Giustizia: il ministro ombra Gratteri scopre le carte "ho pronta la riforma del penale" di Errico Novi Il Garantista, 28 ottobre 2014 Orlando non ha ancora presentato il ddl sul processo penale, su "MicroMega" c’è già quello del "guardasigilli ombra" Nicola Gratteri, pm antimafia a Reggio Calabria e Presidente di una Commissione per la riforma del penale voluta da Renzi a Palazzo Chigi. Poniamo il caso che il governo legittimo della Repubblica si sia proposto di presentare una riforma della giustizia. Poniamo che nel farlo, il ministro in carica, nel nostro caso Andrea Orlando, si sia inoltrato in una difficile mediazione tra fronti contrapposti. Da un lato una componente pur minoritaria ma decisiva della maggioranza, il Nuovo centrodestra, dall’altra unpotere dello Stato, guai è l’ordine giudiziario. Poniamo ancora che in una fase di relativa difficoltà di questo percorso una componente estrema della magistratura voglia tentare di far sentire la propria voce. Non per intromettersi nel dibattito, no. Solo per agire da elemento di disturbo, diciamo per fare caciara. Ecco, come dovrebbe agire questa componente? Una tecnica valida è quella dì gettare la maschera. Ed è esattamente la strada seguita da MicroMega e dal suo direttore Paolo Flores d’Arcais. Che nell’ultimo numero della rivista, uscito pochi giorni fa, sceglie un titolo quasi pornografico per il suo editoriale: Senza giustizialismo nessuna riforma. Non "senza rigore", o magari "senza legalità", no. Quello che manca è il giustizialismo, cioè una visione estrema della giustizia. Una provocazione, è chiaro. C’è un dettaglio, però. Che manda per aria tutto il preambolo. Nel corposo volumetto non ci sono solo alcuni fautori del giustizialismo teorico, come Marco Travaglio e Bruno Tinti, ma anche un signore che avrebbe un ruolo istituzionale riconosciutogli da quello stesso governo intento alla riforma. Trattasi del sostituto procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Un magistrato che, si dà il caso, presiede una commissione istituita a Palazzo Chigi per elaborare proposte di riforma sul processo penale. E la cosa bella è che Gratteri non parla con il tono formale e prudente che uno (venuto da un Paese normale, magari) potrebbe aspettarsi. Macché. Gratteri dice papale papale: signori, ecco le nostre proposte su prescrizione, auto-riciclaggio, intercettazioni, eccetera eccetera. Noi siamo quasi pronti. Dopodiché, testuale, "non intendiamo produrre l’ennesima relazione sulla lotta alla mafia, ma dei veri e propri articolati, dei testi di legge pronti da votare in Parlamento". Ah, hai capito? E mica stanno a giocare? "Chiaramente vogliamo introdurre tutte le modifiche legislative del caso, cambiando il codice penale". Bene. Continua Gratteri; "Cosa avverrà poi nelle aule parlamentari non dipende da noi. Non possiamo sapere se il premier Renzi avrà ì numeri per far passare le nostre norme. Ogni singolo parlamentare sarà a quel punto responsabile della sua condotta". Scusate, ma allora Orlando cos’è? Che ci sta a fare? Se - come d’altronde il Garantista, grazie a Maria Brucale e Valerio Spigarelli aveva ampiamente anticipato - il vero disegno di riforma ce l’ha in cottura il dottor Gratteri, perché il guardasigilli formalmente uscito tale dal giuramento del Colle è ancora lì? Dovrebbe rispondere Renzi. Nel frattempo una cosa è certa: il ddl sul processo penale di Orlando ancora non si è visto. Se arriverà prima quello di Gratteri, MicroMega dovrà almeno cambiargli il titolo dell’articolo. Dove sì legge, con un eccesso di umiltà, "Programma di un quasi ministro". Giustizia: la cultura autoritaria che minaccia il Codice di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione Camere Penali) Il Garantista, 28 ottobre 2014 Fa rabbrividire la parte del manifesto di Gratteri in cui si dice che, se proprio vanno preservate delle garanzie, è per impedire che boss e corrotti facciano le vittime. È stato uno di quei compleanni un po’ così, trascorsi in casa nel malumore, magari con un po’ d’influenza, pensando di rimandare i festeggiamenti in attesa di momenti migliori. Un compleanno di quelli vissuti non come una festa ma come un bilancio della nostra vita a meditare sugli orrori e sui propositi, sui momenti più belli e su quelli assai difficili che si son superati e su quelli che verranno. Venticinque anni fa, il 24 ottobre del 1989, entrava infatti in vigore il nuovo codice Vassalli. Di forte ispirazione accusatoria si presentava sulla scena europea come un codice autoctono del tutto originale. Contestato sin dalla sua introduzione da vasti settori della magistratura, il Codice Vassalli dopo pochi anni di vita, anche per mano della Consulta, fu oggetto di una violenta "controriforma" che ne snaturò i principi fondanti, facendo riemergere i tratti inquisitori atavici propri di un sistema e di una visione autoritaria del processo. La riforma dell’articolo 111 della Costituzione e del "giusto processo", fortemente voluti dall’Unione delle Camere penali, hanno ristabilito gli equilibri originali e hanno propiziato il potenziamento della funzione difensiva, con l’introduzione, all’interno del Codice, delle investigazioni difensive, Mentre restava del tutto inattuata la necessaria e indeclinabile riforma ordinamentale, conseguenza diretta della introduzione costituzionale della terzietà del giudice, il Codice diveniva tuttavia oggetto di discordanti e contraddittori interventi legislativi, tutti attuati al di fuori di una complessiva riforma e di una armonica ristrutturazione. Da un lato, ad esempio, l’indispensabile (e sottovalutata) introduzione del principio dell’olire ogni ragionevole dubbia, dall’altro l’elaborazione di istituti quali l’immediato cautelare che costituisce una evidente ed intollerabile compressione delle garanzie difensive ed un pericoloso condizionamento del sistema cautelare sul processo. Ora che il "nostro" Codice ha compiuto il suo venticinquesimo compleanno sembrano davvero poche le ragioni del festeggiamento, perché lungi dal vedere all’orizzonte rinforzate le premesse dì quella riforma strutturale ed organica, processuale ed ordinamentale al tempo stesso, da noi sempre auspicata e promossa, non possiamo che constatare che la riforma efficientista del "mancato ministro" Gratteri ha già guadagnato uno spazio importante all’interno di quella costellazione di idee, o meglio di visioni del mondo, che sono le premesse di ogni riforma. La oramai disvelata composizione della Commissione riunita dal 30 di luglio a Palazzo Chigi ci mostra anche alcuni nomi dì magistrati, giuristi ed avvocati che non ci sembrerebbero inclini ad abbracciare simili prospettive di assoggettamento del processo alle logiche assai perverse della amministrativizzazione ed efficientizzazione del sistema; tuttavia sappiamo che ciò che conta in quei contesti sono, insieme ai numeri, soprattutto quelle cose non trascurabili che appunto si chiamano "idee", e che sono tali "idee" a mandare avanti il carro delle riforme. E se le "idee" di colui che manda avanti quel carro sono quelle che abbiamo letto (su MicroMega 7/2014), relative a "lavori forzati", trattamento penale dei tossicodipendenti, eliminazione del "potere discrezionale" del giudice, e poi ancora sulla separazione delle carriere, sulle videoconferenze, su prescrizione, impugnazioni ed altro, per non dire poi dell’idea "antidiluviana" del valore palingenetico del diritto penale, c’è poco da star sereni e da festeggiare compleanni. Ma su tutte le "idee" che governano queste lince di riforma del processo penale ce ne è una che il "ministro mancato" butta lì con l’intento di metterci tranquilli e che invece, come capita in questi casi, ci svela la vera Weltanschauung dell’autore, e ci fa correre un lungo brivido freddo lungo la schiena: dice il "ministro mancato" che tutte queste riforme si faranno "senza abbassare di un millimetro il livello di garanzia dell’indagato e dell’imputato" (!). E sapete per quale nobile ragione? "Per non dare alibi a faccendieri e mafiosi di essere dei perseguitati". Non viene il dubbio all’autore di questa affermazione programmatica che le garanzie possano avere una origine ed una spiegazione un po’ più nobile e più profonda? E che possano esserci ragioni per difenderle che hanno a che fare con la libertà di tutti i cittadini? Che le garanzie possano avere forse qualcosa a che fare anche con la democrazia liberale e con i principi scritti nella nostra Costituzione? Noi che abbiamo tutti una idea assai diversa della natura e delle finalità del processo e delle garanzie sappiamo bene quali guasti profondi, più che da questa o quella singola riforma, possono venire al nostro intero sistema processuale dall’allargarsi di simili orizzonti di pensiero e da quella visione di un contro-riformismo un po’ retro che, mascherato da efficiente e moderna "ottimizzazione", alita vincente, nel vuoto delle idee, sopravanzando nel Paese. Ma l’organismo del nostro codice è ancora giovane e ce la farà. Ha visto e vissuto ben altri attacchi ed ha conosciuto nella sua "infanzia" tempi ancor peggiori. L’importante è che cresca e che si affermi, in questo Paese e nella sua classe politica, sia pure fra mille ostacoli e fra crescenti difficoltà, la consapevolezza che un codice non è un insieme di regolette, di commi e di cavilli, ma un insostituibile dispositivo fatto di valori condivisi ed indeclinabili che tengono insieme la democrazia e la libertà di tutti. Per questo da sempre noi ci battiamo. Solo così, volendo, si festeggia veramente un codice e gli si fa un bel regalo. Giustizia: tra carte e cavilli, ecco l’inferno di chi deve essere risarcito di Maria Brucale Il Garantista, 28 ottobre 2014 La tutela per chi ha subito ingiustamente la detenzione è lenta e farraginosa: il trionfo di una burocrazia insensata. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anni a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: "L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti. Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare". La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere - al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica - è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescindo dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiate o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione dì oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e dì ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio [spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato - o il suo avvocato -non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce), Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato - l’interessato o il suo difensore - verrà detto: "se le faccia lei". Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisco la carta, so si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento. Giustizia: tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato di Andrea Oleandri (Associazione Antigone) Il Garantista, 28 ottobre 2014 10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese. Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla por un atto che ossa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito". Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni "festeggeremo" il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato. Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno - e nei giorni successivi -due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni dì un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone "Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi". Il processo parte solo nel luglio del 2011 -non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso - e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado "i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura". Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato. Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Orni in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo. Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per ì Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR), Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata. Giustizia: l’insegnamento di Beccaria, passato e futuro del garantismo di Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo Il Manifesto, 28 ottobre 2014 C’è un futuro per il garantismo penale? È solo consistente nel non far evaporare gli insegnamenti di Beccaria? Come possiamo tradurre nella post-modernità quelle domande sul perché, chi e come punire che hanno finora trovato risposte banali e ripetitive su scala globale? Di passato e futuro del garantismo si discuterà il 29 e 30 di ottobre alla Università Roma Tre (Dipartimento di Giurisprudenza) in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione di "Dei delitti e delle pene". Di fronte all’ansia politica che vuole rassicurare simbolicamente l’opinione pubblica attraverso nuovi delitti e nuove pene va riaperto un dibattito intorno ai limiti del potere di punire. "Il più sicuro ma più difficile mezzo di prevenire i delitti è l’educazione". Sono trascorsi 250 anni da quando Cesare Beccaria pubblicò "Dei delitti e delle pene". Suona rivoluzionaria oggi, nel pieno di ondate populistiche, un’affermazione così nitida nell’affidare all’educazione la prevenzione criminale. La repressione dei crimini negli scorsi 250 anni si è invece ancora prevalentemente rivolta al diritto penale. "Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica", scriveva Beccaria evocando Montesquieu. Il nostro è dunque un sistema giuridico tirannico che ha trasformato il diritto penale in qualcosa di ben diverso rispetto a quello che dovrebbe più umilmente rappresentare. È un diritto che contiene tracce di Stato etico, che giudica gli stili di vita delle persone e non i fatti da loro commessi, che ha progressivamente dismesso il principio di offensività. La prospettiva educativa si è ritratta di fronte all’invadenza del diritto penale. Tanti purtroppo sono gli esempi di una legislazione e di una pratica penale del tutto indifferenti agli insegnamenti di Cesare Beccaria. Non vi è traccia "dell’assoluta necessità" di cui scriveva Beccaria nel lontano 1764 in tutti quei delitti di creazione artificiosa presenti nella nostra legislazione ipertrofica e umanamente non conoscibile, in tutti quei regimi penitenziari che si affidano alla durezza dei trattamenti, in un sistema sanzionatorio che si è affidato quasi in via esclusiva al carcere per punire e rieducare. Non v’è seguito di quell’insegnamento nemmeno nella fase che precede la condanna, eppure, come scriveva Beccaria, "la privazione della libertà, essendo una pena, non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo imponga". Un’altra riflessione di estrema attualità, se consideriamo che oggi, proprio per la durata dei processi e per l’impiego massiccio della custodia cautelare, il momento della pena tende, di fatto, a coincidere con il tempo lungo del processo (la vera pena è, spesso, il processo!). Il garantismo in Italia ha un passato nobile che affonda le radici nell’illuminismo giuridico. La dignità umana e la libertà costituiscono la soglia non superabile da parte di chi ha il potere. La nostra codificazione penale non è riuscita a solcare degnamente il sentiero illuminista. È stata vittima del realismo politico, delle tragedie totalitarie, della demagogia securitaria. Non è un caso che a 84 anni dalla approvazione del codice Rocco in piena era fascista non si è aperta ancora una vera e propria discussione politica e parlamentare per un nuovo codice penale che riduca i delitti e risistemi le pene. C’è dunque un futuro per il garantismo penale? È solo consistente nel non far evaporare gli insegnamenti di Beccaria? Come possiamo tradurre nella post-modernità quelle domande sul perché, chi e come punire che hanno finora trovato risposte banali e ripetitive su scala globale? Di passato e futuro del garantismo si discuterà il 29 e 30 di ottobre alla Università Roma Tre (Dipartimento di Giurisprudenza) in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione di "Dei delitti e delle pene". Di fronte all’ansia politica che vuole rassicurare simbolicamente l’opinione pubblica attraverso nuovi delitti e nuove pene va riaperto un dibattito intorno ai limiti del potere di punire. Giustizia: Eusebi (Università Cattolica); ha ragione il Papa, l’ergastolo è inaccettabile Radio Vaticana, 28 ottobre 2014 "La risposta al reato non può essere un corrispettivo che ne rifletta i contenuti negativi, ma deve essere un progetto per fare giustizia e non vendetta". Così, Luciano Eusebi, ordinario di diritto penale all’Università cattolica di Milano e alla Pont. Università Lateranense, riassume il senso del discorso rivolto da Papa Francesco all’Associazione Internazionale di diritto penale, il 23 ottobre scorso. Nel testo il vescovo di Roma metteva, tra l’altro in guardia, dal ‘populismo penalè, cioè dalla convinzione che "attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali". "La funzione della pena deve essere quella di trasformare dei rapporti feriti in rapporti giusti", spiega Eusebi. "Anche dal punto di vista cristiano fare giustizia, secondo la concezione biblica, significa fare verità sul male ma per la salvezza dell’interlocutore. La giustizia salvifica biblica, per i cristiani, ha la piena realizzazione in Gesù. E Gesù non è Salvatore perché la sua sofferenza compensa il peccato di Adamo, ma perché la sua giustizia, intesa come disponibilità a un progetto di amore dinanzi al male, si rivela in Dio salvifica tramite la Resurrezione". "È importante valorizzare questo concetto di giustizia anche in ambito umano soprattutto per realizzare una prevenzione realistica del crimine", spiega il prof. Eusebi, autore del libro "La Chiesa e il problema della pena" (Editrice La Scuola). "La prevenzione non dipende dalla minaccia del male: i paesi che applicano la pena di morte hanno un livello di violenza interna superiore agli altri, perché veicolano un modello di rapporto umano basato sulla violenza". "La prevenzione - spiega Eusebi - dipende dal coraggio di riconoscersi corresponsabili dei fattori che favoriscono la criminalità. Dal contrasto degli interessi materiali che stanno dietro ai reati. Dalla capacità di ottenere elevati livelli di consenso al rispetto delle norme, anche attraverso percorsi seri di rielaborazione e revisione di vita, da parte del reo, disponibilità alla riparazione e assunzione di responsabilità". "Solo una società che sia capace di cogliere i suoi livelli di corresponsabilità nei crimini, invece di costruire capri espiatori o nemici su cui concentrare tutte le caratteristiche minacciose, può contrastare la criminalità, evitando la disfunzione di un diritto penale che prende solo i pesci piccoli e non sa opporsi ai grandi interessi criminali". "Per questo sono necessarie, come spiega il Papa, nuove forme di risposta al reato, le famose pene alternative, che ridiano al carcere il ruolo di extrema ratio", aggiunge Eusebi. "Non è una rinuncia alla prevenzione ma un modo di farla meglio". "In questo ambito - conclude il docente di diritto penale - s’inserisce l’affermazione del Papa che l’ergastolo è una pena di morte mascherata. Se si toglie la speranza non si stimola alcuna rielaborazione del reato da parte di chi l’ha commesso. Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo l’ergastolo non può essere il paradigma di una pena che cerca la prevenzione rispettando la dignità della persona. Il compito del diritto penale è infatti costruire sulle fratture, anche le più gravi, e non delineare una serie di ritorsioni". Giustizia: Pagano (Dap); oltre diecimila detenuti di fede musulmana nelle carceri italiane Il Giornale, 28 ottobre 2014 Porre la "massima attenzione" per evitare il "gesto estemporaneo ed emulativo" di singoli soggetti che potrebbero entrare in azione anche nel nostro Paese. È l’invito che il Viminale ha rivolto a questure e prefetture all’indomani dell’attentato al Parlamento canadese. Un’apposita circolare chiede di attuare una "attenta vigilanza" su obiettivi sensibili e sedi istituzionali, di attivare tutte le fonti investigative e di monitorare sia i luoghi dove si ritrovano i soggetti più vicini alle posizioni radicali, sia i forum e i siti frequentati dagli estremisti, nuova frontiera del jihadismo fai-da-te e dell’attentatore "isolato". L’Antiterrorismo ha già individuato 48 cosiddetti foreign fighters , combattenti "legati in qualche modo all’Italia in termini di transito o di passaggi vari effettuati nel nostro Paese". L’allerta è stata invece elevata per i cosiddetti "ufficiali di collegamento" tra il nostro territorio e la galassia fondamentalista: monitorati costantemente, ma nessun ritiro del passaporto. Secondo l’intelligence, almeno 200 soggetti "attenzionati", ritenuti pericolosi perché rientrati in Italia dopo un periodo di addestramento in basi segrete all’estero, principalmente in Afghanistan e in Malesia, o collegati all’estremismo di matrice islamica. Oggi più legato ai siti Internet, che non alle moschee. Alcuni forum non vengono oscurati dall’intelligence proprio per permettere di raccogliere elementi di indagine. Un punto, questo, ribadito nella circolare inviata a prefetti e questori italiani dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno. Secondo Giacomo Stucchi, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), in Italia "la situazione è sotto controllo: c’è una giusta preoccupazione ma l’allarmismo è ingiustificato". Ogni giorno si ricevono segnalazioni e l’intelligence di tutti i Paesi, compresa quella italiana, le esamina nel dettaglio, stabilendone l’attendibilità. Più allarmi anche nella stessa giornata, spiega al Giornale "verificati nel silenzio più rigoroso, il che aiuta a evitare possibili attacchi". Nel caso dell’attentato di Ottawa, c’è stata probabilmente una "sottovalutazione", sostiene Stucchi: Zehaf Bibeau, il canadese convertito all’islam ucciso dalla polizia, era stato condannato in Quebec a 60 giorni di reclusione per possesso di stupefacenti (nel 2004). Gli avevano confiscato a luglio il passaporto, considerandolo dopo la conversione "un viaggiatore ad alto rischio". In Italia "non ci sono stati provvedimenti di questo tipo", almeno non ancora, spiega il presidente del Copasir. Un altro obiettivo è "evitare la possibilità di infiltrazione di jihadisti nelle carceri italiane", dice al Giornale Luigi Pagano, reggente del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria): 10.400 i detenuti di fede musulmana in Italia, di cui il 70% si dichiara praticante e fa richiesta di dieta halal, spiega Pagano. Solo 14 sono accusati o condannati per terrorismo internazionale. Tutti nel carcere di Rossano (Cosenza). Giustizia: trattativa Stato-mafia, questa mattina i pm vanno da Napolitano Il Garantista, 28 ottobre 2014 Trattativa Stato-mafia, oggi l’esame di Giorgio Napolitano scatterà alle 10 di questa mattina l’ora x, quando il processo in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo traslocherà temporaneamente al Quirinale per la deposizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiamato a testimoniare sulla presunta trattativa Stato-mafia. All’udienza, oltre naturalmente ai giudici e ai pm, saranno ammessi solo i legali delle sette parti civili e dei dieci imputati nel processo (tra i quali spiccano Totò Riina, Marcello Dell’Utri e Massimo Ciancimino),che invece non potranno comparire in prima persona. Solo al segretario generale del Colle Donato Marra e ai collaboratori più stretti del Presidente, potrebbe essere permesso di assistere all’udienza. Nemmeno i giornalisti potranno assistere alla deposizione che sarà registrata ma solo per fini di archiviazione, senza venire resa immediatamente pubblica. A nessuno inoltre sarà consentito di entrare in aula con telefoni cellulari o altre apparecchiature elettroniche. La più alta carica dello Stato sarà interpellata dai pm e dall’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, sulla lettera del defunto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e sulle carte del Sismi che indicavano lo stesso Napolitano come possibile obiettivo di attentati nel 1993. Giustizia: il processo al Colle e giudici onnipotenti di Salvatore Scuto (Presidente Camera Penale di Milano) Il Garantista, 28 ottobre 2014 Non è il cubo di Rubrik né un complicato Sudoku. Seppur all’apparenza sembri proprio un rompicapo, infatti, il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia - che è in corso di celebrazione davanti la Corte d’assise di Palermo e di cui oggi si celebrerà un’udienza al Quirinale, con l’esame del teste Giorgio Napolitano - costituisce solo la riprova di quanto sia portatore di guai il diffuso fenomeno che vede il processo penale farsi strumento per raggiungere finalità che non gli sono proprie. Tendenza molto conosciuta dalla Procura della Repubblica di Palermo che, negli ultimi vent’anni, ha preteso a più riprese di riscrivere la storia del Paese utilizzando gli schemi dell’indagine e del processo penale. Ne sono scaturite narrazioni più adatte a ricostruzioni cinematografiche che ai principi che regolano il corretto andamento processuale, tutti tesi a governare secondo legge, e nel rispetto dei diritti dell’imputato, l’accertamento di un fatto e la conseguente responsabilità di chi, in ipotesi, l’avrebbe commesso. Non a caso quelle storie processuali continuano a funzionare da inesauribile serbatoio per quel circuito mediatico-giudiziario che ha palinsesti e autori tanto conosciuti quanto ripetuti, sempre più stancamente, nel tempo. L’indagine sulla cosiddetta trattativa inizia molti anni addietro e ha per protagonista uno dei più controversi esponenti dell’inner circle mediatico-giudiziario, l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia. Non possiamo escludere che quell’indagine avesse un fondamento che postulasse l’esigenza di un approfondimento. Ciò che lo stesso suo incedere ha reso evidente, però, è che la sua strumentalizzazione da parte dell’inquirente sotto il profilo mediatico e politico, anche per scopi personali, ne ha irrimediabilmente compromesso la credibilità e la stessa attendibilità. Inutile dire come risulti oltremodo difficile, in una simile cornice, ricondurre ad una convincente unità sistematica gli effetti processuali che ne sono derivati. L’epilogo di tale complesso fenomeno di strumentalizzazione del processo penale si compie oggi. L’udienza che sarà celebrata al chiuso delle austere stanze del Quirinale per assumere la testimonianza dello stesso presidente della Repubblica, infatti, riassume in sé tutte le contraddizioni che quel processo suo malgrado rappresenta. E a voler interpretare le stesse decisioni della Corte palermitana che hanno portato a ritenere ammissibile e rilevante quella testimonianza e a regolarne le forme di assunzione, ecco che si prova appunto la sensazione di doversi confrontare con un rompicapo. Proviamo a mettere insieme alcune tappe del percorso, non certo facile, intrapreso dalla Corte. Sulla base del contenuto di una lettera indirizzata da Loris D’Ambrosio allo stesso Capo dello Stato, e da questi resa pubblica, la Corte prima decide di assumere la testimonianza del Capo dello Stato, che pur aveva dichiarato di non poter aggiungere nulla rispetto al contenuto di quella lettera; poi decide che al particolare status di cui gode il Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica, ed alla tutela dello stesso debba essere sacrificato il sacrosanto diritto degli imputati a presenziare all’udienza stessa. E ciò senza che sia nato il dubbio che la sentenza con la quale, nel gennaio del 2013, la Corte costituzionale risolse il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sorto a seguito dell’attività di intercettazione telefonica cui fu oggetto lo stesso presidente della Repubblica, in favore di quest’ultimo, possa dispiegare i suoi effetti anche in relazione all’ammissibilità dell’assunzione testimoniale dello stesso. Sarà sembrata quantomeno frutto del buon senso, la decisione della Corte che ha inibito, oltre che al pubblico, anche agli imputati che ne hanno fatto richiesta, la diretta partecipazione all’udienza presso il Quirinale. La presenza di un pericoloso imputato come Salvatore Riina, ergastolano e ritenuto il capo storico di Cosa Nostra, si è detto e scritto, avrebbe quanto meno compromesso l’immagine della stessa Presidenza della Repubblica. Peccato, però, che né Riina né gli altri imputati abbiano scelto di farsi processare per il non delitto di trattativa, e che una volta processati essi conservino il diritto sacrosanto, appunto, di poter presenziare al loro processo anche quando questo è costretto a piegarsi nell’impervia via dell’assunzione testimoniale del Capo dello Stato. Dobbiamo dirlo con chiarezza: quella che la Corte di assise di Palermo scriverà oggi è una delle pagine più brutte della storia del processo penale. L’illegittima compressione dei diritti degli imputati, infatti, è il risultato di un infelice compromesso cui la Corte è giunta nel tentativo di dar seguito alle istanze della Pubblica accusa e di tutelare al contempo la più alta istituzione dello Stato. Ne hanno fatto le spese la parte processuale più debole e più meritevole di tutela, ovvero l’imputato, anche quando sia ritenuto pericoloso, e lo stesso processo, la cui tenuta di legittimità è stata posta concretamente a rischio a fronte della poco convincente motivazione di tale scelta. Né poteva essere diversamente, una volta che il controllo giurisdizionale rispetto alla fondatezza della stessa ipotesi di accusa non ha funzionato per come avrebbe dovuto. La stessa decisione che decretò la necessità dell’approfondimento dibattimentale è, infatti, l’origine di questo corto circuito. Né, del resto, ci stupiremmo se l’inserimento del Capo dello Stato nell’ambito di questa indagine sia stato, a sua volta, oggetto di forzature e di strumentalizzazione. Ricordiamo tutti, infatti, la virulenta campagna di stampa contro la Presidenza della Repubblica che si sviluppò nell’arco dell’estate del 2012; la pubblicazione di atti di quell’indagine, con l’attribuzione agli stessi del perentorio contenuto tipico delle sole sentenze definitive, e di intercettazioni telefoniche che coinvolgevano uffici della Presidenza della Repubblica nonostante non avessero alcuna rilevanza penale. Mai come in quei frangenti, come ricordò l’Unione Camere penali italiane, il patologico fenomeno dell’utilizzo così diffuso delle intercettazioni telefoniche mostrò i pericoli che esso comporta per lo stesso assetto della nostra democrazia. L’indiscriminato ricorso a quel mezzo di ricerca della prova, infatti, fuori dal controllo giurisdizionale, è arrivato in questo caso a violare guarentigie previste dall’ordinamento allo scopo di tutelare l’autonomia e l’indipendenza dei poteri dello Stato. Un attacco, quello al presidente Napolitano, che non fu solo il frutto dell’azione di alcuni tra i più zelanti protagonisti di quel mai sopito tentativo di affermazione di uno stato autoritario attraverso l’uso indiscriminato ed esondante del controllo di legalità, ma che incrociò quel vasto movimento di pensiero tendente ad affermare la difesa ad oltranza dello status quo in materia di ordinamento giudiziario e dello stesso assetto costituzionale dell’ordine giudiziario. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che il pensiero del Capo dello Stato, nella sua qualità di presidente del Csm, ha infatti investito il ruolo e la funzione dello stesso Csm, la natura delle pratiche a tutela, il condizionamento degli equilibri delle correnti nella nomina dei dirigenti dei singoli uffici. Elevato il rischio, sulla base di queste continue prese di posizione, di diventare l’obiettivo di quella formidabile macchina da guerra ispirata al più conservatore e reazionario giustizialismo. Ecco allora, e forse non caso, riemergere, proprio alla vigilia dell’udienza di oggi, dalle colonne del Fatto Quotidiano del 24 ottobre, l’antico protagonista di questa vicenda processuale. Lo avevamo lasciato, ormai tempo addietro, mentre si esibiva lungo la Penisola, con le mani in tasca strette a pugno, ben saldo sui palchi che dominavano piazze affollate da pellegrini desiderosi di un verbo. Ritornava da una breve incursione nella terra dell’Eldorado, convinto che l’indebito strumento costituito dall’indagine sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, e gli echi mediatici cui l’aveva piegata, fosse sufficiente per conquistare un posto in Parlamento e forse anche qualcosa di più. La fine di quel disegno è nota. All’oblio cui è destinato, però, Ingroia non si rassegna e ci ricorda che non potrà essere nella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché "ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità". Dimentica, però, che in quell’aula non ci sarà per l’incompatibilità determinatasi a causa della sua decisione di candidarsi come premier del Paese e del suo rifiuto di continuare ad indossare la toga in una sede evidentemente non ritenuta alla sua altezza. Il problema però è che in quell’aula restano i guasti che il suo modo di interpretare la funzione di pubblico ministero ha provocato al Paese, alla Giustizia e alla stessa magistratura, che un po’ di credibilità agli occhi dei cittadini l’ha proprio persa. Giustizia: "I boss fanno stragi e noi gli togliamo il 41-bis", i verbali dei summit al Viminale di Salvo Palazzolo La Repubblica, 28 ottobre 2014 Nelle riunioni del Comitato per la sicurezza nel 1992-1993 lo scontro sulla revoca del carcere duro. In un archivio del ministero dell’Interno è conservata la storia segreta degli anni più drammatici d’Italia, gli anni delle bombe di mafia. È l’archivio che custodisce i verbali dei Comitati nazionali per l’ordine e la sicurezza, il massimo organismo deputato alla protezione della Repubblica e dei suoi cittadini. Nei giorni delle stragi del 1992-1993, si riuniva spesso il Comitato, presieduto dal ministro dell’Interno, dai vertici delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. E poi lanciava solenni comunicati stampa per ribadire la linea della fermezza del governo contro i boss. Ma i verbali rimasti per vent’anni in una cassaforte della "segreteria speciale" del gabinetto del Viminale raccontano tutta un’altra storia. Raccontano che nel 1993 un pezzo dello Stato decise all’improvviso di revocare il carcere duro al gotha di Cosa nostra. Senza un’apparente ragione, mentre le bombe continuavano ad esplodere in giro per il paese. E qualcuno protestò con forza. Anche questo scontro ai vertici delle istituzioni raccontano i verbali. Uno scontro che fino ad oggi non era mai emerso. Anzi, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso ha sempre ripetuto che la decisione di non prorogare 300 decreti di 41 bis fu una sua "scelta personalissima". Ma adesso i file dei Viminale dicono diversamente. E oggi Repubblica è in grado di ripercorrere questa nuova storia dopo aver letto le 456 pagine che raccolgono la cronaca dettagliata di nove comitati nazionali per la sicurezza. Questi documenti, che risultano declassificati nel 2012, sono ora agli atti al processo per la trattativa Stato-mafia. L’allarme sul 41 bis. Bisogna iniziare dall’ultimo comitato desecretato per capire quale verità sia stata nascosta per vent’anni. È il comitato del 16 dicembre 1993. Il solerte funzionario del ministero incaricato di verbalizzare annota la presenza del ministro dell’Interno Nicola Mancino e prende nota degli interventi. Il capo della polizia Vincenzo Parisi solleva il problema dei blocchi stradali: "Dall’inizio dell’anno ce ne sono stati 192", spiega. Il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Luigi Federici è preoccupato invece per i "centri potenziali di disordine legati al settore del lavoro". Sembra che l’emergenza delle bombe non sia più un problema. All’improvviso, prende la parola il procuratore nazionale antimafia Bruno Siclari e dice in modo schietto: "Preoccupa molto il pericolo degli attentati, ma preoccupa anche il regime carcerario, per il rallentamento del rigore nei confronti dei detenuti". È un allarme preciso. Il 41 bis è stato depotenziato. E Siclari è il primo a denunciarlo. "Oltre che sensibilizzare i magistrati di sorveglianza, sarebbe opportuno anche un segnale del governo per delineare una linea più dura". Un’altra denuncia. Così, oggi sappiamo che in quello scorcio di fine 1993 il governo, non solo il ministro Conso, aveva modificato la sua linea antimafia. Dopo Siclari, parla il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti. Se la prende con i magistrati che "non adottano la linea dura". Ma pure lui deve riconoscere che "questo è dovuto anche agli interventi politici motivati da esigenze di carattere generale". Interventi politici sul 41 bis? Di chi? Non ce n’è traccia nelle pubbliche dichiarazioni di quei giorni. Chiede di parlare il vice direttore del Dap, il magistrato Francesco Di Maggio, che non usa mezzi termini. "L’articolo 41 bis crea molte preoccupazioni - dice - perché su 1232 provvedimenti ben 567 sono per delega del ministro della Giustizia e di questi soltanto 8 sopravvivono, mentre gli altri vengono revocati. I rimanenti 66 provvedimenti, invece, che non sono provvedimenti delegati, sopravvivono in numero maggiore: soltanto 26 vengono revocati dal magistrato". Come dire, il vero problema non sono i giudici, ma il ministero della Giustizia. Nel comitato del 10 agosto, Di Maggio era andato oltre, chiamando in causa il governo. Le sue parole sono a pagina 357 dei file del Viminale: "È opportuno che il governo mantenga ferma la sua posizione sull’articolo 41 bis". L’anonimo verbalizzatore sottolinea la parola "governo". E il ministro Mancino che dice? Cambia argomento. Ammissione di sconfitta. Da quell’archivio del Viminale emerge soprattutto la debolezza dello stato in quei mesi terribili. Il 3 giugno, all’indomani della strage Falcone, il capo della polizia apre il suo intervento dicendo che mancano le auto blindate. Il 24 luglio, cinque giorni dopo l’attentato a Borsellino, ammette che "l’attività informativa non ha funzionato". E siccome il paese protesta, propone anche di fare attività di "controinformazione". Il capo della Dia, il generale Tavormina, suggerisce di trasferire i magistrati a rischio all’Asinara, perché in Sicilia nessuno riesce più a garantire sicurezza. Ma il capo del Dap, Nicolò Amato, avverte che i rischi sono anche sull’isola: "Non è stato rispettato l’impegno di inviare 50 poliziotti e 50 carabinieri". Parisi risponde che sono già partiti. Amato ribatte che non sono mai arrivati. Il 30 luglio 1993, all’indomani dell’ennesimo attentato di mafia, Parisi dice: "Dobbiamo ammettere che il dispositivo di sicurezza non ha funzionato; esiste al riguardo una responsabilità collegiale". Mentre gli analisti del Viminale brancolano nel buio. E qualcuno si vanta che "tutte le manifestazioni di reato - dagli omicidi alle rapine - sono diminuite del 21,72 per cento". Civitavecchia (Rm): la Fp-Cgil lancia l’allarme "la situazione delle carceri è al limite" www.trcgiornale.it, 28 ottobre 2014 Allarme rosso per gli istituti penitenziari di Civitavecchia. Con una conferenza stampa a cui hanno preso parte anche i responsabili nazionale e regionale del settore della Polizia Penitenziaria, la Cgil Funzione Pubblica questa mattina ha voluto richiamare l’attenzione su una situazione a dir poco al limite. Ad un aumento continuo della mole di lavoro nel carcere di Aurelia e in quello di via Tarquinia non corrisponde un incremento di personale. Il tutto in un contesto generale di grande difficoltà, basti pensare che i due istituti cittadini hanno un solo direttore. "La gravissima carenza di personale di Polizia Penitenziaria di cui soffrono i due istituti penitenziari di Civitavecchia - spiega Eugenio Censasorte, coordinatore locale della Cgil Fp Polizia Penitenziaria - riguarda in particolare le figure dei Sovrintendenti degli Ispettori e dei Commissari. Infatti dalle piante organiche stabilite in totale autonomia dall’Amministrazione Penitenziaria Centrale risulta che negli istituti cittadini opera circa il 50% del personale previsto dei ruoli sopra citati. La conseguenza di una così grave carenza di organico nei ruoli apicali è che la qualità del servizio inevitabilmente si abbassa. Inoltre viene chiesto a personale del ruolo agenti-assistenti di espletare mansioni superiori senza aver fatto un adeguata formazione professionale. Il combinato disposto di carenze dei sottufficiali ed impiego nelle mansioni superiori di unità del personale porta inevitabilmente ad un abbassamento della qualità complessiva delle attività istituzionali che vengono quotidianamente svolte. Inoltre si crea sui pochi sottufficiali in servizio un carico di lavoro enorme che a sua volta è fonte di stress per il lavoratore e di ritardata risposta, per l’utenza e le amministrazioni incluse le Autorità Giudiziarie che chiedono informazioni o atti dell’istituto. Tutto questo è sotto gli occhi del Dap del Ministro della Giustizia e del Presidente del Consiglio da molto tempo. Questa situazione sono anni che si protrae, non è una contingenza di quest’ultimo periodo, ma nonostante tutto i governi e i ministri precedenti nulla hanno fatto. Non può essere che ogni giorno piombino sull’istituto circolari, nuove leggi, nuovi adempimenti, allertamenti dai vari organi dell’amministrazione penitenziaria e delle Forze di Polizia e poi venga tutto rallentato o addirittura rimane inevaso per la mancanza delle figure apicali che dovrebbero adempiere alle varie disposizioni. Non è possibile continuare con queste carenze e chiedere nei seminari e nei convegni che il carcere cambi, che venga rispettato l’art. 27 della Costituzione, che si attui veramente il processo di risocializzazione del reo e tutte le altre belle cose previste. Per questi motivi abbiamo chiesto ai responsabili del Dap che in occasione dell’immissione in ruolo di 271 nuovi Vice Ispettori siano assegnate 8 unità al N.C. e 2 alla C.R. e, considerato che a breve verrà effettuata la mobilità del ruolo dei commissari, l’invio di una unità del suddetto ruolo per ogni istituto. Inoltre sollecitiamo il Dap ad assegnare al più presto almeno un direttore titolare alla Casa Circondariale in quanto dal mese di giugno c.a. l’incarico è svolto ad interim dalla direttrice della Casa di Reclusine, vista la complessità della struttura in questione riteniamo di fondamentale importanza la presenza fissa di un dirigente che possa gestirlo. Per quanto riguarda la Casa di Reclusione la Fp-Cgil chiede ai vertici dell’Amministrazione di modificare l’attuale pianta organica prevedendo almeno 55 unità di polizia penitenziaria del ruolo agenti-assistenti a fronte dei 46 previsti nell’attuale e che pertanto risulta fortemente inadeguata". Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; rebus disponibilità spazio per detenzione "disumana" Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2014 "C’è una netta differenza tra la disponibilità di uno spazio d’aria e uno calpestabile. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ritiene che il primo pari a 3,2/3,8 mq pro capite sia sufficiente per garantire una vita dignitosa ai cittadini privati della libertà nelle carceri italiane. L’Unione Europea invece individua 7 mq a testa la superficie calpestabile a disposizione di ciascun ristretto per non incorrere in "disumana detenzione". Spetterà ora al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari stabilire se l’uno e l’altro possano coincidere dal momento che un giovane detenuto ha chiesto il risarcimento di circa mille euro per 118 giorni di vita rinchiuso in una cella della Casa Circondariale di Buoncammino". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che "il sovraffollamento particolarmente grave registratosi a Cagliari nel 2013 ha determinato in diversi momenti un disagio notevole". "È singolare però che l’opposizione dell’amministrazione penitenziaria all’istanza, presentata dall’avv. Roberta Steri, ed esaminata stamattina dalla dott.ssa Daniela Amato e dal PM Emanuele Secci, abbia preso in considerazione - sottolinea Caligaris - soltanto la questione dello spazio. Sicuramente la dignità della persona non passa solo attraverso la disponibilità di un luogo idoneo a contenerlo, ma dalle condizioni oggettive che le limitazioni determinano. Del resto le responsabilità non sono attribuibili alla Direzione dell’Istituto che non poteva gestire in modo alternativo le celle". "Il Tribunale - evidenzia la presidente di SDR - si è riservato di approfondire la problematica anche perché le conclusioni relative a questa prima istanza di risarcimento per detenzione "disumana" alla luce delle indicazioni della Corte di Giustizia Europea riguardano le condizioni di vita di diversi ristretti del carcere cagliaritano. Nel caso in questione l’accento ricade infatti non solo sulle dimensioni della cella in cui il ragazzo ha vissuto lo scorso anno per quasi 4 mesi, ma anche sulla qualità del cibo distribuito, sulle condizioni igienico-sanitarie, sulla pulizia dei materassi e sulla possibilità di utilizzare le docce in cui spesso mancava l’acqua calda nonché sulla vetustà della Casa Circondariale". "Aldilà dell’entità del risarcimento, ciò che i cittadini di aspettano è che vengano rispettate le norme affinché chi ha perso la libertà non debba necessariamente subire pene aggiuntive né tantomeno trascorrere il tempo dentro una cella guardando il soffitto. Non è quanto prevede la Costituzione, l’ordinamento penitenziario e neppure il buon senso. Occorre quindi restituire alla detenzione il suo significato principale per la società, quello - conclude Caligaris - del recupero umano e culturale di chi ha sbagliato". Brescia: io, detenuto, rinato grazie al Volontariato e all’Associazione Carcere e Territorio Corriere della Sera, 28 ottobre 2014 Dopo un periodo di un anno in cui ero sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, grazie all’Associazione Carcere e Territorio ho avuto la possibilità di intraprendere un’esperienza di volontariato che mi impegna tuttora per quattro volte la settimana. Sin dal primo colloquio con l’operatrice dell’ Associazione, ho avuto una sensazione positiva in quanto dopo molto tempo, sono stato trattato senza pregiudizi e molto cordialmente; poi mi son state prefigurate diverse proposte di volontariato presso strutture che si occupano di svariate attività ed abbiamo preso in considerazione alcune che si trovavano nella zona in cui risiedo. In un secondo momento però, l’operatrice dell’Associazione Carcere e Territorio avendo intuito la mia natura estroversa, mi ha proposto un tipo di volontariato da svolgere all’aria aperta, a contatto con animali e ragazzi con problemi neurologici. Da subito ho sentito che aveva fatto centro, mi sono sentito pienamente soddisfatto ed ho dato la mia disponibilità immediata per cominciare questo nuovo percorso. Adesso sono già passati sei mesi da quel giorno e posso dire che la mia vita è cambiata radicalmente, attraverso questa possibilità di rimettermi in gioco ho riscoperto l’importanza di molte cose che il periodo rinchiuso in casa aveva decisamente appiattito. A parte il ritrovarsi di nuovo insieme ad altre persone e poter ricominciare a tessere dei rapporti umani, ho compreso quanto sia importante poter avere degli obbiettivi ed uno scopo nel quotidiano. Sentirmi nuovamente utile ha riacceso in me la voglia e la volontà di ricostruire la mia vita, di provare e riprendere quel cammino interrotto dai problemi giuridici e dalla pena che pende sulla mia persona. Nel volontariato ho trovato un trampolino che mi sta lanciando verso nuovi orizzonti, ho anche la fortuna di conoscere ed avere a che fare con persone straordinarie che mi hanno accolto e trattato col massimo riguardo, sia presso l’Associazione Carcere e Territorio, sia presso l’Associazione in cui sono impegnato. Questo è molto gratificante e mi ha fatto tornare la voglia di prendermi sul serio, quando le persone ti tengono in considerazione e ti danno fiducia, soprattutto dopo un percorso giuridico e penale che ti ha svilito e sottostimato, è come ricevere una seconda possibilità in cui si può fare meglio, in cui si può dimostrare di nuovo di essere persone utili e degne di stima. Credo che qualunque sia il reato che una persona ha commesso, invece di essere rinchiuso, dovrebbe avere il diritto di poter occuparsi di qualcosa o di qualcuno, lasciare una persona in balia di se stessa, rinchiuderla in uno spazio angusto non potrà di certo migliorarla. Grazie alle persone che ho conosciuto ed alle Associazioni per il volontariato, si apre una finestra di umanità per quelli che come me hanno infranto la legge o commesso degli errori, tutti possiamo sbagliare nella vita ma il modo di scontare la pena invece di essere costrittivo ed inutile, attraverso il volontariato può trasformarsi in qualcosa di utile per tutti, sia per il reo che per le persone e per le strutture che beneficiano del suo lavoro. Credo fermamente che così si possa preparare chi ha sbagliato a reinserirsi un domani nella società in modo graduale e costruttivo, risvegliando in Essi quei valori e quei sani principi che erano andati persi. Tutti abbiamo bisogno di una seconda possibilità e la mia esperienza ne è una prova, adesso ho molti progetti per il presente e per un futuro prossimo, ho riacquisito la voglia di fare qualcosa di bello e di utile attraverso la mia vita e di migliorare, se possibile, quella di coloro che mi sono vicini. Al volontariato è dedicato il nuovo numero di Zona 508, il giornale edito dall’associazione Carcere e territorio e scritto dai detenuti del carcere di Verziano e Canton Mombello. Pesaro: Sappe; incendio in carcere sventato dalla professionalità dei poliziotti penitenziari www.viverepesaro.it, 28 ottobre 2014 "Il detenuto straniero che nei giorni scorsi aveva aggredito un poliziotto nel carcere di Pesaro si è reso responsabile, pochi giorni fa, di un grave episodio che poteva avere gravissime conseguenze. Ha infatti dato fuoco alla cella, bruciando tutto quello che era nella sua disponibilità: materasso, cuscino, tavolo e armadietto". "Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari in servizio, che sono rimasti intossicati. Ripeto, sono stati bravi i poliziotti penitenziari di servizio a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, segnalando che il grave evento è accaduto martedì scorso nel carcere di Pesaro. "La situazione, a Pesaro e nelle carceri italiane, resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", prosegue il sindacalista dei Baschi Azzurri. "E sebbene l’Italia risulti di fatto inadempiente rispetto alla sentenza Torreggiani della Corte europea per i diritti dell’uomo, il rinvio al giugno 2015 per un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal governo per affrontare il problema del sovraffollamento segna il fallimento delle politiche penitenziarie adottate dal Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". "Perché se il numero dei detenuti è calato, questo è la conseguenza del varo - da parte del Parlamento - di 4 leggi svuota carcere in poco tempo. Ma il Dap non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere. E allora serve una nuova guida all’Amministrazione Penitenziaria, da mesi senza un Capo Dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a partire dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere". Capece torna a sottolineare le criticità delle carceri italiane: "Un problema è la mancanza di lavoro, che fa stare nell’apatia i detenuti. Ma va evidenziato anche che l’organico di Polizia Penitenziaria è sotto di 7mila unità, che non è pensabile chiudere strutture importanti di raccordo tra carcere, istituzioni e territorio come i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria a meno che non si voglia paralizzare il sistema, che il carcere non può continuare con l’esclusiva concezione custodiale che lo ha caratterizzato fino ad oggi. E fatelo dire a noi che stiamo tra i detenuti, in prima linea, 24 ore al giorno". Palmi (Rc): Ugl Polizia Penitenziaria; in carcere ci sono pochi agenti, segnaleremo al Dap Adnkronos, 28 ottobre 2014 "Sottoporremo al Dap (dipartimento di amministrazione penitenziaria) la necessità di valutare attentamente la situazione del carcere di Palmi e di introdurre correttivi per tutelare il personale che, ad oggi, è sottoposto a carichi di lavoro eccessivi a causa di carenze di organico non adeguatamente segnalate". Lo ha dichiarato in una nota il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, al termine della visita di oggi alla struttura calabrese, nella quale ha riscontrato che "a fronte della presenza di 168 detenuti e di una dotazione ufficiale di 129 agenti, sono in servizio solo 92 lavoratori, di cui 16 dislocati presso il locale Nucleo Traduzioni e quindi in difficoltà nell’assicurare la copertura dei turni notturni". "A certificare di fatto la carenza dell’organico e il grave rischio di stress da lavoro correlato - prosegue il sindacalista - è anche l’elevato numero di ferie arretrate, pari addirittura a circa 10.500 giornate, per una media di 200 giorni ad agente". "A ciò vanno aggiunte le condizioni non propriamente adeguate della struttura - aggiunge Moretti - causate anche dai tagli alla manutenzione ordinaria e, soprattutto, alla dotazione tecnologica che, invece, andrebbe potenziata in presenza di carenze d’organico in una struttura che ospita anche detenuti di alta sicurezza". "Segnaleremo tutto ciò all’amministrazione penitenziaria - conclude Moretti - auspicando a breve soluzioni per una situazione altamente rischiosa". Milano: Istituto Minorile Beccaria, se il recupero dei minori detenuti passa per la scuola di Alessandro Giuliani www.tecnicadellascuola.it, 28 ottobre 2014 L’esempio del dell’istituto minorile Beccaria di Milano, dove dall`inizio dell`anno sono stati oltre 200 i ragazzi che hanno partecipato alle attività, guidati da educatori, all’interno di laboratori ludico-espressivi. L’obiettivo è il loro pieno reinserimento a scuola e nel mondo del lavoro. La scuola si conferma la struttura più indicata per il recupero e il reinserimento nel tessuto sociale dei minori sottoposti a detenzione per aver compiuto dei crimini. L’esempio arriva dall’Istituto minorile Beccaria, dove dall`inizio dell`anno sono stati oltre 200 i ragazzi detenuti che hanno partecipato alle attività alternative: si tratta di progetti organizzati dal Servizio educativo adolescenti in difficoltà del Comune di Milano all`interno dell`Istituto per favorire il loro reinserimento a scuola e nel mondo del lavoro. È la Giunta ha siglato in questi giorni il nuovo accordo con il Centro per la giustizia minorile per dar vita a nuovi interventi educativi e progetti rivolti a questi 200 ragazzi. I ragazzi, in questo modo, apprendono un`attività lavorativa che sarà utile una volta terminato il periodo di pena. Gli educatori supportano anche i giovani in vista della ripresa (o inizio) del percorso scolastico e, grazie a laboratori ludico-espressivi, riescono ad affrontare con loro i temi complessi relativi al loro ingresso e permanenza in istituto con le sue regole di vita e le varie problematiche. "Il delicato lavoro quotidiano dei nostri educatori - ha spiegato Francesco Cappelli, assessore comunale all`Educazione - permette ai giovani che hanno commesso degli errori di riprendere il loro percorso di vita e di rientrare a far parte della società con una nuova consapevolezza e senso della responsabilità". Catania: Sappe; detenuto 41bis aggredisce agente, ispezione a Bicocca ministro Orlando Ansa, 28 ottobre 2014 Un detenuto del regime Alta Sicurezza del carcere Bicocca di Catania, sabato scorso, ha aggredito un assistente capo della polizia penitenziaria. Lo rende noto oggi il Sappe giudicando "inaccettabile, incredibile, assurdo" quanto avvenuto. "Eventi del genere - aggiunge il sindacato - sono sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e soltanto il personale di polizia penitenziaria. Il Sappe esprime solidarietà al personale coinvolto e augura una veloce ripresa e ritorno in servizio. Queste aggressioni sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come l’allontanamento del detenuto in un altro carcere: invece, è sempre lì. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ricorda che a "una delegazione del sindacato, che è il primo e più rappresentativo dei poliziotti, è stato impedito di visitare il carcere di Catania Bicocca, nonostante l’autorizzazione del ministero della Giustizia, fosse pervenuta alla direzione del carcere per tempo". Il Sappe definisce l’accaduto "un fatto gravissimo" chiede al ministro della Giustizia Andrea Orlando di "disporre una urgente visita ispettiva nel carcere catanese di Bicocca". Cremona: Uisp; partita di calcio in carcere, i ragazzi dell’Itis incontrano i detenuti www.laprovinciacr.it, 28 ottobre 2014 Il "Progetto Carcere" Uisp ha fatto ancora una volta centro. La Casa Circondariale di Cremona ha ospitato un altro incontro di calcio tra una rappresentativa di studenti dell’Itis di Cremona ed una compagine di detenuti allenata da Gigi Bertoletti, operatore volontario della Uisp. Gli studenti, accompagnati dall’insegnante di educazione fisica, il professor Pietro Frittoli, hanno dato vita ad un combattuto incontro sul campetto in sintetico dell’istituto di via Cà del Ferro, dimostrando una buona preparazione, ma subendo una netta sconfitta da parte dei detenuti, che hanno messo in mostra un buon affiatamento di squadra e pure alcune interessanti individualità. Alla fine dell’ incontro l’allenatore Bertoletti, affiancato dal dirigente Uisp Maurizio Romani, ha espresso la piena soddisfazione del comitato provinciale Uisp per aver colto gli obbiettivi umanitari dell’iniziativa, ben oltre gli aspetti agonistici della partite disputata. Ancora una volta il "Progetto Carcere" dell’Uisp cremonese ha reso tangibili i valori dello "sport per tutti-nessuno escluso", e proprio in ragione dei suoi valori educativi e di integrazione sociale. Roma: detenuti-chef al convegno internazionale dell’Olaf , cucinano alla Casina Valadier Asca, 28 ottobre 2014 Detenuti chef per un appuntamento del Semestre europeo a guida italiana. Succederà stasera a Roma, alla Casina Valadier, dove in occasione del convegno internazionale organizzato da Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta anti frode, quattro Detenuti della casa circondariale di Rebibbia, dipendenti della Cooperativa sociale "Men at work", contribuiranno, dalla cucina, alla riuscita dell’evento. Grazie alla disponibilità del direttore generale della Casina Valadier, Juan Bosc, i quattro detenuti avranno la possibilità di sperimentare le abilità professionali acquisite in carcere nell’ambito di un evento istituzionale di grande rilievo collaborando con lo Chef della Casina Massimo D’Innocenti. La Cooperativa produce anche un servizio di catering esterno, i Detenuti impegnati nel confezionamento pasti possono recarsi all’esterno dell’istituto in regime di lavoro all’esterno ex art. 21 O.P. "Un esempio - si legge in una nota del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - di quanto il carcere possa concretamente contribuire al reinserimento sociale è offrire alle persone detenute opportunità per apprendere competenze utili da spendere dopo l’espiazione della pena. Il lavoro è, tra gli elementi del trattamento rieducativo, quello che maggiormente concorre a fornire gli strumenti necessari a intraprendere un nuovo percorso di vita consapevole e rispettoso delle regole. L’iniziativa è il frutto di una collaborazione e condivisione di buone pratiche e di valorizzazione delle potenzialità di una delle realtà lavorative e trattamentali attivate nelle carceri italiane". Ivrea (To): fondi Cassa Ammende, a rischio gestione pasti e lavoro dei detenuti di Rita Cola La Sentinella, 28 ottobre 2014 In carcere possono perdere il posto sei persone, assunte da una cooperativa I garanti scrivono al ministro: "Esperienze importanti che non vanno concluse". In dieci carceri italiani - e tra questi c’è Ivrea - il servizio di confezionamento dei pasti è esternalizzato. E consente, alle cooperative che se ne occupano, di far lavorare dei detenuti in un percorso professionalizzante sia all’interno delle strutture che in vista del loro futuro, da vivere fuori dalle mura del carcere. Oggi questo servizio è a rischio perché se, come è in programma, da fine anno si dovesse interrompere il finanziamento della Cassa delle Ammende, indispensabile per consentire una progettualità a queste iniziative che non hanno, tra i loro obiettivi, quelli del fare business, non sarebbe più possibile continuare queste esperienze. Esperienze, tra l’altro, giudicate positive all’unanimità. E allora perché? I garanti dei diritti dei detenuti delle Regioni e delle città che ospitano le carceri dove sono in piedi queste esperienze non vogliono stare ad aspettare la burocrazia e l’ineluttabile. E hanno sottoscritto una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al vice Enrico Costa e al sottosegretario Cosimo Maria Ferri. In estrema sintesi si chiede attenzione "a queste realtà consolidate e a queste dinamiche virtuose che sono un patrimonio significativo che va al di là dei meri pasti somministrati. Noi abbiamo potuto toccare con mano la complessità e la delicatezza dei percorsi individualizzati che hanno portato al coinvolgimento di centinaia e centinaia di detenuti e poi di ex detenuti, al fianco di operatori professionali". Armando Michelizza, garante dei diritti dei detenuti della città di Ivrea, è uno dei firmatari: "Il lavoro è fondamentale, in carcere. E il lavoro vero e professionalizzante lo è ancora di più. Sarebbe davvero un peccato se esperienze come questa dovessero chiudersi qui". A Ivrea, in carcere, fra mensa per i detenuti e caffetteria per il personale, lavorano 6 persone assunte dalla cooperativa sociale Divieto di Sosta mentre altre tre lavorano anche all’esterno per le cooperative Alce Blu e Vivai Canavesani, in un progetto coordinato fra le tre cooperative. Tra l’altro, a Ivrea il servizio è partito da poco. Nel mese di giugno, c’era stata l’inaugurazione: "L’idea - aveva sottolineato la direttrice, Assuntina De Rienzo, che molto ha sostenuto questo progetto - è stata quella di sviluppare attività lavorative partendo dalla gestione del servizio di preparazione dei pasti per i detenuti a una società esterna e integrando l’attività principale con la riattivazione di due serre per la coltivazione degli ortaggi, la produzione, vendita e distribuzione di piatti pronti e prodotti da forno per la ristorazione collettiva e la gestione del bar interno quale canale di commercializzazione dei prodotti". Nuoro: teatro in limba a Badu 'e Carros con la compagnia "Finimila sa cumedia" La Nuova Sardegna, 28 ottobre 2014 Il teatro in limba entra in carcere. La compagnia teatrale di Padru "Finimila sa cumedia" ha portato un po’ di allegria e svago tra i detenuti di Badu ‘e Carros. Nei giorni scorsi, la giovane compagnia gallurese -, nata nel 2011 per iniziativa di Gesuina Scanu, appassionata di cultura sarda -, ha rappresentato la commedia brillante "Su lutu de Giuannedda". Performance esilarante, che ha coinvolto ed entusiasmato il pubblico dei detenuti della struttura carceraria nuorese, che hanno accolto con piacere l’iniziativa della compagnia teatrale e della direzione del carcere, sempre disponibile ad aprire le porte della struttura penitenziaria. Per i detenuti presenti all’appuntamento, è stata una piacevole serata, e per gli attori padresi un’importante occasione di solidarietà. La compagnia teatrale recita in logudorese. I testi di "Su lutu de Giuannedda", così come tutti quelli che vengono portati in scena dal gruppo, sono scritti da Gesuina Scanu, che cura anche la regia. La parte recitata è stata accompagnata dalle musiche di Sebastiano Chiodino alla chitarra, Giacomo Deiana alla fisarmonica e Gianni Delitala al violino. Droghe: misure alternative al carcere per i tossicodipendenti, se ne è discusso a Roma di Virgilio Violo www.laperfettaletizia.com, 28 ottobre 2014 Nel 2013 il numero dei detenuti nelle carceri italiane ammontava a circa 67.000 contro i circa 45.000 posti regolamentari, la percentuale media di sovraffollamento quindi era pari a circa il 50%. I detenuti tossicodipendenti rappresentavano il 21 % di tutta la popolazione carceraria: di questi, solo 3.331 persone hanno ottenuto l’affidamento ai servizi sociali, ossia il 22% del numero totale dei detenuti tossicodipendenti. Si calcola che, di tali misure, almeno 10 mila detenuti ne possano usufruire . Per i tossicodipendenti e/o alcoldipendenti condannati che intendano intraprendere o proseguire un programma terapeutico, la legge italiana prevede infatti l’affidamento in prova ai servizi sociali e, per quelli in misura cautelare, la possibilità degli arresti domiciliari in comunità. È comprovato che l’uso di queste misure alternative facilita il recupero dei detenuti dal punto di vista fisiopsicologico e sociale e contribuisce, sia a ridurre il problema del sovraffollamento nelle carceri, che la pericolosità sociale del fenomeno. Da rilevare che, più cresce la disoccupazione, più aumentano le persone che fanno uso di stupefacenti e che un detenuto in carcere costa allo Stato circa 110 euro al giorno, in comunità residenziale ne costa 40. A Roma, a Villa Maraini, in due giornate si è fatto il punto della situazione sul progetto "Alternative measures for drug offenders in Europe". Per l’Italia il dottor Vincenzo Palmieri, della Fondazione Villa Maraini, per Roma, e il dottor Ezio Farinetti, del gruppo Abele, per Torino, hanno illustrato i risultati del progetto per le rispettive città, mentre il dottor Laurent Michel, della Croce rossa francese, il dottor Miguel Lago, della Croce rossa portoghese e il dottor Jiri Richter della Sananim, per la repubblica Ceca, hanno illustrato i risultati nei rispettivi Paesi. Molto atteso e seguito l’intervento di Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera, per il quale proprio le mafie hanno uno zoccolo, e non è l’unico, che è quello delle sostanze stupefacenti. Non dobbiamo dimenticare che nel mondo l’unico mercato che in 50 anni non ha avuto mai un meno, ma sempre un più, è il mercato delle droghe. La Fondazione Villa Maraini è uno dei principali centri italiani per la cura e riabilitazione delle tossicodipendenze. È l’unico centro anti-droga in Italia aperto tutti i giorni h24 e opera attraverso un insieme di strutture e servizi estremamente articolati e differenziati, in modo da poter offrire una vasta gamma di programmi terapeutici sulla base delle esigenze e bisogni dei singoli pazienti/utenti. In particolare, per i detenuti tossicodipendenti, la Fondazione svolge consulenza, accoglienza e orientamento in sede e all’interno di alcuni istituti penitenziari del Lazio ed è centro terapeutico residenziale e semi-residenziale per tossicodipendenti in misure alternative alla detenzione. "Purtroppo i detenuti tossicodipendenti che beneficiano di questa misura sono ancora molto pochi. In 10 anni, su circa 900 persone che avrebbero potuto beneficiare delle misure alternative, solo 380 hanno ottenuto l’ok all’affidamento a Villa Maraini" afferma il dottor Massimo Barra, fondatore della Onlus Villa Maraini, tra le cause principali: tempi lunghi nelle procedure amministrative per le autorizzazioni, anche a causa della burocrazia lenta dei Ser.t, scarso coordinamento tra i vari soggetti interessati: carceri, Ser.t, magistratura di sorveglianza, comunità di recupero. Oltre a ciò v’è il ritardo nei pagamenti delle rette da parte della Asl alle comunità terapeutiche. Nel 2013 Villa Maraini ha accolto 30 persone in misura alternativa alla detenzione, per un totale di 4300 presenze h24, la concessione di misure alternative ad appena 30 detenuti ha permesso allo Stato di risparmiare oltre 765 mila euro in un anno. Purtroppo non si è parlato del dramma vissuto dalle famiglie dei tossicodipendenti, soprattutto minorenni. Al convegno ne erano presenti molte. Oggi in Italia, su 10 ragazzi, almeno 4 hanno fumato uno "spinello". Problema sociale che non ha precedenti e che non fa ben sperare per il futuro. Abbiamo raccolto la testimonianza di alcuni genitori presenti: "ci siamo accorti all’improvviso che nostro figlio, minorenne, faceva uso di droghe pesanti. Disperati, non potendolo più tenere in casa, abbiamo fatto una ricerca su internet per vedere se c’erano dei centri specializzati per trattare la tossicodipendenza disposti a prendere nostro figlio. Su internet ne contattammo uno che prometteva completa disintossicazione dopo almeno sette mesi. Scoprimmo poi che sulla rete c’erano tanti siti pubblicitari in primo piano facenti capo ad un unico stesso centro, quello che avevamo contattato. Addolorati, ma pieni di speranza, affidammo nostro figlio a questo centro e, con enorme sacrificio economico, accettammo di pagarne la retta, circa 2mila e cinquecento euro al mese. Dopo sei mesi fummo costretti a riprenderlo, nostro figlio non voleva più saperne di stare lì, e non potevamo costringerlo. Tornato a casa, riprese a drogarsi come prima… nottate da incubo in cui non lo vedevamo tornare, era diventato violento, spacciava. Disperati ci rivolgemmo al Ser.t, in quanto ci avevano spiegato che, per mandarlo in una comunità a spese dello Stato, bisognava passare attraverso quest’ultimo. A maggio del 2013 il Ser.T prese in carico nostro figlio. Spiegammo che eravamo disperati, non eravamo più in grado di gestirlo. Eravamo lì per essere aiutati anche noi. Iniziarono i colloqui e le valutazioni di rito. Ci spiegarono che avrebbero iniziato con nostro figlio un progetto che doveva durare 6 mesi. Nel mentre avrebbe dovuto fare le analisi due volte a settimana per accertare la positività agli stupefacenti. Un assistente sociale gli sarebbe stato affiancato. Per sei lunghi, interminabili mesi, abbiamo portato mostro figlio a fare le analisi (ci risulta, anche molto costose) per sentirci dire ogni volta che erano positive, cosa di cui sin dall’inizio non dubitavamo, altrimenti non saremmo ricorsi alla struttura. Quanto all’assistente, alla fine del programma, ci affermò candidamente che poche volte aveva avuto modo di incontrarlo: si era semplicemente limitato a dirgli che, qualora avesse voluto parlargli, sarebbe stato a sua disposizione. Immaginate voi se, una persona che si droga, abbia voglia di parlare con un assistente sociale! A settembre 2013, a seguito del peggioramento della situazione, ci dissero di prendere appuntamento con il servizio di Igiene mentale della Asl per una valutazione congiunta. Batosta finale: a novembre il Ser.T ci rispose che in comunità mandavano, per loro regola, solo chi non faceva più uso da almeno tre mesi di sostanze stupefacenti. In ogni caso mancava la volontà dell’interessato. A saperlo prima! Ci rivolgemmo ai carabinieri per avere un consiglio i quali ci dissero che, anche se arrestato, quasi sicuramente nostro figlio, dopo qualche mese nel carcere minorile, sarebbe tornato a casa agli arresti domiciliari e, in più, palmieri sarebbe stato marchiato a vita, quindi il gioco non valeva la candela. Nello stesso mese (a seguito di ripetute, e ripetute richieste per un appuntamento) il servizio di Igiene mentale della Asl prescrisse per nostro figlio una terapia farmacologica e alle nostre preghiere per poterlo mandare in una comunità (nostro figlio era irriconoscibile e non andava più a scuola, quindi rimaneva a casa da solo perché noi eravamo al lavoro), ci risposero che aspettavano la relazione del Ser.T, in quanto era questo che decideva. Si rimbalzavano la palla senza farci capire chi doveva fare cosa, quali erano i ruoli e le competenze, e intanto nostro figlio stava praticamente morendo. Abbandonati al nostro dramma, pensammo di rivolgerci a Villa Maraini. Non ci chiesero nulla e accolsero nostro figlio. Ora nostro figlio ha abbandonato le droghe pesanti ed è tornato a scuola, la speranza è rifiorita nei nostri cuori. A fine dicembre dal Ser.t ci telefonarono per informarci che la relazione era pronta e che potevamo andare a ritirarla. Non ci siamo più andati". Nel nostro Paese, di situazioni simili, ce ne sono migliaia e migliaia e lo Stato latita. Tornando al tema oggetto del convegno, chiediamo al dottor Vincenzo Palmieri quali proposte ritesse valide per migliorare la fruibilità delle pene alternative al carcere per i tossicodipendenti, le elenchiamo: apertura delle misure alterative a programmi ambulatoriali e maggiori concessioni dei possibili benefici. Abbreviazione dell’iter procedurale per la concessione del beneficio e delle relative autorizzazioni del servizio pubblico. Aumento delle strutture in grado di accogliere soggetti beneficiari di misure alternative al carcere. Aumento delle risorse economiche scandalosamente inadeguate. Cina: pechino riduce numero reati punibili con pena capitale… ne rimangono sempre 55 Adnkronos, 28 ottobre 2014 Nella lista ne rimangono sempre 55, anche crimini non violenti come corruzione e traffico droga. La Cina riduce il numero dei reati punibili con la pena di morte. Una commissione del Congresso nazionale popolare, ha valutato la proposta presentata oggi dal governo di togliere dalla lunga lista di reati, molti dei quali non di sangue, che prevedono la pena capitale per nove reati, tra i quali traffico di armi, falsificazione di denaro e sfruttamento della prostituzione. Una volta che la proposta diventerà legge, le eventuali sentenze capitali di detenuti condannati per uno di questi nove reati saranno commutate in ergastoli. Non è la prima volta che la Cina riduce il numero dei reati capitali: negli anni scorsi ne aveva abolito altri 13, senza che vi fossero "effetti negativi per la sicurezza pubblica", ha affermato alla Xinhua, l’agenzia ufficiale cinese, Li Shishi, consigliere legale del governo che sottolinea anche come l’opinione pubblica abbia sostenuto questi cambiamenti. In Cina rimangono comunque ben 55 reati punibili con la pena di morte, compreso il traffico di droga, gravi atti di corruzione ed altri crimini non violenti. Il numero delle esecuzioni nel paese, che si ritiene sia il più alto nel mondo, è un segreto di stato, ma in alcuni casi, più importanti, vengono riportate dalla stampa. Come nel caso delle recenti esecuzioni di detenuti condannati per terrorismo nella regione a maggioranza uigura dello Xinjang. Le associazioni per i diritti umani ritengono che in Cina lo scorso anno vi siano state più esecuzioni di quelle avvenute in tutto il resto del mondo, nonostante che il governo abbia affermato di aver limitato il ricorso alla pena di morte dopo l’introduzione dell’appello obbligatorio di fronte alla Corte Suprema per ogni condanna. La Dui Hua Foundation, organizzazione che ha base negli Stati Uniti, ritiene che nel 2013 siano state mandate a morte 2.400 persone e che anche quest’anno verrà raggiunta una cifra simile, proprio per l’aumento delle condanne e delle esecuzioni per terrorismo. "La diminuzione annuale del numero delle esecuzioni in Cina che si registra da qualche tempo, probabilmente verrà bloccata nel 2014 a causa dell’aumento delle condanne per terrorismo nello Xinjiang e per corruzione in tutto il paese", affermano dall’associazione che ricorda come nel 2002 furono 12mila le esecuzioni e nel 2007 furono 6.500. Sud Corea: chiesta pena morte per capitano traghetto Sewol affondato con 300 vittime La Presse, 28 ottobre 2014 In Corea del Sud i procuratori hanno chiesto la pena di morte per il capitano del traghetto Sewol affondato lo scorso 16 aprile, Lee Joon-seok, e l’ergastolo per tre membri dell’equipaggio (cioè il primo ufficiale, il secondo ufficiale e il capo ingegnere). A riferirlo è un funzionario della Corte distrettuale di Gwangju, nel sud del Paese, aggiungendo che le sentenze sono attese per novembre. In quel naufragio morirono oltre 300 persone, la maggior parte delle quali erano studenti di un liceo in gita scolastica. Sono state chieste invece condanne fino a 30 anni di carcere per 11 altri membri dell’equipaggio, con l’accusa di negligenza e mancata protezione dei passeggeri. A maggio scorso il capitano e i tre membri dell’equipaggio erano stati incriminati per omicidio, mentre gli altri 11 membri dell’equipaggio per accuse di minore entità. I 15 a processo furono i primi a essere salvati dalla nave. Israele: fino a cinque anni di carcere per i cittadini che aderiscono allo Stato islamico Nova, 28 ottobre 2014 Il governo israeliano ha adottato un disegno di legge che prevede fino a cinque anni di carcere per i cittadini israeliani che decidono di aderire a gruppi terroristici come lo Stato islamico. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post". "Il nostro messaggio è chiaro - ha detto il ministro della Giustizia Tzipi Livni, iniziatrice della proposta. Israele eserciterà tolleranza zero nei confronti dei cittadini che optano per il terrorismo: il terrorismo deve essere combattuto e coloro che lo scelgono devono essere arrestati". Sono alcune decine gli arabi israeliani che si sono già uniti alle forze ribelli in Siria e allo Stato islamico, un fenomeno che "potrebbe portare ad attività terroristiche all’interno di Israele", ha detto Livni. Ed ha aggiunto: "Ogni paese ha il diritto di difendersi e Israele non fa eccezione. Ogni cittadino israeliano che entra in un’organizzazione terroristica animata da ideologia estremista islamica sarà messo sotto processo". Egitto: nuova ondata repressiva, tre anni di carcere a Sanaa Seif di Giuseppe Acconcia Il Manifesto Non si placa la censura degli attivisti laici egiziani. Sanaa Seif, sorella di Alaa Abdel Fattah e figlia del compianto avvocato che ha speso una vita per difendere i diritti umani in Egitto, Seif al Islam, è stata condannata a tre anni di detenzione. La giovane, in sciopero della fame da due mesi, resterà in carcere con altri 23 attivisti, colpevoli soltanto di aver manifestato contro la legge anti-proteste, che impedisce ogni assembramento, marciando la scorsa estate verso il palazzo presidenziale di Heliopolis. Sanaa aveva lavorato come editor al film documentario The Square, sulle rivolte di piazza Tahrir del 2011, tra i nominati per il premio Oscar lo scorso anno. Le cattive notizie per i giovani attivisti non finiscono qui, anche suo fratello Alaa, condannato a 15 anni per aver protestato contro la stessa legge, è stato arrestato di nuovo. Alaa, attivista socialista, non fa che entrare e uscire di prigione, denunciando le gravi condizioni detentive delle carceri egiziane. Il partito "Corrente popolare" del candidato alle presidenziali Hamdin Sabbahi, con altri partiti laici tra cui il liberale "Dostour", hanno chiesto di emendare subito la legge contro le manifestazioni. Come se non bastasse, 17 attivisti sono stati condannati a 5 anni per aver manifestato contro la Costituzione, voluta dall’esercito, lo scorso gennaio. La nuova ondata repressiva in Egitto arriva dopo lo stato di emergenza dichiarato nel Sinai in seguito agli attacchi dei jihadisti di Beit al-Meqdisi contro soldati di stanza nella regione, lo scorso venerdì. L’ex generale Abdel Fattah al-Sisi ha conferito poteri speciali al premier Ibrahim Mahlab e imposto il coprifuoco notturno nel Sinai. I Fratelli musulmani hanno definito l’esercito come direttamente responsabile degli attacchi. Arabia Saudita: criticarono magistratura su twitter, condanne al carcere per 3 avvocati Aki, 28 ottobre 2014 Tre avvocati sono stati condannati in Arabia Saudita a pene comprese tra i cinque e gli otto anni di carcere per aver criticato sui loro account Twitter la magistratura e il sistema giudiziario del regno di Abdullah. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione ufficiale Spa. I tre avvocati, le cui identità non sono state rivelate dall’agenzia, sono stati riconosciuti colpevoli di aver messo a repentaglio l’ordine pubblico attraverso tweet contenenti "opinioni oltraggiose" nei confronti della magistratura.