Un uomo ombra invita Enrico Ruggeri al seminario dell’amore tra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2014 Qui nel carcere di Firenze, alla sera tardi, si parlano (si urlano) fra la sezione femminile e quella maschile e le parole più usate sono: "Ti amo amore mio… come stai…ti amerò per sempre…" Ascolto, sorrido e penso che c’è più amore nel mondo dei morti che nel mondo dei vivi. (Fonte: diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). La redazione di Ristretti Orizzonti ha lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, la nostra classe politica e il mondo cattolico la redazione di "Ristretti Orizzonti" ha organizzato per la prima volta nella storia delle nostre Patrie Galere, per il primo di dicembre 2014 nel carcere di Padova, un seminario sugli affetti in carcere con le testimonianze di figli, mogli, genitori delle persone detenute. Ed ho deciso di scrivere una lettera aperta al cantante Enrico Ruggeri per invitarlo ad esserci e ad intervenire. Enrico, innanzi tutto mi presento, sono per legge un cattivo e colpevole per sempre. Sono né morto né vivo. Sono uomo ombra (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra loro) prigioniero nell’Assassino dei Sogni di Padova (così i prigionieri chiamano il carcere) condannato alla "Pena di Morte Viva" (così è chiamato l’ergastolo ostativo che ti esclude qualsiasi possibilità di morire un giorno da uomo libero). Enrico nel medioevo ti ammazzavano, ti cavavano gli occhi, ti tagliavano un braccio, ma il dolore non durava per sempre. Ora, invece l’ergastolo ostativo è nello stesso tempo una pena di morte, una tortura e un dolore all’infinito. Un vero e proprio incubo a occhi aperti in cui non è possibile svegliarsi. Enrico ho due figli, due nipotini e una compagna che mi sta aspettando da ventitré anni inutilmente perché di me avranno solo il mio cadavere. Non chiedo molto, desidero solo poter avere telefonate più frequenti ed incontri più umani da poter scambiare una carezza, un bacio senza essere visto e censurato dai miei guardiani. Enrico gli artisti di una volta come Pasolini, Gaber, Franca Rame o De André (e altri) non temendo l’impopolarità degli argomenti spesso sono stati la voce degli ultimi o di chi non ha voce. E so che anche tu lo sei perché mi è capitato di leggere l’intervista che hai rilasciato al mensile "Delitti & Misteri" dove hai dichiarato che la pena dell’ergastolo è disumana. Enrico se pensi che sia importante introdurre finalmente per le persone detenute la possibilità di avere dei colloqui con un po’ di intimità con le loro famiglie. Se sei d’accordo che la privazione e la restrizione degli affetti familiari in carcere può solo peggiorare le persone detenute. Se pensi che serva un po’ di coraggio per riconoscere alle persone detenute il diritto di amare vieni al "Seminario dell’amore tra le sbarre" il primo dicembre 2014 nel carcere di Padova. Enrico dicci di sì! Anche solo per portarci un po’ d’amore con una tua canzone. Ti aspetto. E ti aspetta anche la mia ombra. Un sorriso fra le sbarre. Un uomo ombra invita Suor Cristina Scuccia al seminario dell’amore tra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2014 Oggi ho sentito al telefono mio figlio Mirko. Dieci minuti passano in fretta. Devi cercare di dire tutto quello che puoi nel poco tempo che hai. Purtroppo oggi non ho fatto in tempo a dirgli quanto l’amo. E anche se lui lo sa già, ho un po’ d’amaro in bocca che non ho fatto in tempo a dirglielo. (Fonte: diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). La redazione di Ristretti Orizzonti ha lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, la nostra classe politica e il mondo cattolico la redazione di "Ristretti Orizzonti" ha organizzato per la prima volta nella storia delle nostre Patrie Galere, per il primo di dicembre 2014 nel carcere di Padova, un seminario sugli affetti in carcere con le testimonianze di figli, mogli, genitori delle persone detenute. E io ho deciso di scrivere una lettera aperta a Suor Cristina Scuccia, la religiosa della Comunità di Milano delle Orsoline della Sacra Famiglia, vincitrice di "The voice of Italy", per invitarla ad esserci e ad intervenire. Suor Cristina, sono uomo ombra (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra loro) prigioniero nell’Assassino dei Sogni di Padova (così i prigionieri chiamano il carcere) condannato alla "Pena di Morte Viva" (così è chiamato l’ergastolo ostativo che ti esclude qualsiasi possibilità di morire un giorno da uomo libero). Devi sapere che gli uomini ombra vivono al buio. E molti di Dio non possono che vedere solo la sua ombra. Io credo di non credere, ma ti chiedo di pregare per tutti gli uomini ombra perché dopo venti anni, alcuni dopo trenta, molti di noi vivono ormai una vita vegetativa senza volontà né desideri né sogni. Sembra che gli uomini ombra siano stati condannati ad essere azzerati, non più figli di Dio, ma dalla malvagità degli uomini che ci hanno condannati senza speranza a essere, e a rimanere, cattivi e colpevoli per sempre. Suor Cristina, alcuni credenti e molte suore mi scrivono che pregano per il mio futuro. Ed io spesso mi domando: ma come si fa a pregare per un uomo che non ha più futuro? Credo che pregare Dio per un ergastolano non serve a nulla ma forse serve agli uomini ombra per sentirsi ancora amati da una parte dell’umanità. Suor Cristina ho due figli, due nipotini e una compagna che mi stanno aspettando da ventitré anni inutilmente perché di me avranno solo il mio cadavere. Io chiuso in un canile, la mia famiglia che vive fuori, delle esistenze che non s’incontrano quasi mai. Due quotidianità diverse. L’unico mezzo che abbiamo sono le lettere, le telefonate e i colloqui, ma questi ultimi sono troppo pochi e con modalità medievali. E senza serie relazioni non esiste amicizia, non esiste amore e non esiste famiglia. Suor Cristina, non chiedo molto, desidero solo poter avere telefonate più frequenti ed incontri più umani da poter scambiare una carezza, un bacio senza essere visto e censurato dai miei guardiani. Suor Cristina, se pensi che sia importante introdurre finalmente per le persone detenute la possibilità di avere dei colloqui con un po’ di intimità con le loro famiglie. Se sei d’accordo che la privazione e la restrizione degli affetti familiari in carcere può solo peggiorare le persone detenute. Se pensi che serva un po’ di coraggio per riconoscere alle persone detenute il diritto di amare, vieni al "Seminario dell’amore tra le sbarre" il primo dicembre 2014 nel carcere di Padova. Suor Cristina, dicci di sì! Anche solo per portarci un po’ d’amore con una tua canzone. Ti aspetto. E ti aspetta anche la mia ombra. Un sorriso fra le sbarre. Giustizia: contro l’ergastolo, le parole del Papa di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 29 ottobre 2014 Lo spettacolare discorso del Pontefice sui temi della giustizia penale ha il destino segnato. All’inizio echi sui media e plauso generale; poi i primi distinguo e i persistenti silenzi; infine la sua riduzione a profetica testimonianza. È un dejà vu. Inviato un anno fa, il messaggio del Quirinale sulla condizione carceraria non è stato mai discusso in Senato. La Camera invece, asserendo incredibilmente che non lo si potesse dibattere in Aula, preferì discuterne i contenuti di sponda, dopo cinque mesi e due rinvii, in un emiciclo semivuoto. Destino comune perché comune è il denominatore dei due documenti: lucidità di diagnosi, rigore nella prognosi, chiarezza nell’indicare i rimedi. Inevitabile, per la politica, la tentazione del fuggi fuggi generale. Eppure, per la posta in gioco, l’intensa riflessione del Papa chiama all’assunzione di responsabilità tutti: chi plasma il diritto penale (il legislatore), chi gli dà forma di diritto vivente (i giudici e la dottrina giuridica), chi ne controlla la legittimità (la Consulta), chi è chiamato a informare senza cedere alle semplificazioni del populismo penale (i media). Vedremo chi sarà all’altezza della sfida. Esserne all’altezza significa assumerla integralmente. Soprattutto nel punto di massima contraddizione: il ripudio della pena capitale e dell’ergastolo. In Italia, infatti, non c’è più la pena di morte, mentre sopravvive la pena fino alla morte. Ha ragione Francesco: "L’ergastolo è una pena di morte nascosta". Quanti sanno, infatti, che in Italia esistono non uno ma più ergastoli (comune, con isolamento diurno, ostativo)? Quanti sanno che, oggi, gli ergastolani sono 1.576? Molti reclusi da oltre 26 anni, senza liberazione condizionale; altri da più di 30 anni, durata massima per le pene detentive. Quanto a quelli ostativi (1.162, la stragrande maggioranza), sono ergastolani senza scampo: per essi le porte del carcere non si apriranno mai. Dobbiamo forse attenderne la morte, per riconoscere che tutte queste persone scontano una pena senza fine? Nel frattempo, su di loro ci si accanisce. Leggi recenti negano agli ergastolani il beneficio della liberazione anticipata speciale, la durata massima dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, finanche il rimedio risarcitorio per detenzione inumana. Come se la loro colpa fosse uno stigma irredimibile, quando invece per Costituzione tutte le pene "devono tendere" alla risocializzazione del reo. La pena di morte, "in tutte le sue forme" viene collegata dal Papa "con l’ergastolo", entrambe abolite in Vaticano nel 2013. Altrettanta coerenza è pretesa dalla Costituzione. Il suo art. 27, 4° comma, rifiuta sanzioni irrimediabili: la pena di morte è vietata perché condannare un innocente è sempre possibile. L’ergastolo, al contrario, è un atto di fede cieca verso un’infallibilità giudiziaria che la Costituzione esclude. La fallacia normativistica di un ordinamento a prova di errore si spinge, con l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, al paradosso kafkiano: se condannati all’ergastolo ostativo, auguratevi di essere davvero colpevoli, perché solo il colpevole può utilmente collaborare con la giustizia (guadagnando così una possibile libertà). Ma se malauguratamente foste innocenti, peggio per voi: dovrete rassegnarvi a morire murati vivi. Quarant’anni fa la Consulta liquidò il problema della costituzionalità dell’ergastolo con una motivazione più breve di questo articolo. Da allora mai più un tribunale ha risollevato la questione. Molti giudici, commossi e ammirati, avranno letto le parole del Papa contro il "fine pena mai". Sapranno anche ascoltarle? Giustizia: le carceri italiane e l’Illuminismo tradito di Carlo Da Prato www.avantionline.it, 29 ottobre 2014 Tradendo tutte le conquiste sociali e civili della stagione illuministica, le carceri italiane proseguono ostinatamente nel loro percorso involutivo, caratterizzandosi sempre più come luoghi dove si celebra l’anacronistica vendetta sociale che prevede l’annientamento psicofisico del detenuto. A niente sono valse le condanne della Corte di Strasburgo, che avevano intimato all’Italia di risolvere la situazione entro lo scorso mese di maggio. La materia per molti anni è stata oscurata da uno spesso velo di omertà che ha escluso ogni tipo di campagna informativa e di discussione, tranne l’eccezione dei Radicali Italiani, che con una costante e ammirevole azione di pressione politica sulle istituzioni e sull’opinione pubblica hanno squarciato una cortina spessa e resistente, facendo filtrare dardi di conoscenza sui loro territori prediletti; quelli della difesa degli ultimi anelli della società, elettoralmente scomodi e quindi facilmente relegati nell’abbandono e nell’indifferenza. Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani, in una recente intervista rilasciata a "Il Tempo" espone una situazione a dir poco drammatica: " I detenuti presenti nelle nostre carceri al 30 settembre 2014 sono 54.195, i posti regolamentari 49.347. In realtà, però, da questi ne vanno sottratti circa 6mila perché molte carceri hanno sezioni chiuse e inagibili. Dunque i posti effettivi sono 43.000?. Una rettifica dunque sui numeri resa possibile proprio dalla pressione di Radicali Italiani, tanto che il sito del Ministero è stato costretto a correggere i dati precisando che il numero sulla capienza regolamentare "non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei del valore indicato". Il sovraffollamento carcerario è però solo il primo aspetto di una detonazione che innesca conseguenze a catena dagli effetti devastanti: le strutture carcerarie sono pessime e ancora più disastrose sono le condizioni igieniche, manca un serio ed efficace programma rieducativo, così come la possibilità di accedere a pene alternative e ai programmi di trattamenti personalizzati. Vi è poi una grave carenza in materia di assistenza sanitaria, tanto che oggi oltre ai 38 suicidi (l’ultimo consumato nel carcere di Lucca pochi giorni scorsi) sono stati accertati 115 decessi dove gioca un ruolo fondamentale la negligenza sulle cure. La causa di questo collasso è sempre spiegata da Rita Bernardini, che ci fa notare che "la sanità penitenziaria non è più affidata al ministero della Giustizia, ma alle Asl, che ovviamente, quando devono tagliare, lo fanno sui carcerati, l’anello debole". Un disagio questo che investe anche la polizia penitenziaria; secondo le affermazioni del segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe, ndr) Donato Capece "Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Purtroppo a Lucca il pur tempestivo intervento del poliziotto di servizio non ha potuto impedire il decesso del detenuto". Contrariamente a quanto propagandato dal Ministro Orlando, l’emergenza carceri dunque non è per niente superata ed anche l’atteggiamento dello Stato Italiano nei confronti della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo non è delle più incoraggianti; si preferisce concentrare energie e sforzi nella mistificazione piuttosto che riflettere su scelte risolutive e coraggiose come l’indulto e l’amnistia. Si è affermato ad esempio che l’Italia rispetta i tre metri quadri da garantire al detenuto dimenticando di specificare che in tale spazio è inclusa anche la mobilia (armadietto, letto ecc.), oppure spostando centinaia di detenuti in Sardegna, lontani dalle proprie famiglie, dove era possibile occupare spazi a disposizione. È sempre Rita Bernardini a fornirci un ulteriore elemento di omissione della sentenza Torreggiani: "Ci avevano chiesto di risarcire il detenuto che ha subìto, negli anni precedenti, trattamenti inumani e degradanti, ma abbiamo scoperto e denunciato che la magistratura di sorveglianza sta facendo una sorta di sciopero bianco. Alcuni magistrati dicono che le domande sono inammissibili perché loro si devono occupare solo del "pregiudizio attuale" che subisce il recluso, altri affermano che è impossibile, senza la collaborazione del Dap, ricostruire le condizioni carcerarie passate del detenuto. Ciò comporta, ad esempio, che in Toscana, a fronte di 1200 domande, ne è stata accolta una". A niente dunque è valso il messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che un anno fa invitava a trovare una soluzione non più derogabile su una questione umiliante per l’intera nazione. Ma c’è da augurarsi che l’attenzione che i Radicali Italiani stanno ponendo su questo problema spinoso non cessi di smorzarsi, ma che invece possa trovare ulteriori e coraggiose sponde anche sui territori laici, che per adesso si sono mostrati indifferenti o tiepidi sull’argomento. A differenza invece del mondo cattolico, che in coerenza con quanto predicato da Papa Giovanni Paolo II nella sua visita alle camere, quando esortò la politica alla clemenza verso i detenuti, si è stretto attorno al nuovo appello di Papa Francesco sull’amnistia e l’ergastolo. Sono fermamente convinto che se la civiltà di un paese si misura dalle condizioni dello stato carcerario non c’è da meravigliarsi che il nostro paese non occupi posizioni di rilievo nella scala dei diritti civili. Giustizia: "Protocollo Farfalla", così avvocati e attivisti venivano spiati dai servizi segreti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 29 ottobre 2014 Il cosiddetto "Protocollo Farfalla" non ha nulla a che vedere con la trattativa Stato-Mafia. È stata invece una operazione di intelligence, portata avanti in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, per mettere sotto controllo le associazioni dei detenuti, avvocati penalisti che esercitavano legittimamente la difesa dei reclusi al 41bis e uomini appartenenti alla criminalità organizzata che in rivendicavano i propri diritti di detenuti e protestavano contro il carcere duro: un regime che gli organismi internazionali, e recentemente anche Papa Bergoglio, considerano tortura. Da un articolo del Sole 24 Ore, avente probabilmente come fonte qualche membro del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, mentre sono in corso le audizioni proprio in merito al "protocollo", si apprende che la denominazione farfalla" si ispira al nome dell’Associazione Papillon": creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni nella casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie nonviolente in collaborazione con movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie, come i radicali. Perché questa attenzione? Tutto è partito nel settembre del 2002 quando, su iniziativa della stessa Associazione Papillon, il mondo carcerario - con la solidarietà dei movimenti libertari e partiti come i radicali, i verdi, ed una parte di Rifondazione comunista - intraprese una spettacolare protesta nonviolenta durata una settimana. Nella piattaforma di protesta, condivisa da tutti i detenuti, c’era la richiesta di indulto generalizzato di 3 anni (misura che avrebbe consentito l’uscita dal carcere di circa 15 mila persone); il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale; la riforma del codice penale; l’abolizione dell’ergastolo e la depenalizzazione dei reati minori; l’abolizione degli articoli 4 bis e 41 bis, l’aumento della liberazione anticipata a 4 mesi e un aumento delle misure alternative. Ci fu anche un’audizione parlamentare dell’allora vice presidente di Papillon, Vittorio Antonini, detenuto politico a Rebibbia perché fece parte delle Brigate Rosse, che diede voce in parlamento alle ragioni della protesta. A quella importante campagna di pressione del mondo carcerario aderirono anche boss, come Leoluca Bagarella che con un proclama letto in udienza denunciò la tortura del 41 Bis. Ed è qui che lo Stato intravedeva un disegno "oscuro", una regia unica che avrebbe collegato l’ex terrorismo rosso (sebbene Antonini fosse il solo detenuto politico ad aderire con forza alla protesta, mentre gli altri erano tutti reclusi comuni) con la mafia. Altro "campanello d allarme" fu il ritrovamento, nell’agosto del 2002, di un volantino di "Papillon Rebibbia Onlus", al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde che ha dato vita, in collaborazione col Dap (guidato allora da Giovanni Tinebra), alla famosa "Operazione Farfalla". I servizi monitoravano anche avvocati penalisti, soprattutto quelli politicamente di sinistra, che difendevano i detenuti reclusi al 41 Bis. Vittorio Antonini, raggiunto dal Garantista, dichiara che già all’epoca c’era il sentore che i servizi segreti operassero, e soprattutto già circolavano retro-pensieri su un presunto coinvolgimento della mafia. "Si tratta di dietrologie strampalate, mosse dall’apparato repressivo dello Stato - ci racconta Vittorio Antonini - già uscite sui giornali nel 2002, durante un lungo e partecipato ciclo di proteste nelle carceri promosso dalla Papillon-Rebibbia a partire dal 9 settembre e conclusosi dopo la visita di Giovanni Paolo II in Parlamento, dove anche il Papa tornò a denunciare la drammatica realtà delle galere". Poi Antonini prosegue dichiarando che "quelle dietrologie fecero seguito alla nostra audizione davanti al comitato carceri della commissione Giustizia della Camera, dove ribadimmo la validità della piattaforma di lotta per la quale si stavano battendo decine di migliaia di detenuti organizzati dalla Papillon-Rebibbia. Una piattaforma che per la prima volta dopo dieci anni comprendeva anche la richiesta di abolire l’ostatività sancita dall’articolo 4bis, di abolire la pena dell’ergastolo per qualsiasi tipo di reato e di metter fine alla situazione di tortura oggettiva che si era determinata dopo il 1992 con 1 applicazione dell’articolo 41 bis a migliaia di detenuti". Antonini spiega poi che "gli autori di quella geniale pensata dietrologica erano evidentemente incapaci di comprendere le drammatiche ragioni di fondo che avevano portato più di ventimila detenuti a seguire le indicazioni di protesta della Papillon-Rebibbia. E ancor meno compresero perché, già dai primi passi della protesta la Papillon-Rebibbia denunciò e prese le distanze dai gruppi promotori del movimento dei girotondi che per il 14 settembre del 2002 organizzarono una grande manifestazione nazionale a Roma su contenuti che noi definimmo una cultura tipica del populismo giustizialista nazionalpopolare, nonostante la scellerata adesione a quei girotondi di tanta parte dell’associazionismo e della sinistra sociale e politica, compresa quella extraparlamentare e antagonista di molti centri sociali delle principali città". Poi Antonini ironizza: "Visto che eravamo in compagnia degli amici del partito Radicale e della stessa Chiesa cattolica, i dietrologi potrebbero sempre divertirsi a cercare un qualche Grande Vecchio tra l’amico Pannella, oppure Giovanni Paolo II o al limite Papa Francesco, visto che ha avuto l’ardire di abolire l’ergastolo nel codice penale del Vaticano e di denunciare la condizione delle nostre galere, compresa la tortura oggettiva del 41bis". E conclude amaramente: "Siamo solo dispiaciuti che a dodici anni di distanza quegli obiettivi di civiltà necessitano ancora dell’organizzazione e della lotta, dentro e fuori dalle galere, dentro e fuori dalle Istituzioni, per essere finalmente posti all’ordine del giorno di un Parlamento e di un Governo che su questi temi sembrano essere maestri in politiche palliative. Ognuno deve fare la sua parte in questo tipo di battaglie, e per quel che ci riguarda continueremo ad adoperarci affinché quei temi rientrino nelle agende parlamentari e soprattutto entrino all’interno delle piattaforme di lotta dei grandi movimenti sociali di protesta che oggi si stanno piacevolmente risvegliando e riempiendo le piazze". Ad ogni modo il richiamo di Antonini al concetto di "dietrologia" trova conferma dallo stesso sottosegretario Marco Minniti, così come dall’ambasciatore Giampiero Massolo, i quali hanno assicurato al Copasir che "l’operazione Farfalla" non portò a nessun risultato. Non trovarono nulla. Rimane il fatto che però è stata condotta un’operazione di spionaggio nei confronti di chi, alla luce del sole, intraprendeva delle lotte o svolgeva il proprio lavoro come gli avvocati penalisti. Tutto ammissibile in uno stato che consideriamo "di diritto"? Un’altra domanda però è legittima. Se oggi è in corso un’altra operazione di intelligence simile, visto che la lotta contro la detenzione di tortura è ripresa e partecipano anche tanti ergastolani ostativi, metteranno sotto controllo anche Papa Bergoglio perché si è dichiarato contro il 41 bis? "Protocollo farfalla": salta audizione Tinebra Il Copasir oggi non sentirà Giovanni Tinebra, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dal 2001 al 2006. L’audizione, saltata per problemi di salute dello stesso Tinebra, rientrava tra quelle calendarizzate nell’ambito dell’indagine del Comitato sul cosiddetto "protocollo farfalla", accordo sottoscritto proprio in quegli anni da Dap e Sisde per acquisire informazioni da detenuti al 41bis. Oggi a palazzo San Macuto, nell’ambito della stessa indagine che si concluderà con una relazione alle Camere, sono stati ascoltati per circa tre ore i pm romani Erminio Amelio e Maria Monteleone, che proprio nel 2006 indagarono Salvatore Leopardi, capo del servizio ispettivo del Dap, accusato di avere girato ai servizi - tagliando fuori l’autorità giudiziaria - informazioni avute da un pentito della camorra. Il processo (ancora al primo grado, e a rischio di parziale prescrizione) va avanti - hanno spiegato i due magistrati - e la prossima udienza è fissata per il 12 dicembre, giorno in cui dovrebbe essere dato spazio ad alcuni testi della difesa. Giovedì il Copasir sentirà intanto l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e il generale Pasquale Angelosanto, già collaboratore di Mori al Ros mentre deve essere ancora stabilita la data dell’audizione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Giustizia: Napolitano ai Pm "mai saputo di accordi, gli attentati un ricatto di Cosa nostra" di Leo Lancari Il Manifesto, 29 ottobre 2014 La parola "trattativa" non è mai stata pronunciata, ma per Giorgio Napolitano è chiaro che gli attentati mafiosi dei primi anni 90 rappresentarono un "aut aut" di Cosa nostra allo Stato: o si allentava la pressione antimafia, oppure le stragi sarebbero continuate con lo scopo di destabilizzare le istituzioni. "Un ricatto", lo ha definito il capo dello Stato che ha però negato di sapere a cose si riferisse il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio quando parlò di "indicibili accordi". A riferire le parole del presidente della Repubblica è stato ieri il pm Nino De Matteo al termine della testimonianza resa da Napolitano al Quirinale davanti alla corte di Assise di Palermo. Una testimonianza "utile per ricostruire il quadro dei fatti del 1992 e del 1993 - ha proseguito Di Matteo - soprattutto per ricostruire il clima e per cercare di capire quale fu la percezione a livello più alto delle istituzioni degli attentati del maggio e del luglio 1993". È durato poco più di tre ore, interrotto solo da una pausa di 15 minuti, l’interrogatorio di Napolitano davanti ai giudici, pm e avvocati del processo sulla trattativa Stato-mafia. Tre ore durante le quali il presidente della Repubblica non si è sottratto alle domande accettando di rispondere anche a quelle che, grazie ai paletti di riservatezza imposti a suo tempo dalla Corte costituzionale, avrebbe potuto evitare. Seduto a una scrivania, il presidente ha declinato le generalità dopo di che è toccato come previsto al procuratore aggiunto Vittorio Teresi dare inzio all’interrogatorio. Da Napolitano i magistrati siciliani volevano sapere soprattutto due cose: cosa intendeva dire Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Colle, quando nella sua lettera di dimissioni, poi respinte, gli scrisse di essersi sentito usato nei primi anni 90, quando lavorava al ministero della Giustizia insieme a Giovanni Falcone. E poi se avesse saputo dell’attentato che, sempre in quegli anni Cosa nostra aveva progettato contro di lui, all’epoca presidente dalla Camera, e Giovanni Spadolini che ricopriva lo stesso incarico istituzionale al Senato. Sul primo punto il capo dello Stato ha negato che D’Ambrosio gli abbia spiegato a cosa si riferisse parlando di "indicibili accordi" e di non essere mai sceso nei dettagli della lettera. "D’Ambrosio era una persona di una tale correttezza e lealtà che se avesse avuto altro che un’ipotesi sarebbe andato all’autorità giudiziaria a denunciare tutto", ha spiegato. Aggiungendo di aver cercato di restituire serenità a D’Ambrosio, amareggiato per la pubblicazioni delle sue telefonate con l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino, accusato nel processo di falsa testimonianza. C’è poi il capitolo relativo agli attentati del 1993, che secondo la procura di Palermo avrebbero portato lo Stato ad accettare di trattare con la mafia fino al punto di revocare più di 300 provvedimenti di 41 bis. Napolitano ha ricostruito quegli anni negando che le forze politiche si siano mai divise sulla necessità di dare una risposta forte al "nemico mafioso". A questo punto il pm Di Matteo gli ha chiesto se seppe mai della richiesta di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e secondo la procura tra i protagonisti della trattativa, di essere ascoltato dall’antimafia. "Me lo disse Violante, ma non mi spiegò mai perché poi non lo convocarono", è stata la risposta del capo dello Stato. Infine gli attentati che la mafia avrebbe progettato contro di lui e Spadolini. A parlarne è una nota del Sismi datata 20 luglio 1993 rinvenuta nei giorni scorsi dalla procura di Firenze e ammessa tra gli atti del processo palermitano. Napolitano ha confermato di essere stato informato dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. Stando alle informazioni raccolte dal servizio militare, in programma ci sarebbe stato prima un attentato con un gran numero di vittime civili, poi un altro contro alte personalità dello Stato. Il nome suo e quello di Spadolini sarebbero stati fatti proprio per dare l’idea dell’importanza degli obiettivi scelti. Parisi, ha proseguito Napolitano, gli avrebbe comunicato che gli 007 consideravano le informazioni ricevute con cautela, ma aggiungendo che l’attendibilità della fonte era tale da non ritenere necessario annullare impegni o partenze. Comunque sia Napolitano rifiutò inizialmente un rafforzamento della scorta e andò in vacanza a Stromboli. Cosa che invece accettò in un successivo viaggio a Parigi. Giustizia: espugnato il Quirinale, i pm festeggiano "molto, molto soddisfatti" di Errico Novi Il Garantista, 29 ottobre 2014 L’udienza è tolta. I pm se ne vanno. E se ne vanno soddisfatti. Anzi, per dirla con il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, "molto, molto soddisfatti". L’audizione del teste Giorgio Napolitano nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia pare sia stata un successo. Ma chissà quanto durerà. Pochissimo, probabilmente. Anzi a pensarci bene è già finita. Perché appena tre ore dopo la storica irruzione dei magistrati al Quirinale i cinque stelle già tirano le loro immancabili bordate. In una nota il movimento di Grillo parla di "deposizione che non lascia traccia", accusa Napolitano di dare priorità non alla "ricerca della verità sulla terribile stagione delle bombe" ma di scavare "un solco profondo che divide i cittadini dalle istituzioni". Seguirà dibattito su quello che il presidente sapeva e non ha detto. Nonostante la Procura parli di "risultato straordinario dal punto di vista processuale", finirà come l’apprendista stregone di Walt Disney, con le scope che si moltiplicano all’infinito: dallo Stato-mafia verrà per gemmazione un altro processo, mediatico, in cui Napolitano da teste diventerà imputato. E così avanti all’infinito. Eppure i pm sono contenti. Il presidente, dice Teresi, "ha risposto a 40 domande, ha detto che subito dopo le stragi di Roma, Firenze e Milano del ‘93 tutte le più alte istituzioni hanno capito che si trattava della prosecuzione del piano stragista di Cosa nostra, e che l’organizzazione mafiosa tendeva a porre un aut aut: o si ottenevano benefici o ci sarebbero state finalità destabilizzanti". Naturalmente si tratta di un’ipotesi. Il Capo dello Stato la presenta come tale. Come la sua "valutazione" sul 92-93. Ha parlato di "sussulto della fazione oltranzista di Cosa nostra", dell’obiettivo di "porre un aut aut", appunto. È un’analisi. Non una certezza. Eppure queste parole, dice ancora l’aggiunto Teresi, "per noi sono il cuore del processo". Figurarsi il resto. E intanto nella Sala del Bronzino il processo trova "un’accoglienza straordinaria", racconta uno dei difensori di Nicola Mancino, Nicoletta Piergentili, "tutto organizzato alla perfezione, ciascuno ha avuto una propria postazione con una scrivania". Erano 40 persone tra Corte d’assise, pubblici ministeri (si sono presentati in 5), avvocati della difesa e delle parti civili (oltre 20 persone). Tutto come in un’aula di tribunale vera. "L’udienza è durata più di 3 ore con una breve pausa, il presidente ha risposto con grande chiarezza e puntualità", aggiunge Piergentili. Anche con ironia, quando necessario. A un quesito su una certa informativa dei servizi che secondo i pm avrebbe dovuto tenere a memoria per vent’anni, lui dice: "Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?". E, ancora, ribatte al volo all’avvocato intervenuto in rappresentanza del Comune di Palermo: "Su Loris D’Ambrosio vorrei dire una volta per tutte: si trattava di un uomo di tale qualità che se il suo timore di diventare "utile scriba per indicibili accordi" non fosse stato solo un’ipotesi ma qualcosa di concreto, sarebbe corso alla Procura della Repubblica". Sempre su D’Ambrosio Napolitano dice: "Eravamo una squadra". Ecco, le confessioni del defunto consigliere giuridico del Quirinale avrebbero dovuto costituire uno dei due soli capitoli di prova ammessi, insieme con l’informativa dei Servizi che a giugno 1992 indicò Napolitano e Spadolini tra gli obiettivi di possibili attentati. In proposito il presidente spiega di non aver avuto "particolari timori", si trattava di circostanze "connesse alla funzione di presidente della Camera". In ogni caso, spiega, "non ho mai saputo di accordi tra apparati dello Stato e Cosa Nostra". Ma la discussione è andata ben oltre il perimetro fissato dalla Corte. E Napolitano non si è mai sottratto. Lo rivendica subito dopo l’udienza con una nota: il presidente della Repubblica, vi si legge, "ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi". Poi la sfida, in cui il Colle auspica che la cancelleria "assicuri al più presto la trascrizione per l’acquisizione degli atti del processo", in modo da "dare tempestivamente notizia delle domande e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità". In teoria dunque non ci sarà agio di rimestare. In pratica l’avvocato di Riina lo fa senza ritegno ("Napolitano è stato aiutato dalla Corte, che non ha ammesso la domanda sul "non ci so" di Scalfaro"). E pure il legale che rappresenta il "Centro Pio La Torre" si tormenta perché "nessuno ha fatto domande specifiche sulla trattativa". L’unica chiosa possibile è quella del guardasigilli Orlando: "Quest’udienza non la definirei una cosa normale". Difficile dargli torto. Giustizia: Orlando; la Corte di Strasburgo approva i provvedimenti italiani sulle carceri Adnkronos, 29 ottobre 2014 "La Corte di Strasburgo che ci aveva messo sotto accusa ha dichiarato che i provvedimenti assunti dall’Italia sono provvedimenti che hanno affrontato l’emergenza. Questo non significa che abbiamo ancora un carcere all’altezza della situazione", lo afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando partecipando a Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24. "Dobbiamo rivedere la disciplina penitenziaria - prosegue il ministro - spingere sulle pene alternative, puntare sulle pene in carcere, fare in modo che il modello di reclusione non sia passivo come quello attuale. Certo che se il lavoro scarseggia fuori è difficile portarlo in carcere, però si può fare ancora molto di più". Quanto alla popolazione detenuta, "siamo passati da sfiorare i settantamila detenuti a 54 mila attuali", conclude Orlando. Rischio carcerazione preventiva diventi pena occulta "In molti casi questo rischio c’è, tant’è che il parlamento sta portando avanti una legge di riforma su questo punto, che mi auguro sia approvata nel più breve tempo possibile. È un rischio che la carcerazione preventiva sia una pena occulta". Lo afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando a Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24 commentando le parole del Papa che denunciato la carcerazione preventiva come una forma di pena illecita e occulta. Responsabilità civile giusta, ma non deve essere incubo Sulla responsabilità civile dei giudici "è giusto" che come ogni cittadino anche un giudice che sbaglia paghi. Ma occorre tener "conto del ruolo che svolge il giudice". Lo afferma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, durante la trasmissione Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24. "L’errore - spiega - va censurato ma bisogna evitare che le modalità di censura inducano un conformismo nell’attività del magistrato. Il giudice non deve avere l’incubo di una costante censura, non deve sottrarsi ad affrontare alcuni processi importanti. Quando c’è un riconoscimento di responsabilità per una quota parte il magistrato deve pagare una quota parte". Giustizia: delegazione dei penalisti italiani ricevuti al Senato dal presidente Grasso Il Velino, 29 ottobre 2014 Il presidente dell’Unione Camere Penali Beniamino Migliucci, con il vicepresidente Domenico Ciruzzi e il segretario Francesco Petrelli, sono stati ricevuti oggi a Palazzo Madama dal presidente del Senato Pietro Grasso il qualeo ha ascoltato "con attenzione - fanno sapere i penalisti - i temi posti in evidenza dall’Ucpi, in relazione alla necessità di una profonda riforma della Giustizia penale". Migliucci ha segnalato l’esigenza di "salvaguardare le garanzie processuali in un’ottica di razionalizzazione e armonizzazione del processo penale, rilevando che la durata ragionevole del processo non si raggiunge allungando i tempi della prescrizione o incidendo sulle impugnazioni". Migliucci ha poi sottolineato l’ineludibile "urgenza di intervenire sulla certezza della durata delle indagini, e dunque sul momento di iscrizione nel registro degli indagati, violazione che andrebbe sanzionata con la inutilizzabilità degli atti assunti". È stata rappresentata al presidente Grasso la necessità di evitare sovraesposizioni mediatiche dei procedimenti penali e la pubblicazione dei materiali di indagine. Dai penalisti è stata manifestata la necessità di un impegno sul tema delle responsabilità e di un effettivo funzionamento della sezione disciplinare del Csm, anche a salvaguardia dell’autorevolezza della magistratura. Infine, il presidente dell’Ucpi ha evidenziato la disponibilità dei penalisti a partecipare positivamente a una riforma della Giustizia che contemperi efficienza e rapidità con le finalità proprie del giusto processo, in una moderna società liberale e democratica". Giustizia: Cassazione; sotto i 3 anni di condanna (prevedibile) no a custodia cautelare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2014 Sotto i 3 anni di condanna (prevedibile) non si giustifica di norma la custodia cautelare in carcere. Va perciò annullata l’ordinanza che ha respinto la richiesta di applicazione di una misura meno grave presenta da parte di un cittadino extracomunitario accusato di furto aggravato in abitazione. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 44789 della Sezione penale feriale depositata ieri. La Corte d’appello di Roma aveva confermato la custodia cautelare in carcere non tenendo conto della richiesta della difesa di commutare la misura negli arresti domiciliari e dando anche disponibilità all’utilizzo del braccialetto elettronico. Il giudizio della Corte d’appello era però stato emesso prima dell’entrata in vigore del decreto n. 92 del 26 giugno 2014 con il quale è stata previ-sto come ulteriore caso in cui non può essere applicata 0 mantenuta la misura della custodia cautelare in carcere, quello in cui il giudice ritiene che con la sentenza di condanna, pronunciata all’esito del giudizio, la pena da infliggere non sarà superiore a 3 anni. Inevitabile allora l’annullamento e inevitabile anche il rinvio per una nuova valutazione alla luce del nuovo quadro normativo introdotto da pochi mesi. Giustizia: reato di diffamazione, addio al carcere per i giornalisti, multe anche per online 9Colonne, 29 ottobre 2014 Anche le testate giornalistiche online registrate potranno essere soggette a multe, fino a un massimo di 50 mila euro; l’interdizione fino a sei mesi dalla professione scatterà solo in caso di recidiva reiterata, e non semplice; il giudice potrà stabilire prevedere un risarcimento per le persone oggetto di una querela temeraria. Sono tre degli emendamenti approvati dall’aula del Senato al ddl sulla diffamazione, per il quale non manca che il voto finale e che estende l’ambito di applicazione della legge sulla stampa sia alle testate giornalistiche on-line sia a quelle radiotelevisive; modifica la disciplina della rettifica. Ma che soprattutto ridefinisce le sanzioni relative alla diffamazione a mezzo stampa eliminando la pena della reclusione. La Commissione giustizia ha precisato la disciplina della rettifica, prevedendo che essa debba essere pubblicata gratuitamente, senza commento e senza titolo. Il nuovo testo anche prevede la responsabilità del direttore del quotidiano o di altro mezzo di diffusione, se il delitto è conseguente alla violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione, elimina inoltre la pena della reclusione per l’ingiuria, prevedendo la sanzione della multa fino ad un massimo di 50mila euro. L’articolo 3, introdotto dalla Commissione, contiene ulteriori misure a tutela del soggetto diffamato, prevedendo l’eliminazione da siti internet e motori di ricerca di contenuti diffamatori o dati personali trattati in violazione di legge, mentre si introduce una norma che consente al giudice di infliggere un’ulteriore condanna al querelante nel caso di sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Gli articoli 5 e 6 estendono la disciplina del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti iscritti all’albo. La relatrice Rosanna Filippin (Pd), ha respinto le polemiche e le critiche di chi dall’opposizione parlava di "legge bavaglio, ricordando che "l’obiettivo principale è l’eliminazione della pena detentiva per i giornalisti, richiesta che ci è stata manifestata in tutti i modi da parte dell’Europa che considera ormai questa punizione nei confronti del giornalista che si renda responsabile del reato di diffamazione come arcaica e non più rispondente ai diritti di opinione e d’informazione esistenti nel mondo reale" Giustizia: archiviata l’inchiesta su Schifani, cade l’ipotesi che abbia aiutato Cosa nostra di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 29 ottobre 2014 Ci sono voluti quasi 15 anni di indagini, di sospetti e dicerie per arrivare all’archiviazione dell’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, il reato sbattuto come un bollo infamante sulla storia di Renato Schifani, l’ex presidente del Senato. Ha messo la parola fine un giudice per le indagini preliminari, Vittorio Anania, peraltro accogliendo le richieste dell’accusa, anche del pm più esposto nel processo sulla "trattativa", Nino Di Matteo. Da tempo infatti diversi magistrati non ritenevano sufficienti le voci e gli indizi raccolti su un’epoca lontana, fin dal 1979, quando un notabile della Dc siciliana come Giuseppe La Loggia inserì il figlio Enrico e un giovane praticante, appunto Schifani, in una società di brokeraggio assicurativo, la "Sicula Brokers", di cui facevano parte alcuni soci poi, negli anni Novanta, incriminati per concorso e associazione mafiosa. Scavando nella vita professionale di Schifani fu poi insinuato come nel 1983 aveva difeso il boss Giovanni Bontate. E nel crescendo di rivelazioni rilasciate anche da un paio di pentiti blasonati, ma non riscontrati, qualche giudice e diversi giornali avevano infine legato il nome di Schifani perfino ai Graviano, i boss di Brancaccio che fecero uccidere padre Puglisi. Ma adesso la sentenza di archiviazione del gip Anania afferma che quella dell’ex presidente del Senato è solo la storia di un avvocato che ha difeso dei clienti, a volte senza sapere che fossero mafiosi. Si sarebbe potuto arrivare all’archiviazione nel 2010, quando le fughe di notizie si trasformavano in titoloni, senza riscontri dei pm. Poi l’altra richiesta negata nel 2013 dall’ex gip Piergiorgio Morosini, oggi membro del Csm. Dal canto suo Schifani non ha mai alzato la voce: "Un presidente del Senato non può permettersi di essere critico nei confronti della magistratura. Ho sofferto in silenzio, con riservatezza e compostezza, ma senza rinunciare a incisivi e concreti atti antimafia". E adesso rivela un retroscena inedito: "È mia la norma sul "sequestro per equivalente", lo strumento giuridico che consente di rivalersi sui beni leciti dei mafiosi quando si scopre che hanno venduto quelli sottoposti al sequestro. Norma a me suggerita da alcuni magistrati. E da me scritta. Ma non sbandierata per non essere sfiorato dal sospetto di fini strumentali. Per questo chiesi a Carlo Vizzini di presentarla. Varando una leva che rafforza l’aggressione ai patrimoni mafiosi". Solidarietà a valanga, dal ministro Alfano a Simona Vicari, Francesco Cascio, Nitto Palma e tanti altri. E il Cavaliere? "Non mi ha chiamato". Veneto: dalle Regione 400mila euro a progetti per aiutare i detenuti adulti e minori Ansa, 29 ottobre 2014 "Non ci rassegniamo. Pur nella difficoltà finanziarie che ci stringono da tutte le parti, la Regione Veneto intende continuare a contribuire con i suoi provvedimenti al recupero e al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Lo dimostriamo con una delibera che apre un importante bando per l’anno 2014 per finanziare progetti a favore dei detenuti negli istituti penitenziari del Veneto e di quelli in area penale esterna". Lo afferma Davide Bendinelli, assessore regionale ai servizi sociali, in merito alla delibera approvata oggi dalla giunta regionale, su sua proposta, e che coinvolge gli enti pubblici e gli organismi provati del volontariato e del terzo settore. "Sappiamo bene quanto sia importante il lavoro e la formazione professionale per i detenuti - continua Bendinelli - per dare una vera chance di cambiamento di vita e di prospettiva. Purtroppo sono le cose più difficile da portare nelle carceri - aggiunge - anche se va evidenziato il dato per cui in Veneto lavora il 41% dei reclusi, il valore più alto a livello nazionale, preferibilmente alle dipendenze di un datore esterno all’Amministrazione penitenziaria (28,5%)". I 400mila euro a carico del bilancio regionale 2014 sono destinati per 250mila a progetti per soggetti adulti e minori in area penale esterna e per 150mila euro per adulti e minori ristretti in carcere. Secondo il Dipartimento Statistica Penitenziaria del Ministero della Giustizia al 30 settembre 2014 i detenuti nelle dieci carceri venete erano 2.490 di cui 32 in semilibertà e 1361 stranieri (rispetto a una capienza regolamentare che dovrebbe essere di 1957) quindi quasi il 50% in più dei posti disponibili, con punte di sovraffollamento più alte a Vicenza e a Treviso. Firenze: Osapp; una detenuta muore a Sollicciano, un’altra ricoverata in terapia intensiva Ansa, 29 ottobre 2014 "Nella sezione femminile del carcere di Firenze-Sollicciano una detenuta è morta questa notte per probabile overdose mentre un altra detenuta, sempre nella giornata di ieri, era stata ricoverata d’urgenza per gli evidenti sintomi del sovradosaggio da stupefacenti" a darne la notizia è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota a firma del segretario generale Leo Beneduci. "La morte della detenuta italiana di 36 anni, che risulterebbe essere il 116° detenuto morto in carcere dall’inizio dell’anno, sarebbe stata scoperta solo questa mattina dopo che erano risultati vani i tentativi di risvegliarla e poi di rianimarla - afferma il sindacalista, che prosegue - ma, visto anche il probabile ingente ingresso nel carcere fiorentino di sostanze stupefacenti, non possiamo negare di avere espresso più volte, ad oggi del tutto ignorati, notevoli perplessità riguardo alla attuale gestione anche dal punto di vista della sicurezza del carcere di Sollicciano, da parte di un direttore part-time e colà in missione, nonché per gli istituti penitenziari della regione e in particolare per quelli di Livorno, Pisa e Gorgona. da parte dell’attuale provveditore regionale, di cui appare necessario iniziare ad ipotizzare l’avvicendamento ad altra sede vacante". "L’auspicio - conclude Beneduci - è che gli allarmi di un sindacato di poliziotti addetti al settore, qual è l’Osapp non restino inascoltati da parte dell’Amministrazione penitenziaria centrale e del Guardasigilli Orlando, stanti le situazioni di rischio e di danno che poi, inevitabilmente, si verificano". Dap: aspettiamo accertamento cause morte detenuta "Per quanto riguarda il caso della donna morta nel carcere di Sollicciano, stiamo attendendo le risultanze che stabiliscano con certezza le cause della morte". Lo afferma il direttore vicario del Dap, il Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, in merito al decesso registrato nell’istituto toscano. "L’azione di contrasto agli stupefacenti nelle Carceri è costante e con tutti i mezzi a disposizione, comprese le unità cinofile. Ma rendere impermeabile al cento per cento tutte le strutture - ammette Pagano - è praticamente impossibile, anche perché i canali attraverso cui una piccola dose entra in carcere possono essere diversi. E anche una piccola dose può essere fatale per un soggetto che magari sta facendo un percorso di disintossicazione". Radicali: la morte della detenuta è frutto di una politica probizionista É stata resa notà dall'Osapp la notizia della morte per overdose di stupefacenti di una detenuta nel carcere di Sollicciano a Firenze. Sul tema sono intervenuti Massimo Lensi, componente della Direzione di Radicali Italiani, e Maurizio Buzzegoli, segretario dell'Associazione radicale fiorentina "Andrea Tamburi": "L'illegalità delle carceri italiane rimane dilagante: la morte della detenuta nel carcere di Sollicciano non è che il frutto di una politica proibizionista e giustizi alista incapace di salvaguardare l'incolumità dei propri cittadini". I due esponenti radicali ricordano come il "problema carceri" non sia superato: "La diminuzione del sovraffollamento carcerario messa in campo dal Governo Renzi non implica il superamento dei trattamenti inumani e degradanti che continuano ad essere perpetuati ai detenuti italiani: la prova tangibile è anche il traffico di sostanze stupefacenti all'interno degli istituti penitenziari ma soprattutto un fallimentare piano di recupero peri detenuti tossicodipendenti". Infine Lensi e Buzzegoli rilanciano la proposta radicale: "Quante morti dovrà continuare a mietere lo Stato fuorilegge prima di approvare i provvedimenti di amnistia e indulto?". Sappe: giovane morta stava scontando pena per spaccio "Le cause della morte sono ancora da accertare, anche se il decesso sarebbe avvenuto per un arresto cardiocircolatorio", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece riferendosi alla detenuta morta a Sollicciano. "La detenuta, una giovane fiorentina di 36 anni, stava scontando una pena per spaccio di droga, pena per la quale le era stata inflitta un fine pena a dicembre 2015", afferma Capece in una nota. A trovare la donna ormai priva di vita è stata una poliziotta di servizio questa mattina. "Questa tragedia - osserva il segretario del Sappe - segue un altro drammatico evento critico accaduto in carcere, sempre a Firenze Sollicciano. Una detenuta è stata salvata in tempo in ospedale dalla morte a seguito di un grave malore occorsole, pare, per una sospetta overdose di stupefacenti". "Un episodio sul quale sono in corso indagini e accertamenti di polizia", spiega Capece. Capece mette quindi in evidenza "la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato" delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria di Firenze Sollicciano: "Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo". Padova: nasce Centro ricreativo e sociale per detenuti e condannati in misura alternativa Ansa, 29 ottobre 2014 Nasce a Padova il secondo centro ricreativo e sociale per detenuti e condannati in misura alternativa. Dopo quello di Firenze oggi è stato presentato il Progetto Oasi (finanziato da ministero del Lavoro e Fondazione Cariparo). Si tratta di una struttura, gestita dai Padri Mercedari, a cui si potranno rivolgere i detenuti del carcere di Padova in regime di semi-libertà, affidamento o arresti domiciliari. Gratuitamente potranno trovare alloggio, consulenza legale, sostegno psicologico, corsi, computer, una biblioteca, un servizio di scrittura di curriculum vitae e molto altro rendendo così meno traumatico il rientro nella società, soprattutto al termine di lunghe carcerazioni. "Più si investe in rieducazione e meno persone torneranno a delinquere - ha sintetizzato il magistrato di Sorveglianza Marcello Bortolato - in Italia servono meno carceri e più posti così". Lecce: dalle celle al lavoro, i detenuti diventano controllori della sosta auto al "Vito Fazzi" www.leccesette.it, 29 ottobre 2014 L'accordo tra Asl Lecce e carcere di Borgo San Nicola prevede l'inserimento al lavoro di 10 detenuti. Saranno 10 detenuti a controllare la sosta delle auto all’interno dell’ospedale "Vito Fazzi" e nell’area del Poliambulatorio. Proprio così, dalle celle di Borgo San Nicola all'inserimento nell'attività lavorativa. Asl Lecce e la casa circondariale hanno firmato un accordo che prevede l’impiego, a titolo gratuito e volontario, di non più di 10 detenuti e partirà dal 10 novembre prossimo. I detenuti saranno seguiti da un tutor e lavoreranno dalle 8 alle 13 in attività di pubblica utilità a favore della collettività. Il progetto ha la durata di 12 mesi e potrà essere annullato da entrambe le parti per motivate ragioni. La Asl si impegna a fornire le attrezzature necessarie (materiale di pulizia e di manutenzione) e le dotazioni di protezione individuali (tute, occhiali); ad individuare un tutor che segua i percorsi lavorativi e segnali inadempienze o comportamenti inadeguati; a provvedere alla copertura dei rischi con polizza Inail. La direzione della Casa circondariale si impegna a selezionare i detenuti, escludendo quelli che hanno commesso reati contro i minori; far rispettare gli orari di lavoro e il controllo; mettere a disposizione un operatore dell’Istituto che seguirà l’andamento dei percorsi di collaborazione. Rimini: accordo con la Giunta, i detenuti dei Casetti coinvolti nella cura decoro urbano www.smtvsanmarino.sm, 29 ottobre 2014 Approvato dalla Giunta comunale di Rimini lo schema di accordo con la Casa Circondariale per il coinvolgimento di detenuti nella cura del decoro urbano. La convenzione, si legge in una nota, prevede il coinvolgimento di alcuni detenuti in attività di pubblica utilità, in particolare la cura e manutenzione del patrimonio pubblico, a partire dalla rimozione dei graffiti e delle scritte che deturpano gli immobili pubblici e privati cittadini. Quello siglato oggi - prosegue la nota dell’Amministrazione riminese - è il primo atto del percorso amministrativo che porterà tra qualche giorno alla firma dell’accordo tra Comune e Casa Circondariale e alla definizione nei dettagli dei progetti nei quali saranno coinvolti i detenuti. "È evidente come questo progetto sia significativo sotto molteplici punti di vista - osserva il vicesindaco e assessore al Welfare, Gloria Lisi: da una parte favoriamo il percorso rieducativo dei detenuti, dandogli l’opportunità di mettersi al servizio della comunità, prendendosi cura di beni che sono di tutti e, allo stesso tempo i detenuti avranno modo di fare esperienze che potrebbero essergli utili in un secondo momento, quando potranno lasciare la casa circondariale e dovranno provare a reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro". A giudizio di Lisi, "abbiamo già più volte sottolineato come la realtà dei detenuti, dei cittadini che vivono l’esperienza del carcere, deve essere presente in maniera sempre più importante nelle politiche dell’Amministrazione. Questo è un ulteriore passo avanti per mettere a contatto la città con il mondo del carcere, troppo spesso ritenuto marginale, ma che invece rappresenta un’importante realtà del nostro territorio" Lecce: Osapp: allarme bomba al tribunale, tutti evacuati tranne i poliziotti penitenziari Agi, 29 ottobre 2014 "Ieri mattina verso le 9,30 è giunta una telefonata presso gli uffici del Tribunale di Lecce in Viale de Pietro riguardo alla presenza di un ordigno in procinto di esplodere. Immediata l’evacuazione delle circa 1.000 persone presenti, tra personale e pubblico, ad esclusione dei 20 Poliziotti Penitenziari colà in servizio, compresi gli addetti al servizio traduzioni provenienti dalla Casa Circondariale di Taranto, che nessuno aveva avvisato del pericolo" a dare notizia in una nota dell’increscioso episodio è Leo Beneduci - segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). Secondo l’esponente sindacale: "quanto accaduto presso il Tribunale di Lecce è l’ulteriore riprova della crescente confusione nell’Amministrazione penitenziaria centrale e periferica e del conseguente stato di abbandono che colpisce i circa 38mila Poliziotti Penitenziari ancora dipendenti da quella amministrazione e che abbisognano, ogni giorno di più, di un assetto e di una organizzazione maggiormente confacenti alle esigenze anche operative di un Corpo di Polizia dello Stato da sempre in prima linea nella tutela della legalità e della sicurezza della Collettività nazionale". Caserta: dopo l’ispezione al carcere di Santa Maria C.V. i vertici del Sappe a Carinola di Biagio Salvati Il Mattino, 29 ottobre 2014 È iniziato ieri dal carcere di Santa Maria Capua Vetere e proseguirà oggi a Carinola e domani ad Aversa, nella scuola della polizia della Polpen, un "tour" avviato dal segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) Donato Capece che - insieme al segretario nazionale Emilio Fattorello ed ai responsabili locali della sigla sindacale - stileranno un rapporto sull’attuale stato del mondo carcerario campano. Dopo aver ottenuto le assicurazioni di rinforzi e risoluzioni di criticità, Capece ha fatto nuovamente visita nel penitenziario sammaritano cosi come annunciato nei giorni scorsi per un ulteriore approfondimento. Lo stesso verrà fatto oggi nella casa circondariale di Carinola che, a dire del sindacato, versa in una situazione critica. Domani sarà la volta della Scuola Formazione Aggiornamento di Polizia Penitenziaria con annesso il Tribunale di Napoli Nord. Lo screening prevede anche un incontro con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Regione Campania, Tommaso Contestabile, al quale saranno rappresentate eventuali ed ulteriori richieste. Per il Sappe, che è vicino alle donne e agli uomini della Polpen, si sta vivendo un momento di difficile gestione delle carceri e si attende dal Governo la nomina del capo del Dipartimento assente da tre anni. Intanto, con le richieste avanzate le scorse settimane, è stato assicurato al penitenziario di Santa Maria Capua Vetere un rinforzo di personale di polizia penitenziaria, la risoluzione di alcune criticità interne e la liquidazione di missioni e straordinari. La situazione del personale era stata richiamata nei giorni scorsi a seguito dell’aggressione ad un agente da parte di un detenuto violento. Il penitenziario sammaritano dunque, sarà dotato di altre 21 unità di personale distaccate dalla regione, altre 5 verranno recuperate dalla chiusura di una postazione interna chiusa mentre sono state assicurate coperture finanziarie per straordinarie missioni del Nucleo traduzioni fino al 30 settembre. Ci saranno anche interventi su alcune criticità della mensa del personale e sarà riorganizzato il lavoro del personale e, infine, dal Provveditorato è arrivata anche la notizia della volontà dell’amministrazione centrale di incrementare l’organico dell’istituto e la predisposizione del decreto per rendere il penitenziario sammaritano di prima fascia come da sempre richiesto dal Sappe. Intanto, in una nota a firma di sei sigle sindacali (Sinappe, Uil.p.p., Fns Cisl, Ugl p.p., Cgil pp e Cnpp) indirizzata ai vertici del Dap, al Ministero di Giustizia e ad altri destinatari interessati, si chiede la riapertura del reparto detentivo presso l’ospedale di Caserta. "Ci risulta che la mancata attivazione di detto reparto sia dovuta esclusivamente alla mancata assegnazione di personale medico e paramedico, problema che le varie autorità amministrative investite della questione, a tutt’oggi, non sono ancora riuscite a risolvere per motivi a noi sconosciuti - scrivono le sigle in una nota - è ovvio che l’apertura della struttura in argomento, oltre a garantire maggiore sicurezza alla collettività, consentirebbe di effettuare il servizio di piantonamento in un ambiente protetto e discreto a vantaggio della sicurezza sia attiva che passiva, nonché della privacy degli stessi detenuti ricoverati. Monza: solidarietà Commissione regionale a direttrice carcere minacciata da ‘ndrangheta Italpress, 29 ottobre 2014 La Commissione Speciale Carceri, presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni) esprime solidarietà alla direttrice dell’Istituto penitenziario di Monza, Maria Pitaniello che ha ricevuto minacce dalla ‘ndrangheta. L’episodio è stato reso noto dalla Procura di Milano, che ha confermato che durante le indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia sono emerse minacce alla direttrice del carcere di Monza, che ha ricevuto una busta con tre proiettili e minacce di morte da alcuni degli indagati. La Commissione Carceri aveva visitato l’istituto penitenziario di Monza nel giugno scorso nel corso di una serie di sopralluoghi alle strutture di tutta la Lombardia finalizzata a verificarne stato e condizioni. Padova: "Pallalpiede", i detenuti in campo per dare un calcio ai pregiudizi di Alice Cavicchioli www.notizie.tiscali.it, 29 ottobre 2014 "Andiamo a prendere i ragazzi". Lara Mottarlini, di Nairi Onlus, arriva al carcere Due Palazzi di Padova con una rete di palloni in spalla. È martedì pomeriggio, giorno di allenamenti per la Polisportiva Pallalpiede, la squadra di calcio composta da detenuti, che l’associazione padovana impegnata nel terzo settore ha promosso e supportato insieme alla Polisportiva San Precario. Entriamo nel penitenziario padovano per toccare con mano l’ultima sfida raccolta dall’istituto di pena veneto nell’ambito della rieducazione. Un caso unico nell’attuale panorama nazionale. Una squadra di 29 giocatori - selezionati fra i reclusi e tutti tesserati Figc - che è regolarmente iscritta al campionato di terza categoria. Allenamenti due volte a settimana nel campo ricavato all’interno del carcere e partite ogni sabato contro le squadre del girone B, disputate per ovvi motivi rigorosamente in casa. Incontriamo, insieme a Lara, anche il presidente della neonata polisportiva, Mario Paolo Piva, che all’interno del Due Palazzi è anche professore di italiano. Fra i giocatori c’è anche qualcuno dei suoi studenti. Mentre aspettiamo l’arrivo dei ragazzi al campo, dalle sbarre dell’edificio grigio che ospita le celle del penale si affaccia una voce: "Prof! Mi hai fregato! Avevi detto che forse avrei potuto giocare anch’io!". Piva riconosce la voce di uno dei suoi studenti. La voce rimbomba a metri di distanza nello spiazzo verde. "Non ti ho fregato! Pensa a studiare va!". E la conversazione si chiude con una sghignazzata fra i due. "Si sta laureando", mi spiega. "È uno bravo, sta preparando una tesi su Dostoevskij". Tosto il ragazzo. Intanto i calciatori arrivano alla spicciolata accompagnati dal mister, Valter Bedin, allenatore patentato Uefa B. Rigore e fermezza associate a una buona dose di simpatia e savoir-faire, Bedin sa come trattare i suoi. Li raccoglie facendo il punto dopo l’ultimo match (esaltante vittoria 6-1 ma "non si dorme sugli allori") e poi li spedisce al primo giro di corsa. "Un’esperienza bellissima- spiega Bedin, mi ha coinvolto subito, soprattutto emotivamente. In termini calcistici puri poi, è una squadra che vanta giocatori davvero all’altezza del campionato". Il tempo vola durante l’allenamento. In campo le nazionalità più disparate, unite nel segno di un progetto che mira prima di tutto alla rieducazione. In Italia la media della recidiva, per chi sconta in carcere tutta la pena, è del 67%, mentre per chi usufruisce di misure alternative alla detenzione la percentuale crolla al 19%, scendendo ulteriormente al 12% per i detenuti degli Istituti penitenziari più strutturati ed attrezzati per il perseguimento. Si ride, si scherza ma la squadra è concentrata, pronta a ogni segnale del mister, consapevole dell’opportunità che le è stata offerta in un penitenziario che pure deve fare i conti col perenne sovraffollamento e la carenza di personale (fra polizia penitenziaria, educatori, infermieri…) che, qui come altrove, ciclicamente surriscalda il clima rendendo la vita difficile a tutti. Intanto nell’aria c’è anche l’idea di un’amichevole fra detenuti e agenti penitenziari. A parlarne col presidente è proprio uno dei poliziotti. E chissà che il match non vada davvero in porto. Sarebbe, in ogni caso, un’altra vittoria per tutti. Droghe: Cassazione; in caso di continuazione l’annullamento è da valutare singolarmente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2014 Annullamento sì, ma non assoluto. Nella disciplina di contrasto alla diffusione di stupefacenti, terremotata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 12 febbraio di quest’anno, il caso della continuazione tra i reati può determinare l’annullamento della sentenza impugnata solo quando è possibile che la pena inflitta possa essere rideterminata dal giudice del rinvio applicando il principio di prevalenza della legge penali più favorevole. In questi termini conclude la Cassazione, con la sentenza n. 44791 della Quarta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna emessa dalla Corte d’appello di Catania che aveva sanzionato con 3 anni di reclusione e 14mila euro di multa (oltre alla distruzione delle sostanze sequestrate) la detenzione di cocaina e marijuana e la cessione a terzi di stupefacenti. In discussione c’era il caso della continuazione, visto che la Corte d’appello aveva respinto la contestazione sostenendo che l’acquisto al fine della vendita, e la consecutiva cessione di tutte o solo una parte delle sostanze acquistate, integrano distinte condotte di reato. Ricostruendo la giurisprudenza sul punto, la sentenza ricorda l’esistenza di due orientamenti successivi al verdetto di incostituzionalità di una parte cruciale del Testo unico nell’inverno scorso. Un primo indirizzo ritiene che la necessità di dare applicazione alla legge più favorevole non si riflette nell’annullamento della sentenza impugnata quando i reati per i quali la disciplina più mite non è stata applicata costituiscono reati satellite, "ciò in quanto, nell’istituto della continuazione, una volta individuata la "violazione più grave", i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, dovendosi solo aumentare la pena per la violazione più grave, senza che rilevino i limiti legali della pena prevista per i singoli reati satellite". L’altro orientamento, invece, prevede che i nuovi e più favorevoli limiti di pena, successivi alla sentenza della Consulta, impongono comunque una nuova valutazione della pena, da infliggere: sì quindi, in Cassazione, all’annullamento con rinvio, fatta salva la possibilità per il giudice del rinvio di confermare la sanzione già irrogata. La Cassazione, con la pronuncia depositata ieri, si scosta però da questi precedenti, mettendo in evidenza tra l’altro, come, proprio per le vicende recenti della normativa in materia di stupefacenti, per l’applicazione della legge più favorevole bisogna avere come punto di riferimento non solo l’entità della pena, ma anche la composizione del capo d’imputazione. In quest’ultimo infatti il reato-base può essere costituito dalla detenzione di sostanze stupefacenti di gravità diversa. "Tanto implica - osserva la Cassazione - la necessità di valutare le ragioni di persistenza della fictio iuris costituita, in funzione di attenuazione della pena, dal reato continuato". Tutto ciò però non impone l’annullamento della sentenza impugnata in ogni caso, perché le regole processuali, con il divieto di reformatio in peius, possono rendere inutile la cassazione del provvedimento; ma non è escluso invece che possa verificarsi il contrario come, per esempio, nell’ipotesi della detenzione di elevate quantità di droghe leggere e minime di pesanti. Stati Uniti: pena di morte; esecuzione in Texas, ma in Usa tendenza in calo Agi, 29 ottobre 2014 Nello Stato del Texas è stato giustiziano un uomo condannato a morte per aver assassinato tre membri di una banda rivale nella città di San Antonio nel 2000. Miguel Paredes, 32 anni, è stato giustiziato con un’iniezione letale nel braccio della morte del carcere di Huntsville. Intanto in Missouri, un’esecuzione prevista per oggi è stata bloccata all’ultimo minuto dalla Corte Suprema che deve decidere se accogliere una richiesta di appello. Mark Christeson, 35 anni, è condannato alla pena capitale per aver ucciso, nel 1998, una madre insieme ai suoi due bambini. Comunque vada, il numero delle esecuzioni quest’anno negli Stati Uniti sembra destinato a toccare il picco più basso dal 1994: il bilancio totale dovrebbe, entro la fine dell’anno, arrivare a quota 35, il numero più basso dai 31 detenuti giustiziati nel 1994. L’anno scorso negli Usa furono realizzate 39 condanne a morte. A rallentare il ritmo soprattutto la difficoltà a reperire i farmaci per il cocktail dell’iniezione letale. Medio Oriente: diventare padri in cella, così i detenuti palestinesi beffano Israele di Michele Monni Ansa, 29 ottobre 2014 Anche i datteri sfruttati dai reclusi per trafugare le provette. Specializzato in inseminazioni in vitro, il Centro medico palestinese Razan di Ramallah offre i propri servizi a clienti speciali: le mogli dei detenuti palestinesi che scontano lunghe condanne nelle carceri israeliane. L’ultimo caso, riportato dalla stampa, è quello di una giovane donna di Hebron che afferma di aver dato alla luce un bebè utilizzando lo sperma del marito, trafugato dalla prigione israeliana di Ketziot (Neghev). "La prima richiesta di questo genere", svela all’Ansa Salem Abu Khaizaran, il direttore del centro, "ci è arrivata nel 2003 da una giovane moglie di Jenin. Ci siamo subito prodigati per ricevere l’approvazione delle autorità religiose e dei partiti". L’assenso politico e la fatwa (il verdetto coranico) giunsero in tempi brevi; ma secondo Abu Khaizaran la società palestinese non era ancora pronta. "Attraverso incontri con le comunità locali abbiamo cercato di spiegare il meccanismo dell’inseminazione artificiale per evitare - ha spiegato - possibili malintesi dovuti alla vista di una donna incinta, con un marito detenuto da anni". Nei Paesi a maggioranza musulmana l’inseminazione artificiale è del resto pratica comune dagli anni Ottanta. Nell’agosto del 2012, la giovane donna di Jenin (Dalal al-Zabin) ha dato poi alla luce Mohammed, il primo figlio di un detenuto palestinese nato con l’inseminazione in vitro. Da allora, con lo stesso processo, sono nati secondo gli annunci dei media almeno 22 bambini; mentre altre sette gravidanze sono in itinere. Ma come si può condurre in porto l’operazione dal carcere? Israele non permette visite coniugali ai detenuti che stanno scontando condanne per gravi fatti di sangue. I colloqui tra marito e moglie avvengono attraverso la barriera di una parete divisoria in vetro. Tuttavia le autorità carcerarie consentono brevi incontri tra i detenuti e i figli più piccoli: ed è così - pare - che il seme viene trafugato. "In questi ultimi anni ho ricevuto campioni di sperma in ogni tipo di contenitore: dalla boccetta di collirio alla penna Bic nascosta in una barretta di cioccolato, fino a un pezzetto di guanto in gomma nascosto in un dattero" racconta il direttore. "Il campione - spiega - è quasi sempre utilizzabile. Per la fecondazione bastano una quindicina di spermatozoi". Il costo dell’inseminazione in vitro per coppie normali è al Centro Razan di 3.000 dollari (2.400 euro), ma per le mogli dei detenuti vige una tariffa speciale di 200 euro (per il materiale medico e i medicinali). Il resto è coperto utilizzando gli utili del Centro. La questione dei prigionieri è un tema centrale nella società palestinese. L’Autorità palestinese (Anp) sostiene economicamente le loro famiglie, in quanto "combattenti per la causa nazionale". Secondo le stime, sono 5.000 quelli che stanno ancora scontando una lunga detenzione. Se la moglie di un recluso decide di aspettare più di vent’anni per ricongiungersi al marito - viene fatto notare - rischia di non essere più fertile; pur di avere figli, il partner potrebbe allora decidere di sposare una donna più giovane. Dare la possibilità a giovani donne di avere figli in queste condizioni è dunque, secondo Abu Khaizaran, "un imperativo morale". Secondo la legge palestinese, una donna può divorziare e risposarsi se il marito è assente da più di tre anni. Ma poche lo fanno: soprattutto per lo status di eroe a cui assurge il detenuto. Abbandonarlo significherebbe tradire la causa. Nigeria: Boko Haram chiede rilascio detenuti jihadisti per liberare ragazze rapite Agi, 29 ottobre 2014 Boko Haram starebbe trattando la liberazione delle più di 200 studentesse rapite a luglio nello Stato di Chibok in cambio del rilascio di alcuni prigionieri da parte delle autorità nigeriane. Fonti della sicurezza di Abuja hanno riferito che i rappresentanti del gruppo jihadista hanno presentato una lista di propri comandanti catturati dall’esercito di cui chiedono la liberazione per lasciar andare le ragazze. La richiesta è stata avanzata ai negoziati in corso a Ndjamena, in Ciad, e fonti nigeriane riferiscono che sono stati fatti "grandissimi passi avanti" verso un accordo. Secondo le fonti della sicurezza, i servizi segreti nigeriani avrebbero già avviato una verifica sullo stato di salute dei detenuti di cui Boko Haram chiede il rilascio. La trattativa con il gruppo jihadista è proseguita, oltre che in Ciad, con riunioni svoltesi in Arabia Saudita e in Nigeria. Le stesse fonti hanno smentito le notizie di nuovi sequestri di adolescenti circolate nei giorni scorsi e hanno riferito che alcuni rapimenti di cui si è parlato risalgono a tre mesi fa. Resta il fatto che il recente annuncio del governo nigeriano di un accordo per il cessate il fuoco con Boko Haram e di un’imminente liberazione delle studentesse rapite si è rivelato infondato.