soldo. Perché al posto del magistrato pagherebbe l’assicurazione. Può essere descritto, un meccanismo simile, come una "violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura"? Molti dicono di no, a cominciare dal ministro Orlando. Il Csm dice di sì. E lo mette per iscritto nel parere approvato ieri sera, che recepisce gran parte della bozza di 50 pagine messa a punto la settimana scorsa in Sesta commissione. A preparare quel testo aveva provveduto il consigliere togato Piergiorgio Morosini. Insieme con un laico, a dire il vero. Renato Balduzzi, per la precisione, nominato rial Parlamento al Consiglio superiore della magistratura su indicazione di Scelta civica. Quella bozza era una lunga, implacabile stroncatura del disegno di legge presentato da Orlando. Nessuna pietà. Eppure cosa si proponeva, il ministro? Solo di rendere, come dire, meno ornamentale la disciplina preesistente, ossia la famosa legge Vassalli, del 1988. Figurarsi che cosa non si è detto, al Consiglio superiore, di quell’altro testo, molto più severo con le toghe, presentato a Palazzo Madama dal senatore Enrico Buemi. La repulsa verso l’ipotesi del parlamentare socialista è assoluta. Nel parere votato dal Csm se ne respinge soprattutto la pretesa di includere, tra gli errori di cui un magistrato può essere chiamato a rispondere, anche l’immotivato discostarsi da sentenze della Cassazione a sezioni unite. "Limita il giudice nell’interpretazione della legge", asseriscono i censori di Palazzo dei Marescialli. Si dà il caso però che il plenum con cui il Consiglio superiore ieri ha definitivamente stroncato il tentativo di riformare la responsabilità civile dei giudici non si sia svolto in un sereno clima da politburo delle toghe. Tra gli otto laici eletti dal Parlamento, almeno qualcuno sì è schierato contro. Si sono opposti fino all’ultimo i consiglieri indicati da Forza Italia, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Pierantonio Zanettin, e Antonio Leone di Ncd. Gli unici a non approvare il testo del plenum. Ha mandato giù "non senza qualche riserva" il consigliere eletto su scelta del Pd Giuseppe Fanfani. Inevitabile il sì del vicepresidente indicato sempre dal partito di Renzi, Giovanni Legnini. Alla fine il parere negativo con cui il Csm boccia i due testi di riforma della responsabilità civile è passato a larga maggioranza. Seppure in una forma un po’ attenuata, in alcuni passaggi, rispetto a quella messa a punto dalla Sesta commissione. Non che cambi chissà cosa, ora. Il Parlamento ha il diritto di andare avanti, nonostante il Consiglio superiore sia contrario. D’altra parte le tensioni registrate ieri sera non sono da sottovalutare. La discussione è stata aspra. Tanto da prolungare la seduta fin quasi alle nove di sera. Ma la bordata arriva anche un po’ a tradimento. Poche ore prima il guardasigilli Orlando, in un’intervista al Sole-24 Ore, aveva sì ribadito come sia giuso che un magistrato, se sbaglia, "paghi", come ogni altro cittadino. Ma aveva anche riconosciuto la necessità dì tener conto "del ruolo che svolge il giudice". Ma niente, alle toglie non basta. E proprio mente il plenum del Csm inizia, il presidente dell’Associazione magistrati detta la linea: la riforma della responsabilità civile è "inaccettabile", "viola i principi costituzionali". Tanto per chiarire ai togati di "votare bene". E l’inefficacia della legge Vassalli? E la presa in giro di quella normativa che, varata sulla scorta di un referendum, ha partorito in 26 anni appena una sola, misera rivalsa dello Stato sul giudice colpevole? Niente. Su questo niente. "Ma è lì il problema. Quello che manca nel testo votato dal plenum è il pur minimo accenno critico sulla legge Vassalli", spiega incredulo il consigliere laico Zanettin. "È venuta fuori una posizione irriducibilmente conservativa, poco incline a una riforma che sia tale. 1 toni dei togati sono corporativi, sindacali. I numeri ci dicono che la Vassalli non funziona, ma con questo testo dì fatto il Csm chiede dì lasciarla com’è". E non c’è da meravigliarsi. Il laico Zanettin si abituerà presto. Giustizia: caro Csm, ce lo chiede l’Europa… non parlare di "attacco alla magistratura" di Rinaldo Romanelli (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 30 ottobre 2014 II Csm, in vista della prossima discussione al Senato del testo di riforma della responsabilità civile dei magistrati, ha lasciato filtrare attraverso la stampa le prime indiscrezioni sulla bozza di parere elaborata dalla sesta commissione, che sarà discussa in plenum oggi. Vista la generale reazione negativa del mondo politico e di chiunque a vario titolo si occupi di giustizia, all’evidente ed insostenibile difesa corporativa messa in atto da palazzo dei Marescialli, il Vice Presidente Legnini è intervenuto per lamentare letture "un po’ forzate" e ribadire che la posizione ufficiale sarà resa nota solo dopo la riunione del Csm. C’è da augurarsi che tale posizione si discosti fortemente da quella che è stata fatta filtrare alla stampa, che ha dipinto il ddl sulla responsabilità civile dei magistrati come un grave attacco alla loro indipendenza. Non è in atto alcun attacco all’ordine giudiziario e chi voglia ricondurre in questa fuorviante prospettiva il tema del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e della responsabilità civile dei magistrati, lo fa per difendere posizioni di privilegio a scapito della tutela dei diritti dei cittadini. Le giurisprudenza elaborata dalla Corte di Giustizia Ue espressa già a partire dal 2003 e ribadita nel 2011, a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea, ha affermato con adamantina chiarezza che l’attività giudiziaria di interpretazione di norme giuridiche e di valutazione di fatti e prove non può essere esclusa dall’alveo della responsabilità civile dello Stato. Data la delicatezza delle funzioni giudiziarie, la violazione di legge determina la risarcibilità del danno solo qualora sia "manifesta" e l’erronea valutazione dei fatti e delle prove solo quando degeneri nel "travisamento". Si tratta dell’affermazione di un fondamentale principio di diritto, destinato ad operare in tutta l’Unione Europea. Allo stesso modo, gli alti magistrati europei hanno chiarito che il filtro di ammissibilità dell’azione e l’orientamento estremamente restrittivo espresso dalla Suprema Corte di Cassazione, hanno reso del tutto ineffettiva la vigente disciplina sulla responsabilità civile delle toghe (nel decennio 2005/2014 vi sono state solo nove condanne a carico dello Stato, con una liquidazione media di importi pari a circa 54.000,00 euro). Posto che, col disegno di legge elaborato in materia, il Governo ha avuto cura di tradurre letteralmente nel testo normativo i passaggi fondamentali esposti dalla Corte di Giustizia, pare del tutto fuori luogo ipotizzare che qualcuno voglia attentare all’autonomia della magistratura, salvo che non si vogliano attribuire entrambi gli intendimenti direttamente alla Corte Ue. Rendendo, invece, giustizia alla verità dei fatti, va riconosciuto il merito del Governo nell’avere avviato la riforma organica della disciplina, scelta in parte obbligata dalla procedura di infrazione avviata dalla Commissione (che ad oggi ha maturato una sanzione superiore ai trentasette milioni di euro a carico dell’Italia e costa trentaseimila euro in più ogni giorno che trascorre inutilmente), ma certamente voluta anche sotto il profilo politico. La prima contestazione della Commissione Ue risale al 10 febbraio 2009 e la successiva diffida è del 9 ottobre dello stesso anno; la condanna poi risale al 2011, tre anni orsono. Tre governi si sono succeduti prima dell’attuale senza mettere mano alla spinosa questione. Nel merito è poi condivisibile l’opzione di rendere obbligatorio l’avvio dell’azione disciplinare in caso di accoglimento della domanda di risarcimento del danno. Questo aspetto andrebbe però ulteriormente meditato, atteso che, come è stato autorevolmente affermato anche dal Presidente della Commissione Giustizia del Senato, nel caso in cui il magistrato venga sanzionato, il provvedimento dovrebbe incidere sull’avanzamento di carriera, poiché diversamente rischierebbe di rimanere privo di effetti pratici. È il profilo disciplinare, infatti, quello che più propriamente deve svolgere anche una funzione preventiva e rendere i magistrati, che già non lo siano, coscienziosi e responsabili nello svolgimento delle loro funzioni. Il tema dell’azione di rivalsa in sede civile da parte dello Stato nei confronti del magistrato che, con la sua condotta imperita o negligente abbia danneggiato il cittadino, è e deve restare, invece, estraneo ad ogni scopo general-preventivo. La ragione della rivalsa, il cui limite massimo complessivo (anche in caso di più soggetti danneggiati) è stato innalzato dal ddl governativo, con una scelta equilibrata e condivisibile, da un terzo alla metà dello stipendio netto annuo, va ricercata nel principio generale del neminem laedere. Questo è posto a fondamento della disciplina della responsabilità extracontrattuale ed in base ad esso, chiunque violi il divieto di ledere l’altrui sfera giuridica è chiamato a rispondere del danno che sia conseguenza immediata e diretta della propria condotta. In via ordinaria il danno va risarcito nella sua integralità da chi ne è l’autore, la particolare delicatezza delle funzioni giudiziarie, induce poi ad introdurre eccezionali correttivi, che operino quali adeguate tutele a protezione magistrati. Tali tutele sono, appunto, il giusto divieto di azione diretta (il danno può essere richiesto dal cittadino solo allo Stato) e l’altrettanto corretto limite nell’azione di rivalsa. Limite che, sia detto una volta per tutte, malgrado le grida di dolore che si alzano da palazzo dei Marescialli e qua e là da parte di qualche togato cui fa, evidentemente, difetto l’onestà intellettuale, è estremamente cautelativo e non comporta, né comporterà, in concreto nessun esborso, perché assicurabile con una somma irrisoria. Per tradurre in numeri: lo stipendio annuale netto medio di un magistrato è di circa 50.000,00 euro; ciò vuol dire che, qualunque sia l’ammontare del danno che lo Stato sarà chiamato a risarcire (a uno o più persone fisiche e/o giuridiche) in ragione dell’atto o del provvedimento manifestamente erroneo, il limite complessivo dell’azione di rivalsa non potrà mediamente superare la somma 25.000,00 euro. Chiunque può comprendere quanto possa costare assicurarsi contro un rischio così irrisorio nell’ammontare e remoto nel suo verificarsi. Resta, invece, la pressante necessità di approvare in tempi brevi la riforma della disciplina del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati, sia per evitare l’aggravarsi delle sanzioni Ue, che per dotare il nostro sistema di un corpus normativo adeguato, degno di un paese civile evoluto e democratico. Che per far ciò sia necessario vincere le resistenze corporative e le indebite pressioni della magistratura è ormai evidente a tutti, non tanto perché i magistrati vedano effettivamente messa in pericolo da questa riforma l’autonomia nell’esercizio della giurisdizione (tesi oggettivamente insostenibile), ma perché una legge che faccia sorgere loro in capo una qualche responsabilità (pur con tutte le cautele ed i correttivi di cui si è detto) è avvertita come oltraggiosa, ancor più perché li coglie in un momento di profonda crisi di identità. Dopo un ventennio in cui sono stati identificati dall’opinione pubblica come l’unica soluzione possibile a tutti i mali del paese ed in cui, nel vuoto lasciato da un politica screditata hanno recitato, a vario titolo, ruoli che non avrebbero dovuto competergli, si trovano anch’essi messi in discussione ed il loro intoccabile operato addirittura sindacabile quale possibile fonte di danno ingiusto. Giustizia: Legnini (Csm); riforme strutturali contro lentezza processi non più rinviabili 9Colonne, 30 ottobre 2014 "Non ci sono dubbi che l’eccessiva lentezza del processo civile sia un fattore frenante per la competitività del nostro Paese. È un problema antico, che si trascina da decenni, e la cui soluzione non è più rinviabile. Su questo primo intervento di riforma del processo civile, il Consiglio ha espresso un parere positivo per larga parte e per un’altra parte critico, o meglio una valutazione di non piena efficacia di alcune misure. Io penso che il processo civile abbia bisogno di una riforma più organica, che peraltro il governo sta già predisponendo e che mi auguro possa avere un percorso parlamentare rapido". Così Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, a "Voci del mattino", su Rai Radio1. Sugli strumenti da adottare per accelerare l’iter dei processi civili, Legnini ha inoltre detto: "L’arbitrato, la negoziazione assistita, la conciliazione, la recente introduzione del processo telematico, che a fine anno andrà a regime: sono tutte misure che aiutano sia a smaltire l’arretrato, sia a evitare che si formi una nuova sacca di arretrati per i processi civili. Ma ciò che si rende necessario - ha insistito Legnini - è un intervento più organico, finalizzato a ridurre il flusso in entrata: noi abbiamo in Italia oltre 5 milioni di procedimenti civili pendenti in tutti i gradi di giudizio e sono decisamente troppi. C’è anche un problema culturale da affrontare, una eccessiva propensione a ricorrere al processo civile. Peraltro negli ultimi anni abbiamo avuto una riduzione degli arretrati, visto che nel 2009 i processi erano 6 milioni. Ma non è bastato, perché i nuovi processi subentrano in numero assai più considerevole di quanto avviene negli altri Paesi europei e non solo. Pertanto, gli strumenti di cui si parlava sono utili, concorrono al miglioramento dell’efficienza, ma da soli non bastano, occorrono interventi strutturali per ridurre i procedimenti". "C’è uno spazio che spetta al legislatore - ha proseguito Legnini - e c’è uno spazio in cui intervenire per quanto attiene all’organizzazione degli uffici giudiziari. L’esempio di Torino, una eccellenza italiana nel panorama del processo civile, ne costituisce una riprova. La nostra intenzione è quella di fare in modo che la quota di responsabilità che spetta agli uffici giudiziari, in termini di organizzazione, possa essere affrontata e risolta con misure che prescindano dall’aspetto normativo, pure necessario. E in questo senso, ci apprestiamo a una ricognizione delle buone pratiche, Torino ma non solo, in modo che, pur tenendo conto delle differenze fra gli uffici, si possa stabilire un criterio omogeneo che consenta di adottare metodologie virtuose dappertutto, e in questa ottica anche il ruolo dell’avvocatura sarà molto importante. Io credo - ha detto ancora Legnini - che quando andranno a regime gli strumenti già introdotti e quelli da introdurre, i cittadini avranno la percezione che si può anche risolvere un contenzioso, tutelare un proprio diritto non necessariamente ricorrendo al giudice e faremo passi avanti in questa direzione. Il Csm affronterà il tema con molta determinazione. Tutti, Governo, Parlamento, magistratura, avvocatura e cittadini - ha concluso Legnini - dobbiamo condividere l’obiettivo di efficientamento e di riduzione del tempi, e quindi dei costi, consentendo al Paese di superare una crisi sulla quale certamente incide il malfunzionamento della giustizia civile". Giustizia: Stato-mafia, il "patto" non ci fu… ma la trattativa è sempre un bene di Tiziana Maiolo Il Garantista, 30 ottobre 2014 Non ho mai creduto al "patto Stato-mafia" dei primi anni Novanta. Anzi, sono certa che quell’accordo non si sia mai realizzato. Non perché io ritenga che lo Stato non arriverebbe mai a sporcarsi le mani fino a stringerle a un mafioso, anzi questo lo fa tutti i giorni con i "pentiti", a partire da Buscetta in avanti. Non si guarda in faccia nessuno, non si separa il grano dal loglio, quando si ha a che fare con il collaboratore di giustizia. La sua parola è sempre d’oro, anche quando si tratta di quel tale Scarantino che consentì di tenere per vent’anni in galera gli innocenti, da lui accusati di aver partecipato all’omicidio del magistrato Borsellino. Lo Stato ha quindi sempre trattato con i mafiosi, senza schifarsi né senza che nessun magistrato imbastisse un processo per chiedere conto al ministro dell’Interno del perché ci fossero assassini ("pentiti") in libertà con a disposizione soldi e a volte persino una sorta di "licenza di uccidere". Anche ai tempi del rapimento di Aldo Moro si discusse molto di "trattativa": mercanteggiare o no con le Brigate rosse? Prevalse il "partito della fermezza" e l’ostaggio fu ucciso. Il Partito socialista, i radicali, ma anche molti di noi giornalisti garantisti, ritenevamo che l’aspetto umano, salvare una vita, dovesse prevalere sulla ragion di Stato. Lo penso ancora. Quindi, pur essendo certa che nel 1992-93 una vera trattativa non ci sia stata, ritengo che, qualora il "misfatto" si sia compiuto, ciò sarebbe stato giusto e sacrosanto. I mafiosi, in quello come in altri periodi (gli anni Ottanta erano insanguinati di morti, da Piersanti Mattarella a Pio La Torre fino al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) facevano il loro mestiere di assassini e stragisti. E, dopo l’omicidio dell’esponente andreottiano Salvo Lima del 12 marzo, facevano circolare i nomi di altri uomini politici nel mirino. Esponenti non solo democristiani come Calogero Mannino o lo stesso presidente Scalfaro, ma anche il socialista Claudio Martelli, ministro di Giustizia e, come è emerso di recente, il repubblicano Spadolini, presidente del Senato, insieme al presidente della Camera Giorgio Napolitano. Se in quei giorni tragici alcuni esponenti delle istituzioni hanno cercato il contatto con personaggi più che contigui alla mafia come il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, hanno fatto solo il proprio dovere, quello di tentare di salvare vite umane, la vita di chiunque fosse minacciato. Del resto, quale sarebbe stato l’oggetto del "criminoso baratto"? La derubricazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario per una serie di imputati minori di associazione mafiosa. Stiamo parlando di persone in attesa di giudizio (in gran parte verranno in seguito assolte) che non erano capimafia e che nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara subivano (lo posso testimoniare personalmente, avendo fatto diverse visite ispettive in quei luoghi) trattamenti inumani al limite della tortura. Il ministro della Giustizia Conso (Martelli nel frattempo si era dimesso in seguito a un avviso di garanzia della Procura di Milano) con quel provvedimento di derubricazione non ha fatto altro che riportare nell’alveo della costituzionalità l’uso del carcere, soprattutto nei confronti di persone in attesa di giudizio, quindi innocenti. E allora, di che cosa stiamo parlando? Tutti inchinati davanti a questo processo-farsa, costoso e utile solo a chi esibisce l’ennesimo circo mediatico-giudiziario? Giustizia: dalla deposizione di Napolitano "Scalfaro nelle carceri aveva canali religiosi" di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2014 Nella testimonianza del Capo dello Stato il racconto dell’azione del suo predecessore, che avrebbe così raccolto le istanze dei mafiosi. Scalfaro? Aveva rapporti non solo con Parisi, con cui era molto stretto, ma aveva suoi canali attraverso associazioni religiose che operavano nelle carceri". La risposta del presidente Napolitano alle domande dei pm di Palermo arriva a metà mattina nel contesto della "fibrillazione istituzionale" seguita alle bombe del maggio 1993 a via dei Georgofili, a Firenze e gestita, come ha detto, dalla triade: lui, Spadolini e Scalfaro. E apre uno scenario finora esplorato sottotraccia dai pm di Palermo che conferma come in quella fase in cui lo Stato era under attack di Cosa Nostra il predecessore di Napolitano e Ciampi coltivava il percorso delle carceri per "sondare" discretamente l’universo criminale ed eventualmente raccogliere le istanze dei mafiosi. Anche per questo oggi, infatti, le parole di Napolitano suonano come una importante conferma alle tesi dell’accusa nel processo della trattativa Stato-mafia, visto che, se non fosse morto, anche Oscar Luigi Scalfaro sarebbe imputato nello stesso processo. Il riferimento alle "associazioni religiose che operavano nelle carceri" introduce, infatti, la "diplomazia della Chiesa" nella stagione stragista, tema indagato a lungo e a fondo dal pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel corso della sua indagine improvvisamente interrotta dalla sua morte per infarto nel 2003 aveva ascoltato come testimoni alcuni cappellani e persino un vescovo per comprendere cosa stesse accadendo dentro le celle. Una pista investigativa lo aveva condotto, infatti, a esplorare il mondo sommerso delle carceri, e per questo aveva interrogato come testimone nel 2003 l’allora capo del Sisde Mario Mori: un interrogatorio condotto con fermezza e garbo dal pm della Direzione Nazionale Antimafia applicato a Firenze nel quale si rintracciano (nelle domande di Chelazzi) tutti i temi investigativi che sarebbero saltati fuori sette anni dopo e che costituiscono oggi uno degli assi portanti dell’accusa in questo processo. Quelle carte (verbali di interrogatorio e relazioni del Dap) adesso sono state recuperate dai pm di Palermo che le stanno esaminando in funzioni di ulteriori sviluppi investigativi e probabilmente le depositeranno a breve nel processo. Perché sono così importanti? Perché è proprio Scalfaro, agli inizi di giugno, a decidere di cambiare il capo del Dap, Nicolò Amato, per sostituirlo con Adalberto Capriotti, all’epoca procuratore di Trento, che il 26 giugno del ‘93 in una nota al guardasigilli Giovanni Conso propose di non prorogare i 41 bis in scadenza per "non inasprire ulteriormente il clima all’interno degli istituti" e dare "un segnale positivo di distensione". È il primo cedimento a Cosa Nostra messo nero su bianco dal successore di Amato, nominato, come aveva scoperto Gabriele Chelazzi, da Scalfaro su indicazione di due prelati: monsignor Cesare Curioni e del suo assistente, monsignor Fabio Fabbri. È quest’ultimo a raccontare ai giudici del processo Mori come entrambi vennero convocati da Scalfaro che voleva da loro un nome per sostituire Amato e come quel nome cercasse freneticamente in un librone posto in un angolo del suo studio. Alla fine il nome fu quello di Capriotti, il quale, però, quando fu interrogato dai magistrati, disse di avere firmato la nota del 26 giugno senza averla letta. E quando il pm gli fece notare che sulla nota c’era un appunto firmato dal capo di gabinetto di Conso, Livia Pomodoro, si ricordò: "Ci sono, Di Maggio (Francesco, ex vice capo del Dap), non lo conoscevo, è stata una nomina politica". Magistrato senza i titoli necessari per ricoprire il ruolo di vice di Capriotti, Di Maggio fu nominato consigliere di Stato per accedere a quel ruolo. E tre mesi dopo, a novembre, Conso revocò "in assoluta solitudine" oltre 350 provvedimenti di 41-bis. Napolitano ne fu informato? Non lo sapremo mai, il presidente della Corte ha impedito, perché "fuori dal capitolato di prova", che il pm Nino Di Matteo porgesse quest’ultima domanda all’illustre testimone. Giustizia: al Quirinale i magistrati hanno scoperto l’acqua calda di Massimo Tosti Italia Oggi, 30 ottobre 2014 Aspettiamo le trascrizioni, per dare un giudizio complessivo sulla testimonianza di Giorgio Napolitano sollecitata dai pm di Palermo nell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Ma, dalle prime dichiarazioni rilasciate dagli stessi titolari delle indagini, si ricava l’impressione che la principale novità emersa dalla deposizione del presidente della Repubblica corrisponda alla scoperta dell’acqua calda. Il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, ha rivelato (parlando con un cronista) che il capo dello Stato ha spiegato che "con le bombe del 1993 la mafia pose un aut aut alle istituzioni". Un vero e proprio ricatto. Non serviva certo mandare quaranta persone al Quirinale per scoprire questa incredibile verità. Bastava domandarsi perché un’organizzazione criminosa pone in atto una serie di sanguinosi attentati: è del tutto ovvio che intende ricattare lo Stato. Quando gli jihadisti dell’Isis mostrano le decapitazioni degli ostaggi finiti nelle loro mani, che cosa fanno se non ricattare il mondo intero? Il terrorismo (che sia islamico, o mafioso, o camorrista, o brigatista) tenta di intimidire il nemico, e indebolirlo. Napolitano avrebbe, tuttavia, negato di essere al corrente di "indicibili accordi" con Cosa nostra. Qualcuno si è domandato (in modo provocatorio) perché, quasi vent’anni prima, non fosse stata avviata una trattativa con le Brigate rosse per salvare la vita di Aldo Moro. Ma ci mancò poco, allora, perché i leader della Dc (fautori della "fermezza") non fossero incriminati come complici degli assassini dello statista. E sono in molti, a distanza di quasi quarant’anni dall’assassinio di Moro, a esprimere giudizi di severa condanna nei confronti di Fanfani e di Andreotti che si rifiutarono di aprire un dialogo con le Br e di concedere la scarcerazione di alcuni appartenenti al movimento di Curcio e Franceschini per garantire la salvezza del presidente del loro partito. In quel caso era in ballo la vita di un solo uomo, un politico di primissimo piano. Nel ricatto della mafia si rischiavano stragi indiscriminate. E se qualcuno ha trattato, non lo ha fatto per tornaconto personale, ma per evitare stragi indiscriminate. Forse, chissà, per senso dello Stato. Giustizia: il Senato ha varato il ddl sulla diffamazione, stop al carcere e diritto all’oblio Public Policy, 30 ottobre 2014 Niente più carcere per i giornalisti e i direttori di testate. È questa una delle norme più importanti contenute nel disegno di legge sulla diffamazione che oggi, dopo più di un anno dal via libera della Camera (il 17 ottobre 2013), è stato approvato dal Senato. Il testo ora dovrà tornare alla Camera in seconda lettura. Il provvedimento introduce nuove norme in materia di diffamazione a mezzo stampa come, per esempio, - grazie a un emendamento Pd approvato - la possibilità per il giudice di chiedere un risarcimento in caso di querele temerarie. Un’altra novità importante riguarda, tra le altre cose, l’introduzione al diritto all’oblio. Niente più carcere per chi diffama a mezzo stampa (cartacea e online registrata, radiotelevisione), ma esclusivamente una multa in caso di attribuzione di un fatto determinato fino ai 10 mila euro. Se il fatto attribuito è consapevolmente falso, la multa sale da 10mila a 50mila euro. Inoltre, alla condanna è associata la pena della pubblicazione della sentenza. In caso di recidiva reiterata, vi sarà anche l’interdizione da uno a sei mesi dalla professione. La rettifica sarà valutata dal giudice come causa di non punibilità. Nella diffamazione a mezzo stampa il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Il direttore o, comunque, il responsabile deve: pubblicare gratuitamente senza commento, senza risposta e senza titolo, la rettifica menzionando espressamente titolo, data e autore dell’articolo; deve garantire che le rettifiche siano pubblicate non oltre due giorni dalla ricezione della richiesta con "la stessa metodologia, visibilità e rilevanza della notizia a cui si riferiscono in modo da rendere evidente l’avvenuta modifica" come precisa il testo modificato al Senato. Nel caso di testate giornalistiche online, che forniscono un servizio personalizzato, le dichiarazioni o le rettifiche sono inviate agli utenti che hanno avuto accesso alla notizia cui si riferiscono. Nel testo modificato si stabilisce inoltre che nel caso in cui non sia possibile la ristampa o una nuova diffusione del periodico o la pubblicazione sul sito internet, la pubblicazione in rettifica deve esser fatta su un quotidiano a diffusione nazionale. Il testo esenta dall’obbligo di pubblicare una rettifica "quando essa sia documentalmente falsa". Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere ai siti internet e ai motori di ricerca l’eliminazione dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione della legge sulla diffamazione. L’interessato, si legge nella norma modificata dal Senato, in caso di omessa cancellazione dei dati può chiedere al giudice di intervenire per ottenere quello che la Corte europea, con una sentenza del 13 maggio 2014, definisce il ‘diritto all’ obliò per il diffamato. In caso di morte dell’interessato, i suoi diritti potranno essere esercitati dagli eredi o dal convivente. Fuori dei casi di concorso con l’autore del servizio, il direttore o il suo vice rispondono non più "a titolo di colpa" ma solo se vi è un nesso di causalità tra omesso controllo e diffamazione, la pena è in ogni caso ridotta di un terzo. È comunque esclusa per il direttore al quale sia addebitabile l’omessa vigilanza l’interdizione dalla professione di giornalista. Le funzioni di vigilanza possono essere delegate, ma in forma scritta, a un giornalista professionista idoneo a svolgere tali funzioni. In caso di querele temerarie il giudice può condannare l’attore della querela oltre che a pagare le spese del processo "al pagamento a favore" di chi ha subito la querela "di una somma in via equitativa". Non solo il giornalista professionista, ma ora anche il pubblicista potrà opporre al giudice il segreto sulle proprie fonti. Anche per l’ingiuria e la diffamazione tra privati viene eliminato il carcere, ma aumenta la multa (fino a 5mila euro per l’ingiuria e 10mila per la diffamazione) che si applica anche alle offese arrecate in via telematica. La pena pecuniaria è aggravata se vi è attribuzione di un fatto determinato. Risulta abrogata l’ipotesi aggravata dell’offesa a un corpo politico, amministrativo o giudiziario. Giustizia: il Senato approva Ddl sulla diffamazione... un brutto colpo al diritto di cronaca di Vincenzo Vita Il Manifesto, 30 ottobre 2014 La rettifica è cosa seria, ma potrebbe diventare un boomerang. Stop and go. Il testo sulla diffamazione, approvato alla Camera nell’ottobre dell’anno scorso e rimasto nella Commissione giustizia del Senato a lungo, è stato prontamente varato ieri dall’assemblea. Con qualche modifica, tanto che richiederà una terza lettura. Evviva il bicameralismo, bistrattato in questa stagione amara. Almeno rimane la speranza di qualche cambiamento. E già, perché l’articolato attuale non va. È vero che è stato accettato l’emendamento Casson sulle querele temerarie, ancorché assai edulcorato rispetto alla stesura originaria. Ma almeno è qualcosa, un piccolo deterrente rispetto alla terribile moda di utilizzare lo strumento della querela come forma di intimidazione. Andrebbe più puntualmente definito il modo di vincolare i querelanti di professione, che dovrebbero versare una cauzione significativa. Naturalmente non si sta parlando del cittadino offeso e senza potere, bensì di coloro che sono usi adoperare il bullismo mediatico. Tanto i noti tempi lunghi della giustizia italiana qualche danno lo provocano, anche se il cronista risulta innocente: spese legali, viaggi, trasferte, numerose rotture di scatole. E a questo si aggancia il nodo dell’entità delle multe - comminate in luogo del carcere - che possono arrivare a 50.000 euro. Forse gran parte del ceto politico non conosce la realtà acre e dura del precariato, dei free lance, dei nuovi schiavi del lavoro intellettuale. Il testo ha il merito indubbio di abolire la barbarica detenzione, in verità non applicata così spesso. Tuttavia, il prezzo dell’abolizione del carcere non deve diventare una censura di fatto. La verità dell’informazione italiana non è quella agiata degli anni andati, con tutele e malleve. Oggi, nell’era della crisi, chi scrive spesso è solo con la sua coscienza. La diffamazione, è bene chiarire, nella routine quotidiana non indossa le vesti brutte e insopportabili di uno sgradevole reato. Il racconto indigesto per lobby e potentati si colloca di sovente sulla linea di confine, dove un avverbio o un aggettivo sono sussunti dalla notizia scomoda. Ecco, la spada di Damocle della multa e della richiesta parallela di risarcimento dei danni rischia di diventare una botta alla libertà. Un altro carcere. Eppoi. La bizantina vicenda della rettifica, che diventa una sorta di zona franca, senza replica. Facile oggetto del desiderio per inedite tipologie di scrittori. La rettifica è cosa seria, ma potrebbe diventare un boomerang, costringendo - tra l’altro - a impiegare forze numerose per temer dietro ad un probabile genere letterario. E qui si aggancia l’altro punto dolente: siti e rete. È possibile che la Camera dei deputati abbia istituito un bel gruppo di lavoro, presieduto da Stefano Ridotà, sul tema di Internet (che ha prodotto una seria Carta dei diritti e dei doveri, ora in consultazione on line) e che il Senato chiuda il caso: parificando vecchi e nuovi media? Insomma, la rete ci interpella su tre culture giuridiche, pena l’irrilevanza delle grida manzoniane. Che c’entra il diritto all’oblio con la diffamazione? Come mai il gruppo di 5 Stelle ha voluto l’omologazione tra off e on line? Chissà, la nebbia si infittisce e il retrogusto è amaro. Serve una riflessione attenta, prima di impasticciare una normativa vecchia e inadeguata, che rischia di peggiorare. Giustizia: Boldrini (Camera); ci sono ancora tanti problemi drammaticamente aperti Adnkronos, 30 ottobre 2014 "Il sovraffollamento delle carceri, la lunghezza dei processi, la carcerazione preventiva, sono problemi drammaticamente aperti". Lo ha affermato la presidente della Camera, Laura Boldrini, intervenendo al convegno "Passato e futuro del garantismo", promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre e dall’Associazione "Antigone", in occasione dei 250 anni del "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. La presidente della Camera ha quindi sottolineato "la modernità delle idee di Beccaria su umanità della pena, divieto di trattamenti degradanti, e tortura". E a questo proposito ha fatto riferimento alla norma che introduce nel nostro ordinamento il reato di tortura, approvata al Senato e ora in discussione a Montecitorio. Quanto invece alla situazione delle carceri, Boldrini ha ricordato i "diversi provvedimenti adottati, che, a regime, spero riescano a mutare una situazione ormai insostenibile". Semplicemente una lettera... di Lorenza Tavano Ristretti Orizzonti, 30 ottobre 2014 Non sono pratica di carcere, non ci sono mai entrata, ho sempre vissuto dall’esterno la vita dei detenuti. Forse, e mi dispiace dirlo, con indifferenza. Hanno sbagliato, devono pagare. Non è un modo giusto di agire, lo so, ma pensare e immedesimarsi nella loro vita non è facile. Trionfa la voglia di giustizia, l’orrore, per alcuni, in merito alle gravi e crudeli colpe commesse, violenze sulle donne e ancor peggio sui bambini. Per me abusare e uccidere creature indifese, forse proprio gli stessi figli o figli di amici è una colpa non perdonabile. Ma la mente può aprirsi verso nuovi modi di capire, il cuore e l’aspetto umano emergere sopra ogni considerazione. L’idea che se si sbaglia si deve pagare rimane insita dentro di me, ma trovo, umanamente parlando, che questo venga fatto in condizioni che calpestano la dignità di ogni singolo individuo qualunque sia la sua colpa. È doveroso permettere che le famiglie possano avere assidui contatti con i loro congiunti, figli, mariti, nipoti che hanno attraversato il ponte sbagliato. Portare loro il segno tangibile del loro amore, del loro affetto, comprensione e soprattutto dar loro la certezza di esserci sempre, di non averli abbandonati. Ogni detenuto paga già tutti i giorni la sua colpa, portando dentro di sé (si presume, anzi voglio crederlo) il rimorso e l’angoscia per quello che ha fatto. È un peso che niente e nessuno potrà alleggerire ed è proprio in considerazione di questo che è giusto cercare di rendere il posto di detenzione accettabile ricordando, al di sopra di ogni cosa, che sono tutti esseri umani. Alcuni avranno delle colpe talmente grandi che forse, noi al di fuori, condanniamo senza alcuna pietà. È giusto, è sbagliato? Non possiamo averne la certezza perché siamo esseri umani, fragili e se duramente colpiti poco propensi al perdono. Condivido pienamente che venga data la possibilità di confronti fra vittime e colpevoli. Poter parlare e soprattutto ascoltare perché in ognuno di noi esistono, unitamente, il bene e il male. È la parte buona che bisogna nutrire per avere la possibilità di donare, a piene mani, amore e comprensione. Sarebbe bello poter cancellare le carceri inutili e sovraffollate, dare la possibilità ai detenuti di sentirsi parte di quella società che, se anche li ha condannati e vive al di là delle sbarre, non ha dimenticato che anche loro ne hanno fatto parte. Lavorare, studiare e vivere con la consapevolezza di poter ricevere l’amore dei loro cari, parlare spiegarsi e cercare di raggiungere un punto d’incontro che li faccia sentire, nonostante tutto, parte del mondo esterno e dia loro la speranza di poter, un giorno, ricominciare. Campania: Assessore D’Angelo; investiti 5 mln per corsi di formazione per 1.850 detenuti Ansa, 30 ottobre 2014 "Come Regione Campania abbiamo investito 5 milioni di euro per tutti gli istituti di pena del territorio, al fine di promuovere corsi di formazione per 1850 detenuti". Così l’assessore alle Politiche sociali Bianca D’Angelo nel corso della conferenza stampa svoltasi a Napoli sul tema: "Airola... sport, spettacolo & sociale", una iniziativa promossa dall’Associazione Scugnizzi. "Il progetto illustrato stamani, con la promessa di assunzione di un minore che ha lasciato l’area penale e verrà inserito nel mondo del lavoro grazie all’impegno di una nota azienda - spiega l’assessore - prova in concreto che esiste in Campania un modello di welfare inclusivo e produttivo. Sul reinserimento sociale continueremo a lavorare con costanza ed intensità". All’incontro con la stampa hanno partecipato Antonio Franco, presidente Associazione Scugnizzi; Giuseppe Centomani, dirigente Giustizia minorile in Campania; Antonio Di Lauro, direttore Istituto penitenziario minorile Airola e Luigi Snichelotto, amministratore società Mc Donald’s Salerno. Firenze: Camera Penale; detenuta morta per overdose, è inconcepibile succeda in carcere Ansa, 30 ottobre 2014 "Non è concepibile che si entri in un carcere sotto la tutela dello Stato e se ne esca morti per overdose". È quanto afferma in una nota il direttivo della Camera penale di Firenze in merito al decesso, per sospetta overdose, di una giovane donna detenuta nel carcere fiorentino di Sollicciano, una morte che "suscita sentimenti di tristezza e di indignazione". "Piccole riforme e provvedimenti tampone - prosegue la nota dei penalisti fiorentini - evidentemente non consentono di risolvere il problema della invivibilità delle carceri italiane. Amnistia e indulto non sono certo una soluzione strutturale, ma si impongono in questa condizione di emergenza anche per alleggerire il sovraffollamento. Bisogna garantire anche in carcere il diritto alla salute che è prima di tutto tutela della persona, privata della libertà personale, da parte dello Stato. Le Camere Penali sono da sempre impegnate per la costruzione di un nuovo sistema sanzionatorio adeguato alle esigenze di rieducazione e prevenzione e a denunziare le condizioni degradanti nelle quali versano i detenuti in Italia". Padova: inaugurato un Centro diurno per i detenuti con libri, pc, psicologi e avvocati di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2014 Un centro ricreativo e sociale diurno per detenuti e condannati in misura alternativa. È stato inaugurato ieri e si trova in via Righi 46, laterale di via Chiesanuova, presso la Casa dei padri Mercedari. Il centro, primo in Veneto e secondo in Italia dopo l’Attavante di Firenze, fa parte di un progetto denominato "Progetto Oasi" e voluto dalla presidente dell’associazione "Granello di Senape Padova", Ornella Favero. "Si tratta di un servizio di sostegno e tutoraggio di detenuti in permesso premio, o ammessi al lavoro esterno, o in misura alternativa, volto a favorire il loro reinserimento nella società", ha spiegato ieri mattina Ornella Favero durante la presentazione del progetto, a cui hanno presenziato anche il magistrato di Sorveglianza Marcello Bortolato e il direttore del Due Palazzi Salvatore Pirruccio. I detenuti menzionati potranno dunque usufruire dei diversi servizi del centro, a partire da quelli più pratici, come la lavanderia, l’uso della cucina, internet e skype per la comunicazione con le famiglie, fino ad arrivare a quelli di tipo relazionale, come il sostegno individuale, lo sportello psicologico e i gruppi d’aiuto. Un appoggio ai detenuti che la casa dei padri Mercendari dà già da tempo, ma con qualche importante aggiunta volta all’accompagnamento nella delicata fase di uscita dal carcere. "È il momento più difficile per il detenuto che per la prima volta si assume la responsabilità di quello che farà, rendendosi autonomo", ha detto il magistrato di Sorveglianza Bortolato, che ha sottolineato come sia importante puntare sul reinserimento: "Più si investe nella rieducazione meno persone tornano a delinquere". Attualmente a Padova i detenuti in misure alternative, che quindi potrebbero beneficiare di questo servizio, sono circa una trentina, da aggiungere a quelli che usufruiscono dei permessi premio, che sono circa 1.000 detenuti in un anno. "Sapere che i detenuti terminato l’orario di lavoro, o durante un permesso, soprattutto per quelli con la famiglia lontana, possono venire qui ed essere supportati invece di girare per la città senza un punto di riferimento tranquillizza anche noi", ha detto il direttore del carcere Pirruccio, che dati alla mano ha dimostrato l’efficacia dei percorsi di reinserimento di questo tipo. "Prendendo in esame 10 anni il 68% di detenuti che ha usufruito di misure alternative non è tornato a delinquere, mentre chi espia la pena solo in carcere ne esce incattivito e con una probabilità molto più alta di tornare a compiere un crimine". Il progetto Oasi, al quale hanno aderito anche diverse associazioni di volontariato, è stato finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che ha stanziato 27 mila euro per le spese e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che ha destinato 15 mila euro per gli arredi del centro. Padova: risarcimento per "trattamento disumano e degradante", lo chiedono 40 detenuti di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2014 Tredici novembre e metà dicembre. Sono le date fissate per le prossime due udienze nelle quali verrà decisa la sorte di una quarantina di detenuti nell’ambito dei risarcimenti per il "trattamento disumano e degradante" al quale sarebbero stati costretti nelle celle durante il periodo di detenzione. "La prima udienza vedrà coinvolti circa dieci detenuti, tra il carcere di Padova e quello di Rovigo, che richiedono il risarcimento per essere stati in uno spazio inferiore allo spazio vitale (sotto i tre metri quadrati a persona), la seconda, che si terrà nel carcere Due Palazzi di Padova, riguarderà invece circa trenta detenuti", ha spiegato il magistrato di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato. Entrambe le sessioni sono la conseguenza della nuova normativa introdotta dal decreto legge 92 del 26 giugno scorso che adempie alle direttive dettate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano. Normativa che ha già permesso nel mese di settembre la scarcerazione anticipata e il risarcimento monetario a due detenuti: un albanese quarantenne che ha ottenuto uno sconto di 10 giorni rispetto alla pena definitiva e un ristoro di 4.808 euro, e un italiano trentatreenne uscito dal carcere di Rovigo con 20 giorni d’anticipo e un risarcimento di 2.696 euro. I due casi hanno ovviamente creato un precedente, per cui da giugno ad oggi all’ufficio Sorveglianza di Padova sono giunte tra 600 e 700 richieste di risarcimenti. "Dopo quelle di novembre e dicembre le udienze sul rimedio compensativo andranno a regime. Ce ne sarà circa una al mese fino allo smaltimento delle richieste", prosegue il magistrato Marcello Bortolato. Questo per quel che riguarda le richieste dei detenuti all’ufficio di Sorveglianza, poi ci sono anche quelle degli ex detenuti, che usciti dal carcere chiedono i risarcimenti per il periodo trascorso in detenzione e che si rivolgono però al giudice civile. "Ci sono già un paio di casi di ex detenuti che chiedono il risarcimento. Per questi l’istanza risarcitoria può essere avanzata entro 6 mesi dalla fine della custodia o della detenzione". La norma prevede lo sconto di un giorno ogni dieci scontati in celle inferiori ai tre metri quadrati e un risarcimento di otto euro al giorno se la pena è esaurita. Rimini: detenuti armati di pennello per ripulire le strade dai graffiti di Manuel Spadazzi Il Resto del Carlino, 30 ottobre 2014 L’hanno già fatto all’Idroscalo a Milano e a Bologna. E ora anche Palazzo Garampi arruola i detenuti per ripulire Rimini da scritte vandaliche e graffiti sui muri della città. Già entro la fine dell’anno un primo piccolo gruppo di carcerati dei Casetti saranno utilizzati per togliere i graffiti per le strade e le piazze di Rimini, grazie all’accordo che è stato raggiunto tra l’amministrazione e la direzione del carcere. "La richiesta ci è stata presentata in estate da Rosa Alba Casella, che è stata direttore della casa circondariale di Rimini fino a pochi mesi fa - spiega il vice sindaco Gloria Lisi - e l’abbiamo subito accolta: è un ottimo modo per i carcerati di restituire il loro debito verso la collettività. Due i motivi che ci hanno spinto a questa operazione. Da un lato, ci si era posti con il carcere la questione di come far passare il tempo ai detenuti che devono scontare pene minori, e rispetto ad altri devono restare per meno ore in cella. Dall’altro, c’era l’esigenza di coinvolgere i detenuti in un progetto che potesse aiutarli a reinserirsi e a non commettere altri reati, una volta fuori dal carcere". Ricorda la Lisi come "è dimostrato da vari studi che è il rischio di recidiva si abbassa per quei carcerati che hanno la possibilità di svolgere lavoro socialmente utili e attività di volontariato". È nata così l’idea di affidare ai detenuti il compito di ripulire i monumenti e i muri della città dalle scritte vandaliche. "Diamo a loro un compito utile, e per il quale al momento il Comune doveva sempre rivolgersi a una ditta esterna. Potevamo far svolgere loro altri lavori, magari l’affissione di manifesti, ma abbiamo pensato sia più utile affidare ai detenuti mansioni che al momento non vengono coperte da nessuno all’interno del Comune". Oltre alle scritte, in futuro i detenuti potranno essere impiegati anche nella sistemazione di parchi e giardini, e in altri lavoretti di pubblica utilità. Con l’attuale direttore del carcere di Rimini, Gianluca Candiano, l’accordo c’è già, e verrà definito nei dettagli nei prossimi giorni. Ecco perché già a dicembre i primi detenuti dei Casetti potranno iniziare il loro lavoro. Ma quali saranno i carcerati impiegati nell’intervento di pulizia? "Ci sarà - spiega ancora la Lisi - un’equipe interna al carcere, composta anche dagli ispettori di polizia penitenziaria, a decidere quali saranno i detenuti coinvolti, in base ai reati commessi, al comportamento tenuto nella casa circondariale, infine allo stato del loro procedimento. Si partirà con un gruppo di 5 o 6 persone. Ma il numero di detenuti potrebbe ampliarsi se le cose funzioneranno al meglio, come tutti noi auspichiamo". Monastir (Ca): chiude la scuola di Polizia penitenziaria, ospiterà un Centro per immigrati Agi, 30 ottobre 2014 È ufficiale: le scuola di formazione per agenti di polizia penitenziaria a Monastir (Cagliari) chiuderà. "Alla base di tale decisione concorrono le direttive del governo per la riduzione delle spese non vincolate, l’attuale numero di scuole di formazione e aggiornamento di cui dispone l’amministrazione, la riduzione strutturale delle autorizzazioni ad assumere, l’esigenza di proporzionare le risorse umane e materiali impegnate nel settore della formazione del personale", ha comunicato ieri il vice capo vicario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai sindacati, Luigi Pagano. La soppressione della scuola spiana la strada al trasferimento (ipotizzato in una nota ufficiale del Dap trasmessa alla prefettura di Cagliari una quindicina di giorni fa) nella struttura di Monastir del centro di soccorso e prima accoglienza per migranti e il centro soccorso richiedenti asilo (Cspa-Cara), al momento dislocata nell’aeroporto militare di Cagliari Elmas. Secondo quanto preannunciato il 9 ottobre scorso nella comunicazione del Dap al prefetto di Cagliari Alessio Giuffrida, nel carcere di Buoncammino, invece, una volta dismesso, saranno trasferiti gli uffici e i giovani detenuti dell’istituto minorile di Quartucciu, oltre al provveditorato e all’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe). Nella nota il vice capo vicario del Dap ribadiva la decisione, già comunicata al ministro Orlando, di dismettere la scuola di Monastir e di spostare nel carcere di Buoncammino gli uffici del provveditorato regionale e l’Uepe, che al momento sono ospitati in immobili in affitto. Pagano informava, inoltre, che il ministero dell’Interno era disponibile a contribuire alle spese di trasferimento dei beni della scuola di Monastir, compreso il poligono di tiro usato da tutte le forze di polizia del territorio. Per il trasloco del carcere minorile di Quartucciu, invece, il Dap parlava più genericamente di "disponibilità per un eventuale spostamento presso l’istituto di Buoncammino" in dismissione. Tempi e modi della cessione dell’immobile, nelle intenzioni del Dipartimento, sarebbero stati concordati con la prefettura. Ieri il Dap ha ufficializzato con una nota ai sindacati la soppressione della Scuola di formazione di Monastir. Mura (Pd): errore chiudere scuola penitenziaria "Chiudere la scuola di formazione di Monastir è un errore, altrettanto trasferirci il nuovo Cpsa/Cara per ospitare rifugiati". Lo afferma la deputata del Partito Democratico, Romina Mura. "Chiudere la scuola - spiega - non risponde certamente alla richiesta di razionalizzazione che arriva dal Governo considerato che, per la sua particolare ubicazione, per le strutture ospitate nell’area, a partire dal poligono, e per gli spazi qualificati di cui dispone, potrebbe essere utilizzata come centro di formazione e addestramento per tutti i corpi di polizia e non solo per quella penitenziaria". La struttura inoltre, secondo la parlamentare sarda, "viste tutte le dotazioni strumentali e informatiche di cui dispone, potrebbe ospitare molti degli uffici dell’amministrazione penitenziaria collocati in diverse zone della città. E con un notevole abbattimento dei costi attualmente sostenuti dall’amministrazione stessa". Quanto all’ipotesi di trasferire nei locali di Monastir il Centro di accoglienza di Elmas, Mura sostiene che si tratta di "un’altra decisione poco razionale e opportuna. Il centro dovrebbe essere trasferito dentro un contesto urbano in cui sia più facile e immediato attivare la rete di solidarietà e tutte le misure necessarie per garantire un sistema di accoglienza efficiente e sicuro". Socialismo Diritti Riforme: Dap nega insularità con atto arrogante "La decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di sopprimere la Scuola di Formazione e Aggiornamento del corpo di Polizia e del Personale ubicata a Monastir per far posto al Centro di Soccorso per Richiedenti Asilo è un atto arrogante che nega la condizione d’insularità degli operatori penitenziari della Sardegna". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che "i presunti risparmi ministeriali non giustificano la chiusura ma evidenziano la volontà ancora una volta di negare dignità a quanti lavorano in una realtà insulare". "Lo smantellamento di Monastir, ufficializzato alle organizzazioni sindacali con una nota firmata dal vice capo del Dap, prelude - sottolinea Caligaris - anche alla chiusura dell’Istituto Minorile di Quartucciu per fare posto al Centro di Soccorso e Prima Accoglienza per immigrati. Ciò che lascia interdetti è che il Dipartimento non considera che la chiusura della Scuola graverà non solo sugli Agenti di Polizia Penitenziaria ma anche su tutti i dipendenti i quali d’ora in poi dovranno varcare il Tirreno per seguire i corsi di aggiornamento". "La riorganizzazione ministeriale in Sardegna si sta configurando insomma come un’autentica mannaia per il settore penitenziario con atti unilaterali che non lasciano alcuna possibilità di alternative e che si ripercuoteranno in modo negativo sull’efficienza del sistema e sulla qualità del lavoro. Accorpare nella Casa Circondariale di Cagliari gli Uffici del Prap e dell’Uepe nonché l’Istituto Minorile non sembra la strada migliore - conclude la presidente di Sdr - per dare risposte adeguate alle esigenze dei cittadini". Cgil: contrari a chiusura scuola, la Regione intervenga "Siamo nettamente contrari alla chiusura della scuola di formazione e aggiornamento di Monastir e ci opporremo con iniziative di mobilitazione per scongiurare l’ennesimo taglio da parte dello Stato". Così il segretario regionale della Fp-Cgil Nino Cois che sulla decisione presa dal ministero della Giustizia chiede un intervento immediato delle istituzioni regionali. "Si tratta di una struttura che, insieme al poligono da tiro, è sottoutilizzata - spiega il sindacalista - potrebbe essere punto di riferimento per tutte le forze di polizia della Sardegna". La Cgil in queste ore si sta attivando per ragionare insieme alle altre organizzazioni sindacali sulle iniziative di lotta da intraprendere. Modena: Sappe; caos e proteste in carcere, detenuto si cuce la bocca Il Resto del Carlino, 30 ottobre 2014 Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso, rispettivamente segretario generale aggiunto e regionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, parlano di "tragedia sfiorata" e chiedono "di commissariare la struttura modenese". "Tragedia sfiorata ieri nel carcere di Modena dove un gruppo di detenuti ha inscenato una dura protesta, sfociata in atti di aggressione ed autolesionismo". A denunciarlo sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale. "Sembrerebbe - scrivono i due rappresentanti del sindacato autonomo di polizia penitenziaria - che un detenuto abbia chiesto di parlare con la direttrice del carcere e al secco rifiuto ricevuto abbia risposto cospargendosi il corpo di olio e minacciando di darsi fuoco. Un altro detenuto si è cucito la bocca e si è procurato delle lesioni con una lametta. All’arrivo del comandante di reparto, accompagnato da un gruppo di agenti, i detenuti hanno inscenato una dura protesta, cominciando a sbattere gli sgabelli contro le inferriate e il detenuto con la lametta si è lanciato contro il comandante, cercando di colpirlo con la stessa lametta. Uno dei detenuti presenti in sezione è’ intervenuto in difesa del comandante ed è stato ferito con la lametta". Precisando che nella sezione detentiva in questione sono ristretti tutti i detenuti con problemi particolari, anche psichiatrici, e i più indisciplinati, già responsabili di vari atti puniti con sanzioni disciplinari, Durante e Campobasso sottolineano che "l’amministrazione li tiene aperti tutto il giorno, contravvenendo ad ogni buona regola organizzativa, considerato che il regime aperto dovrebbe essere un premio per coloro che si comportano bene". I rappresentanti del Sappe, poi, lamenta il fatto che a Modena non esiste una sezione chiusa, "tutto questo a danno della sicurezza che ormai non esiste più. Coloro che pagano le conseguenze peggiori sono gli agenti, costretti a lavorare tutti i gironi in condizioni di scarsissima sicurezza per la loro incolumità personale. Ribadiamo la richiesta di commissariare la struttura modenese". Sulmona (Aq): Di Pangrazio; il carcere struttura modello, con leggera carenza di organico www.rete5.tv, 30 ottobre 2014 "Quello di Sulmona è un carcere modello, da prendere ad esempio come struttura riabilitativa delle persone che dopo aver sbagliato ed espiato la loro pena, vogliono rientrare a far parte della società". Lo ha detto il presidente del consiglio regionale d’Abruzzo Giuseppe Di Pangrazio al termine di una visita istituzionale nel carcere di Sulmona. "Era la prima volta che entravo in un carcere e mi aspettavo di trovare un luogo deprimente e triste - prosegue Di Pangrazio. Con grande sorpresa ho trovato una cittadella laboriosa dove ognuno fa la sua parte con grande serenità, sia tra gli addetti ai lavori, sia tra gli stessi detenuti. Una grande normalità. Pare strano, un paradosso, ma lì dentro ho trovato persone che lavorano e si rendono utili, con l’obiettivo di rientrare nel mondo civile dalla porta principale. Non chiedono comprensione, ma un rapporto con l’esterno affinché si possa capire ciò che di meraviglioso sta accadendo all’interno della struttura carceraria. Un grande fermento che va fatto conoscere fuori e che spetta a noi istituzioni pubbliche valorizzare". Di Pangrazio, che nella sua visita è stato accompagnato dal presidente del consiglio del Comune di Sulmona, Franco Casciani, ha parlato anche delle criticità riscontrate. "Un carcere - ha detto - che è alle prese con una leggera carenza di organico e con un’organizzazione sanitaria interna che ha bisogno di qualche correttivo. Noi come Regione siamo pronti a fare la nostra parte sia nel campo della sanità sia su un eventuale utilizzo dei detenuti in lavori nell’ambito della tutela dell’ambiente all’esterno del carcere". Sulmona (Aq): visite specialistiche per i detenuti, la Regione "vedrà come aiutare" di Maria Trozzi www.report-age.com, 30 ottobre 2014 "Più che di sovraffollamento il direttore mi ha parlato di rapporto tra personale dipendente della struttura penitenziaria e ospiti. È questo rapporto che bisogna incrementare" così la chiama cittadella il Presidente del Consiglio regionale, Giuseppe Di Pangrazio, e quando si riferisce ai detenuti li definisce ospiti della struttura detentiva di via Lamaccio e sembra quasi descrivere un Paradiso quando ne parla. Ad accompagnarlo nella visita al carcere di alta sicurezza Peligno è il Presidente del Consiglio comunale Franco Casciani. Una su tutte per le questioni sulla sanità nel penitenziario è da affrontare la questione delle visite specialistiche. La direzione del carcere è stata molto chiara, ammette Di Pangrazio, la difficoltà sarebbe soprattutto per le visite specialistiche, non per quanto riguarda l’assistenza ordinaria perché c’è una guardia medica presente 24 ore su 24, mentre la direttrice ha parlato di trovare un modo per far effettuare le visite specialiste per quanto riguarda i detenuti nella maniera più consono ad un detenuto che naturalmente resta recluso per parecchi anni se finisce in questo genere di istituti raccontando quali sono le difficoltà quando un detenuto particolare deve uscire fuori per i controlli e le visite specialistiche con la scorta e tutto il resto. Un’idea c’è per Di Pangrazio e la Regione vedrà come aiutare. Il presidente è appena uscito da una visita ufficiale dal penitenziario sulmonese ed è sorpreso di quanto ha visto e percepito all’interno della struttura: "Vi raccontiamo quello che abbiamo sentito ma soprattutto quello che abbiamo percepito all’interno di questa cittadella, la visita nasce per esigenza mia personale di capire un po’ qua e là in Abruzzo quello che accade, ma soprattutto di una struttura che è importante non solo perché contiene chi ha fatto dei reati, ma soprattutto perché è nota per la riabilitazione e per il senso e per l’umanità, la carica di attività che c’è all’interno di questa cittadella - dichiara Di Pangrazio, ai giornalisti che lo attendono all’esterno della struttura detentiva - questo è un carcere molto particolare dovrebbe essere un modello da prendere a riferimento. All’interno abbiamo trovato laboratori che funzionano. Abbiamo riscontrato e soprattutto annusato una serenità d’animo non solo tra i collaboratori, dal Direttore del carcere, dal comandante della Polizia Penitenziaria, ma anche tra - io li chiamo- i cosiddetti ospiti temporaneamente che stanno riscontando, diciamo, non solo scontando la loro pena, ma cercando in loro stesso un modo di come riscattarsi da errori che hanno commesso in anni passati e all’interno ritrovando questa serenità abbiamo capito che attraverso una formazione lavoro stanno cercando di recuperare, quindi un reinserimento - io dico - normale per l’esterno della nostra società. Qui dentro, posso confermare, ho trovato una grande, una società e una grande normalità. Pare strano, sembra un paradosso, ma ho trovato persone che stavano lavorando chi all’interno del laboratorio di falegnameria, chi all’interno del laboratorio di ceramica e c’è un laboratorio di sartoria dove fanno camici che poi offrono a tutte le strutture penitenziarie d’Italia così i mobili per quanto riguarda la falegnameria. E mi pare che c’è una struttura che dirige con un vettore di grande utilità. Che cosa chiedono loro? Chiedono un rapporto con le istituzioni, un rapporto con l’esterno, non comprensione, ma chiedono che all’esterno capiscano quello che sta accadendo di meraviglioso all’interno di questa cittadella dove cercano il recupero il riscatto di ognuno di loro rispetto agli errori passati. " Dal rapporto del personale, carente, rispetto agli ospiti sono le esigenze rappresentate dal direttore Luisa Pesante che ha fatto presente qualche problema sull’organizzazione sanitaria all’interno che ha bisogno di qualche correttivo, e ha bisogno di sostegno da parte dell’istituzione che in Abruzzo rappresenta la sanità, la Regione: "Lì vedremo come fare, qualche idea c’è ma ne parleremo nei prossimi giorni perché dovremmo fare dei passaggi obbligatori - risponde Di Pangrazio. È stato fatto un ragionamento di come le istituzioni possono aiutare tutto questo fermento sociale e culturale per far partecipare i detenuti nelle varie attività, anche in quelle sportive perché stanno mettendo in piedi anche all’interno di questa cittadella, stanno preparando una squadra di rugby. C’è uno entra qui, pensa di entrare in un carcere, e si trova una struttura che rieduca le persone che hanno sbagliato nel passato. E come fai a capire questa cosa? Attraverso tutto quello che ti fanno vedere - conclude il Presidente del consiglio. C’è un impegno da parte nostra a trovare, prima della fine dell’anno, dove la Regione, consiglieri e assessori possono venire qui per rendersi conto di che modello di struttura rieducativa è questa qui di Sulmona". Livorno: il vicesindaco Sorgente e l’assessore Dhimgjini visitano il carcere delle Sughere www.gonews.it, 30 ottobre 2014 Una prima visita all’interno della Casa Circondariale "Le Sughere" è stata effettuata questa mattina dal vicesindaco Stella Sorgente, dall’assessore al sociale Ina Dhimgjini e dal portavoce del Sindaco, Andrea Morini. Ad accompagnarle nel percorso all’interno della struttura, la direttrice dell’Istituto Penitenziario Santina Savoca, il Garante dei Detenuti Marco Solimano, oltre a diverse unità del personale della struttura carceraria. "Si è trattato di una prima visita - tengono a sottolineare le due amministratrici - nell’ambito di una serie di incontri che intendiamo portare avanti a tutela della dignità umana dei tanti reclusi". "Perché entrare nel carcere per verificare realmente le condizioni di detenzione ci permette di effettuare una progettualità congiunta vera, basata sul bisogno e sui disagi sociali e, al tempo stesso, la nostra visita può essere di conforto ai detenuti che non devono sentirsi abbandonati dalle istituzioni". Durante la visita all’interno della Casa Circondariale, i rappresentanti del Comune hanno visitato in primis il nuovo padiglione che ospiterà nuove celle e spazi ricreativi. I lavori non sono ancora terminati ed è per questo che le amministratrici si sono prese l’impegno di fare il possibile per accelerarne la conclusione, prendendo contatti con gli amministratori ministeriali. Il nuovo padiglione (probabilmente attivo dai primi mesi dell’anno) non solo contribuirà a ridurre il sovraffollamento dell’istituto carcerario, ma migliorerà anche gli standard delle condizioni di detenzione con celle a 2 letti ( oggi le celle arrivano a contenerne anche 3) e servizi igienici separati dai locali mensa. La visita ha offerto l’occasione per verificare lo condizioni in cui versano gli spazi all’interno del penitenziario. È stata visitata la delicata "sezione di transito", l’area della sezione "ex femminile" e quella riservata ai "semiliberi". Non sono mancate visite all’interno di alcune celle di detenzione, così come l’opportunità di ascoltare le esperienze di vita quotidiana carceraria di qualche detenuto. In un’ottica di integrazione con il mondo esterno, sia Stella Sorgente che Ina Dhimgjni si sono riproposte di incrementare il più possibile tutte quelle attività laboratoriali, ricreative e formative che consentano ai detenuti di mantenere delle relazioni sociali con la città: per raggiungere questo obiettivo servirà anche il fondamentale supporto del mondo dell’associazionismo. Droghe: Cassazione; incostituzionalità Fini-Giovanardi non incide su custodia cautelare di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2014 L’incostituzionalità della Fini-Giovanardi sotto il profilo della equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti (sentenza 32/2014 della Consulta) non incide sulla rideterminazione della custodia cautelare per i procedimenti in corso e nei quali la fase cautelare sia stata già chiusa. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Cassazione (sentenza 44895/14, depositata martedì) respingendo il ricorso di un imputato cagliaritano, impugnazione rimessa dalla Quarta sezione per un conflitto giurisprudenziale sul tema. L’uomo era finito in custodia cautelare nel giugno del 2013 per detenzione a fini di spaccio di marijuana, in concorso con altre dieci persone. Prima il Gip poi il Riesame avevano più volte respinto la richiesta di sostituzione della misura e/o la sua revoca, anche dopo che la Consulta, nel marzo di quest’anno, aveva dichiarato l’incostituzionalità parziale della Fini-Giovanardi. Secondo i difensori la custodia cautelare dell’imputato, protrattasi per più di otto mesi - a fronte di un termine massimo di tre mesi alla luce del ripristino delle vecchie e più miti sanzioni - doveva essere dichiarata illegittima "per contagio", considerata la patologia originaria della norma caduta, con un effetto giuridico "ora per allora". La Quarta penale, esaminando il caso, aveva rilevato un precedente simile (Corte costituzionale 253/2004) che, in materia di presofferto all’estero, aveva riaperto il computo dei termini in senso favorevole all’imputato, anche di fronte a una fase procedimentale (la custodia cautelare) già chiusa. Le Sezioni unite, al termine di una lunghissima ricostruzione storica/giuridica, sono però pervenute a una decisione diversa rispetto al precedente di dieci anni fa, negando l’effetto benefico retroattivo della pronuncia della Consulta sugli arresti del sospetto spacciatore sardo. Questo perché, argomenta il relatore, nonostante lo scrutinio costituzionale "la legittimità di un provvedimento nel momento della sua adozione e fino al momento della cessazione dei suoi effetti era ed è rimasta perfettamente tale; l’atto ha esaurito i suoi effetti indiretti, sulla disciplina delle durata delle fasi della custodia cautelare, all’interno di un quadro di stabilità normativa, senza ulteriori ricadute nella vicenda cautelare; infatti la fase successiva, non ancora conclusa, ha visto l’immediata potenziale applicabilità della nuova disciplina fin dall’inizio della sua vigenza". Applicare invece il parametro di calcolo "nuovo "a una fase procedimentale già chiusa e a sua modo "perfetta" darebbe invece luogo a un risultato "illegittimo". In sostanza, a giudizio delle Sezioni unite, "in questo caso per tutto il periodo di riferimento (la fase cautelare, ndr) il parametro normativo è stato rispettato". Se successivamente alla fase considerata sono cambiate le regole "non può ritenersi tuttavia che la disciplina del sistema della custodia cautelare che ha trovato applicazione (...) debba essere considerata irragionevole e comporti una violazione dell’articolo 3 della Costituzione". Droghe: altri tre Stati Usa votano sulla marijuana, è la fine del proibizionismo? di Viviana Mazza Corriere della Sera, 30 ottobre 2014 Altri due Stati americani - Oregon e Alaska - più Washington D.C. si preparano a votare, il 4 novembre, in tre nuovi referendum sulla legalizzazione della marijuana per "uso ricreativo". Dopo i pionieri del Colorado e dello Stato di Washington, che hanno detto "sì" già nel 2012, questo secondo "giro" è osservato con grande attenzione. L’allargarsi dell’uso ricreativo in America, accanto a quello medico - già legale in 23 Stati, potrebbe orientare infatti le future decisioni a livello nazionale (per la legge federale la marijuana resta ancora illegale). Di certo, è la conferma della crescita esponenziale di una nuova industria con un volume d’affari che nel 2020 potrebbe superare quello della National Football League, secondo una stima di Greenwave Advisors pubblicata dal Washington Post. Che cosa farà il governo federale - si chiedono in molti: sceglierà di ostacolare un business milionario oppure di contribuire a regolamentarlo? Aziende e investitori legati a questa nuova industria stanno appoggiando anche finanziariamente le campagne pro-legalizzazione in Oregon e in Alaska, scrive il New York Times, mentre il fronte anti-marijuana si è trovato con le tasche vuote e (relativamente) ridotto al silenzio sui media. Organizzazioni nazionali come il "Marijuana Policy Project" appoggiato da attori, musicisti e politici, e come la "Drug Policy Alliance", finanziata dal miliardario George Soros, hanno anch’esse contribuito con centinaia di migliaia di dollari. Per il fronte del sì, ogni nuovo stato è un test importante e si pensa già a referendum in nuovi Stati per il 2016. Solo in Florida, dove si voterà sempre martedì per la legalizzazione a "scopi medici" della marijuana (sarebbe il primo Stato del Sud) l’opposizione ha ricevuto 5 milioni di dollari dal magnate dei casinò Sheldon Adelson. Per i politici, l’appoggio alla legalizzazione non è più un tema "tossico": anche nel partito repubblicano, dove il movimento libertario ha assunto peso crescente, il senatore del Kentucky Rand Paul afferma che il consumo dovrebbe essere depenalizzato. I sostenitori hanno dalla loro parte argomentazioni come la necessità di sottrarre gli incassi ai cartelli della droga e di incanalarli in business legali con un profitto per gli Stati grazie alle tasse, e l’urgenza di evitare il sovraffollamento delle prigioni. Il test del Colorado, dove dall’inizio di quest’anno è possibile comprare la marijuana nei negozi autorizzati o riceverla a domicilio come una pizza, è stato importante: ha mostrato che i timori di un aumento del crimine (o degli incidenti d’auto) non si sono materializzati, secondo studi appena pubblicati da due diversi think tank, il Brookings e il Cato Institute; mentre lo Stato ha incassato 45 milioni in tasse sulla vendita dell’erba (una parte è destinata a nuove scuole e a programmi per insegnare ai bambini a star lontani dalle droghe). Nell’opinione pubblica, poi, i sondaggisti del Pew Center notano che oggi è favorevole alla legalizzazione il 52% degli americani (lo era solo il 12% nel 1969), un cambiamento avvenuto soprattutto tra il 2011 e il 2013 e trainato dai "millennials". È significativo che il 69% degli americani creda che l’alcol sia più dannoso dell’erba: lo sanno perché molti (il 47%) l’hanno provata. Il grande ostacolo alla corsa all’"oro verde" è il fatto che la marijuana resta illegale a livello federale, il che scoraggia gli investimenti e costringe spesso i negozianti a chiedere pagamenti in contanti anziché usare carte di credito e banche. Il dipartimento della Giustizia ha segnalato che non intende intervenire. Ma come la penserà il prossimo inquilino della Casa Bianca? E il prossimo ministro della Giustizia? Inoltre i negozianti patiscono ancora i raid, seppure occasionali, della Dea, l’agenzia federale antidroga. In quest’anno "non presidenziale" (martedì si vota per il Congresso e i governatori, non per la Casa Bianca), la questione della marijuana è una delle poche ad attirare i più giovani. "Conosco un sacco di gente che se è interessata a questo - racconta un attivista dell’Oregon. A questo e poco altro". Francia: per morte in carcere di Daniele Franceschi condannati un medico e un’infermiera Adnkronos, 30 ottobre 2014 Il Tribunale di Grasse, in Francia, ha condannato due dei tre imputati nel processo per la morte di Daniele Franceschi, il giovane viareggino morto nel carcere di Grasse il 25 agosto del 2010. Il medico del carcere Jean Paule Estrade e l’infermiera Stephanie Colonna sono stati condannati a un anno di reclusione, pena sospesa, e all’interdizione dalla professione per un anno. Assolta invece l’infermiera Françoise Boselli. Alla lettura della sentenza di primo grado era presente la madre del giovane, Cira Antignano, visibilmente commossa, accompagnata dai propri legali, Aldo Lasagna e Maria Grazia Menozzi. "È stata una prima risposta della giustizia francese - ha commentato la madre di Franceschi - e intendo proseguire in ogni sede la battaglia per la restituzione degli organi". "È comunque - ha sottolineato l’avvocato Lasagna - una sentenza storica perché da quello che ci risulta è la prima che un medico di un carcere francese viene condannato per la morte di un detenuto". Ora occorrerà attendere il 2 marzo 2015 per conoscere la decisione sull’entità del risarcimento per la famiglia. Madre dopo sentenza: che giustizia è questa? "Ma quale giustizia è questa?". È piena di rabbia la reazione, rilasciata ad Askanews, da Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi. Per la morte del giovane viareggino, mentre era detenuto nel carcere di Grasse, il tribunale della cittadina francese ha condannato a un anno con sospensione della pena il medico del carcere, Jean Paul Estrade, che però è stato interdetto sempre per un anno dall’attività professionale. Stessa sorte per l’infermiera Stephanie Colonna, mentre è stata assolta l’altra infermiera Françoise Boselli. Prosciolto, come del resto aveva chiesto il pm, l’ospedale di Grasse. Franceschi, viareggino, è morto il 25 agosto 2010, come ha comunque riconosciuto il giudice, per negligenza dei medici che non lo hanno soccorso mentre era colpito da attacco cardiaco. Era stato recluso per uso fraudolento di carta di credito. In aula anche Daniela Rombi, che nella strage ferroviaria di Viareggio, perse la figlia Manuela dopo 40 giorni di agonia: "gli avvocati si sono mostrati soddisfatti, li capisco, perché era dura arrivare a processare il carcere di Grasse da parte di quello stesso tribunale con cui lavorano tutti i giorni. Soddisfatti gli avvocati, ma noi siamo mamme e la pena è irrisoria - ha continuato Rombi - e anche per il risarcimento si parla di cifre ridicole, 10, 20mila euro". Per ottenere il risarcimento, Cira Antignano dovrà attendere almeno il 2 marzo 2015, quando si terrà la prima udienza della causa civile. "Questo ora non mi preoccupa - ha detto ancora Antignano- il problema è che l’hanno sempre vinta loro. Questi non si fanno neanche un giorno di carcere. Ce li volevo mandare, non per cattiveria, ma per fargli capire cosa si prova". Manconi e Graniola (Pd): giustizia è fatta "Si è conclusa con due condanne la vicenda giudiziaria di Daniele Franceschi, l’uomo di 36 anni di Viareggio morto nel carcere francese di Grasse il 25 agosto 2010. Siamo soddisfatti del fatto che la magistratura francese abbia riconosciuto le responsabilità dei sanitari del carcere". È quanto dichiarano i senatori del Partito democratico Luigi Manconi e Manuela Granaiola. "Il medico della struttura sanitaria del carcere e una delle due infermiere indagate sono stati condannati a un anno di reclusione con pena sospesa e a un anno d’interdizione dalla professione. Abbiamo sempre sostenuto la signora Cira Antignani, madre di Daniele, nella sua tenace battaglia per l’affermazione della verità e della giustizia, contro mille ostacoli e una infinità di resistenze burocratiche, amministrative e diplomatiche. Ringraziamo la signora Antignani perché quanto ha fatto per suo figlio è un importantissimo contributo per la tutela della dignità di tutti coloro che si trovano detenuti, in Francia come in Italia. Lo diciamo con tanta maggiore convinzione pensando che tra due giorni sarà emessa la sentenza d’appello per la morte di Stefano Cucchi". Stati Uniti: pena di morte; esecuzione in Texas, ma in Usa tendenza in calo Agi, 30 ottobre 2014 Nello Stato del Texas è stato giustiziano un uomo condannato a morte per aver assassinato tre membri di una banda rivale nella città di San Antonio nel 2000. Miguel Paredes, 32 anni, è stato giustiziato con un’iniezione letale nel braccio della morte del carcere di Huntsville. Intanto in Missouri, un’esecuzione prevista per oggi è stata bloccata all’ultimo minuto dalla Corte Suprema che deve decidere se accogliere una richiesta di appello. Mark Christeson, 35 anni, è condannato alla pena capitale per aver ucciso, nel 1998, una madre insieme ai suoi due bambini. Comunque vada, il numero delle esecuzioni quest’anno negli Stati Uniti sembra destinato a toccare il picco più basso dal 1994: il bilancio totale dovrebbe, entro la fine dell’anno, arrivare a quota 35, il numero più basso dai 31 detenuti giustiziati nel 1994. L’anno scorso negli Usa furono realizzate 39 condanne a morte. A rallentare il ritmo soprattutto la difficoltà a reperire i farmaci per il cocktail dell’iniezione letale. Libia: Amnesty; crimini di guerra in da parte delle milizie, torture su detenuti e civili Tm News, 30 ottobre 2014 In Libia le milizie pro-governative e quelle ribelli che cercano di assumere il controllo della parte occidentale del paese nordafricano stanno commettendo crimini di guerra, torturando i detenuti e colpendo i civili. L’ha affermato ieri Amnesty International. La Libia è al centro di violenti combattimenti, in particolare nella sua parte occidentale e nella seconda città del paese, Bengasi. Amnesty ha affermato che le milizie che si combattono mostrano un "completo irrispetto" per le vittime civile e le ha accusato di colpire indiscriminatamente con l’artiglieria anche quartieri fittamente abitati da civili.