Giustizia: le violazioni ai diritti dell’uomo nel 2013 sono costate all'Italia 61 milioni € di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2014 È di oltre 6imilioni di euro la cifra che l’Italia ha versato, nel 2013, per l’esecuzione delle pronunce di Strasburgo, a seguito di violazioni commesse dall’Italia accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nell’importo, che dà il segno del costo per le casse dello Stato del mancato rispetto dei diritti convenzionali sul piano interno, sono inclusi anche gli importi fissati nei regolamenti amichevoli. Si tratta di una cifra mai raggiunta. Basti pensare che, nel 2012, l’ammontare arrivava a "soli" 19 milioni di euro. I dati, allarmanti, sono riportati nella relazione annuale del 2014 sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea nei confronti dello Stato italiano relativa all’anno 2013, adottata dalla presidenza del Consiglio dei ministri secondo la legge n. 12 del 2006. Il balzo in avanti relativo agli indennizzi versati e dovuto anche all’esecuzione di alcune pronunce del 2012. In pratica, nella cifra delle 48 pronunce eseguite sono inclusi gli importi relativi a 15 sentenze del 2013, a 28 del 2012 e a 5 regolamenti amichevoli (che non superano i 56mila euro). Nell’esecuzione delle sentenze sono state incluse anche le pronunce di radiazione dal ruolo che però hanno provocato un obbligo di pagamento e che, quindi, sono equiparate alle sentenze di condanna. I ritardi nell’esecuzione hanno coinvolto soprattutto i casi di espropriazione, anche per le difficoltà di dialogo con alcuni enti territoriali. La relazione non indica solo i costi a carico dello Stato, ma fornisce una fotografia delle criticità strutturali presenti sul piano interno, da risolvere non solo per evitare condanne seriali - una patologia del contenzioso italiano - con conseguenti esborsi, ma anche per limitare il flusso di ricorsi a Strasburgo, con l’adozione di normative rispettose della Convenzione come interpretata dalla Corte europea. Tra le pronunce più significative depositate nel 2013 il caso Varvara in materia di confisca, la pronuncia di De Luca e altri sul dissesto degli enti locali, il caso Parrillo sulla fecondazione assistita e la sentenza Torreggiani sulle carceri. Il rapporto cataloga anche le pronunce degli organi giurisdizionali nazionali relative all’applicazione della Convenzione, Corte costituzionale e Cassazione in testa: aumentano i ricorsi pendenti nei confronti dell’Italia di circa l’1,3%, in parte da imputare al contenzioso seriale. Ben 7mila casi ripetitivi sono fondati sui ritardi nei pagamenti in base alla legge Pinto. Nel 2013 sono invece diminuiti i ricorsi comunicati al Governo: erano 965 nel 2012 sono scesi a 804 nel 2013. Tra le tematiche emergenti quelle legate all’inquinamento in particolare provocato dai rifiuti e dalle emissioni inquinanti. Tra i casi ancora pendenti, il ricorso per l’inquinamento provocato dall’Ilva. Sul fronte delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti di Regioni e altri enti pubblici, il quadro disegnato dalla legge n. 234/2012 mostra ancora difficoltà di attuazione. Con un effetto paradossale ossia l’insorgere di un nuovo contenzioso interno. Sono stati poi adottati alcuni piani d’azione: quello per l’inadeguatezza della legge Pinto, nelle intenzioni, dovrebbe portare alla graduale chiusura, entro il 2014, di 7.046 ricorsi pendenti. Giustizia: il "Protocollo Farfalla" in Commissione Antimafia, bocche cucite sul contenuto di Donatella Di Nitto La Presse, 2 ottobre 2014 Il protocollo Farfalla approda in Antimafia, ma i commissari serrano le labbra. Nessun commento da parte dei membri della bicamerale sul presunto patto tra il Sisde e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che avrebbe consentito a esponenti dei Servizi segreti di avvicinare i detenuti sotto regime del 41 bis per ottenere delle informazioni in cambio di denaro. Oggi la bicamerale ha ascoltato il procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato, sulla situazione sicurezza dei magistrati siciliani, a fronte di una lettera di minacce che lo stesso Scarpinato ha trovato sulla sua scrivania a settembre. Una situazione "gravissima", ha detto Giuseppe Lumia (Pd) uscendo da Palazzo San Macuto, senza abbandonarsi a dettagli, visto che lo stesso pg ha chiesto a inizio di seduta che l’audizione fosse interamente secretata. Il deputato del Movimento 5 Stelle, Riccardo Nuti, non ha esitato anche lui a definire "un colabrodo" la sicurezza intorno sia a Scarpinato che ai magistrati. Sul protocollo Farfalla però nessun dettaglio, ma neanche nessun commento. Unica novità è che il protocollo in sei pagine, ora in Parlamento, viene chiamato operazione Farfalla. In molti oggi hanno tenuto a fare questa precisazione come se si volesse sottolineare che quella attuata da Sisde e Dap non è stata una procedura, piuttosto un episodio mirato, ma non replicabile. Il protocollo Farfalla, fino a qualche anno fa considerato un mito anche dell’ex ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, che nel corso di una audizione in Antimafia aveva negato la sua esistenza, si è materializzato grazie al governo guidato da Matteo Renzi che ne ha deciso la sua desecretazione. L’accordo segreto tra il Sisde guidato da Mario Mori e il Dipartimento amministrazione penitenziaria diretto all’epoca da Giovanni Tinebra, sancito nel 2004, prevede in sintesi soldi a boss mafiosi, detenuti al 41 bis e condannati all’ergastolo in cambio di informazioni sulle associazioni criminali di cui facevano parte. Solo sei pagine senza timbri e firme, che il procuratore generale di Palermo Scarpinato vorrebbe acquisire agli atti del processo d’appello contro Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Nel plico interessanti risultano gli appunti allegati, dove c’è una lista di detenuti che gli 007 hanno individuato perché, secondo loro, disponibili a fornire informazioni, appunto dietro compenso idoneo. Denaro che, secondo quanto ricostruito, veniva proprio dai fondi destinati al Sisde. Di tutto questo oggi sembra che non si sia parlato in commissione Antimafia, se non, riferiscono alcuni commissari, per confermare "quanto uscito sui giornali". Scarpinato ha fatto altri nomi di boss che hanno partecipato al protocollo Farfalla? La risposta è la stessa: "No". Eppure il protocollo sembra essere diventato operazione. Si è quindi confermato che Fifetto Cannella, il boss di Brancaccio condannato all’ergastolo per la strage di via d’Amelio, Vincenzo Boccafusca, il padrino del mandamento di Porta Nuova che ordinava omicidi al telefono mentre si trovava agli arresti domiciliari, Salvatore Rinella, capomafia di Trabia vicino al pentito Nino Giuffrè, più il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo, autore di recente di alcune rivelazioni sulla reale identità di "Faccia da Mostro", sono tutti nella lista di quelli che hanno "sganciato" informazioni, gruppo che si sarebbe potuto allargare grazie alla disponibilità a parlare di altri "capi" come i camorristi Antonio Angelino e Massimo Clemente, e Angelo Antonio Pelle esponente della ‘ndrangheta. Resta un mistero però il contenuto dello scambio, sia economico che di informazioni. Il protocollo infatti prevede per i detenuti "l’esclusività e la riservatezza del rapporto", oltre al fatto che le "confidenze dei boss" carpite in carcere erano una esclusiva dai servizi stessi, che avrebbero reso noto ai magistrati a loro discrezione. Giustizia: il generale Mori, il Protocollo Farfalla e il segreto di Berlusconi sulle carceri di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2014 Mentre i magistrati non erano stati informati, ho ragione di pensare che sia stato ben informato il presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi". Pochi giorni fa, il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava aggiungeva un dettaglio su quella che lui stesso ha definito la "Gladio nelle carceri", ossia l’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per gestire le informazioni fornite da alcuni mafiosi. I nomi dei boss che hanno parlato con gli 007 sono finiti nel Protocollo Farfalla, che in realtà è stato trovato anni fa, nel 2006, durante una perquisizione al Sisde, disposta dai pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che stavano indagano su Salvatore Leopardi, il magistrato di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde. Nell’ambito di questo processo vengono sentiti alcuni 007, proprio per capire il circuito delle informazioni, ed è in questa fase che forse si concentrano i sospetti del vice presidente della commissione Antimafia: perché a confermare il segreto di Stato, opposto da uno 007 che avrebbe potuto chiarire questo aspetto, è stato proprio il governo Berlusconi il 7 marzo 2011. Per capire questa storia, bisogna fare un passo indietro, ripercorrere le fasi del processo a Leopardi (ancora in corso in primo grado) e ricostruire il contesto. Quando i pm romani trovano il protocollo Farfalla infatti è il 2006, anno di insediamento del II governo Prodi che resta in carica fino all’8 maggio 2008, quando ritorna Berlusconi. Con Prodi vengono rinnovati i vertici dei servizi segreti: al posto di Nicolò Pollari al Sismi viene chiamato l’ammiraglio Bruno Branciforte; mentre al Sisde lascia Mario Mori, direttore dal 2001, sostituito da Franco Gabrielli. Gli inquirenti di Piazzale Clodio indagavano dopo le rivelazioni di Antonio Cutolo, condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Sulmona. Cutolo, detto Tonino ‘mulletta , sosteneva di avere dettagli per arrestare Edoardo Contini, considerato il vertice dell’omonimo clan camorristico, e di aver fornito alcune informazioni a due agenti della polizia penitenziaria che a loro volta avrebbero riferito al direttore del carcere abruzzese, all’epoca Giacinto Siciliano. Questi avrebbe informato il capo del servizio ispettivo del Dap di quegli anni, appunto Leopardi, che a sua volta riferì al Sisde. Questa "catena di Sant’Antonio" è costata a Leopardi e ad altri l’accusa di falsità ideologica e omessa denuncia di reato, ma il processo non è ancora conclusa. In fase dibattimentale, tra gli 007 convocati c’era il colonnello dell’Aisi (ex Sisde) Raffaele Del Sole, che non ha mai risposto ai magistrati, anche grazie a Berlusconi. Il 7 marzo 2011, infatti, l’ex premier ha confermato il segreto di Stato sulle informazioni che i magistrati volevano ottenere da Del Sole. Per i pm ciò incideva profondamente sulla possibilità di pervenire a una piena ricostruzione delle condotte contestate agli imputati, oltre violare l’articolo 39 comma 11 della legge 124 del 3 agosto 2007 (riforma dei servizi) che stabilisce che in "in nessun caso possono essere oggetto di segreto di stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di strage, associazione per delinquere e devastazione o saccheggio". Principio già affermato dall’articolo 204 del codice di procedura penale. E nel caso del processo Leopardi si stava lavorando proprio su personaggi gravitanti negli ambienti camorristici. Il 24 novembre 2011, la VI sezione del tribunale di Roma chiude la questione e stabilisce che il giudizio poteva "proseguire a prescindere, almeno per ora, dalla legittimità del confermato segreto di Stato". La scelta di non far testimoniare lo 007 potrebbe quindi porre un ulteriore ostacolo al chiarimento almeno di un aspetto di quelli che erano i rapporti tra i servizi e i pentiti e che trova conferma nel Protocollo Farfalla. Dopo averlo trovato, i pm hanno iniziato una serie di interrogatori. Sono stati sentiti sia Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, sia Leopardi, che sono anche i due pm che chiesero l’archiviazione, poi ottenuta, di Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Tinebra, sentito dai pm, smentisce la circostanza e nega di sapere dell’accordo, mentre l’ex capo del Sisde Mario Mori avrebbe minimizzato spiegando che si trattava di un progetto per gestire le informazioni, che però non si era mai concretizzato. Dopo questi interrogatori, i magistrati romani presentano un ordine di esibizione al Dap ma di quel protocollo non c’è traccia. Così mandano a processo Leopardi e altri per una sola vicenda, e la faccenda si chiude senza il deposito delle carte del Sisde, compreso il Protocollo Farfalla. Fino a gennaio scorso quando il carteggio è stato mandato a Palermo, che ha ricevuto non solo l’accordo tra Sisde e Dap, ma anche gli interrogatori resi all’epoca, oggetto di una nuova indagine. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, in Senato passa la versione "hard" di Errico Novi Il Garantista, 2 ottobre 2014 La Commissione Giustizia del Senato ignora la legge presentata da Orlando, che prevedeva misure più tenui, e manda avanti il testo Buemi, più duro coi giudici. Il disegno di legge governativo sulla responsabilità civile dei giudici resta al palo. Con un voto a sorpresa la commissione Giustizia del Senato ha deciso ieri di non adottare il testo depositato la settimana scorsa dall’esecutivo: si prosegue nell’esame di una proposta già da mesi all’attenzione di Palazzo Madama, quella che porta la firma del socialista Enrico Buemi. Viene così bloccato sul nascere uno degli snodi più importanti nella riforma della giustizia del ministro Andrea Orlando. Che sulla delicata questione degli errori giudiziari aveva presentato una legge molto bilanciata. La commissione del Senato presieduta dal forzista Francesco Nitto Palma ha preferito la versione più dura sostenuta da Buemi. La differenza riguarda soprattutto la cifra massima per la quale lo Stato può rivalersi sul giudice dopo aver risarcito il cittadino: il governo l’aveva fissata al 50 per cento dello stipendio annuo del magistrato, la legge parlamentare non prevede limiti e consente all’amministrazione di recuperare l’intera somma. Nella versione del Senato inoltre le toghe sono chiamate a rispondere anche della mancata osservanza di sentenze della Cassazione a sezioni unite. Il ministro della Giustizia incontrerà oggi i senatori della commissione: allo stato, può solo presentare emendamenti e sperare che il vento cambi. Rischia di andare in fumo il lavoro di un’intera estate. Il ministro Orlando ha fatto un grande sforzo di equilibrio nel preparare la riforma della giustizia: da una parte la mano pesante di Matteo Renzi e le aspettative di alcune forze politiche, Ncd in testa, dall’altra i giudici. Fino a inizio settembre il Guardasigilli era riuscito a mantenere un clima se non disteso almeno civile. Ma a questo punto tutto rischia di essere superato dalla volontà del Parlamento: sulla responsabilità civile dei magistrati la commissione Giustizia del Senato ha deciso infatti di mandare avanti il testo già in discussione da alcuni mesi, presentato dal socialista Enrico Buemi, anziché il ddl appena depositato dal governo. Quest’ultimo di fatto viene soppiantato. "In realtà è il regolamento a imporre un scelta del genere", osserva Buemi, che firma il testo insieme con il segretario del suo partito, Riccardo Nencini, e l’altro senatore del Psi Fausto Longo. In effetti la proposta di legge parlamentare è già arrivata all’esame dei singoli articoli, e in questi casi solo un voto della commissione consente di bruciare il lavoro già fatto e ripartire da zero, cioè dal ddl governativo. Una retromarcia che ieri i senatori si sono ben guardati dal fare. E il problema a questo punto non è di natura procedurale. Nell’articolato di Buemi infatti si prevede che lo Stato possa rivalersi sul giudice che ha commesso l’errore per il 100 per cento del danno risarcito al cittadino. Senza una soglia massima. Il governo individua invece un tetto, anche piuttosto contenuto: il 50 per cento dello stipendio percepito dal magistrato nell’anno in cui ha commesso l’errore. Vero è che a tirare materialmente fuori i soldi al posto dei giudici sono le compagnie assicurative. Ma è vero pure che con parametri del genere i premi polizza trattenuti dalle buste paga dei magistrati salirebbero un bel po’ (oggi si aggirano sui 250 euro all’anno). Non solo. Perché nella proposta di legge già all’esame del Senato i casi nei quali un magistrato può essere chiamato a rispondere dei suoi errori si estendono all’inosservanza di sentenze della Cassazione a sezioni unite. In pratica il giudice può allontanarsi dalla giurisprudenza ma deve spiegare perché lo fa. Nel disegno di legge messo a punto a via Arenula il vincolo riguarda solo la giurisprudenza comunitaria. "Con il voto appena espresso la commissione ha scelto il testo che porta la mia firma", dice Buemi, "il governo potrà inserire i contenuti del suo ddl sotto forma di emendamenti". In linea teorica il ministro della Giustizia potrebbe ancora riportare il provvedimento sulla rotta tracciata dal suo ufficio legislativo. Ma non sarà facile. A Palazzo Madama in numeri sono sempre in bilico, e in questo caso anche più che in altri, visto che segmenti pur piccoli della maggioranza come il Psi sono su posizione più dure. Oggi Orlando incontrerà proprio i senatori della commissione Giustizia: all’ordine del giorno l’esame del decreto legge sul processo civile, per il quale ieri è scaduto il termine di presentazione degli emendamenti. Ma sarà inevitabile che la discussione scivoli sulla responsabilità dei magistrati. Il Guardasigilli cercherà di riportare il percorso della legge su binari meno distanti dal confronto con l’Anni. Non è sua intenzione giocare questo secondo tempo della riforma della giustizia in un clima di rissa con le toghe. Innanzitutto perché sono ancora in sospeso tre provvedimenti delicatissimi, che richiedono una discussione aperta con il sindacato dei giudici: quello sulle intercettazioni, fermo in attesa di un dibattito con i direttori dei giornali, il ddl di riforma del Csm, finalmente in rampa di lancio ora che si è insediato il nuovo Consiglio superiore, e il provvedimento su prescrizione e impugnazioni nel processo penale, prossimo ad essere assegnato a una delle Camere. Il terreno del confronto con i magistrati rischia di diventare del tutto impraticabile. Già gli scambi di battute a distanza degli ultimi giorni tra Renzi e l’Anni hanno complicato la situazione. Con una responsabilità civile in versione hard la rissa è dietro l’angolo. È quello infatti l’intervento più temuto dai giudici, perché aprirebbe una breccia nella loro quasi assoluta intangibilità. D’altronde il Parlamento ha anche un altro vantaggio. L’esecutivo si è visto costretto a specificare il budget annuo disponibile per risarcire i cittadini vittime di malagiustizia, e nella relazione tecnica del proprio ddl lo ha fissato alla cifra piuttosto modesta di 540mila euro, come segnalato ieri da Libero. Il Parlamento invece potrà avere più tempo per ampliare il plafond, attraverso passaggi in commissione Bilancio. E se resteranno le soglie più ampie previste dal testo del Senato, quel passaggio sarà inevitabile. Giustizia: Manconi (Pd) presenta Ddl per "rieducare" gli agenti con corsi di non-violenza Dire, 2 ottobre 2014 Testo del Disegno di legge depositato in Senato: abusi frutto di preparazione inadeguata. Mentre alla Camera si discute di dotare i poliziotti di pistola elettrica e videocamere indossabili per una migliore gestione dell’ordine pubblico e della sicurezza, al Senato c’è chi ritiene necessario "rieducare" gli agenti con corsi di "non-violenza" "per i troppi e frequenti episodi di abusi" imputabili non "a casi di singoli" ma alla "inadeguatezza della loro preparazione". È scritto nero su bianco in un disegno di legge, a prima firma del presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, Luigi Manconi, depositato a Palazzo Madama assieme ad altri 17 colleghi del Pd, alcuni senatori M5S ed ex del Movimento di Beppe Grillo. La proposta, pensata il 14 luglio, è stata assegnata la scorsa settimana alla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. "Al fine di garantire la piena conformità dell’istruzione, della formazione e dell’aggiornamento professionale del personale delle Forze di polizia" ai "valori della Costituzione della Repubblica e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea" all’articolo 1 del testo si propone l’inserimento, nei programmi didattici destinati alla formazione e all’aggiornamento delle Forze di polizia, delle attività e degli insegnamenti funzionali all’apprendimento delle tecniche e dei metodi della non violenza. Nella premessa al ddl, si osserva: "I troppo frequenti episodi di violenze e abusi da parte delle Forze di polizia, sembrano denotare, tra le altre cause, l’inadeguatezza della loro preparazione e l’esigenza di una complessiva revisione del loro percorso formativo, nel segno di una maggiore democratizzazione. Per ricorrenza, dimensioni e gravità, comportamenti violenti e prevaricatori quali quelli tenuti, ad esempio, in occasione del G8 di Genova, non sono imputabili esclusivamente ad eccessi e devianze di singoli agenti, ma a una complessiva esigenza di miglioramento, sotto il profilo deontologico e valoriale, della preparazione del personale di polizia". Nel Ddl Manconi sui corsi di "non violenza" ai poliziotti, presentato in Senato, si sottolinea che "il continuo confronto con situazioni di difficoltà e spesso anche di scontro richiede una preparazione ad ampio spettro, che fornisca gli strumenti per gestire, nella maniera appunto più pacifica possibile, condizioni di tensione e stemperarne la conflittualità. In tal senso, sarebbe quanto mai opportuno- si suggerisce- arricchire il percorso formativo del personale delle Forze di polizia di tecniche e metodologie non violente, che forniscano loro gli strumenti per la risoluzione pacifica dei conflitti e per il superamento di situazioni di tensione". È significativo sotto questo profilo, spiegano i firmatari, che "nella maggior parte dei Paesi europei il percorso formativo e di aggiornamento del personale di polizia, soprattutto se destinato al servizio di ordine pubblico, comprenda anche l’apprendimento delle tecniche e delle metodologie non violente, con risultati alquanto positivi". Pertanto, concludono, "nella consapevolezza dell’importanza del momento formativo ai fini dell’introiezione dei migliori modelli comportamentali, il presente disegno di legge intende promuovere la conoscenza e il ricorso alla non violenza, quale metodo di risoluzione dei conflitti, tra le forze di polizia, così conformandone pienamente il ruolo ai valori democratici sanciti dalla Costituzione". Gli altri firmatari del disegno di legge sono: i senatori Pd Rita Ghedini, Valeria Fedeli, Paolo Corsini, Silvana Amati, Sergio Lo Giudice, Daniela Valentini, Rosa Maria Di Giorgi, Miguel Gotor, Elena Ferrara, Daniele Gaetano Borioli, Maria Spilabotte, Erica D’Adda, Monica Cirinnà, Francesca Puglisi, Pasquale Sollo, Francesco Giacobbe, Laura Puppato; i due M5s Marco Scibona e Manuela Serra; gli ex pentastellati ora nel gruppo Misto Adele Gambaro e Marino Germano Mastrangeli. Il ddl presentato in Senato, tra l’altro, sancisce in capo al Ministro dell’interno l’obbligo di presentare alle Camere, con cadenza annuale, una relazione sull’attività formativa realizzata, comprensiva altresì dell’indicazione degli obiettivi prefissati per l’anno successivo. Il contenuto di tale relazione potrà poi, ovviamente, essere oggetto di dibattito parlamentare e, se del caso, di atti di indirizzo che forniscano dunque, al Governo - e nella specie al Ministro dell’interno, nella sua qualità di autorità nazionale di pubblica sicurezza - le direttive necessarie per la definizione delle linee programmatiche per l’istruzione, formazione e aggiornamento delle Forze di Polizia. Giustizia: Tonelli (Sap); non ci servono corsi di pacifismo, ma stipendi dignitosi Dire, 2 ottobre 2014 "I corsi di pacifismo che il senatore Manconi vorrebbe far fare ai poliziotti italiani ricordano le "rieducazioni del nemico di classe" che Stalin imponeva nella Russia sovietica". Lo dice Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei maggiori sindacati di polizia, a proposito del disegno di legge depositato da Luigi Manconi in Senato, assieme ad altri colleghi del Pd e alcuni M5s ed ex-M5S, per istituire corsi di non violenza per la polizia. "Il ddl che il presidente della Commissione diritti umani ha depositato - sottolinea Tonelli - assieme a un manipolo di parlamentari, tra cui il noto leader no tav Marco Scibona, ben noto agli archivi delle forze dell’ordine, è la triste conferma di quel che denunciamo da sempre e cioè che in parte del mondo istituzionale è fortissimo il partito dell’anti polizia e di coloro che odiano le divise. In Italia non ci sono troppi agenti violenti; purtroppo invece ci sono troppi politici come Manconi che trasudano odio da ogni poro per i servitori dello Stato e che parlano e agiscono, a spese del contribuente, senza conoscere la realtà delle cose". Il segretario del Sap continua: "Il senatore Manconi può contare su appoggi mediatici importanti, come è noto, a partire dal Tg3. Per Manconi, ex leader di Lotta Continua e protagonista anche di scontri violenti negli anni di piombo, ogni occasione è buona per sparare a zero contro le donne e gli uomini in divisa. Il senatore conosce le nostre scuole di polizia e i nostri corsi di perfezionamento, che prevedono tra l’altro la materia dei diritti umani? Da chi dovremmo andare a scuola di pacifismo? Forse dai suoi amici No Tav o dagli antagonisti che mettono a ferro e fuoco le nostre città?". E ancora: "Lo sa, il senatore Manconi, che dall’inizio dell’anno ben 4.000 poliziotti sono rimasti feriti a seguito di interventi a fronte di pochissime, presunte segnalazioni di nostri abusi, il più delle volte inesistenti e montati ad arte sui media? A Manconi e ai suoi amici diamo un consiglio, per il loro bene e per il nostro: stiano alla larga dai problemi delle forze di polizia, si occupino dei problemi del Paese se ne sono capaci. A noi non servono corsi di pacifismo, ma risorse per avere una formazione migliore, mezzi adeguati, uffici dignitosi e stipendi all’altezza del rischio che corriamo". Giustizia: Capece (Sappe); mettere in dubbio la nostra professionalità è ingiusto e ingrato Dire, 2 ottobre 2014 "Le Forze di Polizia in Italia, e la Polizia Penitenziaria tra loro, sono istituzioni sane e democratiche, i cui appartenenti ogni giorno, 24 ore su 24, rischiano la vita per la salvaguardia della sicurezza sociale del Paese. Alle donne e gli uomini delle Forze di Polizia, così come a tutti coloro che svolgono con serietà e competenza una professionale, servono sì una formazione e un aggiornamento professionale costante, continuo e mirato al tipo di attività che si svolge. Però questo quasi mai viene fatto perché i Governi di tutti i colori e i Parlamenti che si sono succeduti nel tempo non stanziano adeguate risorse economiche a questi scopi". Lo dice il segretario generale del Sappe, Donato Capece, a proposito del ddl a prima firma Luigi Manconi depositato in Senato per proporre corsi di non violenza per i poliziotti. "Mettere in dubbio la democraticità delle Forze di Polizia italiane, e tra esse della Polizia Penitenziaria- aggiunge- mi sembra davvero fuori luogo. Luigi Manconi, primo firmatario della proposta di legge, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, già Sottosegretario di Stato alla Giustizia, sa bene che la Polizia penitenziaria non ha nulla da nascondere. L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci chiaro, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale, ma ancora sconosciuto, lavoro svolto quotidianamente dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria". Capece continua: "Del carcere e dei Baschi Azzurri viene spesso diffusa un’immagine distorta, che trasmette all’opinione pubblica un’informazione parziale, non oggettiva e condizionata da pregiudizi. Tanto per dire, negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2013, abbiamo salvato la vita, in tutta Italia, ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Questa è la democrazia dei fatti, non la demagogia delle parole. La Polizia Penitenziaria, continua il segretario del Sappe, "nelle oltre 200 carceri italiane, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Luigi Manconi, da Sottosegretario alla Giustizia, avrebbe potuto fare molto ma non ha fatto nulla, e con la sua proposta vuole coprire questa sua desolante inattività istituzionale. È stato il primo responsabile della mancata programmazione da parte del Ministero della Giustizia (e quindi del Governo) dei necessari interventi strutturali per il sistema carcere che dovevano essere adottati contestualmente all’approvazione dell’indulto, chiesti anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano". Il senatore Pd, osserva Capece, "non fece nessun progetto concreto di formazione ed aggiornamento professionale dei poliziotti, senza alcun atto concreto sulle importanti questioni attinenti al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, ma pensò bene di appoggiare iniziative formative assurde, come i corsi di boxe per detenuti, pur sapendo delle centinaia di aggressioni, ferimenti e colluttazioni che avvengono ogni anno in carcere, spessissimo contro i poliziotti penitenziari". Capece aggiunge: "La verità è che con sei miliardi di tagli che i vari Governi hanno operato dal 2008 ad oggi, i cittadini sono meno sicuri perché ci sono meno poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, meno poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un aumento dei detenuti, meno forestali contro le agro-mafie e le ecomafie per la tutela dell’ambiente, meno vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico. E c’è anche meno formazione e aggiornamento professionale per le donne e gli uomini delle Forze dell’Ordine e della Polizia Penitenziaria in particolare". Il segretario Sappe conclude: "Ma mettere in dubbio la professionalità e lo spirito democratico delle nostre Istituzioni, per difendere le quali tantissimi sono Caduti vittime della violenza criminale, mi sembra davvero ingiusto e ingrato. Giustizia: l’inferno delle detenute transgender "meglio troia che schiava delle guardie…" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 2 ottobre 2014 Nelle carceri il terzo genere non viene riconosciuto: è prevista la reclusione con gli uomini o nei reparti dei "protetti", insieme a pentiti e pedofili. Dell’emergenza carceri fa parte a pieno titolo una questione poco nota, ma assai delicata: quella che riguarda le condizioni delle detenute transessuali. Il carcere è un’istituzione totale dove si amplificano i problemi già preesistenti nella società libera e le detenute transessuali sono coloro che pagano di più le conseguenze di un sistema carcerario al collasso e non adeguato per il reinserimento dei detenuti. Se vivere la detenzione è difficile per ogni essere umano, per il transessuale lo è ancor di più. Il transessualismo non viene riconosciuto dalle direzioni carcerarie, quindi generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti "a rischio" insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Per evitare questo problema della doppia punizione, a Empoli, nel 2010, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in un penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. La grande percentuale delle trans è in carcere per reati minori e quindi il periodo di detenzione è breve, ma nonostante ciò la carcerazione viene vissuta con molta sofferenza e frequenti sono i tentativi di suicidi in cella. Molte detenute trans sono di origine sudamericana, e si trovano facilmente a delinquere perché sprovviste di documenti, soldi e permesso di soggiorno. La detenuta transessuale straniera è sempre priva del permesso di soggiorno e nell’impossibilità di ottenerlo, quindi costretta a vivere la propria carcerazione in misura pressoché isolata e ulteriormente afflittiva. Tali difficoltà si riflettono, ad esempio, sulle questioni pratiche connesse alla detenzione: il legame sentimentale del detenuto transessuale non ha alcuna rilevanza per la legge, ed il proprio compagno o compagna non verrà mai riconosciuto come tale e ammesso a fare colloqui. Le misure alternative alla detenzione non trovano sempre applicazione per le trans perché c’è l’impossibilità di reperire domicili idonei o aiuti esterni. Sulla carta, le transessuali detenute che hanno iniziato il trattamento prima dell’arresto, hanno diritto alle cure ormonali: la realtà è che non avviene quasi mai, soprattutto nei confronti di chi risulta, sulla carta d’identità, ancora un uomo. La cura ormonale non è un capriccio, il Movimento identità nazionale spiega che "senza ormoni si assiste a un abbruttimento del proprio corpo. Ci si lascia andare, subentra la depressione, l’impossibilità di realizzarsi". Le detenute transessuali sono coloro che subiscono più violenze e abusi da parte delle guardie penitenziarie. Qualche spunto ce lo fornisce una lettera di A., 33 anni, transessuale brasiliana, diffusa su internet da Ristretti Orizzonti e Radio Carcere: "Io quando ero libera mi prostituivo. Non ero contenta della vita che facevo, ma dovevo pagare chi dal Brasile mi aveva fatto arrivare in Italia. Un uomo, a cui dovevo i soldi di quel viaggio, che mi picchiava e che abusava di me. Ero esasperata da quella vita. Una notte ho reagito a quegli abusi e a quelle botte, l’ho ferito e lui purtroppo è morto. Mi hanno processata, mi hanno giustamente condannata, ma poi per me si è aperta la porta del carcere. Un carcere assai lontano da quella "giustizia" che mi aveva condannato. Per un transessuale il carcere appare subito come l’inferno. La diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto. Non nella sezione maschile. Non nella sezione femminile. Ma nella sezione peggiore: quella degli infami, dei pedofili ovvero quella, appunto, dei trans. Per parecchio tempo ho diviso la mia cella con altre transessuali. Persone che erano in carcere da diversi anni e, che erano segnate nel corpo e nella mente dalla disperazione. In quella cella c’era chi si tagliava la braccia, chi si drogava o chi negli occhi non aveva più la voglia di vivere. Come Samanta, anche lei transessuale. Da tempo Samanta stava male con i polmoni. Spesso aveva delle crisi respiratorie, ma per lei erano rare le cure mediche. Piano piano Samanta si è lasciata andare, si è abbandonata. Ha iniziato a bere vino mischiato con gli psicofarmaci. Tutti sapevano quello che si faceva Samanta. Nessuno ha fatto nulla per lei. Una mattina ho trovato Samanta in bagno. Per terra in una pozza di sangue. Si era tagliata le vene e l’aveva fatta finita. Oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità. Una diversità a cui il carcere non è preparato. Se già mancano educatori o assistenti sociali per i detenuti comuni figuratevi per noi! Se in carcere non c’è possibilità di lavorare se sei "normale", può esserci per chi è considerato uno strano animale? Per queste ragioni la vita in cella di un transessuale è ai limiti del possibile e lontano da ciò che si può immaginare. Dicevo prima del prezzo da pagare in carcere se sei transessuale e se vuoi sopravvivere. Bene il prezzo è il sesso. I tuoi clienti gli agenti, o meglio alcuni di loro. Ora voglio essere chiara. Tantissimi agenti sono bravi e sono i veri agenti, ovvero quelli che lavorano secondo la legge e per le persone detenute, anche se transessuali. Purtroppo tra quésti c’è chi si approfitta della loro posizione di potere. Se in sezione ti capita di turno un agente così, tu sei finita. Per tanti mesi io ho provato a resistere alle loro richieste. Arrivavano di notte, mentre dormivo e mi dicevano "Oh, puttana! Che fai dormi? Svegliati e fammi una p.", oppure "fammi toccare ima tetta, magari così ti porto da mangiare". Una notte ho risposto male a un agente che mi chiedeva di fare sesso. Lui mi ha fatto rapporto, io ho raccontato l’episodio al comandante ma non sono stata creduta. Morale mi hanno punito, Da quel giorno, quando ini chiedevano di fare sesso io lo facevo. Così è iniziato un lungo periodo in cui io, come tante altre trans, acconsentivamo a rapporti sessuali. insomma presto mi sono resa conto che mi ero liberata da uno sfruttatore ed ero finita nelle mani di altri. Avrei preferito tornare sul marciapiede. Perché c’è un margine di scelta nella prostituzione. Ma quando sei in carcere tu quel margine non ce l’hai. In carcere o fai sesso oppure la tua vita diventerà impossibile. In carcere sono dovuta scendere ancora più in basso di quando facevo la puttana". Ci sono altre prigioni totali dove le transessuali pagano uno scotto maggiore. Riguardano i famigerati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) dove un gran numero di transessuali immigrate vengono inevitabilmente rinchiuse visto che, non di rado, avvengono le j retate della polizia in nome del decoro delle città. Per evitare stupri e altri tipi di abusi si è deciso di creare un reparto separato a loro destinato nel Cie di Milano, a via Gorelli. La struttura produce quotidianamente tentativi di suicidi, disperazione e rivolte, oltre a ledere e violare ripetutamente il diritto di difesa e calpestare la dignità delle persone. Dal dossier redatto dai "medici per i diritti umani" si legge la testimonianza di una transessuale reclusa nel Cie di Milano; dichiarava di essere positiva all’Hiv e presentava, secondo la stadiazione clinica proposta dall’Oms, segni e sintomi di Hiv al III stadio. La paziente era stata però considerata idonea alla detenzione e non aveva ancora ricevuto una valutazione specialistica per l’inizio della terapia antiretrovirale. Durante la sua esperienza da parlamentare, Vladimir Luxuria visitò diversi carceri, in particolare quelli con apposite sezioni per transessuali. "Nella maggior parte dei casi - spiegò Luxuria - scontano una doppia punizione: quella per il reato commesso e quella per il fatto di essere trans". Poi c’è l’associazione radicale "Certi diritti" che ogni anno organizza visite alle carceri per verificare le condizioni della transessualità. E da tempo intraprende la battaglia per riformare la legge 164; se nel 1982 era stata una grande conquista per il mondo trans, oggi diventa un ostacolo per chi vuole cambiare nome all’anagrafe senza necessariamente operarsi. Le detenute transessuali non operate sono coloro che rischiano ancor più discriminazione e ghettizzazione proprio perché la loro identità sessuale non corrisponde all’anagrafe. Giustizia: Sappe; ogni giorno nelle carceri italiane avvengono 9 colluttazioni e 3 ferimenti Comunicato stampa, 2 ottobre 2014 Estendere a Polizia Penitenziaria l’uso degli spray anti aggressione in analogia a operatori Polizia di Stato e Carabinieri". Dotare in via sperimentale anche le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, in analogia a quanto avviene per Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, dello spray anti aggressione. La richiesta, al Ministro della Giustizia, arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del leader Donato Capece. "I dati riferiti ai primi sei mesi del 2014 parlano chiaro: nelle carceri italiane ci sono state ben 1.609 colluttazioni e 444 ferimenti dal 1 gennaio al 30 giugno. E il numero delle aggressioni ai Baschi Azzurri, che prestano servizio nelle sezioni detentive e in carcere assolutamente disarmati e senza alcuna forma di difesa personale, è nell’ordine delle diverse centinaia all’anno. Sono anni che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assumi i provvedimenti conseguenti". Giustizia: non chiamatelo omicidio volontario di Piero Sansonetti Il Garantista, 2 ottobre 2014 Il ragazzetto folle, che guidando la macchina a velocità altissima (dicono addirittura a 140 all’ora, in città, ma non è detto che sia vero perché in questi casi i giornali, assai spesso, scrivono sciocchezze) si è schiantato contro i tavolini di un bar e ha ucciso quattro ragazzi, tra i quali suo fratello, adesso è in ospedale ed è accusato di omicidio volontario. Non mi va di discutere la gravità, indubbia, del reato. Solo voglio discutere il rapporto tra lingua italiana e diritto penale. Volontario - per me - vuol dire che voleva. E se un omicidio è volontario significa che chi lo ha commesso voleva uccidere le vittime. Se i magistrati pensano che Gianni Paciello, anni 22, guidasse a tutta velocità proprio per colpire il tavolini del bar con gli amici, e per ucciderli, e per uccidere così anche il suo fratellino Luigi di 15 anni, allora hanno fatto bene a contestargli l’omicidio volontario. Ma è ovvio che i giudici non pensano questo. E allora su che base affibbiargli omicidio volontario? La risposta dei giuristi sta in due paroline che non è chiarissimo cosa vogliano dire: "dolo eventuale". In gergo questa formulazione astrusa sta a significare che si suppone che l’imputato fosse in grado di sapere che compiendo quella determinata azione (guidare in stato di ebbrezza a gran velocità) c’era il rischio di ammazzare qualcuno, e magari il proprio fratello. "Eventuale" vuol dire: "non è sicuro che ucciderò, ma potrei uccidere". È chiaro che non è così. Gianni Paciello ha fatto una sbruffonata e non ha mai pensato di uccidere nessuno. E questo non vuol dire affatto che non sia colpevole di un orrendo crimine, vuol dire solo che se esistono, nel codice, tre tipi di omicidio (colposo, preterintenzionale e volontario) bisogna che la distinzione tra i tre tipi di omicidio avvenga sulla base del comportamento dell’imputato e non della gravità della sua colpa. Un omicidio è colposo se non è volontario, proprio perché c’è un dolo e c’è una colpa. Se non ci fosse la colpa e non ci fosse il dolo non sarebbe neanche omicidio. Cioè, non sarebbe reato. In questo caso la colpa è stata quella di guidare troppo veloce e con l’aggravante dello stato di ebbrezza. Punto. La tragicità dell’incidente non può modificare il tipo di reato. Anche se l’opinione pubblica è infuriata. Altrimenti noi smettiamo di esercitare la giustizia secondo la legge e slittiamo verso l’idea del linciaggio. Cioè della punizione affibbiata in modo proporzionale alla furia popolare e non al codice penale. Io trovo inaudita la formulazione del "dolo eventuale". Il dolo non è eventuale ma è certo, però il dolo non indica la "volontà" di uccidere. Non solo nel caso del giovane Giovanni. Ma in tutti i casi nei quali nel delitto non c’è la volontà di uccidere. Voglio dire una cosa impopolarissima: neanche i dirigenti della Tyssenkrupp, responsabili per la morte di otto operai, hanno commesso un omicidio volontario. Loro non volevano uccidere e hanno ucciso per colpa grave e perciò vanno condannati per omicidio colposo. Naturalmente c’è una bella differenza tra l’omicidio colposo commesso per una lieve distrazione alla guida, e quello dovuto alla negligenza e alla voglia di guadagni dei dirigenti Tyssenkrupp. Ma il reato è lo stesso. Per questa ragione tutti i reati prevedono un massimo e un minimo della pena, e spesso la forbice è ampia. Agire sulla pena è giusto, modificare i reati e il senso della lingua italiana, solo per far piacere "al popolo", una pazzia. Giustizia: sentenza su caso Ferrulli, morto durante l’arresto "non ci fu violenza gratuita" Corriere della Sera, 2 ottobre 2014 Le motivazioni della sentenza che ha assolto i quattro agenti che ammanettarono l’uomo il 30 giugno 2011. "Non vi fu alcuna gratuita violenza ai danni di Michele Ferrulli", io manovale morto il 30 giugno 2011 a Milano mentre gli agenti lo stavano ammanettando. Lo scrivono i giudici della Prima Corte d’Assise di Milano nelle motivazioni alla sentenza con la quale il 3 luglio scorso hanno assolto i quattro poliziotti Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva, Sebastiano Cannizzo e Francesco Ercoli dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Secondo i giudici, i poliziotti agirono in modo legittimo colpendo Ferrulli solo per vincerne la resistenza durante l’ammanettamento: "La condotta di colluttazione - spiega il giudice Guido Piffer, che ha scritto le motivazioni - è tipica solo se interpretata come condotta di "percosse" (...). In realtà non fu usato alcun corpo contundente, la condotta di percosse consistette nei soli "tre colpi" e "sette colpi" (dati in modo non particolarmente violento); tale condotta fu giustificata dalla necessità di vincere la resistenza di Ferrulli a farsi ammanettare; si mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione". I quattro agenti, che erano accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati assolti perché "il fatto non sussiste" lo scorso 3 luglio dalla Corte d’Assise di Milano, mentre la Procura per loro aveva chiesto 7 anni di carcere. La Corte ha stabilito che quella sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante Monforte Bis, che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell’ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza. Stando alla perizia medica, l’uomo, che quella sera si trovava vicino ad un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell’ arresto, da una "tempesta emotiva" che provocò l’arresto cardiaco. Michele Ferrulli gridava "aiuto, aiuto" mentre gli agenti lo ammanettavano forse perché voleva evitare l’arresto. È uno dei passaggi in cui i giudici della Prima Corte d’Assise motivano la sentenza di assoluzione dei 4 poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte dell’uomo. "L’invocazione di aiuto - scrivono i giudici - non può di per sé fondare un giudizio di prevedibilità dell’evento lesivo derivante da un effettivo malore, ben potendo essere espressione di una simulazione volta a impedire l’arresto, come ben spiegato nel dibattimento dal teste Sola". I giudici sostengono, inoltre, che non sarebbe stato usato nessun manganello dai poliziotti, come era sembrato in un primo momento osservando un filmato agli atti. Un filmato in cui si vede "una strisciolina nera" che, "ad un’analisi più approfondita", non sarebbe uno sfollagente. La Corte di sofferma anche su un altro dei punti controversi emersi in dibattimento, il presunto schiaffo di un poliziotti a Ferrulli. "La sola visione del filmato - è l’interpretazione messa nero su bianco dal giudice Piffer - non permette di stabilire con certezza se il gesto di Ercoli (uno dei poliziotti imputati, ndr) sia stato un vero e proprio schiaffo o se sia stato solo il gesto di sollevare l’avambraccio verso Ferrulli per accompagnare una frase rivolta allo stesso". Domenica Ferrulli, la figlia di Michele morto nel giugno del 2011 mentre alcuni agenti lo stavano ammanettando, avrebbe messo in atto un "condizionamento negativo" di alcuni testimoni nel processo con al centro il caso della morte del padre. I giudici nelle oltre 200 pagine di motivazioni parlano anche dell’"atteggiamento con il quale Domenica Ferrulli si era "determinata a registrare" alcuni "colloqui" con dei testimoni perché aveva "un giudizio profondamente negativo (tutt’altro che fondato) sullo svolgimento delle indagini". E per la Corte "mentre alcuni testimoni (aventi una personalità più forte ed una maggiore consapevolezza del proprio ruolo) non hanno subito un’influenza negativa dai contatti con" la figlia di Ferrulli, "altri hanno subito invece un inevitabile condizionamento negativo". Nelle motivazioni, appena depositate, i giudici spiegano che il dibattimento "ha dimostrato l’infondatezza della contestazione del reato", perché gli agenti hanno tenuto una condotta di "contenimento", che era "giustificata dalla legittimità dell’arresto". La "piena legittimità" di tale condotta, secondo i giudici, "ne esclude dunque l’antigiuridicità". Lombardia: Sappe; ogni giorno 2 detenuti si lesionano, un tentato suicidio ogni 72 ore Adnkronos, 2 ottobre 2014 Ogni giorno nelle carceri lombarde almeno due detenuti si lesionano il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo. E ogni settantadue ore, un ristretto della Lombardia tenta il suicidio, salvato in tempo dall’intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria. È quel che emerge dai dati diffusi dal Sappe, il sindacato dei "baschi azzurri", sugli eventi critici accaduti nelle carceri lombarde nei primi sei mesi dell’anno. Parla di vera e propria "emergenza" Donato Capece, segretario generale del sindacato, in questi giorni in Lombardia in visita nei penitenziari di Cremona e Busto Arsizio dopo aver presieduto, nel carcere di Milano Opera, al Consiglio Regionale del Sappe Lombardia. "Dal 1 gennaio al 30 giugno nelle carceri della Lombardia si sono contati il suicidio di un detenuto, 441 atti di autolesionismo, 54 tentati suicidi, 192 colluttazioni e 56 ferimenti. Bergamo, Pavia e Monza le tre prigioni con il numero più alto di atti di autolesionismo (82, 77 e 75) mentre è a Milano San Vittore che ci sono stati più tentati suicidi sventati dai poliziotti, 9. Ben 36 le colluttazioni a Como e 34 quelle a San Vittore. La situazione nelle carceri resta dunque sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato di oltre milletrecento unità: dai 9.033 del 31 agosto 2013 si è infatti passati agli attuali 7.718". Quanto al calo delle presenze in carcere, precisa Capece: "se il numero dei detenuti è calato, questo è la conseguenza del varo , da parte del Parlamento, di 4 leggi svuota carcere in poco tempo. Ma l’Amministrazione Penitenziaria non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere. Serve una nuova guida all’amministrazione penitenziaria, da mesi senza un capo dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a cominciare dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri lombarde e del Paese". Sicilia: l’Ufficio del Garante dei detenuti costa mezzo milione l’anno… ma non esiste di Emanuele Lauria La Repubblica, 2 ottobre 2014 Da un anno il presidente non nomina il garante dei detenuti ma continua a distaccare per questo servizio nove dipendenti. Vuole sapere cosa facciamo durante il nostro turno di lavoro? Ci giriamo i pollici, tre ore in senso orario e tre in senso antiorario...". La sintesi, fulminante, appartiene a Gloria Cammarata, funzionario direttivo dell’ufficio che non c’è. Uno dei nove collaboratori del garante dei diritti dei detenuti, struttura che da un anno vive, anzi sopravvive, in assenza del suo vertice e, dunque, di alcuna competenza. Esiste, l’ufficio, solo sulla carta, che in questo caso è l’aggiornatissimo sito web della Regione, che riporta nomi e cognomi dei dipendenti, ma non dice la cosa fondamentale. Che dal settembre del 2013 quel personale, diviso in due sedi (Palermo e Catania) e in quattro categorie (un dirigente, quattro funzionari, tre istruttori e un assistente) è semplicemente pagato per non lavorare. Storia paradossale di un presunto spreco tramutato in uno spreco vero. Il Garante dei detenuti nasce nel 2005, in seguito a una legge regionale, e la sua storia è sempre stata legata a doppio filo a quella dell’ex senatore di Forza Italia Salvo Fleres. Il quale ha ricoperto la carica sin dall’inizio. Con generosità verso i detenuti (decine le visite nelle carceri), ma anche verso di sé e i dipendenti dell’ufficio. Fleres, per anni, ha percepito un compenso da 100 mila euro annui, che si sommava a quello di parlamentare, e ha sdoppiato l’ufficio. Benedicendo la nascita della "succursale" di Catania, dove l’ex senatore ha sempre avuto la residenza. Quell’esperienza, oltre a un’attività testimoniata da ponderose relazioni annuali, ha prodotto polemiche e inchieste giudiziarie. Fleres, nel 2011, ha rinunciato al compenso (poi diventato gratuito) mentre i dipendenti sono stati coinvolti in un blitz antiassenteismo nato - pare - da un esposto dello stesso garante. Fleres è rimasto in carica sino al 16 settembre del 2013. Da quel giorno il governatore Rosario Crocetta non ha più provveduto a nominare un successore ma l’ufficio è rimasto al suo posto. A svolgere attività ridottissima se non nulla: il ruolo del garante (figura prevista in altre 11 regioni d’Italia) non è quello di un semplice capo ufficio ma di una authority che assorbe la gran parte delle funzioni. Senza di lui, nessuna delega è possibile. Per ragioni di privacy, i dipendenti dell’ufficio non possono neppure aprire la corrispondenza. Né, tantomeno, rispondere ai detenuti o ai loro parenti. E neppure, ovviamente, andare in visita nei 31 penitenziari siciliani. Tutto fermo, o quasi, da un anno. La situazione peggiore si registra nell’ufficio di Palermo, dove da aprile manca pure un dirigente: non c’è neppure, in pratica, una figura deputata alla preparazione dei fogli presenze. Una scena kafkiana quella che ogni giorno si registra negli uffici (nove stanze) di via Regione siciliana. Per dirla ancora con le parole di Gloria Cammarata: "Ogni mattina arriviamo alle sette e mezza, timbriamo il cartellino e poi fino alle 14 cerchiamo di occupare il tempo. Io leggo, leggo tanto: ho imparato l’ordinamento penitenziario a memoria. E se c’è da rispondere ai detenuti, alle mogli o alle mamme, non potendolo fare per le vie istituzionali, lo faccio sul mio profilo Facebook. Ma è diventata una situazione insopportabile: si decida cosa fare di quest’ufficio. Perché, malgrado certe facili dicerie, è deprimente essere pagati per non lavorare". Il dirigente della sede di Catania, Salvatore Sciacca, ha una visione appena meno pessimistica: "Il problema esiste, è sotto gli occhi di tutti. La maggior parte delle funzioni del garante non può essere svolta dal suo ufficio, in autonomia. Quindi noi ci limitiamo ad attività ordinaria: non possiamo certo andare nei penitenziari o rispondere alle lettere dei detenuti. Proviamo ad attivarci solo quando apprendiamo dalla stampa di gravi episodi accaduti nelle carceri, come i purtroppo non infrequenti suicidi. Cosa fare? - conclude Sciacca - È tutto nelle mani di Crocetta. Il garante è previsto da una legge, ricordiamo, per abolirlo ne servirebbe un’altra ". Fleres rilancia al governatore proprio una questione di legalità: "I carcerati che non possono affidarsi a una figura come il garante, emanazione dello Stato, si rivolgono alla mafia". Una decisione, in ogni caso, spetta a Palazzo d’Orleans. La situazione attuale costa alla Regione 500mila euro annui fra stipendi dei dipendenti, quota di affitto della sede di Palermo e costi di gestione. Forse un po’ troppo, per l’ufficio che non c’è. Napoli: i Radicali si mobilitano per Fabio Ferrara, detenuto in sedia a rotelle Asca, 2 ottobre 2014 "Salviamo il cittadino Ferrara". I Radicali italiani lanciano l’appello a favore di Fabio Ferrara, il detenuto rinchiuso nel carcere napoletano di Secondigliano. "Fabio Ferrara - denuncia Luigi Mazzotta, membro della segreteria Radicali italiani - vive sulla sedia a rotelle ed ha bisogno di un urgente intervento chirurgico per una infezione alla vescica". I radicali hanno organizzato per venerdì prossimo, 3 ottobre, un presidio di protesta fuori il carcere di Secondigliano. Sarà presenta anche la moglie di Ferrara, Anna Belladonna. "Quella che conduciamo - spiega Mazzotta - è una lotta nonviolenta per chiedere provvedimenti di amnistia, indulto e riforme alternative alla detenzione in carcere. Nelle carceri italiane aumentano i casi di suicidi e di malasanità. Marco Pannella e le Associazioni Radicali dislocate sul territorio denunciano le tragedie dei cittadini detenuti e dei loro familiari. Segnaliamo il caso di Fabio Ferrara che vive prigioniero su una sedia a rotelle nel penitenziario di Secondigliano e da oltre otto mesi attende il permesso dal magistrato di sorveglianza per essere sottoposto ad un delicato ed urgente intervento chirurgico alla vescica. Salviamo il cittadino Ferrara - conclude Mazzotta. Aiutiamo lo Stato Italiano ad uscire dalla flagranza di reato". Bari: "in carcere le guardie mi hanno macellato", le dichiarazioni choc del pentito del clan di Gabriella De Matteis La Repubblica, 2 ottobre 2014 Amodeo ritratta in aula le accuse del 2012. "In carcere le guardie mi hanno macellato". Le sue dichiarazioni sono state utilizzate in alcuni procedimenti contro il clan Parisi, ora, però, lui ha deciso di ritrattare. Il colpo di scena è arrivato nell’udienza preliminare del procedimento che conta 59 imputati, ritenuti vicini al clan Palermiti accusati di associazione mafiosa, traffico e spaccio di droga. Antonio Amodeo, 40 anni, di Triggiano, soprannominato "Ù Sorc", collaboratore di giustizia, fa formalmente un passo indietro. E al Gup Marco Galesi ammette di aver "gonfiato palloni" per ripicca nei confronti di alcuni amici e familiari e, soprattutto, perché spinto da inquirenti e investigatori. "Ero il manichino della Dda" dice il pentito che, quindi, ritratta le accuse, rese nel 2012. "Mi convinsero con tante favole - spiega - che se fai i primi 180 giorni ti danno lo champagne, ti danno la torta, tremila telefonate al mese, ti danno di tutto. Ho fatto sempre lettere di ritrattazione ma venivano bloccate. Ho cominciato a dire le favole, qualche aiutino l’ho avuto sulle fotografie, ho accusato persone che non conoscevo". Rinnega tutte le dichiarazioni rese. Dice di essersele inventate. "Mi sono trovato in un labirinto, - continua l’ex pentito - ho fatto un macello, ero il manichino della Dda. Ho fatto tanti tentativi di suicidio, volevo morire perchè portavo un peso enorme. Mi sono trovato in una cosa più grande di me, ma io persone innocenti in galera non le mando perchè ho dei figli". E parla delle lettere che già aveva scritto, inviandole a giudici, pm, chiedendo "scusa a tutti gli imputati, chiedevo scusa di ciò che avevo fatto, di tutte le bugie che avevo detto". Amodeo aveva parlato delle armi del clan, di alcuni episodi di spaccio e traffico di droga. Quando il giudice Galesi chiede se la moglie sia stata minacciata, lui dice no e racconta quello che, a suo dire, avrebbe passato dietro le sbarre: "Le guardie - dice - mi hanno macellato. A Napoli stanno quattro inchieste sui maltrattamenti che mi hanno fatto. Sono entrato sano in carcere e vedete adesso come sto. Con un calcio mi hanno fatto anche perdere un occhio". Firenze: mobilità alternativa, una bicicletta "Piedelibero" in sostituzione dell’auto guasta www.gonews.it, 2 ottobre 2014 Biciclette riciclate realizzate dai detenuti delle carceri fiorentine offerte in sostituzione dell’auto guasta. È il progetto "2 × 4" che promuove il trasporto sostenibile, con una funzione anche sociale. L’iniziativa, realizzata da Gestioncar in collaborazione con la Cooperativa Ulisse, è stata presentata questa mattina al Museo Novecento alla presenza, tra gli altri, del sindaco Dario Nardella e della giunta, dell’amministratore delegato Gestioncar Mario Gargano, del presidente della Cooperativa Ulisse Gianni Autorino e di Marco Berry, testimonial del progetto. "È bello che i promotori abbiano scelto Firenze per lanciare questa iniziativa. Evidentemente la nostra città evoca un modello positivo, rispettoso dell’ambiente e coglie la sfida di una mobilità diversa - ha detto il sindaco Nardella - In tutto ciò c’è anche un valore di socialità, dato che le bici utilizzate sono realizzate dalla Cooperativa Ulisse nell’ambito del progetto Piedelibero, grazie al quale i detenuti possono sentirsi molto più utili. Sono sicuro che Firenze sarà un esempio per tutta l’Italia. Un bel messaggio - ha concluso Nardella - che lanciamo in un periodo difficile per la mobilità a causa dei lavori per la tramvia: dobbiamo puntare al massimo sulla collaborazione dei fiorentini e sulla possibilità di usare mezzi alternativi come la bicicletta". Tutte le officine della rete Gestioncar, oltre alle auto, avranno in dotazione delle vere e proprie bici "di cortesia" da offrire gratuitamente al cliente per tutto il tempo di fermo auto necessario alla riparazione. Le biciclette, già consegnate a 50 officine, sono state realizzate dai detenuti del carcere di Sollicciano che ha aderito al progetto "Piedelibero" promosso dalla Cooperativa Sociale Ulisse e che prevede la rigenerazione e il restauro di bici abbandonate provenienti dai depositi comunali. Gestioncar ha voluto regalare una bici "Piedelibero" a tutti i membri della giunta comunale. Sempre nell’ottica di incentivare l’uso della bici in città, Gestioncar offrirà gratuitamente a chiunque acquisti una bici "Piedelibero" la Gestioncard, una tessera che permetterà di avere a disposizione un numero verde, attivo h24 sette giorni su sette, per il soccorso stradale e indirizzamento su rete di riparatori a condizioni agevolate. Torino: il progetto "Fumne Independent" offrirà formazione professionale a 40 detenute Ansa, 2 ottobre 2014 Accompagnare e sostenere le donne detenute nel loro percorso di reinserimento, fornendo gli strumenti e le competenze per affrontare il mondo del lavoro. È questo l’obiettivo di "Fumne Independent", il progetto de "La casa di Pinocchio" dedicato alle recluse della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino e realizzato con il sostegno della Compagnia di San Paolo. Il percorso coinvolgerà nell’arco di due anni 40 detenute. Nel primo ciclo sono già state diplomate 10 future sarte, parrucchiere, dog sitter e orafe artigiane. "Con questo progetto - spiega Monica Cristina Gallo, responsabile dell’iniziativa - lavoriamo per ricostruire un futuro per le donne detenute, puntando al reinserimento in società". Bologna: le sarte della Dozza al lavoro per l’Ikea, in carcere faranno tende e tovaglie di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 2 ottobre 2014 Inedita commessa dall’azienda svedese, la merce sarà venduta a Casalecchio. Cinque detenute sarte della Dozza lavoreranno in pianta stabile per l’Ikea di Casalecchio di Reno: tre dal laboratorio interno "Gomito a gomito", una da casa e una da una comunità. Il colosso svedese ha deciso di affidare alla cooperativa sociale "Siamo Qua", dalla quale dipendono l’atelier del carcere e le specialiste del taglia e cuci, le personalizzazioni e gli adattamenti richiesti dai clienti della sede bolognese. Le ragazze dell’istituto orleranno tende, confezioneranno grembiuli, tovaglie e fodere, produrranno borse e astucci, garantiranno modifiche e rifiniture. Non solo. Saranno loro a creare gli accessori tessili degli ambienti-tipo esposti nel megastore di mobili e complementi. La multinazionale dell’arredamento verserà l’intero ricavato alla cooperativa, da anni in prima linea dietro le sbarre e incentivata dagli sgravi previsti dalla legge Smuraglia. Le tre dipendenti con contratti di lavoro a domicilio saranno operative quattro ore al giorno e verranno stipendiate a pezzo, le altre due svolgeranno un tirocinio formativo di tre mesi e riceveranno l’indennità prevista. "L’accordo siglato con Ikea - rimarca la direttrice, Claudia Clementi - rende stabile e continuativa una collaborazione episodica cominciata tempo fa, quando al laboratorio vennero donate stoffe e quando i primi prodotti delle nostre sarte furono esposti e venduti a Casalecchio. La sartoria, è il salto di qualità, diventa una realtà produttiva a tutti gli effetti, come lo è l’officina delle sezioni maschili. Gli spazi del laboratorio adesso sono quelli che sono, limitati, ma stiamo cercando di allestirne altri e di allargarci". Enrica Morandi, socia e motore di "Siamo Qua", mette l’accento sulle abilità e sulle competenze delle sarte, raccontando degli elogi ricevuti dai clienti. Anche il rappresentante del colosso svedese, Marco Cucca, loda "la professionalità e la bravura" delle neo collaboratrici. "Quasi tutte le donne che sono passate dalla sartoria - evidenzia la direttrice Clementi - hanno avuto un prosieguo lavorativo fuori, positivo". Chieti: Associazione "Voci di dentro", riprendono le attività del "Punto di Ascolto legale" Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2014 Riprendono le attività del "Punto di Ascolto legale" istituito dalla Onlus Voci di dentro, nella sede dell’associazione in via Concezio De Horatiis, n. 6, a Chieti. Dal 9 ottobre, ogni giovedì dalle 18 alle 20, assistenza gratuita e consulenza agli ex detenuti e ai cittadini stranieri in merito alle problematiche relative agli ex detenuti e agli immigrati quali accesso al lavoro, discriminazioni, contratti, ricongiungimenti familiari, eccetera. A rotazione, gli avvocati Enrico Legnini, Francesco Lollis, Alessandra Baldassarre, Matilde Giammarco, Mauro Morelli, Alessandra Paolini ed Enrico Raimondi risponderanno ai quesiti e ai bisogni dell’utenza. Il "punto di ascolto legale" si aggiunge alle altre iniziative dell’Associazione per favorire il reinserimento sociale delle persone svantaggiate. In particolare a breve partirà lo "sportello lavoro", strumento di intervento diretto gratuito per aiutare le persone svantaggiate nella ricerca autonoma e attiva di lavoro, nella compilazione di un curriculum, favorendo l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Chieti: progetto "Genitori e figli senza sbarre", la convenzione tra carcere ed Università Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2014 È stata firmata ieri mattina dal Rettore dell’Ateneo Prof. Carmine D’Ilio e dalla Dirigente Penitenziaria dott.ssa Giuseppina Ruggero, la Convenzione tra il Carcere di Chieti e l’Università degli studi "G. D’Annunzio" di Chieti - Pescara, Dipartimento di Scienze Filosofiche Pedagogiche ed Economico Quantitative, per la realizzazione del progetto di sostegno alla genitorialità denominato "Genitori e Figli senza sbarre". La Convenzione sigla un percorso interdisciplinare e rappresenta un significativo momento di confronto tra culture che possono divenire sempre più omogenee. La Convenzione stipulata ed il gruppo di lavoro che ne costituisce il presupposto operativo, il quale da mesi lavora alla realizzazione del progetto all’interno dell’Istituto di Chieti, con i detenuti-padri che partecipano al Laboratorio, nasce dalla necessità per l’Istituzione Penitenziaria non solo di tutelare la relazione genitoriale, garantendone l’esercizio anche durante l’esecuzione della pena detentiva, ma anche dalla volontà di promuovere e valorizzare ogni elemento che possa contribuire al processo di recupero e di reintegrazione sociale della persona, demotivandola dalla reiterazione della condotta delinquenziale. L’essere genitore costituisce uno status affatto generico e "naturale" e può essere un motivo dirimente per orientare verso scelte socialmente accettabili. L’Università ed il Dipartimento di Scienze Filosofiche Pedagogiche ed Economico Quantitative, diretto dal Prof. Gaetano Bonetta, rappresenta un partner eccellente per costruire un percorso fondato su basi scientifiche, che fa del confronto tra le parti e della ricerca un’esperienza costante di sviluppo, lavorando sinergicamente a partire dai vissuti genitoriali delle persone detenute. Monza: "L’orto in cella", un progetto di orto-terapia all’interno della Casa circondariale www.mbnews.it, 2 ottobre 2014 Pomodori, zucchini, insalata e molti altri ortaggi sono nati dalla passione e dalla cura detenute del carcere di Monza. Ieri sono stati presentati i "frutti" del progetto di orto-terapia avviato circa sei mesi fa all’interno della Casa circondariale di via San Quirico. "L’orto in cella", questo il nome dell’iniziativa, è stato promosso da Anna Martinetti, referente per l’educazione degli adulti dell’Ufficio Scolastico Territoriale Monza e Brianza e consigliera comunale, che ha coinvolto nella sua ideazione la Casa circondariale di Monza, Soroptimist, l’Ust di Monza e Brianza e Coop. "Meta" ed è stato finanziato da Fondazione della Comunità Monza e Brianza all’interno del bando Youth Bank 2014. Un’attività che ha coinvolto circa una trentina di detenute iniziata con il recupero di un appezzamento di terra nel cortile della sezione femminile. Terreno che le partecipanti hanno ripulito, arato, concimato e seminato, seguendo poi la fase di crescita degli ortaggi fino alla raccolta. Il progetto ha portato avanti due obiettivi: creare un percorso di apprendimento che mira alla riabilitazione ed al reinserimento sociale delle detenute attraverso l’acquisizione di competenze in campo botanico e in particolar modo nella filiera agroalimentare. "Orto in Cella" ha permesso inoltre alle detenute di lavare in gruppo tentando così di migliorare le capacità relazionali delle partecipanti, con l’obiettivo di facilitare la futura integrazione nella comunità. Napoli: fiamme nei corridoi del carcere femminile di Pozzuoli, si indaga su cause incendio Roma, 2 ottobre 2014 Domenica mattina da incubo per le detenute del carcere femminile di Pozzuoli. Poco prima di mezzogiorno infatti è scoppiato un incendio all’interno dei corridoi di accesso alle garitte della Casa circondariale flegrea. Immediatamente sul posto è giunta una squadra dei vigili del fuoco della stazione di Pozzuoli che ha provveduto immediatamente a circoscrivere le fiamme per effettuare tutti i rilievi del caso. Da una prima ed attenta analisi è emerso che le fiamme divampate all’interno della struttura penitenziaria sarebbero state provocate da un corto circuito. Allertati anche i carabinieri dell’aliquota radiomobile puteolana. Tanta paura per le detenute che si sono trovate avvolte in una densa nube di fumo ma per fortuna, almeno per loro, non c’è stata nessuna tragica conseguenza. Ad avere la peggio nel corso dell’incendio, è stato un sovrintendente della polizia provinciale che, durante le operazioni di spegnimento delle fiamme, ha riportato una contusione alla testa: per lui la prognosi è di quattro giorni. Sull’incendio, come da prassi, è stato aperto un fascicolo: ad indagare sulle cause del disastro sono ora gli agenti della Polizia penitenziaria. L’episodio di domenica mattina fa tornare alla ribalta i soliti, vecchi disagi legati alle carceri campane: sovraffollamento e allarme sicurezza sono solo due dei tanti problemi che affliggono il sistema penitenziario in Campania. Tra le altre cose, il carcere puteolano è l’unica struttura penitenziaria che ospita esclusivamente le detenute donne in Campania: con una capienza di 89 unità, ed un margine di tolleranza fino a 116, attualmente il più grande istituto penitenziario femminile del Sud, il secondo in Italia dopo quello Rebibbia, accoglie circa 230 detenute. Roma: Fns-Cisl; addetto vigilanza aggredito da un detenuto nel carcere di Civitavecchia Adnkronos, 2 ottobre 2014 Un addetto alla vigilanza della sezione reclusione del carcere di Civitavecchia questa mattina intorno alle 10.50 è stato aggredito da un detenuto di nazionalità georgiana. L’addetto alla vigilanza, spiega la Cisl in una nota, è stato prima colpito con una testata e, dopo esser caduto a terra, è stato nuovamente aggredito e ripetutamente colpito a calci. "Al momento dell’aggressione - spiega il segretario regionale Fns-Cisl Lazio Massimo Costantino - tutti i detenuti erano regolarmente aperti nella sezione, così come disposto dalle ultime direttive del Dap, aperti almeno 8 ore al giorno, ma a sostegno dell’unità di polizia penitenziaria è intervenuto soltanto un detenuto di nazionalità straniera su un totale di 52 detenuti aperti. L’agente ha riportato seri danni fisici e attualmente è monitorato dai medici del San Paolo di Civitavecchia". Bollate (Mi): laboratorio di arte-terapia "Arte in carcere, liberi di volare con la fantasia" Italpress, 2 ottobre 2014 "Ho accettato con piacere l’invito rivoltomi dai detenuti del carcere di Bollate a visitare di persona il laboratorio di arte-terapia "Arte in carcere, liberi di volare con la fantasia" che si svolge all’interno del secondo reparto maschile della Casa circondariale. Si tratta di un percorso innovativo di arte terapia, steso e seguito dall’arte-terapeuta Luisa Colombo, che ho personalmente promosso e che ha trovato l’adesione del direttore della Casa circondariale e il supporto finanziario del Parlamento della Legalità di Milano, di cui sono il coordinatore culturale". Lo afferma in una nota il deputato questore Stefano Dambruoso. "Il progetto, di cui in allegato potete trovare una descrizione dettagliata, nasce dalla convinzione che la detenzione non possa privare chi vive in carcere dell’opportunità di potersi esprimere. Infatti l’arte-terapia, che utilizza l’arte come mezzo aggiuntivo di espressione, integrazione e aggregazione, contribuisce a costituire un’originale ed importante esperienza di relazione dalla quale le persone coinvolte traggono un immediato giovamento - prosegue. Questa nuova modalità di espressione, inoltre, può favorire un pieno reinserimento lavorativo e sociale del detenuto nella società, scongiurando così l’effetto porta-girevole, ovvero il rischio che un detenuto appena scarcerato ritorni subito a delinquere - conclude Dambruoso. Per queste ragioni ho promosso tale iniziativa presso la Casa Circondariale di Bollate e con piacere mi recherò a visitare il laboratorio in corso lunedì 6 ottobre a partire dalle ore 10". Lecce: spettacolo "L’ultima cena di Alfredo Traps", oggi in scena alla Casa circondariale www.brindisilibera.it, 2 ottobre 2014 Oggi, giovedì 2 ottobre, alle ore 11, nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce, verrà presentato lo spettacolo "L’ultima cena di Alfredo Traps" del laboratorio teatrale Io Ci Provo. Si tratta di un’occasione importante dal momento che a salire sul palco del teatro Paisiello lunedì 6 ottobre saranno 8 otto detenuti dell’istituto penitenziario che, grazie all’articolo 21 della Legge n° 354 del 1975 (Ordinamento Penitenziario), avranno la possibilità di uscire dal carcere e raggiungere l’antico teatro per svolgere un’attività lavorativa retribuita, come dei veri attori. Durante la presentazione, interverranno Paolo Perrone, sindaco di Lecce e presidente del Comitato Promotore di Lecce 2019, insieme ad Airan Berg, coordinatore artistico della candidatura. All’incontro con i giornalisti parteciperanno anche la direttrice del carcere, Rita Russo, il comandante della Polizia Penitenziaria, Riccardo Secci, la presidente della Magistratura di Sorveglianza, Maria Silvia Dominioni, Fabio Zacheo, coordinatore dell’aria trattamentale, e Paola Leone, regista dello spettacolo e membro della compagnia Factory Transadriatica, insieme agli attori del laboratorio. È un evento significativo non solo per i protagonisti di questa avventura, ma anche per il processo di Lecce2019, per cui questo sogno che si avvera rappresenta la concretizzazione di Polistopia, l’utopia per cui la marginalizzazione di un individuo comporta una perdita per la società, e di Profitopia, per lo sviluppo di posti di lavoro e nuove forme di cooperazione. Bologna: "Giallo Dozza Bologna Rugby", una neonata squadra composta solo da detenuti Sport Press, 2 ottobre 2014 È Giallo al carcere della Dozza di Bologna. Dopo mesi di duri allenamenti il 25 ottobre, contro il Rugby Lyons Piacenza, ci sarà il debutto assoluto per la neonata squadra di rugby composta esclusivamente da detenuti, la "Giallo Dozza Bologna Rugby". L’appuntamento - si giocherà ovviamente tra le mura del carcere - è il primo concreto traguardo del Progetto "Tornare in campo", nato da una collaborazione tra il presidente del Rugby Bologna 1928, Francesco Paolini, la direttrice del Carcere Claudia Clementi e il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna, Pietro Buffa. L’obiettivo è quello del recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti, e come ha affermato la direttrice Clementi oggi, durante la Conferenza stampa di presentazione, "è un’attività che ha il fine di dare un significato alla vita all’interno del carcere: fondamentale durante la detenzione e di buon auspicio per il futuro fuori dal carcere". La Società "Giallo Dozza Bologna Rugby" è stata ufficialmente costituita nell’agosto 2014 e riconosciuta dalla Federazione italiana rugby (Fir), tant’è che seppur con alcune modifiche al regolamento, consentirà ai carcerati di disputare il Campionato italiano di rugby serie C2, Girone Emilia. Presidente della Società, Stefano Cavallini, da anni dirigente di Società di rugby e con competenze nell’ambito del Comitato regionale della Fir. Allenatori: Massimiliano Zancuoghi e Francesco Di Comite, entrambi rugbisti di grande esperienza con un passato nel Bologna in serie A e in Super10, attualmente allenatori del settore giovanile del Rugby Bologna 1928. I 27 atleti detenuti che compongono la "rosa" della squadra sono stati selezionati (55 quelli visionati) e preparati dai tecnici del Rugby Bologna 1928, dopo aver superato test fisici (di forza e resistenza) e attitudinali. Le nazioni di provenienza sono diverse: Italia, Romania, Albania, Moldavia, Polonia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Marocco, Tunisia. L’età è compresa tra 23 e 36 anni. La selezione degli atleti sta proseguendo anche in altri Carceri dell’Emilia-Romagna, con l’obiettivo di raggiungere i 35/40 atleti, numero necessario per poter affrontare il Campionato. Oltre Bologna, è già stata fatta una selezione presso il carcere di Ferrara e entro ottobre si farà presso quello di Piacenza. I detenuti "idonei", saranno trasferiti al Carcere della Dozza. Su questa opportunità ha garantito il Provveditore Buffa, che fin dall’inizio ha sostenuto il Progetto, avendone già vissuto uno simile, come direttore di carcere, a Torino, dove la squadra "La Drola" è ormai una realtà al IV anno di vita. "Il rugby nel carcere - ha affermato Buffa - dà la possibilità di generare una condizione di vita vicina alla vita libera, ed insegna a stare insieme lealmente, nel rispetto dei valori patrimonio della palla ovale". Gli allenamenti dei neo-rugbisti, sono iniziati nel mese di giugno e proseguono tuttora. Quattro i giorni di preparazione ogni settimana (tre in campo e uno in aula). Le lezioni sulle regole del rugby sono state tenute da Alberto Toselli, arbitro di grande esperienza e Coordinatore regionale Arbitri dell’Emilia-Romagna. Per il Consigliere della Federazione italiana rugby, Stefano Cantoni "la Squadra del carcere di Bologna e più in generale progetti di questo genere dall’alto valore sociale, sono per la Federazione di grande importanza, che fin dall’inizio si è prodigata nel renderli possibili anche dal punto di vista sportivo e agonistico. Hanno un valore straordinario e sono per noi un vanto, tant’è che nazioni rugbisticamente più affermate, come la Francia, stanno guardando con grande attenzione". Il Progetto è sostenuto da diverse Aziende, che fin dall’inizio hanno creduto al valore sociale del rugby in carcere, prime tra tutte Emil Banca, che contribuisce alle spese di gestione delle attività, Macron, che ha fornito l’abbigliamento tecnico e Coopadriatica, che con un contributo "alimentare", farà sì che la dieta standard del Carcere, sia integrata e più adatta alla vita di un atleta. Positivo anche il commento del Presidente del Quartiere "Navile", Daniele Ara, nel quale si trova il Carcere: "quest’iniziativa può essere l’occasione per far meglio comprendere ai cittadini del Quartiere e della città di Bologna, che il Carcere è un luogo dove si recuperano le persone e che le attività per raggiungere l’obiettivo sono tante e articolate. Il Rugby Bologna 1928, che nel Navile all’Arcoveggio ha trovato la sua casa, ha deciso di contribuire collaborando con le realtà del territorio, come lo è il carcere della Dozza." Sul finire della Conferenza stampa, il presidente Paolini ha spiegato il perché del nome "Giallo Dozza". "Nel rugby, chi infrangere una regola o commettere un fallo, prende il "cartellino giallo", cioè 10 minuti fuori dal campo per calmarsi e ripensare all’errore fatto. Poi, in campo e nella vita, ci si rimette in gioco, e il "Giallo" che ha dato il nome alla Squadra è dunque il colore del futuro, questa volta nel rispetto delle regole". Nella mattinata di sabato 27 settembre, la squadra del Rugby Bologna 1928 ha fatto visita agli atleti del "Giallo Dozza", svolgendo un allenamento congiunto, completato da una partita di 40 minuti e dall’immancabile "Terzo tempo". A guidare il primo test stagionale dei detenuti, i tecnici Di Comite e Zancuoghi e l’allenatore del Rugby Bologna 1928, Marco Bandieri. La partita si è svolta nella massima correttezza e l’integrazione della due realtà è stata immediata, nel più classico spirito rugbistico. Buono il livello tecnico ma soprattutto le motivazioni degli atleti della Dozza, molto coinvolti in uno sport che pochi di loro conoscevano e nessuno aveva praticato. Infine, il presidente della nuova Società, Cavallini, ha voluto ringraziare tutti gli attori del progetto "l’Amministrazione carceraria è stata straordinariamente disponibile, dimostrando una "intelligente rigidità", che nel rispetto delle regole e pur garantendo la sicurezza, ci ha permesso di arrivare al traguardo del debutto in un vero Campionato di rugby: i detenuti hanno compreso questo apertura nei loro confronti e anche se rugbisticamente non sono ancora atleti provetti, hanno compreso appieno lo spirito del rugby, e che in questo caso la disciplina è una chance e non una costrizione, come invece viene spesso percepita in un carcere e nella vita". Germania: per il 25esimo della "caduta" del Muro più indennizzi a ex detenuti Ddr Tm News, 2 ottobre 2014 Per inviare un "importante messaggio" in vista del 25esimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino (il 9 novembre, ndr), la Germania ha annunciato che aumenterà la somma degli indennizzi destinati agli ex prigionieri politici della ex Germania comunista. I dissidenti politici, che sono stati in carcere per almeno sei mesi durante il regime dell’ex Ddr, dall’anno prossimo riceveranno un indennizzo aumentato del 20%, fino a 300 euro al mese, hanno spiegato le autorità.