L’ergastolo è una pena di morte "nascosta" Il Mattino di Padova, 27 ottobre 2014 Se a definire l’ergastolo una "pena di morte viva" era Carmelo Musumeci, ergastolano, si poteva anche non avere voglia di ascoltarlo, ma se a parlare di "pena di morte nascosta" con ancora maggior determinazione è Papa Francesco, allora forse ci sarà qualcuno in più, per lo meno tra i credenti, che si porrà delle domande e si farà venire qualche dubbio su una pena, che non potrebbe essere più disumana perché uccide la speranza. Le testimonianze che seguono sono di Carmelo Musumeci, ergastolano, e del suo compagno di cella, che fra circa due anni la pena l’avrà scontata tutta: certo, i reati che hanno commesso sono diversi, e nessuno pensa che uomini che hanno ucciso nell’ambito di organizzazioni criminali non debbano scontare una pena adeguata alla loro responsabilità. Ma la pena dovrebbe credere nella possibilità di cambiamento delle persone e non dovrebbe ammazzare la speranza, e il simbolo di quella speranza è un calendario: il detenuto con un fine pena ce l’ha, e cancella ogni giorno un pezzettino di pena, l’ergastolano non ce l’ha, e moltiplica all’infinito giorni sempre uguali e sempre più privi di umanità. Con quel piccolo sadismo in più delle istituzioni, che sui certificati di detenzione scrivono: fine pena 31.12.9999. Papa Francesco: No alla Pena di Morte Viva, una pena del diavolo "Anime disumanizzate/ Sguardi duri/ Visi nascosti/ Volti celati/ Sorrisi spenti/ Occhi malinconici/ Un inutile giorno/ Dietro l’altro/ Un giorno dopo l’altro/ Voci invisibili/ Pensieri tristi/ Amori emarginati/ Ricordi umiliati/ Il giorno prima/ Il giorno ancora prima/ Il giorno dopo ancora". (Diario di un ergastolano, www.carmelomusumeci.com) Francesco, grazie delle tue parole che ci hai mandato tra le sbarre delle finestre delle nostre celle: L’ergastolo è una pena di morte nascosta. In Vaticano, da poco tempo, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. Molti delle persone del mondo dei vivi al di là del muro di cinta probabilmente non le ascolteranno. Non ha poi così importanza perché le tue parole hanno fatto bene soprattutto agli uomini ombra (cosi si chiamano fra di loro gli ergastolani ostativi). Francesco, non ti nascondiamo che molti di noi se potessero scegliere preferirebbero morire subito, adesso, in questo momento, piuttosto che nel modo orribile, progressivamente e infinitamente spaventoso di morire tutti i giorni. Basti pensare che il codice penale francese del 28 settembre 1791, pur prevedendo la pena di morte, aveva abolito l’ergastolo, ritenuto, molto più della pena capitale, disumano, illegittimo, inaccettabile nella misura che rende l’uomo schiavo, realizzando di fatto una ipotesi di servitù coatta, legittimata in nome di una pretesa superiore ed inviolabile ragione di Stato. Francesco, grazie che hai ricordato pubblicamente che in Italia patria del Diritto Romano e della Cristianità ci sono uomini condannati ad una pena infinita, ad una morte vera, una morte ad occhi aperti come l’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio penitenziario. Una vera pena del diavolo, crudele, inumana e degradante perché trasforma la persona in una statua di marmo. Mentre in tutti i paesi nel mondo, anche dove esiste la pena di morte, il condannato alla pena dell’ergastolo ha la speranza o una possibilità di poter uscire, in Italia, chi è condannato con l’ergastolo ostativo con la motivazione di avere agevolato l’associazione mafiosa, (divieto di concessione di benefici: art. 4 bis L. n. 354 del 1975), non potrà mai uscire se non collabora con la giustizia, quindi, se al suo posto non ci mette qualcun altro, rendendo in aggiunta tragicamente difficile e pericolosa la vita delle proprie famiglie. Non più coercizione e punizione corporali come ai tempi dell’inquisizione nel Medioevo, ma delazione. Non più l’uso della tortura fisica per estorcere la verità, ma solo la tortura del tempo e dell’anima molto più dolorosa di quella fisica. Francesco, in Italia ci sono molti umani che tengono chiusi in una cella altri umani da più di 30 anni e in alcuni casi da 40 anni e più, contro qualsiasi diritto comunitario ed internazionale. In Italia ci sono molti giovani ergastolani che aspettano di invecchiare e vecchi ergastolani, stanchi e ammalati, che invece aspettano di morire per finire la loro pena. Francesco grazie di avere ricordato che una pena senza fine non potrà mai essere né giusta e né umana. Francesco ti mando un abbraccio fra le sbarre. Carmelo Musumeci Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi Oggi ho letto il discorso che Papa Francesco ha fatto all’Associazione Internazionale di Diritto penale e sono veramente commosso, sono commosso perché è da qualche mese che divido la cella con un condannato con "la pena di morte nascosta", come il Papa ha definito l’ergastolo, Carmelo Musumeci. Non so dirvi chi è stato Carmelo al tempo della condanna, un ragazzo del sud emigrato al nord in cerca di fortuna. Poi condannato per reati di mafia. Oggi però vedo un uomo diverso di quasi 60 anni che sogna solo di poter giocare con i suoi nipoti e pranzare con la sua famiglia. A me mancano poco più di due anni per finire la mia condanna, mi sento in colpa quando giro le pagine del calendario appeso alla parete ogni fine mese. E dentro di me penso "un mese in meno". E sogno che questi due anni che mi rimangono passino in fretta. Poi però penso a cosa sognerà il mio compagno. E credo che lui dovrebbe sognare la morte, perché solo cosi finirebbe la sua pena. Noi della redazione di "Ristretti Orizzonti" da tempo sosteniamo che non c’è grande differenza tra pena di morte ed ergastolo, che l’ergastolo dovrebbe essere abolito perché una persona non può essere giudicata cattiva per sempre. Il mio attuale compagno di cella in 24 anni è cambiato, non è più il mafioso condannato dalla legge, ha scritto libri sta studiando per la seconda laurea, se una persona fuori dal carcere avesse questo percorso sarebbe considerata un uomo di successo, ma Carmelo per la legge è il ragazzo di 24 anni. E non gli viene data anche solo la possibilità di dimostrare che è cambiato. Io che vivo con lui più di 20 ore al giorno vi posso dire che Carmelo oggi è il nonno che vorrebbe rincorrere i suoi nipotini al parco. Io spero che l’ergastolo sia abolito ma se non ritenete giusto farlo, siate sinceri e ammettete che anche in Italia esiste la pena di morte anche se nascosta, l’ergastolo. E che oggi in Italia più di mille persone per essere libere devono Morire. L’altra cosa che mi ha colpito del discorso del Papa è "Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e errori dei peccatori". I detenuti volontari di "Ristretti Orizzonti" ogni anno incontrano più di 6000 studenti e raccontano cosa li ha portato in carcere, e spiegano quanto è difficile pensarci prima, e accettano di "mettere in piazza" la loro vita, la loro responsabilità, le loro scelte sbagliate perché sperano che siano utili ai ragazzi che li ascoltano, ora con le parole di Papa Francesco, "si può apprendere anche dagli errori dei peccatori", spero che progetti simili, che oggi riguardano ancora pochissime carceri, si diffondano anche in tante altre carceri in Italia, e il progetto di "Ristretti Orizzonti" sia aiutato ad andare avanti perché questo è un modo efficace di prevenzione dei comportamenti devianti. L’ha detto anche il Papa. Çlirim Bitri Giustizia: l’errore fatale di chi vuole militarizzare le carceri di Giovanni Flora (Giunta dell’Unione delle Camere Penali) Il Garantista, 27 ottobre 2014 Tra le riforme di cui si vocifera la proposizione da parte della commissione presieduta dal pm antimafia di Reggio Calabria Nicola Gratteri, c’è n’è una segnalata nel bell’articolo di Maria Brucale sul Garantista del 16 ottobre. Una "ipotesi di lavoro" che, sommersa dallo tsunami di altre riguardanti lo smantellamento di quel che resta del giusto processo e del diritto penale liberal democratico, è forse passata un po’ sotto traccia. Intendo riferirmi alla "militarizzazione" degli istituti di pena, nei quali si prevede di sostituire la figura del Direttore con quella del "Commissario di Polizia penitenziaria", con conseguente riqualificazione (?) della polizia penitenziaria in polizia tout court, che passerebbe così dal controllo del ministero della Giustizia a quello del ministero dell’Interno. Ma che male c’è - mi si obietterà? Non è forse da sempre sentita la esigenza di una semplificazione di quel frastagliato mondo di "forze dell’ordine" le cui specifiche competenze si fa sempre più fatica a comprendere. Polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria, polizia municipale, polizia provinciale, guardia forestale, guardia campestre (a proposito: esiste ancora?). Che affollamento! Semplifichiamo! Certo, semplifichiamo, ma facciamo attenzione alle conseguenze delle semplificazioni. Che significa far trasmigrare la polizia penitenziaria dal controllo del ministero della Giustizia a quello dell’Interno e trasformarla in Polizia, punto? Sarebbe davvero una riforma indolore, anzi auspicabile, o non piuttosto il sintomo una pericolosa deriva autoritaria, con trasformazione degli istituti penitenziari in luoghi di contenzione, deputati a perpetuare forme di controllo sociale meramente repressivo - punitivo, iniziato magari con la vergogna della carcerazione prima del e senza processo? Quella che nemmeno a Sua Santità, Papa Francesco, sta tanto simpatica? Alla faccia della funzione rieducativa della pena costituzionalmente sancita? Non sono tanto bravo a nascondere dietro una ipocrita neutralità quello che penso. Il valore simbolico culturale di una simile mutazione transgenica, dagli effetti pratici devastanti, è del tutto evidente. Il carcere già adesso è tutto fuorché un luogo adatto alla risocializzazione, nonostante l’impegno individuale di Direttori, personale amministrativo, educatori, agenti e ufficiali di polizia penitenziaria. E non parlo delle carceri sovraffollate, nonostante che sotto questo profilo vi siano stati innegabili miglioramenti. Parlo delle carceri "normali", dove a stento si riesce a far rispettare il regolamento, dove i mezzi a disposizione sono quelli che sono (cioè pochi ), dove il personale è sottodimensionato, dove il lavoro è per lo più l’eccezione e non la regola (e quello "all’esterno"?), dove non sempre si riesce a garantire una assistenza medica e psicologica qualificata a tutti. E ciò, ripeto, nonostante l’impegno personale encomiabile di chi ci lavora. Situazione che l’Unione Camere penali ben conosce e da tempo denuncia e non si stancherà mai denunciare, grazie all’attività continua, qualificata e infaticabile dei valorosi volontari del suo "Osservatorio carcere". E qual è la ricetta che si ipotizza per rimediare a questa indecente, intollerabile situazione? Innanzi tutto: più carcere! Pensate un po’, a fronte di inequivoci dati statistici, disponibili a tutti, che dimostrano che la prevenzione della recidiva è assicurata maggiormente dalle misure alternative, piuttosto che dalla pena detentiva, no, si punta sempre di più sulla pena carceraria. Più carcere e che carcere! Un carcere affidato alla polizia, magari alla stessa che (auguriamoci almeno prima o dopo e non durante) svolge anche funzioni di sicurezza pubblica e polizia giudiziaria. Un carcere, quindi, destinato a soddisfare essenzialmente, anche nell’immaginario collettivo (è questo che si vuole ?) innanzi tutto, se non esclusivamente, istanze repressivo punitive. E la rieducazione? E l’articolo 27 della Costituzione? Già, dimenticavo, secondo una vecchia interpretazione che credevamo morta e sepolta, la Costituzione prevede solo che le pene debbano "tendere" alla rieducazione, la funzione essenziale non è mica quella! Speriamo che si tratti di voci prive di fondamento o che chi deve prendere decisioni in merito rifletta attentamente e ci ripensi. E non sia di quelli che dicono "a me non mi smuove nessuno, nemmeno il Papa". Giustizia: penalisti e riforma, su Twitter stiamo perdendo la battaglia di Cataldo Intrieri (Avvocato Foro di Roma) Il Garantista, 27 ottobre 2014 Con una serie di articoli e di editoriali il Garantista ha svelato il forte stato di tensione all’interno del ministero della Giustizia ed il contenuto della "controriforma" messa a punto nella commissione da lui presieduta dal pm Nicola Gratteri, consulente del governo, che si sostanzia sinteticamente nello svuotamento del dibattimento come momento centrale del processo. Nella visione del pm divenuto consigliere del principe, (dalle previsioni dell’inasprimento del regime carcerario al ricorso generalizzato alle videoconferenze, all’espansione del patteggiamento alla contrazione del contraddittorio in aula e delle impugnazioni, etc.), si avverte forte il riflusso dell’autoritarismo tecnocratico in nome di una avvertita necessità di efficienza per un sistema in crisi. Il genere di cose che ricordano sinistramente alcune politiche europee i cui risultati non esaltanti sono sotto gli occhi di tutti. Le notizie sono state accolte con stupore e quasi incredulità, ma sbaglierebbe e di grosso chi volesse ridurre il tutto ad una fantasia da bizzarro dottor Stranamore prestato alla politica. Gratteri è persona stimata ed autorevole, gode di ottima stampa (leggere per farsi un’eloquente idea la cronaca di una premiazione in Usa scritta qualche giorno fa da un giornalista autorevole come Massimo Gaggi sul Corriere). E l’ennesima incarnazione del mito tecnocratico e giustizialista, una realtà che il paese ha conosciuto bene con esiti deludenti, ma che in questo particolare momento si presenta con connotati nuovi e di maggiore insidiosità. Il fatto è che oggi il governo italiano ha un disperato bisogno di " vendere" all’Europa progetti di riforme e la giustizia rientra tra questi. Non è un caso infatti che il tema ricorrente sia quello dei risparmi di spesa che deriverebbero dall’ accorciamento dei tempi, dal venir meno degli oneri connessi al trasporto e custodia in aula di imputati detenuti, dal guadagno derivante allo Stato da un regime di lavoro coatto nelle carceri. A ben vedere la filosofia del "piano Gratteri" non è difforme da quella dei tagli lineari cui sono ricorsi costantemente i governi italiani negli ultimi anni. Una generalizzata contrazione delle spese senza distinzione qualitative e settoriali. In questa ottica il contraddittorio tra le parti nelle sue varie fasi giudizio dall’udienza preliminare in poi è un costo da tagliare. Queste considerazioni rendono estremamente probabile il fatto che la riforma trovi appoggio nel governo, scavalcando il ministro, e soprattutto (cosa che deve far riflettere gli avvocati) riproponendo uno schema di successo della contrapposizione tra le riforme necessarie e le sacche della conservazione sociale ostili al cambiamento. Lo schema è stato applicato con indubbia efficacia ai magistrati, ai sindacati, ai senatori ed agli amministratori regionali. Ora toccherà agli avvocati. Agli avvocati penalisti. E gli avvocati dovranno rispondere evitando di incorrere nella trappola di una collocazione schiacciata nella sacca del rifiuto immotivato ed a priori. Bisognerà evitare agli occhi dell’ opinione pubblica, in massima parte poco sensibile al tema delle garanzie ed ostile a forme di privilegio, di rappresentarsi come una gretta corporazione pensosa solo del proprio angusto interesse. Bisognerà controbattere ed illustrare con mezzi moderni e capacità di comunicazione che il cuore dello spreco, il buco nero dell’inefficienza nella giustizia penale, è in realtà nell’abnorme dilatazione dei tempi delle indagini preliminari e nell’avvio ingiustificato dell’azione penale in molti casi, quando essa non è necessaria. Bisognerà spiegare, cifre alla mano, quale sia la proporzione tra numero di cause avviate e sentenze di condanna. Chiedere quanto siano costate le spettacolari inchieste a tutto campo come la famigerata "Why Not" dell’indimenticato De Magistris e la consuetudine di uso senza freno di intercettazioni. Che senso abbia l’avvio di indagini e processi dopo decenni per ipotesi di reato ormai ardue da provare (si pensi alla vicenda di via Poma ma anche, incredibilmente alla riesumazione del cadavere del bandito Giuliano ucciso nel 1946, sì è successo anche questo). Come le lungaggini ingiustificate siano originate da un sistema perverso di provvisorie archiviazioni e di ritardi, mai sanzionati nell’iscrizione delle notizie di reato con conseguente artificiosa dilatazione della durata delle indagini per anni e anni oltre i limiti di legge. Che il vero danno sociale e quello arrecato alla domande di giustizia di migliaia di cittadini sprezzantemente accantonate e lasciate morire per dare spazio ad inchieste da talk show televisivi senza costrutto ma di molta personale visibilità. La vera sfida per le associazioni dei penalisti è questa, e non è una sfida facile. Il ritardo come capacità comunicativa è ancora enorme rispetto alla magistratura: sui social network sono presenti il presidente dell’Anni e quello della commissione giustizia, ma vanamente cerchereste non dico il presidente dell’Unione camere penali, ma anche un membro della giunta o direttivi territoriali. La stessa diffusione di un giornale come questo, comodamente scaricabile su un tablet e presente sui social network, incontra difficoltà; per quanto incredibile lo strumento informativo principe dell’avvocatura associata è l’agenzia di stampa: in un mondo che legge ormai pochissimo si buttano soldi per affittare inutili paginate. Un esempio difficilmente superabile di pigrizia mentale. Eppure il confronto con un capo del governo abilissimo nell’usare Twitter si può sostenere con la capacità di misurarsi su questo terreno e non di limitarsi a tazebao e comunicati stampa da Pravda anni 50. Le future battaglie dell’ Unione si vinceranno anche e soprattutto su questo terreno, quello di una moderna informazione. Coraggio, un po’ di fantasia. Giustizia: il magistrato di sorveglianza ha tempi "ad hoc" secondo la tipologia degli atti di Piero Maccioni Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2014 Sentenza della Cassazione. No alla sospensione, il ritardo nel deposito va calcolato tenendo conto della tipologia degli atti. Il magistrato di sorveglianza non può essere sospeso dalle funzioni per il ritardo nel deposito delle decisioni, se il provvedimento disciplinare è stato adottato senza tenere conto dei tempi diversi necessari a portare a termine le ordinanze i decreti e i pareri. La Cassazione, con la sentenza 22611, depositata venerdì scorso, invita il Csm a rivedere la decisione di sospendere per un anno un giudice del tribunale si sorveglianza, accusato di aver depositato in ritardo 1.110 provvedimenti su 3.948. La Sezione disciplinare, prendendo atto che nessuna norma specifica espressamente i termini che devono essere rispettati dal magistrato di sorveglianza, aveva evidenziato anche l’impossibilità di lasciare impuniti i ritardi. La scelta era caduta dunque sull’applicazione del combinato disposto tra l’articolo 28 comma 1 del codice di rito, che fissa la dead line per il deposito a 5 giorni dalla decisione e il Dlgs 109/2006 che presume il ritardo non grave se non viene triplicato il tempo indicato dall’ordinamento giudiziario. Appurato lo sforamento dei 15 giorni era scattata la "punizione". La Cassazione, pur concordando sulla necessità di trovare un parametro legislativo anche per il giudice di sorveglianza, invita a considerare la diversa natura degli atti di sua competenza: ordinanze, decreti e pareri, ciascuno disciplinato da un iter processuale che più o meno dettagliatamente ne detta la durata. Quello che il Csm dovrà fare è tenere conto dei diversi tempi necessari ad esempio, per acquisire il parere del Pm o effettuare un’istruttoria e poi individuare il momento in cui il procedimento è pronto per la deliberazione. La Cassazione, con la-sentenza 22610 "salva" dall’ammonimento anche un’altra toga. Questa volta l’accusa era di aver inviato numerose mail a tutta la mailing list dell’Anm locale, mettendo in discussione l’operato dei colleghi della Corte d’Appello e avanzando dubbi sulla possibilità di sentenze "condizionate". Causa di nullità della decisione del Csm è stato lo scollamento tra l’imputazione e la sentenza. Alla toga era stato inizialmente contestato di aver violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio. I probiviri si erano poi posti il dubbio sulla possibilità che le mail inviate ai colleghi potessero essere o meno oggetto di sindacato disciplinare, perché comprese nella sfera della libertà di pensiero e nella segretezza della corrispondenza. Problema poi considerato del tutto accademico, perché gli illeciti avevano una rilevanza diffamatoria di ordine penale. Una conclusione non in linea con la contestazione di origine. In più nessuno dei colleghi aveva sporto querela. Giustizia: magistrati che sbagliano e celle-loculi… in un anno quasi nulla è cambiato di Maurizio Gallo Il Tempo, 27 ottobre 2014 Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e "sicuri" colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de "Il Tempo". Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. Responsabilità civile In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è "ammissibilità": dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Sovraffollamento Il 28 maggio è scaduto l’"ultimatum" della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo "solo" per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa "vigilanza dinamica". E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 "braccialetti elettronici", prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. L’interrogazione Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che "alcuni magistrati di sorveglianza" stanno "rigettando" le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è "una ritenuta inammissibilità dei reclami" per le detenzioni pregresse" o quelle che "si protraggono in diversi istituti". Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile". Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla "possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base". Un altro punto, infine, è se la superficie "vitale" (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto. Giustizia: le "riformette" non risolvono, il c.d. decreto "svuota carceri" solo un palliativo di Gian Domenico Caiazza (Avvocato) Il Tempo, 27 ottobre 2014 Siamo un Paese abituato ad affrontare i grandi problemi che ci affliggono con piccole riformette, puri e semplici palliativi, come il c.d. decreto "svuota carceri". Che ha tutt’al più tolto un po’ di schiuma al putridume delle nostre carceri da quarto mondo, come si fa col brodo quando è troppo grasso; ma non ha certo risolto, né può risolvere, un bel nulla. Il problema di fondo della giustizia penale nel nostro Paese, e cioè l’abuso del carcere, ha radici troppo ramificate e complesse per pretendere di risolverlo con riformette così marginali. La prima causa strutturale è la pan-penalizzazione della nostra società, cioè l’idea che qualunque comportamento umano o sociale degno di censura, o meritevole di essere arginato e sanzionato, debba tradursi in una fattispecie di reato. È una idea tanto sciaguratamente fallace, quanto profondamente condivisa nella nostra società. Fallace perché molti comportamenti illeciti e certamente dannosi per il bene comune sarebbero molto più efficacemente combattuti con sanzioni di tipo esclusivamente patrimoniale, o di natura amministrativa, piuttosto che con il carcere. Dunque, sarebbe innanzitutto necessaria una coraggiosa e drastica depenalizzazione del nostro sistema sanzionatorio, per la costruzione di un diritto penale minimo che significherebbe - contrariamente alla più diffusa vulgata - maggiore forza dello Stato, maggiore efficacia del suo sistema sanzionatorio, e profondo alleggerimento della popolazione carceraria. La seconda causa dell’abuso del carcere è l’idea - e soprattutto la pratica- irrimediabilmente distorta della custodia cautelare; uno strumento che il legislatore ha previsto come del tutto eccezionale, e soprattutto finalizzato ad esclusiva e temporanea salvaguardia del processo (inquinamento delle prove e pericolo di fuga), e solo in un caso (il c.d. pericolo di reiterazione del reato) a salvaguardia della collettività. Questa ultima, eccezionale ipotesi, che presuppone già di per sé un azzardo da parte del giudice, chiamato a vaticinare che una persona, solo sospettata di avere commesso un crimine, possa addirittura reiterarlo se lasciata libera, è diventata invece la motivazione pressoché comune a tutti i provvedimenti custodiali che vengono emanati nel nostro Paese. E non è certo un caso che l’unica, seria riforma che era stata varata dalla Camera dei Deputati alcuni mesi fa, che efficacemente precludeva al giudice di poter desumere il pericolo di reiterazione solo dalla gravità del reato per il quale si procede (che è quello che accade sistematicamente in tema di ordinanze cautelari) è stata congelata, ma direi affossata, a seguito di una levata di scudi durissima della magistratura italiana ("non potremo arrestare più nessuno", tuonò il Procuratore capo di Roma Pignatone), immediatamente ossequiata dal nostro tremebondo Legislatore. Chissà se potranno ridargli un minimo di coraggio le formidabili parole pronunciate da Papa Francesco pochi giorni fa: "La carcerazione preventiva - quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso - costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale". Come l’Italia, per esempio. Amen. Giustizia: Bernardini "Inutili i provvedimenti tampone, ci vogliono l’amnistia e l’indulto" di Luca Rocca Il Tempo, 27 ottobre 2014 La segretaria dei Radicali italiani boccia i decreti "svuota-carceri". Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani, è alle prese con la preparazione del XIII Congresso dello storico movimento fondato da Marco Pannella. Dal 30 ottobre al 2 novembre i Radicali si ritroveranno a Chianciano, e affronteranno, come fanno da sempre, la drammatica situazione nelle carceri italiane. Il 2014, infatti, è stato un altro "anno nero" per i detenuti. Bernardini, i decreti "svuota-carceri" e la sentenza della Consulta che ha cassato la legge Fini-Giovanardi, non hanno alleviato le sofferenze dei reclusi italiani? "Assolutamente no. È vero che il numero dei detenuti è diminuito, ma le condizioni delle nostre carceri continuano ad essere infami. La giustizia italiana è alla débâcle definitiva e va riformata strutturalmente, passando attraverso un provvedimento di amnistia e indulto". Dunque quelli che sembravano progressi si sono rivelati inutili misure tampone? "La situazione è drammatica. Intanto, con la nostra azione, abbiamo costretto il ministero della Giustizia a non barare sui numeri. Le spiego. I detenuti presenti nelle nostre carceri al 30 settembre 2014 sono 54.195, i posti regolamentari 49.347. In realtà, però, da questi ne vanno sottratti circa 6mila perché molte carceri hanno sezioni chiuse e inagibili. Dunque i posti effettivi sono 43mila. Sul sito del Ministero, infatti, ora si può leggere che il dato sulla capienza regolamentare "non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato". Numeri da brivido a cui se ne aggiungono altri allarmanti. "È esatto. I condannati definitivi, ad esempio, sono 35.197, tutti gli altri sono in custodia cautelare. Ben 9.067 sono in attesa di primo giudizio e quasi il 30% sono tossicodipendenti. A ciò va aggiunto che solo il 20% dei reclusi lavora. Le strutture carcerarie, poi, sono pessime, così come disastrose sono le condizioni igieniche. Non ha funzionato nemmeno la "messa alla prova", cioè la possibilità di destinare molti detenuti a pene alternative. Sono state accolte solo 18 domande su 3.237". Un quadro desolante. "Nel 2014 ci sono stati 38 suicidi ma un totale di 115 morti. Decessi dovuti a cure carenti. Siamo sommersi di segnalazioni su detenuti che non vengono curati. E sa da cosa dipende? Dal fatto che la sanità penitenziaria non è più affidata al ministero della Giustizia, ma alle Asl, che ovviamente, quando devono tagliare, lo fanno sui carcerati, l’anello debole". Eppure l’Europa, a giugno, ci ha "graziati". "L’Europa ha solo rimandato il giudizio finale all’anno prossimo. Ma il dato clamoroso è che al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che vigila sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, e parliamo della sentenza Torreggiani, l’Italia ha raccontato balle clamorose. Ci avevano chiesto di risarcire il detenuto che ha subìto, negli anni precedenti, trattamenti inumani e degradanti, ma abbiamo scoperto e denunciato, anche tramite un’interrogazione parlamentare del vicepresidente della Camera, Roberto Giacchetti, che la magistratura di Sorveglianza sta facendo una sorta di "sciopero bianco". Alcuni magistrati dicono che le domande sono inammissibili perché loro si devono occupare solo del "pregiudizio attuale" che subisce il recluso, altri affermano che è impossibile, senza la collaborazione del Dap, ricostruire le condizioni carcerarie passate del detenuto. Ciò comporta, ad esempio, che in Toscana, a fronte di 1200 domande, ne è stata accolta solo una". Ma almeno l’Italia ha detto la verità all’Ue sui 3 metri quadrati garantiti attualmente al detenuto? "Nemmeno per sogno. Sa perché, sulla carta, sono spuntati fuori i 3 metri? Perché abbiamo calcolato anche lo spazio occupato dalla mobilia: armadietto, letto, sgabello. Non solo. Per ottenere il "numero magico", centinaia di detenuti sono stati spostati in Sardegna, dove c’erano posti a disposizione. E così le famiglie si trovano a centinaia di chilometri di distanza con gravi ricadute psicologiche per i figli minori". Lei ha fatto lo sciopero della fame per Bernardo Provenzano. "È chiaro che siamo di fronte a un caso difficile, perché parliamo di un boss mafioso, ma come si può lasciare un uomo incapace di intendere e volere, un vegetale, al 41bis?". Perché i nostri governanti si guardano bene dall’approvare un provvedimento di amnistia e indulto? "Intervenendo al Congresso dell’Unione delle Camere penali, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nella sua ingenuità, o furbizia, lo ha candidamente ammesso: è troppo impopolare, ha detto, perderemmo voti". Giustizia: l’Associazione Antigone "In un decennio le leggi modificate dieci volte" di Andrea Ossino Il Tempo, 27 ottobre 2014 "Se il legislatore cambia le norme dieci volte in dieci anni non si capisce più nulla. Occorre riscrivere tutta la legge, tenendo conto delle indicazioni europee e dei nostri valori costituzionali". Patrizio Gonnella è il presidente di Antigone, l’associazione che da oltre 30 anni si occupa di monitorare il sistema penale e penitenziario italiano, proponendo leggi e fornendo consulenze. "Abbiamo una nostra idea - afferma Gonnella - quella di una pena che rispetti la vita umana e che abbia un senso". Presidente, qual è lo stato di salute del nostro sistema penale e penitenziario? "Dal punto di vista normativo le leggi sono state modificate troppe volte, anche in negativo. Da un punto di vista strutturale abbiamo 54mila detenuti per 44mila posti letto. Il tasso di sovraffollamento è alto nonostante, dopo la condanna Ue del 2013, i detenuti sono diminuiti di 10mila unità". Quali sono le problematiche più rilevanti? "Da diversi mesi manca un capo. L’amministrazione penitenziaria deve governare 54mila detenuti, 35mila persone in misure alternative, 45mila poliziotti e altre figure professionali. Viaggiamo intorno alle 150mila persone. È anomalo che non ci sia un capo. Poi ci sono altri grandi problemi da risolvere. C’è troppa gente in abbandono terapeutico, troppi suicidi". Cosa occorrerebbe? "Servirebbe il coraggio di fare una legge moderna. La popolazione dei detenuti è composta per un terzo da stranieri, bisogna ripensare alle figure professionali, come ad esempio i mediatori culturali. Dobbiamo lavorare per migliorare le condizioni igienico sanitarie, la qualità della vita, occorre ridurre il tasso di violenza e aumentare le occasioni di lavoro, di religione, favorire attività sportive e all’aria aperta". Il 28 maggio scadeva il termine concesso all’Italia dall’Europa. Non siamo stati multati. "Siamo stati multati nel 2013 perché avevamo celle fatiscenti, maleodoranti e i detenuti venivano trattati come bestie. Adesso, il tempo che l’Ue ci ha dato deve servire a progettare un sistema che non ricada negli errori del passato. Vorremmo una sorta di regia trasparente che faccia funzionare le cose in maniera migliore". Giustizia: Capece (Sappe); con la "vigilanza dinamica" ci sono più aggressioni agli agenti di Luca Rocca Il Tempo, 27 ottobre 2014 La drammatica situazione nelle carceri non è dovuta solo al sovraffollamento, ma anche ad alcune scelte dell’amministrazione penitenziaria e a provvedimenti necessari ma mai approvati che hanno avuto gravi ricadute anche sugli agenti. Ce lo spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Perché il calo dei reclusi non è stata una boccata d’ossigeno per voi agenti? "Perché da un anno a questa parte, il Dap ha dato il via alla "vigilanza dinamica". Tutti i detenuti, tranne quelli al 41bis, sono liberi di uscire dalle celle e stare nei corridoi. La polizia penitenziaria sosta al piano terra, di tanto in tanto sale per un controllo, andando incontro ad aggressione certa". Le aggressioni sono aumentate nell’ultimo anno? "Almeno del 70%. Non solo: l’apertura delle celle ha reso più facili i suicidi". Che nel 2014 sono diminuiti. "Solo perché ci sono circa 12mila detenuti in meno rispetto agli anni precedenti". Sono diminuiti anche quelli fra gli agenti? "No, sono aumentati. Nel 2014 in dieci si sono tolti la vita, l’anno scorso in otto. Se a una situazione familiare difficile si sommano ore di lavoro che mettono a dura prova psicologica, queste sono le conseguenze". Dunque i progressi dei provvedimenti svuota-carceri sono stati resi vani dalla "vigilanza dinamica"? "È così. Grazie al ministro Cancellieri che è intervenuta sulla custodia cautelare, e ai magistrati che prevedono sempre di più misure alternative, la situazione era migliorata. Il fenomeno delle "porte girevoli", ad esempio, cioè dei reclusi che restavano in carcere solo uno o due giorni, si è drasticamente ridotto. Nel 2014 sono stati circa 5mila, a fronte dei 20mila degli anni precedenti. Ma la "vigilanza dinamica" ha nuovamente peggiorato la situazione. Quel provvedimento va ritirato". In che modo rendere umana la condizione nelle carceri? "Prevedendo misure alternative per almeno 22mila reclusi che potrebbero esservi destinati. Si sommerebbero ai 100mila che già stanno fuori dalle carceri". Magari usando il braccialetto elettronico. "Già, peccato che dei 100mila detenuti "gestiti" fuori dai penitenziari, ce l’abbiano solo 2.500". Giustizia: i Radicali chiedono all’Onu di non fidarsi delle promesse italiane sulle carceri www.radicali.it, 27 ottobre 2014 Inizia oggi la fase conclusiva della cosiddetta revisione periodica universale, Upr, dell’Italia davanti al Consiglio Onu sui diritti umani. Nei prossimi tre giorni gli stati membri delle Nazioni unite porranno centinaia di domande al nostro Paese per ottenere informazioni circa gli impegni presi dal governo italiano nel 2009 in materia di rispetto dei diritti umani. Nei mesi scorsi, e ancora in questi giorni, il Partito Radicale ha preparato un corposo dossier sull’inefficacia delle misure adottate dall’Italia per far fronte ai rilievi sollevato dall’Onu nel corso degli anni relativi alle carceri, immigrazione, disabilità diritti Lgbt e disabili. In premessa alla sua nota, il Partito Radicale sottolinea come non ci si possa limitare a dar fiducia alle dichiarazioni del Governo italiano, secondo cui molte delle raccomandazioni accettato sarebbero state trasformate in riforme legislative, ma che occorra approfondire, punto per punto, le varie questioni. Infatti, che si tratti delle carceri, piuttosto che delle politiche migratorie, dei progetti di inclusione dei Rom oppure dell’abbattimento delle barriere architettoniche, passando per le permanenti discriminazioni nei confronti dei gay, l’Italia ha ampiamente dimostrato di preferire una campagna di pubbliche relazioni, o minime modificazioni legislative di tipo cosmetico, a riforme strutturali. Le carceri restano sovraffollate, i campi Rom continuano a esser sgombrati colla forza, non un euro è stato speso per dar seguito alla ratifica della Convenzione Onu in materia di disabilità e I ripetuti annunci di modifica del codice civile per consentire le unioni di persone dello stesso sesso son rimasti, appunto, annunci. Questa situazione di patente e prolungata illegalità costituzionale e mancanza di rispetto dei propri obblighi internazionali da parte dell’Italia è stata più volte al centro, e anche solennemente, di interventi pubblici e ufficiali del Presidente della Repubblica, è debitamente articolata nella Sentenza Torreggiani adottata dalla Corte europea dei diritti umani a gennaio 2013 e fotografata dal rapporto del gruppo di esperti indipendenti che per le Nazioni unite documenta le detenzioni arbitrarie. Nelle prossime ore il dossier sull’Italia verrà pubblicato sui siti www.radicalparty.org e www.radicali.it. Giustizia: Gonnella (Antigone); sulla tortura auspichiamo presa posizione internazionale Ansa, 27 ottobre 2014 "La tortura non è un reato in Italia. Eppure l’Italia ha ratificato ben 26 anni fa la Convenzione Onu che ce lo imponeva". Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone. "Oggi il nostro paese va sotto il giudizio del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Noi abbiamo evidenziato questo tragico gap presente nella nostra legislazione. È indegno un paese che persegue tutto e tutti tranne i torturatori". "Auspichiamo - conclude Gonnella - una forte presa di posizione internazionale". Giustizia: processo per la "trattativa" Stato-mafia, al Colle udienza a tutto campo di Valentina Errani Il Messaggero, 27 ottobre 2014 La trattativa con i boss, domani i pm di Palermo ascolteranno Napolitano. I paletti del Quirinale. Palazzo off limits per la stampa. Nel mirino dei magistrati pure le minacce mafiose del 1993. Anche l’avvocato di Totò Riina potrà rivolgere domande. La sala dovrebbe essere quella del Bronzino. È lì, dove abitualmente il presidente della Repubblica incontra i Capi di stato ospiti prima dei colloqui ufficiali, che Giorgio Napolitano testimonierà al processo sulla trattativa Stato-mafia, davanti alla Corte d’assise di Palermo. Napolitano ha accettato di rispondere alle domande, ma resta un margine di prudenza. Potrebbe decidere all’ultimo momento di non rispondere e, comunque, sembra escluso che possa ampliare l’ambito della testimonianza, certamente circoscritta, sempre che ricordi ancora i dettagli dei fatti avvenuti venti anni fa. All’udienza, fissata per domani, dovrebbero partecipare una quarantina di persone: i giudici, togati e popolari, la cancelliera, cinque pm e gli avvocati delle sette parti civili e dei dieci imputati, che invece non sono stati ammessi dalla Corte ad assistere direttamente o in videoconferenza. Il Quirinale resta off limits alla stampa che non potrà seguire la testimonianza neppure a distanza, attraverso la videoregistrazione: possibilità non esclusa dai giudici che avevano dato il nulla- osta alla presenza da remoto dei media, ma "bocciata" dal Colle, che ha regolamentato rigidamente l’accesso al palazzo. Le parti processuali non potranno portare cellulari, tablet, pc e strumenti di registrazione. L’udienza sarà verbalizzata secondo le regole ordinarie, i verbali saranno disponibili per le parti, una volta trascritti, nei giorni successivi. A rivolgere per primo le domande al capo dello Stato sarà il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Mentre Leonardo Agueci, numero uno dei pm palermitani, sarà presente ma non lo interrogherà. La prima parte della deposizione riguarderà i dubbi e le preoccupazioni che l’ex consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, gli aveva espresso al presidente in una lettera, nel giugno del 2012, un mese circa prima di morire per un infarto. Nel documento, peraltro reso pubblico dallo stesso Quirinale, D’Ambrosio avanzava il timore di "essere stato considerato solo un ingenuo e inutile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi" tra il 1989 e il 1993, anni in cui l’ex consigliere era all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia. Sui timori di D’Ambrosio, però, il capo dello Stato ha già fatto sapere alla Corte, tramite una lettera, di non avere nulla di utile da riferire. Poi, il pm Nino Di Matteo dovrebbe approfondire i fatti accaduti nel 1993 partendo dall’allarme attentati a Napolitano e a Giovanni Spadolini, lanciato dal Sismi nell’agosto del 1993. La riservata degli 007 è stata acquisita agli atti del processo ed è chiaro che sarà oggetto di domande al presidente dal momento che riguarda proprio il periodo citato nella lettera di D’Ambrosio. Nel fascicolo del dibattimento è finita anche una nota del Sisde del 20 agosto del 1993 in cui si parla dell’intenzione di Cosa nostra di avviare una trattativa con le istituzioni. Argomento di cui, però, la Dia e lo Sco avevano già scritto in rapporti dei primi del mese dello stesso anno. Dopo i pm sarà la volta del controesame dei legali. In particolare l’avvocato del boss Totò Riina ha chiesto e ottenuto di potere fare domande a Napolitano su un tema più ampio e relativo "a quanto accadde nel 1993 e nel 1994". Ma non è scontato che il difensore, oltre al controesame, domani possa riuscire a fare l’esame del teste: il suo turno, salvo accordo delle parti, sarebbe tra alcuni mesi. La Corte, all’ultima udienza, ha ricordato comunque che l’esame del presidente della Repubblica è subordinato alla sua disponibilità, sottolineando che potrebbe revocarla in qualunque momento. Tra l’altro, per quanto la disponibilità del Quirinale sembri oramai assodata, sembra scontato che le risposte non forniranno alla Corte elementi di novità. Tra l’altro Napolitano potrebbe anche non ricordare circostanze avvenute ormai molto tempo fa. Giustizia: conviene davvero che l’udienza di domani al Quirinale escluda la stampa? di Marzio Breda Corriere della Sera, 27 ottobre 2014 Arrivati a questo punto - e a nostro avviso non bisognava proprio arrivarci, se non altro per le pesantissime ricadute che era inevitabile ne scaturissero - conviene davvero che l’udienza di domani al Quirinale escluda la stampa? Soprattutto, conviene alla massima istituzione del Paese? Chi rischia di ricevere maggior danno dalla blindatura che è stata decisa? Certo, se si sta a quanto prevede il codice di procedura penale (articoli 502 e 147, ultimo comma), in casi speciali come questo le riprese e le trasmissioni dei dibattimenti a porte chiuse "non possono essere autorizzate". Un ostacolo giuridico che sarebbe però bene superare. Stavolta, infatti, davanti a un evento come la trasferta romana dei giudici di Palermo per raccogliere la testimonianza del presidente della Repubblica su un capitolo (peraltro assai marginale) della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, garantire l’esercizio "dal vivo" del diritto di cronaca sarebbe, oltre che sacrosanto, opportuno. Anche per Giorgio Napolitano. Il quale, dopo aver fornito ai magistrati per iscritto un anno fa ogni spiegazione su ciò che ora si vuole ripeta, da mesi punta l’indice contro le interpretazioni strumentali, le illazioni fuorvianti, gli inquinamenti della realtà suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto del suo consigliere, Loris D’Ambrosio, e in una sfida tra poteri. Una sfida che aveva costretto il capo dello Stato a sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, dalla quale ha avuto ragione. Una sfida che è proseguita con la provocatoria pretesa, per fortuna poi lasciata cadere, di far addirittura "entrare" in videoconferenza nello studio del presidente i boss Riina e Bagarella. E che adesso, con la salita sul Colle di una Corte d’assise impegnata su un’ipotesi processuale così devastante, segna l’ultimo passaggio di una prova di forza senza precedenti. Potenzialmente in grado di lesionare il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale. Si sa che, a cose fatte, la deposizione del capo dello Stato sarà resa disponibile per intero, con verbali e registrazioni Dvd cui i cronisti potranno accedere. Ma, visto che al Quirinale si è sempre recriminato, e con buoni motivi, sui pericoli di una spettacolarizzazione del processo (il che potrebbe da domani tradursi in letture manipolate e virali del senso di un sospiro, di una risposta a voce incrinata, di un silenzio), perché non lasciar "parlare le parole", insieme alle immagini? Perché non consentire ai cittadini di seguire l’udienza in diretta, alla tv o su Internet, e di confrontarla con i resoconti e gli approfondimenti dei quotidiani, in maniera che si formino una libera opinione? Non sarebbe il modo per togliere alibi a certi professionisti di una controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli piegando la verità senza riguardo per nessuno, e che da giorni strepitano su una censura preventiva, studiata per oscurare chissà quali patti e complicità? E su questo piano, basta pensare che la testimonianza del presidente è stata accostata perfino al caso Clinton-Lewinsky. Lo ripetiamo: nonostante le "porte chiuse", non ci sarà alcun segreto sulla deposizione di Napolitano. Ma chi ha esperienza del mondo e della politica sa che il quarto potere, quando gioca sul vittimismo, può trasformarsi in un contropotere pronto a deragliare perfino dalle regole base della deontologia. Napoli: tentato suicidio a nel carcere di Poggioreale, detenuto ingerisce detergente Cronache di Napoli, 27 ottobre 2014 Detenuto ingerisce disinfettante per pavimenti nel carcere di Poggioreale. Il 36enne dì Giugliano è stato accompagnato all’una del pomeriggio di sabato al pronto soccorso dell’ospedale Loreto Mare con un’ambulanza in codice rosso. Ricoverato nel reparto di rianimazione per aver ingerito un disinfettante liquido. I medici in serata hanno fatto sapere che non corre pericolo di vita. Il 36enne e ora ricoverato sotto osservazione del personale sanitario. Ora e piantonato nel reparto del nosocomio in via Amerigo Vespucci, sorvegliato dagli agenti della Polizia penitenziaria. Erano stati i compagni di cella a lanciare l’allarme nella tarda mattinata di ieri: il 36enne di Giugliano era stato trovato in gravi condizioni all’interno del bagno. Qui era stato soccorso dai medici del 118 e accompagnato con la massima urgenza all’ospedale Loreto Mare. I sanitari del reparto di emergenza avevano effettuato i primi controlli e avevano accertato le cause del malore: il detenuto aveva ingerito un detergente liquido per pavimenti. Ora è ricoveralo in osservazione, e fuori pericolo di vita. Non è il primo caso nel carcere di Poggioreale. L’ultimo episodio registrato dalle cronache e del 9 settembre. Era stato il segretario del sindacato autonomo della polizia penitenziaria "Sappe" a lanciare l’allarme meno di due mesi fa: "Un detenuto di 63 anni è l’ennesimo recluso suicida in un carcere italiano. È accaduto a Poggioreale, dove scontava un fine pena fissato al 2018 per vari reati tra i quali rapina - spiegò Donato Capece - si è impiccato nel bagno della cella. Nonostante l’intervento degli uomini della polizia penitenziaria, non c’è stato nulla da fare. Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella. Ricordiamo che oggi Poggioreale ospita più di 1.890 detenuti, un numero superiore alla capienza regolamentare dì circa 1.500 posti". Il leader del primo sindacato della polizia penitenziaria aggiunse perentorio: "Quel che mi preme mettere in luce è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria con tutti i detenuti, per garantire una carcerazione umana ed attenta, pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico dei poliziotti, le strutture spesso inadeguate ". Roma: Salvatori (Forum Giovani) visita Rebibbia con on. Campana; ancora molto da fare www.politicamentecorretto.com, 27 ottobre 2014 Nel pomeriggio di ieri, l’Avv. Gino Salvatori del Forum Nazionale dei Giovani, nell’ambito del progetto "Il sovraffollamento carcerario - emergenza umanitaria tra presente e futuro" promosso dalla piattaforma che rappresenta le organizzazioni giovanili per denunciare il problema del sovraffollamento delle carceri, e presentato mercoledì scorso alla Camera dei Deputati, ha effettuato un’ispezione alla Casa di Reclusione di Rebibbia. Salvatori, nell’occasione, accompagnava l’On. Micaela Campana, Responsabile Diritti del Partito Democratico. "Lo stato dei centri di aggregazione - ha affermato Salvatori all’uscita dall’Istituto di pena - è sostanzialmente buono, ma c’è bisogno di lavorare ancora molto sul problema del sovraffollamento. Non possiamo tuttavia non registrare che vi sono stati dei passi in avanti grazie alle ultime riforme normative in tema di detenzione. Le ispezioni - ha aggiunto - continueranno per garantire la tutela dei diritti dei detenuti, con particolare attenzione agli istituti minorili ed a quelli femminili". Padova: venerdì si è svolto in convegno "Gli equivoci e i paradossi della giustizia penale" Il Mattino di Padova, 27 ottobre 2014 Anche il ministro Andrea Orlando è intervenuto al convegno dal titolo "Gli equivoci e i paradossi della giustizia penale" che si è svolto nella splendida cornice del Palazzo Vescovile, sede del Museo Diocesano. Aperto dai saluti di Giuseppe Zaccaria, rettore dell’Università degli studi di Padova, l’appuntamento è proseguito con interventi del presidente di Geox spa Mario Polegato e del procuratore generale presso la Corte d’Appello di Venezia Pietro Calogero. Il tema centrale è stato affrontato dall’avvocato Fabio Pinelli, con successivi approfondimenti del consigliere Aniello Nappi, già componente del Consiglio Superiore della magistratura, dell’ex presidente della Camera Luciano Violante e dell’avvocato Luigi Stortoni, prima della conclusione dei lavori affidata al ministro Orlando che ha ricordato come la politica abbia abdicato al suo ruolo di rispondere alle domande sociali affidando tale compito alla Giustizia. Il ministro ha insistito su uno dei nodi cruciali del settore Giustizia, il sovraffollamento delle carceri, insistendo sull’inadeguatezza di una risposta solo in termini sanzionatori: "Siamo il paese con la maggior spesa pro capite per il sistema giudiziario rispetto agli altri stati europei e con la maggiore recidiva" ha detto, rammentando che, negli ultimi anni, le riforme hanno ridotto la popolazione carceraria da 70 mila a 54 mila detenuti. "Dobbiamo restituire qualità alla giustizia penale italiana con una riforma che parta dalle fondamenta. Sarà un passaggio delicato ma importante perché dovrà garantire il delicato equilibrio socio-istituzionale del nostro Paese" spiega l’avvocato Pinelli, organizzatore dell’incontro, "Ho ritenuto opportuno promuovere un momento di confronto e di riflessione con esperti del settore e con la presenza del ministro Orlando, che ha accettato il mio invito per ragionare su questi temi di ampia portata e rilevanza". Televisione: ricorso di Brega Massone "Stop alla fiction sulla clinica degli orrori" di Franco Vanni La Repubblica, 27 ottobre 2014 Fermare la messa in onda di una fiction sulla "clinica degli orrori", in programmazione su Rai Tre. È l’intenzione dell’ex responsabile della chirurgia toracica della clinica Santa Rita di Milano, Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio volontario di quattro pazienti e a 15 anni e sei mesi per lesioni e truffa. I legali del medico hanno presentato un ricorso al Tribunale civile di Roma per chiedere un provvedimento d’urgenza che blocchi la trasmissione. La messa in onda, secondo quanto avrebbe annunciato la società di produzione ai legali di Brega Massone, sarebbe prevista per venerdì 31 ottobre in prima serata. "Vogliamo bloccare la trasmissione, visto che le responsabilità penali del nostro assistito non sono state ancora accertate con sentenze definitive", dichiara l’avvocato Luigi Fornari, difensore di Brega Massone assieme a Vincenzo Vitale, che aggiunge: "Temiamo che il medico sia rappresentato come un mostro. La Rai ha già ricevuto la notifica del nostro ricorso. Esiste un codice deontologico che pone limiti sulla trasmissione di fiction sui procedimenti aperti". A preoccupare i legali è anche il fatto che la trasmissione possa influenzare i giudici popolari chiamati a pronunciarsi sulle responsabilità del medico. Il processo sul decesso dei pazienti - che secondo la sentenza di primo grado sarebbero morti a seguito di interventi chirurgici non necessari, fatti dal medico allo scopo di assicurarsi un guadagno - è infatti in fase di appello e si attende la fissazione della prima udienza. Per il procedimento che riguarda un’ottantina di casi di lesioni a pazienti, in cui Brega è indagato anche per truffa, un’udienza in Cassazione è fissata per il 28 novembre. Secondo quanto riportato da la Provincia Pavese, il quotidiano che per primo ha raccontato la vicenda, Rai Tre si sarebbe offerta di mandare in onda un’intervista a Brega Massone alla fine della docu-fiction, ma la direzione del carcere di Opera, dove il medico è detenuto, ha negato il permesso. Oggi per le 10 si attende un’udienza del tribunale civile di Roma sull’ipotesi di sospensione del programma, ma è probabile che la decisione non arrivi prima di domani o dopo. Iran: stuprata e impiccata, non dimentichiamo Reyhaneh di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 27 ottobre 2014 Venerdì, all’improvviso, la madre di Reyhaneh era stata informata della possibilità di parlare con la propria figlia per un’ora. Sembra sia la procedura che precede la messa a morte. Parlando all’inizio del mese via Skype con Fox News, la madre, Shole Pakravan, aveva detto: "Vorrei che mettessero una corda attorno al mio collo e uccidessero me al posto suo. La sola cosa che voglio… da Dio, da tutta la gente che ci sta sostenendo nel mondo… in qualsiasi modo, voglio soltanto riportare a casa Reyhaneh". Reyhaneh, oggi ventiseienne, ha passato cinque anni in un braccio della morte per avere accoltellato un quarantasettenne chirurgo che prima lavorava per l’intelligence iraniana. Nel 2007 Reyhaneh aveva diciannove anni e iniziava una carriera di decoratrice d’interni. Morteza Abdolali Sarbandi la invitò in un caffè e successivamente in un appartamento di cui avrebbe voluto rinnovare l’arredamento. Invece, presumibilmente sotto l’effetto di qualche droga, provò a violentarla. Reyhaneh si difese con un coltello e scappò via. Arrestata, per due mesi non le era stata concesso alcun incontro con un legale né con la famiglia. Era stata messa in isolamento e sotto pressione. Amnesty ha parlato apertamente di "savage tortures", di torture, per ricavarne una confessione. Nel 2009, il processo. Reyhaneh fu costretta a cambiare il proprio difensore e a sceglierne uno meno esperto in un palese tentativo di impedire qualsiasi approfondimento sull’accaduto e ogni ulteriore indagine. Reyhaneh aveva ammesso di avere colpito Sarbandi alla schiena. Disse anche che c’era un altro uomo in quell’appartamento quel giorno, e che quell’uomo aveva ucciso Sarbandi. Lei era andata via. Dopo l’esecuzione, l’ufficio della Procura ha rilasciato una dichiarazione che sembra tagliata su misura per mettere in cattiva luce la giovane donna: "Jabbari aveva ripetutamente confessato la premeditazione del delitto. Poi provò a confondere le cose inventandosi un’accusa di stupro. Ma tutti i suoi sforzi per attestare la propria innocenza si sono dimostrati falsi nelle diverse fasi del processo. Ci sono delle evidenze: con un sms, lei aveva informato un amico dell’intenzione di uccidere. È accertato che si fosse procurata l’arma del delitto, un coltello da cucina, comprandolo due giorni prima". È proprio sulla possibilità di difesa e di un giusto processo, però, che Amnesty International ha puntato il dito - parlando di indagini profondamente inaccurate e di un’aula di corte in cui s’è mancato di prendere in esame tutte le prove - e lanciato la propria campagna per tentare di salvare la vita di Reyhaneh. Hassiba Hadj Sahraoui, responsabile di Amnesty per il Medioriente e l’Africa, ha detto: "Non dovrebbe essere permesso in alcun modo che queste orribili esecuzioni accadano. Particolarmente quando ci sono seri dubbi sulle circostanze dell’accaduto. Invece di continuare a giustiziare la gente, le autorità in Iran dovrebbero riformare il sistema giudiziario, che poggia pericolosamente su procedure in cui sono ignorati gli standard internazionali di legge e quelli di garanzia per un giusto processo". L’esecuzione era stata programmata già altre volte e rinviata. La famiglia di Sarbandi insisteva sul fatto che il delitto fosse premeditato, che Reyhaneh dovesse negare ogni tentativo di stupro e che dovesse rivelare il nome del complice. Solo così sarebbe stato possibile avere il loro perdono, quel "prezzo del sangue" che in Iran permette ai familiari, anche all’ultimo momento come è già accaduto, di salvare la vita del condannato. Invece, sembra che sia stato proprio un familiare di Sarbandi a fare volare via con un calcio lo sgabello che sosteneva Reyhaneh con il cappio al collo. L’esecuzione avviene in un momento sfavorevole per Hassan Rouhani, eletto presidente lo scorso anno in parte per il programma di riforme liberali. Rouhani sta camminando su un sentiero molto precario per impostare nuovamente i rapporti con l’Occidente dopo decenni di reciproca ostilità, in larga parte dovuti al controverso programma nucleare e ai diritti umani. Rouhani è criticato dai laici, il suo principale bacino elettorale, per la valanga di attacchi all’acido contro giovani donne accusate di non coprire a sufficienza i loro capelli. Molti iraniani sono convinti che gli attacchi siano orditi da islamisti in una campagna di contrasto alle riforme promesse dal presidente. E si sentono frustrati perché le riforme interne sembrano avere preso un rilievo di secondo piano rispetto alle negoziazioni internazionali. Forse ha pagato con la sua vita questo complesso e orribile incastro della geopolitica. Svizzera: ecco come sono trattati i pedofili in prigione di Patrick Mancini www.tio.ch, 27 ottobre 2014 Dopo gli ultimi processi per reati sessuali su bambini, viaggio dietro le quinte di una particolare ala della Stampa con lo psichiatra carcerario Ante Bielic Ricevono una "attenzione" particolare, perché loro non sono detenuti come gli altri. Chi finisce in carcere con una condanna per pedofilia sul groppone non deve solo fare i conti con la sentenza sancita dal giudice. Ma anche con il pregiudizio degli altri carcerati. Il tema torna di stretta attualità, dopo i recenti processi per reati sessuali su bambini nella Svizzera italiana. E riemergono anche le grandi leggende metropolitane. I bimbi non si toccano, reciterebbe una legge tacita in vigore tra i carcerati di tutto il mondo. Capaci di battezzare a sangue i neo arrivati macchiatisi di uno dei crimini più orrendi. "Difficile stabilire quanto questo sia leggenda e quanto no - sottolinea Ante Bielic, psichiatra al carcere della Stampa. Noi però siamo professionisti, non possiamo permettere che ci sia il minimo rischio per l’incolumità dei detenuti". Un reato terribile - Sono circa una decina, su un totale di circa 200 carcerati, i detenuti per reati sessuali (dalla pedofilia all’incesto) in Ticino. E proprio a causa della specificità del reato commesso sono confinati in un’ala ben precisa della struttura. "È una prassi in vigore da tempo. Anche perché poi gli altri tendono a fare comparazioni. Chi è in carcere per truffa o per furto si sente comunque un po’ migliore rispetto a chi ha commesso atti pedofili o legati alla sfera sessuale. D’altra parte questa separazione permette ai condannati per pedofilia di prendere coscienza di quanto sia terribile il reato commesso". Poi specifica: "Il fatto che abbiano una pena per un reato grave da scontare non significa che debbano essere lasciati in balia degli altri carcerati. Anche perché in carcere la concentrazione di persone con tratti caratteriali dissociali è maggiore rispetto all’esterno. Di conseguenza il rischio di aggressioni è più alto". Aspettative e curiosità - La mediatizzazione dei casi di pedofilia, constatabile negli ultimi anni, ha accresciuto il livello di guardia sulla tematica. "I detenuti hanno la possibilità di leggere i giornali. Sanno che magari arriverà un determinato personaggio, autore di reati pedofili. Si creano attese e aspettative, c’è chi vuole vedere queste persone in faccia, dobbiamo fare ancora più attenzione quindi". Massimo controllo - In alcune occasioni i condannati per reati sessuali su minori hanno la possibilità di mescolarsi con gli altri carcerati. "Ma solo in circostanze in cui noi abbiamo il massimo controllo e possiamo dunque intervenire rapidamente in caso di difficoltà - ammette Bielic, capita ad esempio per quanto riguarda le feste o le celebrazioni. Per il resto, forse è meglio che stiano separati. E sono loro stessi a rendersene conto, si sentono più protetti. Va ricordato che non di rado questi detenuti hanno un età molto maggiore rispetto alla media degli altri e sono dunque più vulnerabili". Terapia di gruppo - Per il trattamento specifico delle persone condannate per i reati nella sfera sessuale, oltre ai colloqui individuali è stata aggiunta anche una terapia di gruppo. Momenti in cui i condannati hanno la possibilità di ripercorrere i loro errori, esplicitandoli di fronte agli altri. "Questo lavoro di gruppo - evidenzia Bielic - viene portato avanti indipendentemente dalle sedute di psicoterapia individuale. Lo scopo principale è quello di sviluppare la presa di coscienza da parte dei detenuti. Funziona un po’ come in una comunità di recupero". Lavoro di recupero - La reazione al carcere e alle terapie da parte dei detenuti varia da caso a caso. "È molto personale. Alcuni non mostrano mai rimorsi. Altri sviluppano un concreto senso di colpa. Noi cerchiamo di lavorare sulla persona, andando anche al di là del reato commesso e mantenendo sani principi etici. Il lavoro della nostra équipe è complesso, occorre valutare ogni singolo atteggiamento, capire i rischi di ricaduta, evidenziare correttamente i progressi e i fallimenti delle misure messe in atto". Iraq: insurrezione nel carcere di Kazimiyah, vicino a Baghdad Nova, 27 ottobre 2014 Un’insurrezione è scoppiata oggi nella prigione di Al Adalah, a Kazimiyah, città santa sciita alla periferia di Baghdad. Lo ha riferito a "Nova" una fonte interna al carcere, dove sono detenuti migliaia di sadristi e alcuni ex funzionari del regime di Saddam Hussein, incluso l’ex ministro della Difesa Sultaan Hashim. Egitto: condannati a tre anni di carcere 23 attivisti per aver violato la legge sulle proteste Nova, 27 ottobre 2014 Un tribunale egiziano ha condannato 23 attivisti a tre anni di carcere per aver violato la legge contro le proteste, che prevede l’autorizzazione del ministero dell’Interno per l’organizzazione di cortei e sit-in. Gli imputati erano stati arrestati lo scorso 21 giugno durante una manifestazione organizzata proprio per chiedere la cancellazione della suddetta legge. Secondo quanto affermato oggi dai media di stato egiziani, gli attivisti sono accusati anche di organizzazione di rivolte, danni contro proprietà pubbliche e private, detenzione illegale di armi, ordigni esplosivi, resistenza a pubblici ufficiali. Afghanistan: mullah condannato a 20 anni per stupro di una bambina di soli 11 anni Agi, 27 ottobre 2014 La giustizia afghana non ha avuto alcun riguardo nel condannare a 20 anni di carcere un mullah per aver stuprato una bambina di soli 11 anni. La piccola venne violentata a maggio in una scuola religiosa dal mullah Mohammad Aminullah Barez in un villaggio della provincia di Kunduz. La piccola, per la vergogna, inizialmente cercò di tenere nascosto l’accaduto ma in seguito fu ricoverata in ospedale per forti emorragie. La sentenza di Kabul giunge a poche settimane dall’impiccagione di 5 uomini per aver stuprato una donna.