L’ergastolano Carmelo Musumeci scrive al pm Gratteri: dateci il "diritto di amare" Ansa, 26 ottobre 2014 "La legalità prima di pretenderla, bisogna darla. È difficile educare qualcuno alla legalità attraverso la sofferenza fine a se stessa, inflitta a chi come me è destinato a morire in carcere, condannato alla pena di morte viva". È uno dei passaggi di una lettera aperta indirizzata al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, scritta dal detenuto ergastolano Carmelo Musumeci che ha voluto affidare al giornalista Carmelo Sardo durante la presentazione nel carcere di Padova di "Malerba" che racconta la storia del killer di mafia Giuseppe Grassonelli, anche lui condannato all’ergastolo e coautore del libro. Musumeci, che è uno dei 1.200 detenuti ergastolani cosiddetti ostativi, la cui pena non scadrà mai e che non hanno possibilità di beneficiare di alcun permesso, si definisce "uomo ombra" e si rivolge a Gratteri a proposito delle sue proposte di riforma della giustizia, indicandolo come "ministro ombra" del governo Renzi. "Il carcere - osserva il detenuto - dovrebbe servire a tirare fuori tutto quanto c’è di buono di una persona, invece in Italia tira fuori il peggio dei prigionieri e dei loro guardiani". L’ergastolano fa parte della redazione "Ristretti orizzonti" che opera, grazie a un gruppo di volontari, all’interno del carcere di Padova. E per tentare di alleviare le sofferenze degli ostativi, la redazione composta prevalentemente da detenuti ostativi, lancia la campagna per la liberalizzazione dell’affettività in carcere. Una raccolta di firme per far sì che anche nelle carceri italiane come in quelle di diversi paesi europei, venga permesso ai detenuti di avere colloqui con un po’ di intimità con le loro famiglie e telefonate meno rare. Su questo tema Musumeci chiede a Gratteri di riconoscere ai detenuti il "diritto di amare". Giustizia: i diritti giustiziati di Adriano Sofri La Repubblica, 26 ottobre 2014 Ieri, quando l’hanno impiccata, Reyhaneh Jabbari era una donna di 26 anni. Ne aveva 19 quando colpì con un coltello da cucina il quarantasettenne Morteza Abdolali Sarbandi, medico e già impiegato dei servizi segreti iraniani. L’uomo, disse, l’aveva invitata a casa sua col pretesto di incaricarla dell’arredamento, e aveva cercato di usarle violenza. La condannarono a morte. Crebbe una campagna in sua difesa, in Iran e fuori: si denunciò che fosse stata isolata per mesi e torturata dopo l’arresto, per estorcerle la confessione; che non si fosse indagato sulla sua asserzione che un altro uomo era intervenuto sulla scena del delitto mentre lei fuggiva; che i giudici avessero rigettato la legittima difesa per un inveterato partito preso misogino - conosciamo la cosa. Si chiese un nuovo processo, finalmente rispettoso dei diritti dell’imputata. La mobilitazione ottenne solo una sequela di rinvii: Reyhaneh ha aspettato in cella per sette anni e mezzo, fino all’alba di ieri, quando il disgraziato figlio dell’ucciso ha dato un calcio allo sgabello sotto i piedi della ragazza. Intanto il suo volto, incorniciato dal velo d’obbligo, era diventato famigliare, come quello di Shahla Jahed e Sakineh e altre sventurate donne iraniane. Non solo il volto: nella fotografia ripubblicata dovunque ieri, Reyhaneh si difende in tribunale alzando le mani aperte, così che se ne intravedono, e stringono il cuore, le unghie lunghe e curate. Dunque l’orrore e il raccapriccio hanno percorso il mondo. Le autorità giudiziarie hanno ribadito la loro versione. È difficile crederle. È difficile trovare un altro movente all’atto di una ragazza che racconta di essere stata oggetto di un’aggressione sessuale, e per di più, una volta fuggita, chiamò un’ambulanza e stette ad aspettare. C’è un dettaglio che moltiplica il raccapriccio per questo omicidio che si vuole legale: la famiglia dell’uomo, e di conseguenza le autorità, in quel regime in cui vige la legge del taglione e la giustizia delle autorità pubbliche non si distingue dalla vendetta privata, avrebbero graziato Reyhaneh, alla condizione che ritrattasse la versione sul tentativo di violenza subito. La giovane ha rifiutato di farlo: dettaglio impressionante e risolutivo. Agli occhi dell’umanità, l’impiccagione di Reyhaneh dovrebbe costare al regime iraniano più di una battaglia perduta. Ma appunto: l’Iran e le battaglie e la "guerra" in corso. C’è la questione nucleare, c’è il contributo ufficioso di Teheran all’intervento della coalizione contro il sedicente Califfato, c’è la svolta "moderata" del presidente Rohani nei rapporti internazionali. La ragion politica suggerisce una morbidezza di modi nei confronti dell’Iran. La furbizia politica è pronta a offrirne anche la giustificazione: tutte le violazioni dei diritti umani che si moltiplicano dentro l’Iran, tutte le imprese terroristiche che l’Iran fomenta fuori, in favore di Bashar Assad in Siria o attraverso le milizie sciite in Iraq, vanno interpretate come manovre dei "duri" per mettere in difficoltà Rohani e il suo nuovo corso. Dunque, la comunità internazionale cosiddetta dovrebbe evitare di alzare troppo la voce contro le violazioni, per non favorire i cattivi contro il buono - o, almeno, il meno cattivo. Quando pretende di essere lungimirante, il cinismo diventa cretino. L’eventuale e plausibile dose di apertura nel governo di Rohani non può che essere liquidata dalla compiacenza nei confronti dei suoi rivali interni. Dall’elezione di Rohani, il numero di esecuzioni capitali è cresciuto rispetto a quello dei tempi di Ahmadinejad, che pure assicurava all’Iran il secondo posto nell’orrore, dopo l’inarrivabile Cina: con un dettaglio in più, che in Iran le esecuzioni sono uno spettacolo pubblico. Reyhaneh è la 967ma persona giustiziata dall’agosto dell’anno scorso, quando Rohani entrò in carica. Nel giorno in cui è stata ammazzata Reyhaneh, è morta anche una delle donne assaltate da farabutti in moto che le sfregiano con l’acido, a Isfahan, dove un’altra giovane ha perso la vista, e a Teheran. "Questioni private", secondo le autorità. In un certo senso hanno ragione, dal momento che anche la giustizia pubblica, come con Reyhaneh, si comporta alla stregua di una rivalsa privata. Qualche commentatore ha mostrato ieri sorpresa per l’ostinazione con cui si è voluto mettere a morte la giovane donna, "benché non fosse un caso di opposizione politica". Equivocando, perché la questione di genere e il controllo sessuale stanno al cuore della teocrazia iraniana. Lo scorso 28 settembre era stato impiccato Mohser Amir-Aslani, 37 anni, colpevole di "eresia e oltraggio al profeta Giona". Nel tentativo di aggiustare la motivazione, le autorità hanno sostenuto che l’uomo, che conduceva una lettura domestica del Corano, avrebbe avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio con sue seguaci. Una settimana fa il Majlis, il parlamento iraniano, ha votato a gran maggioranza una legge che incita i cittadini a denunciare e correggere i comportamenti che appaiano loro non appropriati alla legge islamica. Piove sul bagnato, dal momento che "promozione di virtù e punizione del vizio" sono già pratica comune di pasdaran e maschi di zelo, concordi nello scovare il vizio nella lunghezza dei chador o nella fuoruscita delle ciocche femminili. L’Iran non è solo questo, e anzi è probabilmente la società musulmana in cui più vivacemente, sotto la coperta bigotta e patriarcale, vive un’aspirazione alla libertà femminile e alla cultura. La durezza apparentemente irresponsabile di istituzioni e apparati semi-privati di giustizieri è al suo modo infame una misura di quella voglia di libertà. Giustizia: quei diritti umani calpestati che ignoriamo (per pavidità) di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 ottobre 2014 A Teheran Reyhaneh Jabbari stata impiccata al termine di un processo-farsa, colpevole di aver colpito a morte l’uomo che la stava stuprando. Ci saranno proteste blande, comunicati misurati, prudenti prese di posizione. O forse niente. Con l’Iran, nel turbolento scacchiere medio orientale, bisognerà pur tenere la porta aperta. I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo politico trionfa. Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi sanguinari e oppressivi. La fine rovinosa delle "primavere" arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no. E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak, e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani: mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico? Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan, vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza cristiana, Asia Bibi, viene condannata a morte con l’accusa grottesca di "blasfemia". In Iran hanno anche scatenato la guerra santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere l’assurdità. Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti grotteschi del realismo politico. L’Arabia Saudita fa parte della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è sufficiente per la condanna a morte di un "blasfemo" cristiano? Il realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più elementari. Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed esponendo per strada i corpi martoriati dei "collaborazionisti": il realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il silenzio è diventato un dogma. Lui sì che conosce il modello per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in Cecenia, radendo al suolo Grozny. Oggi Putin deve essere blandito, ci sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay, gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della "primavera" e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi. È la legge del realismo. Giustizia: Emma Bonino; combattiamo la pena di morte ma con l’Iran si deve dialogare di Marco Ventura Il Messaggero, 26 ottobre 2014 Iran o Stati Uniti non importa. "La pena di morte è sempre inaccettabile". L’impiccagione di Rehyaneh non diventi "un alibi per impedire il dialogo con Teheran". Per l’ex ministro degli Esteri e storica militante radicale dei diritti umani, Emma Bonino, "dolore e indignazione" per l’uccisione della 26enne iraniana devono "rafforzare l’impegno per la moratoria sulla pena di morte in tutto il mondo", senza ostacolare il negoziato con l’Iran in vista della scadenza del 24 novembre (accordo sul nucleare a Ginevra). Reduce da Teheran con il Council on Foreign Relations, è stata lei la prima capo-diplomazia occidentale a cogliere l’opportunità della vittoria dei riformisti di Rohani. Quali conseguenze trarre da questa impiccagione? "L’orrore dev’essere di stimolo all’impegno per la moratoria ottenuto nel 2007 e portato avanti soprattutto da Nessuno tocchi Caino. A dicembre ci sarà una nuova risoluzione all’Onu per aumentare il numero dei Paesi che la applicano. Il caso di Rehyaneh dimostra come questa campagna sia viva e necessaria. Quest’ultimo orrore non deve cancellare le altre esecuzioni di cui si sa meno. Non importa che siano alleati come gli Usa o avversari, democratici o no. Il trend è positivo, sono sempre di meno i Paesi che eseguono le condanne, ma rimane un gruppo dall’Iran alla Cina, dallo Yemen all’Arabia Saudita e agli Stati Uniti, dov’è in corso un grande dibattito per le iniezioni letali sbagliate, e a parte gli irriducibili ci sono Paesi come il Giappone che hanno ricominciato le esecuzioni". Mette Stati Uniti e Iran sullo stesso piano? "In Cina ci sono esecuzioni per reati amministrativi come la corruzione. In Arabia Saudita per adulterio. A Singapore per droga. Ognuno pretende che i suoi reati siano più gravi. Negli Usa l’esame del Dna ha svelato errori giudiziari. Ogni caso è intollerabile". Ma in Iran vengono anche violati i diritti delle donne. "Per la mia sensibilità e la mia storia questa uccisione mi colpisce di più, ma non è meno grave né deve sminuire l’orrore per altre esecuzioni. Pure l’errore giudiziario o il condannato che annaspa per decine di minuti non va bene. C’è una violazione dei diritti delle donne nelle lapidazioni per adulterio in Arabia Saudita o nello Yemen. Del caso Rehyaneh avevo parlato in Iran. Ultimamente c’era stato un passo ufficiale del governo italiano e di tutta la Comunità europea. Qualcuno dice che è stato un segnale politico dei conservatori. Io non lo so, non voglio inseguire le dietrologie. Mi preme il tema, anche riguardo ai minori e ai disabili". L’uccisione di Rehyaneh può incidere nei rapporti con Teheran? "Non aiuta il dialogo e me ne dispiace moltissimo. Ma non è questo a ostacolare un accordo serio sul nucleare. Questo episodio non deve impedire di andare avanti col dialogo, né questo tema ostacolare i rapporti con l’Iran o altri Paesi che continuano imperterriti con certi sistemi. La pressione per la moratoria va intensificata, ma senza che questo diventi un alibi per non affrontare gli altri temi". Giustizia: processo Mori e Operazione Farfalla, il legame mafìa-Br contro il carcere duro Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2014 L’operazione nasce per fare attività d’intelligence nel mondo carcerario, vista la sponda tra criminalità organizzata e eversione rossa. Una contiguità non casuale tra mafiosi e terroristi rossi. Indiretta, ma strategica: serviva ad alimentare la richiesta di attenuare il regime di carcere duro, il 41 bis per gli esponenti di Cosa nostra. Scatta nel 2002 una campagna di pressione dal mondo carcerario, in prima linea i boss Pietro Aglieri e Leoluca Bagarella. E il Sisde ci mette sopra occhi e orecchie: spunta così il presunto "protocollo Farfalla" messo ora all’indice dal procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato, nel processo in secondo grado contro l’ex direttore del Sisde, Mario Mori, accusato della mancata cattura di Bernardo Provenzano. Domani i legali di Mori, Enzo Musco e Basilio Milio, si opporranno alla richiesta della procura generale di rinnovare il dibattimento. Al Copasir, peraltro, ci sono una serie di audizioni: già sentiti, tra gli altri, i ministri dell’epoca, Beppe Pisanu (Interno) e Roberto Castelli (Giustizia), la settimana prossima sarà la volta dell’ex direttore del Dap, Giovanni Tinebra, e dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Mori, invece, non andrà al Copasir perché "la mia intenzione - ha spiegato - è parlarne in quel processo e non voglio anticipare le mie mosse in un’altra sede". Occorre a questo punto fissare qualche punto fermo su una vicenda apparsa fin troppo ambigua. Intanto, quello "Farfalla" non è un protocollo - che infatti non c’è - ma una serie di attività d’intelligence: la dicitura agli atti disponibili è "operazione Farfalla". Ma perché "Farfalla"? Semplice: il Sisde riprende il nome dell’associazione "Papillon", che si propone di migliorare la vita dei carcerati, fondata alla fine del 1993 da Antonino Vittorini, militante delle Brigate Rosse, condannato all’ergastolo per il rapimento del generale Dozier e detenuto nel carcere romano di Rebibbia. All’epoca il servizio segreto civile nota che "Papillon", così come gli avvocati Caterina Calia e Fabrizio Cardinali - legali storici dell’eversione rossa - sono in contatto, per esempio, con Salvatore Madonia, mafioso condannato all’ergastolo; con Sebastiano Mazzei, clan dei corleonesi; e Antonino Marchese, altro esponente di Cosa nostra, ergastolano. La Calia, accerta l’intelligence, riceve mandato difensivo per ottenere la revoca del 41 bis, tra gli altri, da Francesco Schiavone, il capo dei casalesi, e Giuseppe Guttadauro, reggente del mandamento mafioso di Brancaccio. Il 23 agosto 2002 al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu trovato un volantino di "Papillon Rebibbia Onlus" inviato da Giovanni Bastone, mafioso che scontava la pena nell’istituto penitenziario di Viterbo. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. Ma anche regolata dalla legge (n.410/1991) che attribuiva ai servizi segreti l’obbligo "di svolgere attività informativa e di sicurezza da ogni pericolo o forma di eversione dei gruppi criminali organizzati". Così nasce l’intesa tra il servizio civile e il Dap per fare attività d’intelligence attorno al mondo carcerario: visto lo scenario di una sponda reciproca, in una sintesi inedita, tra eversione rossa ed esponenti della criminalità organizzata, tutti in rivolta contro il carcere duro. Il sottosegretario Marco Minniti, così come l’ambasciatore Giampiero Massolo (Dis), hanno assicurato al Copasir che all’epoca gli agenti comunque non sono mai entrati in carcere. Hanno agito negli ambienti, come le famiglie, vicini ai mafiosi in carcere non pentiti. E in realtà, alla fine, l’operazione "Farfalla" non porta poi risultati così straordinari in termini informativi. Ma sull’accusa di illegalità di questa operazione resta tutta in gioco la sfida al processo di Palermo. Giustizia: in carcere per quasi due anni da innocente, risarcito ma Equitalia lo "beffa" Il Giornale, 26 ottobre 2014 Finisce in carcere per quasi due anni, ma poi viene assolto e risarcito con 91mila euro. L’Agenzia tributaria gli blocca l’assegno per incassarlo. A tempo di record. È una storia imbarazzante. Da far arrossire di vergogna lo Stato. Lo Stato, che per recuperare vecchi crediti, porta via a un cittadino la somma che lo stesso Stato gli aveva liquidato per averlo tenuto da innocente in cella. È un gioco del domino. Maligno. Anzitutto l’errore, spaventoso: 654 giorni in cella per traffico di stupefacenti prima di essere assolto dal tribunale e ancora assolto in appello. Poi la mossa fulminea di Equitalia che corre a mettere le mani sull’assegno staccato dal ministero dell’Economia per indennizzare l’ingiusta detenzione: 91.560 euro. Forse nella pur incredibile storia patria qualcosa del genere non era mai accaduto. E invece anche questa barriera è caduta: vittima Enrico Mario Grecchi, cinquantunenne di Lecco. È lui a dover sperimentare che le diverse articolazioni della macchina pubblica, quando vogliono, sono in grado di dialogare, di scambiarsi informazioni e pure i soldi. Che passano sopra la testa e le proteste di Grecchi. Ma forse, per una volta, Equitalia dovrà fare marcia indietro. L’eccesso di zelo è diventato un boomerang. La Commissione tributaria, sollecitata da Grecchi, ha infatti dichiarato nulla la "manovra" di Equitalia e ha ordinato di dare finalmente gli euro alla persona cui erano destinati. Una vicenda all’italiana, contorta, dal sapore della beffa, giocata in uno stordente andirivieni di giudici, giudici tributari, burocrati e via elencando. L’antefatto è ovviamente la carcerazione di Grecchi che viene coinvolto in un’operazione contro il traffico di stupefacenti. Lo ammanettano il 14 ottobre 2003, esce solo il 28 luglio 2005. Seicento cinquanta quattro giorni in cella. Un abisso. Per scoprire poi che gli indizi erano inconsistenti: l’unica colpa di Grecchi era quella di aver coltivato l’amicizia sbagliata con un pregiudicato. Ma anche la parola amicizia è eccessiva: in realtà si trattava solo di telefonate e a chiamare non era mai Grecchi. Poco importa. Alla fine il malcapitato esce pulito dalla terribile storia e chiede l’indennizzo per l’ingiusta detenzione. E qui Grecchi, appena uscito dal carcere, entra nel più classico dei labirinti all’italiana. E inizia un percorso senza fine fra provvedimenti contraddittori che fanno a pugni gli uni con gli altri. La Corte d’Appello richiama anzitutto quel rapporto sbagliato per negare l’assegno. Il comportamento imprudente, "gravemente colposo" di Grecchi fa sì che non gli debba essere concesso un solo centesimo. La Cassazione, interpellata dall’avvocato Ermanno Gorpia, capovolge la situazione: non è che un’amicizia, ammesso che la si possa definite tale, può spiegare quel che spiegare non si può. Semplificando ma non troppo: Grecchi non è andato in galera per colpa sua. Quindi i soldi gli devono essere concessi, ma con uno sconto a favore dello Stato che in qualche modo è stato indotto in errore dall’atteggiamento un po’ troppo disinvolto dell’uomo. Risultato: la tariffa media quotidiana per un giorno di ingiusta detenzione, 235,83 euro, viene abbassata a 140 euro. Per un totale di 91.560 euro. Fine del groviglio? Neanche per idea. Perché in agguato, pronta a scattare, c’è Equitalia. Che sventola le cifre di vecchie tasse mai pagate da Grecchi. E fra interessi e tutto il resto pretende da lui 67.056,21 euro. In pratica quasi tutto quello che gli è appena stato riconosciuto. Attenzione: cosa fa Equitalia? Semplice. Si rivolge al ministero dell’Economia che dovrebbe finalmente versare l’assegno e pignora il gruzzolo. Con sconcertante rapidità e senza ascoltare le proteste di Grecchi il ministero gira il tesoretto - i 91mila euro - a Equitalia e il tribunale di Lecco ci mette il timbro sopra. Pare incredibile ma quando vuole l’Italia, burocratica e cavillosa fino alla contorsione, sa fare squadra, compensa a suo favore crediti, vecchi, e debiti, nuovi, riesce a spremere un poveraccio già spremuto fino all’indecenza. Fine dei giochi? No, perché l’avvocato Gorpia, cocciuto quanto e più di Equitalia, fa ricorso alla Commissione tributaria. E i giudici scoprono che Equitalia ha voluto strafare. Le cartelle reclamate erano state notificate a Grecchi il 19 giugno 2001, il pignoramento è del maggio 2013. La prescrizione è decennale: troppo tardi. L’atto viene dichiarato nullo. Equitalia deve restituire i soldi che ha portato via. Si attende la prossima mossa. Calabria: Sappe; arrivano i primi casi di tubercolosi anche nelle carceri calabresi Agi, 26 ottobre 2014 "Arrivano i primi casi di tbc anche nelle carceri calabresi. Una infezione che si credeva debellata, ma che nelle carceri continua ad evidenziarsi sempre più frequentemente. Il primo caso nei giorni scorsi a Laureana di Borrello e ieri a Vibo Valentia, dove anche il personale di polizia penitenziaria è molto preoccupato, per paura del contagio". Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario regionale in Calabria. "Chiediamo all’amministrazione penitenziaria - aggiungono i due sindacalisti - di attivare al più presto tutte le procedure previste, a tutela del personale di polizia penitenziaria, il quale dovrebbe anche essere dotato di guanti e mascherine, per operare in situazioni a rischio. "Una delegazione del Sappe, guidata dal segretario generale Donato Capece, nei giorni dal 25 al 27 novembre, visiterà gli istituti della Calabria, dove il Sappe - afferma lo stesso Capece - si conferma il primo sindacato della polizia penitenziaria, come in tutte le regioni d’Italia. La Calabria, continua Capece, merita la massima attenzione per le problematiche legate al sovraffollamento e alla carenza di personale, ma anche per essere un territorio molto difficile, a causa della forte presenza della criminalità organizzata. Siamo sempre molto vicini ai colleghi della Calabria e stiamo monitorando, a livello nazionale, in modo particolare, alcune realtà come Palmi, dove continuano ad esserci ferie e riposi arretrati dal 2007 e gli uffici preposti al controllo e allo smaltimento dell’arretrato sembrano essere completamente assenti. Non ci sfugge certo la situazione di Vibo Valentia, dove la forte riduzione dell’organico, voluta dal Dipartimento, sta creando grandi disagi al personale di polizia penitenziaria, così come a Catanzaro, dove l’apertura del nuovo padiglione e del centro clinico richiederebbero più personale di polizia penitenziaria. Sarebbe opportuno inviare al più presto un direttore è un comandante in pianta stabile ad Arghillà, così come necessita di un comandante anche l’istituto di Rossano. A queste si aggiungono le difficili situazioni di Castrovillari, dove confluiscono ormai anche gli arrestati del territorio di Rossano, a causa della chiusura del tribunale della stessa città, di Rossano e di Crotone". Sassari: morte in carcere, controlli sulle telecamere di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 26 ottobre 2014 Detenuto algherese trovato privo di vita in cella il 6 settembre: recuperato dai periti il video registrato. Poco più di tre ore di sopralluogo nel carcere di Bancali per gli accertamenti relativi al sistema di videosorveglianza e per capire il funzionamento del server ministeriale che "memorizza" quello che succede nella nuova struttura carceraria. Un passaggio necessario per eliminare i dubbi che ancora esistono sul giallo della morte in cella di Francesco Saverio Russo, il detenuto algherese di 34 anni che ha perso la vita la sera del 6 settembre. Al momento l’ipotesi prevalente è quella del suicidio, una scelta improvvisa, senza alcun segnale ai familiari (che lo seguivano in continuazione) e ai legali. La famiglia chiede che venga fatta piena chiarezza e - soprattutto su alcuni aspetti - ha chiesto che vengano espletate tutte le verifiche per cancellare ogni possibile dubbio. Così, ieri mattina, in carcere sono entrati il pubblico ministero Cristina Carunchio con i propri consulenti e la polizia giudiziaria, e i periti incaricati dai familiari e dai legali della vittima, gli avvocati Elias Vacca e Paolo Spano. Del team fanno parte anche l’avvocato Federico Delitala, la criminologa e esperta di analisi della scena del crimine Roberta Bruzzone (che era a Sassari nei giorni scorsi) e il genetista forense Andrea Maludrottu. Ieri mattina è stata la volta di Mariano Pitzianti, esperto in sistemi informatici che gestiscono le videocamere di sorveglianza. Il consulente è andato via senza rilasciare dichiarazioni dopo il lungo sopralluogo, ha solo detto "di essere soddisfatto per avere potuto svolgere il lavoro così come previsto". Dalle poche notizie trapelate, pare che sia stato possibile recuperare il video della sera del 6 settembre, quando il detenuto algherese è stato trovato privo di vita nella sua cella. Un elemento fondamentale per valutare i movimenti in entrata e in uscita dalla cella dove si è verificata la tragedia. Ora i consulenti dovranno presentare una relazione dettagliata che servirà a completare - anche sotto il profilo tecnico - le valutazioni su quello che, al momento, viene considerato il primo suicidio avvenuto nel nuovo carcere di Bancali. I familiari, però, non credono a questa ipotesi, e per questo hanno deciso di mettere in campo i migliori esperti disponibili a livello nazionale. Su alcune cose sono già in corso analisi: la presenza di una sbarra posizionata nella cella a un’altezza di due metri. E poi la scelta del luogo (nascosto alla vista) dove Francesco Saverio Russo avrebbe deciso di compiere il gesto estremo. Se doveva essere un atto dimostrativo - questa una delle eventualità prese in esame - perché farlo in un punto nascosto e non in quello ben visibile anche dall’esterno? Le altre verifiche riguardano le vicende degli ultimi giorni e la ricerca della causa che possa avere spinto il detenuto - se venisse confermata la tesi del suicidio - ad assumere una decisione così drammatica. Verona: detenuto evaso dal "lavoro esterno" ritrovato morto nei boschi dell’Alto Adige Ansa, 26 ottobre 2014 È stato trovato cadavere nei boschi dell’Alto Adige un detenuto che non aveva fatto rientro nel carcere di Verona dopo il lavoro all’esterno. Si tratta di Reinhold Purer, 47 anni, di Bressanone, che era sparito da 15 ottobre, dunque era tecnicamente evaso e ricercato. L’ha trovato ieri mattina una contadina nei boschi di Vandoies e sembra che nel buio l’uomo non abbia visto una scarpata e sia scivolato, rompendosi l’osso del collo. Dal penitenziario di Verona sarebbe uscito fra quattro anni, in seguito a una condanna per una serie di furti. Non era però nuovo al carcere, dopo che nel 1967 era stato accusato dell’omicidio di una ex fidanzata, poi derubricato a lesioni aggravate e una decina d’anni fa ebbe una condanna per truffa e ricettazione ai domiciliari. Fuggito, era stato arrestato. Napoli: malati psichici dietro le sbarre; tagliati 140 posti, la città non avrà una struttura di Claudia Procentese Il Mattino, 26 ottobre 2014 Nessuna Rems nell’ex ospedale napoletano Gesù e Maria. Il decreto regionale del 30 settembre scorso firmato da Caldoro ha stabilito che le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, cioè le strutture extra-ospedaliere per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, saranno realizzate a San Nicola Baronia in provincia di Avellino e a Calvi Risorta in provincia di Caserta. Si passa, dunque, dalle 8 Rems campane per un totale di 160 posti letto, inizialmente previste in tutte e cinque le province, a sole 2 con 20 posti ognuna, scalzando il progetto che individuava la sede di una Rems anche nella città partenopea. Il 31 marzo 2015, termine ultimo di scadenza - già prorogato di un anno - per la chiusura degli Opg, è vicino e il timore di un commissariamento fa accelerare i passi verso la dismissione. La Regione riduce il numero posti letti, ritenuto sovrastimato, e approva i progetti finora più avanzati, mentre Napoli ha accumulato ritardi. "Siamo ancora in corsa per la terza Rems - spiega fiduciosa Antonella Guida, direttore sanitario Asl Napoli 1 Centro, abbiamo avuto complicazioni perché il Gesù e Maria è un edificio del 1500, ha vincoli storici e strutturali più impegnativi da osservare rispetto alla semplice ristrutturazione". Intanto è lo stesso decreto a fissare anche le competenze di accoglienza: San Nicola Baronia ospiterà gli utenti provenienti dalle Asl di Avellino, Benevento, Salerno e Napoli 3 Sud, mentre Calvi Risorta quelli di Caserta, Napoli 1 Centro e Napoli 2 nord. "Noi avremo pochi pazienti da collocare nella Rems - sottolinea la dirigente - visto che, su 103-105 ospitati nell’Opg di Secondigliano, più della metà viene dal Lazio che dovrà riprenderseli, ma stiamo comunque lavorando alacremente perché ci teniamo che la Rems venga attivata pure a Napoli". Se da un lato la preoccupazione sta nell’eventuale disagio provocato dal pellegrinaggio a cui sarebbero costretti i familiari dei pazienti, per spostarsi da Napoli in luoghi decentrati di Caserta e Avellino, dall’altro il rammarico riguarda il restyling - per cui era previsto un finanziamento di oltre due milioni di euro - dell’antico complesso architettonico del Gesù e Maria, ubicato nel centro storico e chiuso da alcuni anni per motivi di sicurezza e fatiscenza. "Qui il progetto non è solo di cosmesi esteriore e adeguamento dei locali - precisa Guida, ma anche di restituzione alla città di un bene di alto valore culturale". Tecnici all’opera, perciò, "per poter entrare in una integrazione del decreto, anche perché nel momento in cui la Rems andrà a regime, saremo già operativi, visto che non dobbiamo indire bandi per la selezione di nuovo personale. In più a buon punto è la dismissione dell’Opg di Secondigliano, dove a breve apriremo la sezione psichiatrica con 18 posti letto". Quest’ultima, la cosiddetta "articolazione sanitaria per la tutela della salute mentale negli istituti penitenziari", è parte integrante del sistema post-Opg che, insieme al potenziamento dei Dipartimenti di salute mentale sul territorio, contempla un reparto carcerario di osservazione psichiatrica breve. "Bene - dichiara Dario Stefano Dell’Aquila esperto di Opg e membro dell’Osservatorio nazionale sulle carceri dell’associazione Antigone - il cambio di strategia che riduce il numero delle Rems e che sposta le risorse che derivano da questo risparmio al potenzia-mento dei servizi offerti dal Dipartimento di salute mentale. Mi preoccupano però due cose. Primo, la capienza di queste strutture è alta, 20 persone, sia in termini assoluti che in rapporto al numero di operatori, non vorrei che fosse ulteriormente aumentata nelle 2 Rems che verranno realizzate. Secondo, le articolazioni sanitarie penitenziarie, questi "repartini psichiatrici" che saranno aperti nelle carceri campane e che complessivamente ospiteranno circa 70 detenuti, si configurano come luoghi ambigui, terra di mezzo tra il carcere e il manicomio. C’è il rischio reale che riproducano le stesse dinamiche per le quali oggi cerchiamo con forza di chiudere gli Opg". Tolmezzo (Ud): Assessore regionale al lavoro, Loredana Panariti, ha incontrato i detenuti Ansa, 26 ottobre 2014 L’assessore regionale al Lavoro, Loredana Panariti, ha incontrato venerdì i detenuti del carcere di Tolmezzo. Nel corso della visita l’esponente della giunta ha incontrato il direttore, il magistrato di sorveglianza, il personale del servizio educativo e della polizia penitenziaria. Erano presenti anche il Garante regionale dei detenuti, lo scrittore Pino Roveredo, e il sindaco di Tolmezzo, Francesco Brollo. L’assessore Panariti ha potuto conoscere alcuni reclusi che partecipano ai corsi di formazione professionale promossi e finanziati dalla Regione con il Fondo sociale europeo, in attuazione dell’accordo con il ministero di Giustizia finalizzato a promuovere interventi per l’inclusione sociale e lavorativa dei carcerati. "Questa formazione - ha aggiunto l’assessore - è prevalentemente finalizzata al lavoro all’interno del carcere ma è immediatamente spendibile qualora si creino le condizioni per le misure alternative o per attività lavorative esterne". Bologna: Sappe; direttore dell’Ipm conferma dati diffusi; in due anni 198 "segnalazioni" Ansa, 26 ottobre 2014 "Abbiamo sentito questa mattina il direttore del carcere minorile del Pratello e ci ha confermato i dati che avevamo diffuso giovedì mattina. Anzi, per quanto riguarda l’attività di polizia giudiziaria, nel corso degli ultimi due anni le segnalazioni, a vario titolo, sono state ben 198: 130 nel corso del 2013 e 68 nel corso del 2014". Lo riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto, e Francesco Campobasso, segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). "80 sono stati i consigli di disciplina che comprendono anche quelli relativi a ricompense concesse ai detenuti - aggiungono, anche se, come lo stesso direttore ci ha confermato, quelli per questioni disciplinari sono superiori a quelli relativi alle ricompense. Quindi, nessun ridimensionamento, come qualcuno ha cercato di far capire, in maniera del tutto fuorviante, ma una secca conferma. Ciò che emerge è che rispetto al 2013 l’attività di polizia giudiziaria si è più che dimezzata, a testimonianza del fatto che il rispetto delle regole è un elemento fortemente educativo: coloro che vengono educati al rispetto delle regole, tendono poi a rispettarle, soprattutto se si tratta di minori". "Il 12 novembre, alle 9.30, insieme al segretario generale del sindacato, Donato Capece - annunciano - visiteremo il carcere minorile del Pratello, subito dopo terremo il consiglio regionale del Sappe nei locali del carcere della Dozza". Milano: nuovi progetti studio-lavoro per minori dell’Ipm Beccaria, coinvolti 200 detenuti Ansa, 26 ottobre 2014 Il Comune di Milano ha siglato un nuovo accordo con il Centro per la Giustizia Minorile per dar vita a nuovi interventi educativi e progetti rivolti ai 200 ragazzi sottoposti a procedimento penale all’Istituto minorile Beccaria e che, dall’inizio dell’anno, hanno partecipato alle attività alternative alla detenzione. Attività, si legge in comunicato, "organizzate dal Servizio Educativo Adolescenti in Difficoltà del Comune di Milano all’interno dell’Istituto per favorire il loro reinserimento a scuola e nel mondo del lavoro". "Il delicato lavoro quotidiano dei nostri educatori permette ai giovani che hanno commesso degli errori di riprendere il loro percorso di vita e di rientrare a far parte della società con una nuova consapevolezza e senso della responsabilità", ha detto Francesco Cappelli, assessore comunale milanese all’Educazione e Istruzione. L’accordo firmato, spiega ancora il comunicato, "con il Centro per la Giustizia Minorile prevede, infatti, che i ragazzi dell’Istituto Beccaria svolgano attività che favoriscano il loro futuro reinserimento nel tessuto sociale e nel mondo del lavoro". Sei educatori presenti all’Istituto penale li supportano nelle attività quotidiane: alcuni giovani, ad esempio, hanno partecipato quest’anno ai laboratori di falegnameria durante i quali hanno riparato alcuni arredi destinati a nidi e alle scuole dell’infanzia comunali. Trieste: la città vista dal carcere, cent’anni di memoria di Claudia Salmini (Direttrice dell’Archivio di Stato di Trieste) Il Piccolo, 26 ottobre 2014 A un secolo dalla fondazione dell’istituto penale di via Coroneo documenti e fotografie trasferiti all’Archivio di Stato. Trieste vista dalle finestre del Coroneo: così si intitola, con una prospettiva rovesciata, il convegno voluto e promosso dalla Direzione della Casa Circondariale di Trieste, nella sua stessa sede, e su iniziativa di Anna Buonomo e Annamaria Peragine, per ricordare i cento anni dell’esistenza di questa istituzione, insieme all’Università degli studi e all’Archivio di Stato di Trieste di via La Marmora, dove è stato da poco trasferito l’archivio del Coroneo. Proprio su queste carte vale la pena di soffermarsi: perché sono il presupposto degli studi e delle ricerche condotte dagli storici. Si tratta di una fonte particolarmente importante perché relativa ad anni cruciali per la storia, non solo triestina, del secolo scorso: il ventennio fascista, gli anni delle leggi razziali, della seconda guerra mondiale, delle deportazioni in massa degli ebrei di passaggio a Trieste, della Risiera, della questione triestina e del Governo Militare Alleato. Eventi storici e vicende individuali si intrecciano strettamente, così come si alternano le carcerazioni come conseguenza di reati comuni con quelle di carattere politico o razziale. Si tratta di 352 tra registri e rubriche, suddivisi tra le tre sedi di provenienza: ai Gesuiti, in via Tigor e al Coroneo. Sono in prevalenza matricole dei detenuti (e delle detenute), che riportano i dati essenziali dei singoli carcerati: dati anagrafici, connotati salienti, motivo della detenzione, mestiere: postino, calderaio, cameriera, carpentiere in ferro, fabbro, macellaio, commerciante… Si scopre la differente condizione di ciascun carcerato: chi è fermato soltanto, chi è in attesa di giudizio, chi è condannato a pene lievi, chi ha riportato, nella colonna dedicata al tempo di detenzione prescritto, il termine della pena. Si è pensato proprio a queste fonti per coinvolgere gli studenti della Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica, per insegnare con un caso concreto come impostare un lavoro. di ordinamento e descrizione archivistica. Non c’è niente di meglio, per rendere interessante lo studio, che provare a metterne in pratica i contenuti. Questi registri erano appena arrivati, descritti solo sommariamente e andavano superati da uno studio storico specifico, e da una schedatura dettagliata. L’esperimento didattico è riuscito: grazie anche all’emozione di toccare con mano pagine di storia, casi di persone che sono vissute e hanno sofferto punizioni o persecuzioni; nel leggere i loro nomi, e nel vedere apparire i primi casi di impronte digitali, si è catturato immediatamente l’interesse degli studenti. Molte le domande, cui talvolta era difficile dare risposta, perché non esistevano ancora studi specifici - libri, articoli, saggi - sulla storia delle carceri a Trieste. Bisognava procedere e indagare in prima persona. Il fondo è stato trasferito parzialmente, procedendo per gradi a partire dalle serie più facilmente riconoscibili (i registri), rinviando a un secondo tempo il lavoro più lungo e complesso sui fascicoli dei detenuti e sulle altre serie, che rimangono presso la Casa Circondariale. È stato un lavoro di squadra. I registri sono stati individuati e sommariamente elencati da Francesca Falco dell’amministrazione carceraria, con il coordinamento dalla Direzione dell’Archivio di Stato, ma più nel dettaglio da Chiara Artico, giovane e competente funzionaria archivista. Il trasporto dei registri e delle rubriche è avvenuto con i mezzi dell’amministrazione carceraria, e con l’apporto dei detenuti ammessi al lavoro esterno. Ci si è mossi così in due direzioni. Da un lato, la ricerca delle fonti per ricostruire la storia istituzionale della struttura carceraria che aveva prodotto i documenti, e dall’altro l’analisi approfondita dei singoli registri e la loro schedatura, fino alla redazione dell’inventario, che comprende una parte introduttiva nella quale si ricostruisce la storia delle tre carceri triestine. L’inventario, che non può dirsi ancora concluso, pure è stato fin dall’inizio messo a disposizione degli studiosi, in primo luogo quelli coinvolti nel seminario. Una prima tirocinante, Alice Morgan, si è dedicata alla ricerca soprattutto per la sede di via Tigor, sede attuale della Biblioteca civica (si intravedono nella struttura attuale i numeri delle stanze e delle celle). Le è poi subentrata una seconda stagista, Valentina Stanisci, che ha proseguito con grande disponibilità e cura il lavoro, con l’aiuto di Chiara Artico e mio, portando a termine quanto era stato solo impostato con gli altri studenti. L’inventario prodotto è, che io sappia, l’unica fonte fino ad ora disponibile per orientare lo studioso sul tema delle carceri triestine. Se confrontiamo - solo per la quantità delle fonti del Novecento - la documentazione triestina con quella conservata negli altri Archivi di Stato italiani, Trieste si attesta ai primi posti, e segue Torino ("Le Nuove"), insieme a Firenze, Milano, Perugia e Mantova. Un interrogativo da approfondire è sulle fonti carcerarie triestine ottocentesche, che restano da indagare e, se sarà possibile, rintracciare. È intenzione della Direzione della Casa circondariale, con l’Università di Trieste e l’Archivio di Stato, organizzare in una sede più ampia un incontro aperto alla città, che accolga studenti, insegnanti e persone interessate a condividere l’importante capitolo di questi cento anni di vita carceraria del Coroneo. Alba (Cn): presentato il libro fotografico su "Valelapena", il vino prodotto dai detenuti www.targatocn.it, 26 ottobre 2014 Alla presentazione del libro era presente il vice ministro alla Giustizia Enrico Costa, oltre ai dirigenti e agli educatori del carcere e agli enti coinvolti nel progetto. È stato presentato oggi presso la Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba il libro fotografico "Valelapena. Storie di riscatto dal carcere di Alba" a cura del fotografo Armando Rotoletti e del giornalista Luigi Dell’Olio. Il libro racconta l’esperienza di Valelapena, vino prodotto dai detenuti ospitati dalla struttura albese con il contributo di Syngenta, che ha promosso anche la pubblicazione. L’idea nasce nell’autunno del 2009. Giovanni Bertello, che da alcuni anni lavora come insegnante e tecnico agronomo nel carcere di Alba, chiede all’amico e manager di Syngenta Paolo Lambertini di aiutarlo a mettere a punto un progetto di produzione di vino con le uve coltivate all’interno del carcere. Ne parlano con il direttore del carcere Giuseppina Piscioneri e gli educatori, così, poche settimane dopo, sono pronti il piano didattico e la convenzione con Syngenta, che si impegna a fornire supporto economico, sementi, prodotti per l’agricoltura e know-how per le lezioni. Il progetto coinvolge 15 detenuti all’anno che all’interno del carcere seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano la vite: nebbiolo nera, barbera nera, dolcetto e cortese. Alla vinificazione ci pensa l’Istituto Enologico di Alba per una produzione di 1.400 bottiglie all’anno di un rosso rubino dal sapore morbido. Oltre la finalità produttiva e commerciale, il progetto ha come obiettivo principale il recupero sociale dei detenuti che, attraverso la qualifica e l’attività svolta, hanno la possibilità di sviluppare le competenze e l’esperienza necessarie per essere impiegati nel settore viticolo della zona una volta ultimata la pena. Gli altri enti coinvolti sono l’istituto enologico Umberto 1° di Alba, che svolge il processo di vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura; la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, che assicura la formazione professionale regionale per Operatori agricoli e il Gruppo Operativo locale composto da Amministrazione Penitenziaria, Enti locali, Servizi Sociali e Sanitari, coordinato dai Comuni di Alba e Bra. Alla presentazione del libro era presente il vice ministro alla Giustizia Enrico Costa, oltre ai dirigenti e agli educatori del carcere e agli enti coinvolti nel progetto. "Si tratta di un’iniziativa importante, perché ci consente di tenere alta l’attenzione su un principio guida che deve sempre orientare l’operato di chi si occupa di Giustizia: il lavoro all’interno del carcere consente un reinserimento sociale più agevole e, di conseguenza, un tasso di recidiva molto inferiore", ha dichiarato Enrico Costa, Vice Ministro alla Giustizia. "Ispirati da questa esperienza, dovremo fare ancora molti passi avanti in tema di lavoro dei detenuti a livello organizzativo, strutturale e normativo. Solo così il carcere diventerà davvero il luogo dove si ricostruisce la capacità della persona di relazionarsi con gli altri. Solo così la rieducazione del detenuto rappresenterà veramente il motore che alimenta la macchina del nostro sistema penitenziario". "La validità di questo progetto sta nell’offrire una professionalità in campo agricolo spendibile anche al termine della carcerazione. Fondamentale è stato il sostegno di Syngenta. Questa collaborazione, probabilmente unica nel panorama carcerario italiano, ha permesso di superare momenti di difficoltà burocratiche e finanziarie che avrebbero compromesso la continuità del progetto". ha aggiunto Giuseppina Piscioneri, Direttrice della Casa di Reclusione Giuseppe Montalto di Alba. "Un altro soggetto essenziale nella produzione del nostro vino rosso Valelapena è l’agenzia formativa Casa di Carità Arti e Mestieri di Fossano, che ogni anno garantisce la formazione per ottenere la qualifica professionale di operatore agricolo a circa 15 detenuti. Quest’anno si è creata, inoltre, una sinergia con il Centro Territoriale per l’istruzione in età adulta che ha consentito ad alcuni corsisti di acquisire contestualmente la Licenza Media. Un merito particolare va anche all’Istituto enologico senza il quale le nostre uve non avrebbero trovato la giusta collocazione tra le bottiglie "albeise". Infine, un riconoscimento va al gruppo di educatori e ai tecnici agrari che in questi anni hanno profuso tutto l’impegno possibile per sostenere e ampliare le azioni del progetto. L’insieme delle forze ha consentito di far conoscere Valelapena ad un vasto pubblico ben oltre i confini di Alba a testimonianza del fatto che anche il tempo trascorso in carcere può portare qualcosa di positivo per tutti". "Protagonista silenzioso di questo grande progetto è la Polizia Penitenziaria che ogni giorno incessantemente, con orgoglio e con grande senso di responsabilità, garantendo la Sicurezza, permette che tutto ciò possa realizzarsi", ci ha tenuto a precisare Alessandro Catacchio, Comandante della Polizia Penitenziaria. "Infatti, non si può concepire alcuna attività trattamentale se non garantendo la Sicurezza intesa non come passiva sorveglianza dei detenuti, o assoluto controllo degli stessi, ma come "conoscenza" di questi cercando di prevenire qualsivoglia atto turbativo dell’ordine e della sicurezza. Ed è in una situazione di emergenza, in cui ai pochi uomini a disposizione si sommano le carenze finanziarie e strutturali, che la Polizia Penitenziaria si fa forza andando oltre gli ostacoli e riscoprendo un nuovo modello di sorveglianza cosiddetta "dinamica" in cui gli operatori sono chiamati a riscoprire il senso dell’osservazione, della conoscenza del detenuto finalizzata, non solo a tutelare la Sicurezza, ma anche a fornire all’equipe di osservazione tutti gli elementi utili per una più giusta valutazione del soggetto". "Come Syngenta lavoriamo da sempre per promuovere un modello di Agricoltura Responsabile, che integra agricoltura produttiva, rispetto dell’ambiente e attenzione alle esigenze delle persone e delle comunità nelle quali operiamo. A livello mondiale abbiamo lanciato un ambizioso piano, The Good Growth Plan, che consiste in una serie di impegni concreti per il futuro dell’agricoltura con i quali vogliamo raggiungere precisi obiettivi per contribuire alla sicurezza alimentare, alla salvaguardia dell’ambiente e alla formazione in campo agricolo. Crediamo nel ruolo fondamentale dell’agricoltura per la nostra economia e per il nostro tessuto sociale, e l’educazione è uno dei pilasti del nostro piano, come elemento chiave per cambiare radicalmente le cose. Da questo comune impegno nostro e dei nostri partner, partendo dalle amicizie e dalle idee innovative e coraggiose da esse nate, abbiamo cominciato a sostenere Valelapena, abbiamo abbracciato questo progetto con entusiasmo e continuiamo a farlo. Siamo orgogliosi di far parte di una squadra così motivata e affiatata", ha concluso Cristina Marchetti, Responsabile Regulatory e Corporate Affairs Syngenta Italia. Il vino Valelapena può essere acquistato direttamente dal Carcere al prezzo di € 5 a bottiglia più i costi di spedizione scrivendo una mail a cc.alba@giustizia.it. Il libro "Valelapena, storie di Riscatto dal carcere di Alba" sarà disponibile su richiesta, fino ad esaurimento scorte, inviando un’email a rosa.granitto@syngenta.com. Syngenta è una delle principali aziende dell’agro-industria mondiale. Il gruppo impiega più di 28.000 persone in oltre 90 paesi che operano con un unico proposito: Bringing plant potential to life (Sviluppare il potenziale delle piante al servizio della vita). Attraverso la nostra eccellente competenza scientifica, la nostra presenza su scala mondiale e l’impegno nei confronti dei nostri clienti, aiutiamo ad accrescere la produttività delle colture, a proteggere l’ambiente e a migliorare la salute e la qualità della vita. Per maggiori informazioni su Syngenta potete consultare i siti web www.syngenta.com e www.syngenta.it. Bologna: "Concordanze", la musica classica entra in carcere e negli istituti psichiatrici di Dino Collazzo Redattore Sociale, 26 ottobre 2014 L’associazione Concordanze apre la stagione autunnale portando in scena la musica classica e d’intrattenimento dell’Est Europa. Tre appuntamenti gratuiti a Bologna da ottobre a dicembre e tanti spettacoli nelle carceri e negli istituti psichiatrici regionali. Si parte il 26 ottobre. Il vento dell’Est soffia a ritmo di valzer e musica d’intrattenimento. Quattro anni e 80 concerti sulle spalle non hanno di certo spento la voglia dei musicisti dell’associazione Concordanze, che si preparano alla prossima impresa. Chiudere un lustro con la quinta serie di concerti tutti sulle note di compositori dell’Est Europa. Boemia, Moravia, Ungheria e un’incursione in Russia, avendo come limite massimo verso ovest la città di Vienna. Tre gli incontri musicali completamente gratuiti e rivolti a tutti. Si parte domenica 26 ottobre nella Sala Silentium di vicolo Bolognetti per proseguire il 30 novembre e il 14 dicembre. Ad aprire il primo concerto, domenica mattina, le note di Ludwig van Beethoven e Joseph Lanner. A riprodurre gli spartiti dei diversi compositori, i musicisti dell’orchestra del Teatro Comunale e i tanti giovani artisti di Bologna. Ma l’impegno dell’associazione non è solo quello di far conoscere e appassionare le persone alla musica classica, ma anche di portare la cultura a chi non può muoversi o perché in carcere o perché non ha la possibilità di poter assistere a un concerto. Ecco allora l’idea di girare carceri e istituti psichiatrici dell’Emilia-Romagna. "Come sempre cerchiamo di portare la musica classica nelle sue forme più alte in luoghi in cui altrimenti l’arte e la cultura non potrebbero mai arrivare - racconta Mattia Cipolli dell’associazione Concordanze - e anche quest’anno gireremo tra istituti psichiatrici e carceri". Da quello di Bologna a quelli di Ferrara, Ravenna e Reggio Emilia, fino alla comunità psichiatrica "Laura" di Faenza e "Sadurano Salus". Una stagione ricca di appuntamenti in cui si alterneranno 2 diversi generi musicali. Dalla musica classica alla musica da intrattenimento. "Non verranno eseguiti solo spartiti di musica classica - continua Cipolli - ma un altro protagonista sarà un genere a volte trascurato della musica occidentale: il genere dell’intrattenimento, spesso intimamente legato alla musica popolare". Le prime note, di questo genere, hanno cominciato a risuonare agli inizi di giugno con "Un’orchestra da quattro soldi" incentrato sulla musica viennese da ballo. Proseguendo sullo stesso sparito si è arrivati a mettere in scena il settimino di Beethoven, la sua maggiore opera di musica da consumo, assieme a opere del padre del valzer viennese: Joseph Lanner. Così domenica a inondare di note e scale musicali la sala del vicolo Bolognetti ci penserà "Un settimino da quattro soldi". La musica popolare sarà al centro del concerto per ensemble di fiati di novembre e a chiudere la stagione ci penserà il tango e il ragtime dei "Cinque pezzi" di Erwin Schulhoff. Napoli: dal senato al carcere di Nisida, l’Italia ricorda Eduardo De Filippo Adnkronos, 26 ottobre 2014 Nel trentennale della morte commemorazioni e omaggi per il drammaturgo, attore e regista napoletano scomparso il 31 ottobre 1984. Il 31 ottobre del 1984 moriva Eduardo De Filippo. Una ricorrenza che l’Italia, e la "sua" Napoli in particolare, commemora con numerose iniziative. Nella data della scomparsa Eduardo, che fu anche senatore, sarà ricordato appunto in Senato. Una sede istituzionale cui si affiancherà nello stesso giorno un’altra sede istituzionale di tutt’altro genere, il carcere minorile di Nisida, i cui giovani metteranno in scena un testo di De Filippo. Due luoghi lontani fra loro come lontani furono gli inizi e gli anni del successo del commediografo, attore e regista napoletano, uniti da una costante attenzione per gli ultimi. La commemorazione in Senato sarà trasmessa in diretta, dalle 11, su Rai5, vi parteciperanno, fra gli altri, il figlio Luca, Lina Sastri e Nicola Piovani. Fra gli altri appuntamenti in tv, un media ampiamente usato da Eduardo che aveva invece un rapporto conflittuale con il cinema, spicca il 2 novembre, in diretta dal Teatro San Ferdinando di Napoli, la messa in scena di "Le voci di dentro", firmato e interpretato da Toni Servillo, con la regia televisiva di Paolo Sorrentino, che la sala partenopea programma dal 29 ottobre al 9 novembre. De Filippo secondo Servillo e Sorrentino anche l’1 novembre su Rai5 con la riproposizione di un allestimento di "Sabato, domenica e lunedì" datato 2004. Numerosi gli altri titoli eduardiani programmati in questi giorni sulle reti Rai. Anche il San Carlo di Napoli offre spazio al ricordo di Eduardo con, il 29 ottobre, lo spettacolo di danza "Sik Sik l’artefice magico", dal testo di Eduardo, con la coreografia di Francesco Nappa. La sala napoletana del Cilea propone "24 maggio 1900" (data di nascita di Eduardo de Filippo), omaggio allestito dalla compagnia di Gigi Savoia che nella stessa sala proporrà il 6 novembre "Ditegli sempre di si". La riflessione su Eduardo fuori dai palcoscenici si concretizza in due convegni, sempre a Napoli: domani pomeriggio al Maschio Angioino si affronterà il tema "Eduardo critico del populismo"; il 31 ottobre giornata di studi al Suor Orsola Benincasa sul tema "L’antropologia di Eduardo". Ascoli: detenuto al 41-bis in carcere ad potrà avere riviste porno in cella di Eduardo Parente Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2014 Il Giudice di Sorveglianza di Macerata ha accolto un ricorso, stabilendo che un recluso, sebbene sia sottoposto al carcere duro, ha il diritto di preservare la propria integrità psico-fisica. Giornali a luci rosse ai detenuti sottoposti al regime del carcere duro. Sono circa una quarantina i reclusi al 41 bis del carcere di Ascoli Piceno e uno di essi, esponente di spicco della camorra campana, ha vinto la sua battaglia personale: quella di ricevere in carcere riviste per adulti. Dieci giorni fa l’udienza, e nelle ultime ore è arrivato il responso del giudice di sorveglianza di Macerata, Marta D’Eramo, che ha accolto il ricorso del detenuto, stabilendo che un recluso, sebbene sia sottoposto al carcere duro, ha il diritto di preservare la propria integrità psico-fisica. E così, a margine del provvedimento del magistrato, ora, le riviste hot - che comunque non sono presenti nell’elenco delle riviste acquistabili dal carcere attraverso la ditta convenzionata e spedite in maniera del tutto anonima - potranno essere inviate dai familiari dei detenuti. Ma una volta arrivate ai cancelli d’ingresso del penitenziario dovranno comunque essere sottoposte al cosiddetto visto di controllo, per scongiurare il pericolo di dare modo ai detenuti di mettersi in contatto con il mondo esterno attraverso messaggi cifrati o di altra natura. Un diritto precedentemente negato perché le riviste in questione, il più delle volte, contengono numeri di telefono che accompagnano inserzioni personali. Il ricorso del camorrista detenuto al 41 bis del carcere ascolano, ha fatto da apripista ad altri detenuti, difesi dall’avvocato ascolano, Mauro Gionni. Le istanze sono state accettate, ma l’inserimento di riviste per adulti alla lista di quelle già consentite non era l’unica richiesta dei 41 bis del penitenziario ascolano, un supercarcere che, negli anni, ha ospitato il gotha delle mafie ed esponenti di spicco dell’Italia criminale: a partire da Ali Agca, Renato Vallanzasca, fino a Raffaele Cutolo, Totò Riina e tanti altri. Tra i ricorsi di altri detenuti in regime di carcere duro, tra cui quello di un detenuto per reati di mafia, e accolti dal magistrato di sorveglianza, anche quello di poter avere contatti fisici con i figli minorenni e far loro dei regali in occasione di compleanni o altri eventi. Blindatissima, però, la procedura per l’acquisto, prima, ed il transito, dopo, del dono di modico valore attraverso i corridoi del penitenziario, fino a destinazione: ad ordinarlo allo "spesino" del carcere sarà lo stesso detenuto e una volta arrivato ai cancelli il regalo verrà accuratamente controllato dagli agenti e stoccato in magazzino fino al giorno del colloquio con i parenti. "Si tratta di colloqui registrati e video sorvegliati - spiega il penalista ascolano, Mauro Gionni, già difensore del boss di Cosa Nostra, Pippo Calò: sono piccole concessioni, ma è comunque una conquista. Il giudice D’Eramo, molto attenta a queste problematiche, senza minare in alcun modo le esigenze di sicurezza, ha anche disposto che i detenuti possano avere disponibilità più ampie di colloqui qualora, nel giorno stabilito, un familiare fosse indisposto per problemi, ad esempio, di salute". Cinema: "Meno male è lunedì"... il lavoro è dignità di Francesca Ceccarelli Il Giornale d’Italia, 26 ottobre 2014 Il film documentario di Filippo Vendemmiati girato all’interno del carcere di Bologna. "Labor omnia vincit", "la fatica vince ogni cosa", anche l’alienazione della detenzione in carcere. Il film documentario di Filippo Vendemmiati è un pugno allo stomaco per il Festival di Roma: via gli sfarzi o la leggerezza, irrompe sul grande schermo la vita vera. La storia è quella di un gruppo di operai in pensione che riprende il lavoro per insegnare il mestiere a 13 detenuti nell’officina-azienda nata nel carcere di Bologna. "Meno male è lunedì" non è solo un titolo ma il pensiero dominante dell’intero film che regala più di una chiave di lettura, più di un punto di vista. "Meno male è lunedì" pensano i detenuti che attendono con ansia l’inizio della settimana per poter andare in officina e liberarsi dai tormenti e dall’apatia che comporta la vita in cella; "Meno male è lunedì" pensano gli ex operai che tornando tra i loro amici di una vita, le macchine, riscoprono il piacere di sentirsi ancora utili e un’umanità inaspettata; "Meno male è lunedì" può pensare chiunque degli spettatori che magari si trova in difficoltà e nel rischio di perdere il posto di lavoro. La scansione temporale del film, dal lunedì appunto al weekend, accompagna lo spettatore a vivere in prima persona "la settimana tipo" di un detenuto: fatta di piccole grandi cose. Lavorare e guadagnarsi da vivere, ottenere il periodo di "ferie" da poter passare con i loro cari, realizzare di essere ancora utili per la società e di avere un futuro al di fuori delle mura del carcere. All’abbrutimento di una vita che si svolge tra quattro ristrette mura, dietro le sbarre il film mostra una nuova speranza di rivincita e riscatto. Afferma il regista Filippo Vendemmiati: " Il carcere è un luogo senza tempo. I giorni non passano e non hanno nome. I gesti e le parole evadono per costruire un mestiere e relazioni umane. Né detenuti né uomini liberi: solo colleghi, operai che s’incontrano e lavorano accanto, scambiandosi conoscenze, saperi, storie - di viti e di vite". Un progetto di recupero che diventa un documentario da non perdere, scandito dalla musica originale dei Tete de Bois. Il messaggio viene affidato ai protagonisti stessi, ex operai e detenuti, e al suono degli strumenti da lavoro. Nell’officina tutti sono uguali, tutti sono diversi: ci si incontra, ci si racconta, si litiga, si scherza, accomunati sempre dall’amore e la passione per quello che si sta facendo. "Il lavoro è una cosa meravigliosa" afferma uno dei tutor: rende indipendenti sia economicamente ma soprattutto come persona. Acquisire delle competenze aiuta a trovare il proprio posto nel mondo, a essere unici seppur non insostituibili. Tutti hanno diritto a una seconda possibilità, la società non può restare muta e cieca di fronte al grido di aiuto che arriva non solo dalle carceri italiane ma dalle migliaia di lavoratori a cui viene sottratto non solo il posto di lavoro ma soprattutto la dignità. Iran: impiccagione Reyhaneh, la condanna di Amnesty Aki, 26 ottobre 2014 L’impiccagione della giovane iraniana Reyhaneh Jabbari, avvenuta a mezzanotte nel carcere di Rajaie Shahr fuori Teheran, rappresenta "un’altra macchia sanguinosa" sullo stato dei diritti umani in Iran. Lo denuncia Amnesty International, che insieme ad altre organizzazioni internazionali aveva lanciato una campagna per salvare la vita alla 26enne, condannata a morte per aver ucciso l’uomo che voleva stuprarla. La donna, che aveva trascorso 7 anni in carcere, poteva essere salvata solo dal perdono della famiglia della vittima. "Questa è un’altra macchia sanguinosa sullo stato dei diritti umani in Iran", ha detto il vice direttore di Amnesty per il Medioriente e il Nord Africa Hassiba Hadj Sahraoui. "Ancora una volta l’Iran ha insistito nell’applicare la pena di morte nonostante i dubbi sull’equità del processo", ha aggiunto. Reyhaneh è stata condannata a morte nel 2009 dopo quella che Amnesty ha denunciato una "indagine profondamente difettosa". La donna ammise di aver colpito l’ex funzionario del ministero dell’Intelligence Morteza Abdolali Sarbandi, ma precisando che si trattava di autodifesa e che a ucciderlo sarebbe stata un’altra persona, non imputata. "Se fosse stato provato", ha detto Amnesty, questo avrebbe potuto salvare la vita a Reyhaneh, ma "l’indagine non è stata condotta correttamente, lasciando molti interrogativi sull’omicidio". Amnesty aggiunge che la magistratura ha fatto "pressioni" sull’imputata, costringendola a "cambiare il suo avvocato, Mohammad Ali Jedari Foroughi, per uno meno esperto nel tentativo di evitare ulteriori indagini sulle sue affermazioni". Ong: con Rohani oltre mille esecuzioni La comunità internazionale deve mettere i diritti umani sul tavolo di ogni negoziato con l’Iran, a partire da quello sul nucleare che si dovrebbe concludere il mese prossimo. Ne è convinto Mahmoud Amiry Moghaddam, cofondatore e portavoce dell’ong Iran Human Rights, che parla nel giorno dell’impiccagione di Reyhaneh. Solo poche ore prima, da Oslo dove lavora come neuro-scienziato di fama, aveva lanciato l’allarme sull’ormai prossima esecuzione, contro la quale si era battuta anche la sua organizzazione. "La mobilitazione internazionale è servita a farla soltanto rinviare", dice, pensando a tutti coloro per i quali lo stesso dramma si compie senza che nessuno ne sappia niente, e alle migliaia detenuti, sottolinea, che in Iran attendono lo stesso destino. Da quando Rohani è stato rieletto presidente nel giugno 2013, sottolinea, "ci sono state più di mille esecuzioni, circa due al giorno, con una media annuale che supera quella degli ultimi 20 anni". Il riformismo del suo governo condizionato dalla magistratura conservatrice e dalla opposizione interna alle sue aperture? Certo, il ministro della Giustizia non decide sulla pena di morte su cui è competente solo la magistratura, risponde, "ma di fronte a tutte queste esecuzioni non è giunta alcuna critica da pare di Rohani e del suo governo", osserva. E sottolinea che nonostante le dichiarazioni ufficiali del presidente sulla libertà di espressione nel suo Paese, "vi sono arresti di giornalisti, blogger e persone che si esprimono su Facebook". Quanto a Reyhaneh, la vicenda che diede luogo alla sua condanna "non è affatto chiara", osserva ancora Amiry Moghaddam, anche se è certo che "la sua prima confessione è stata resa in assenza di un avvocato", e che "non vi è stato un giusto processo". Inoltre evidenzia ancora l’attivista per i diritti umani, "tutta la responsabilità dell’esecuzione è stata fatta ricadere sulla famiglia della vittima che doveva concedere il perdono, nonostante questa avesse già subito il peso della perdita di una persona cara". Argentina: il 70% dei detenuti in carcerazione preventiva www.agensir.it, 26 ottobre 2014 Dopo le parole di Papa Francesco sulla pena di morte e sulla carcerazione preventiva, il segretario di Giustizia della nazione, Julian Alvarez, ha riconosciuto nel corso di un’intervista televisiva che "attualmente in Argentina i detenuti in carcere sono 60mila di cui il 70% è sotto il regime di carcerazione preventiva". "I processi sono così lunghi che si decide la carcerazione preventiva", ha spiegato il funzionario. Secondo quanto affermato da Alvarez, con le modifiche al codice di procedura penale, annunciate dalla presidente Cristina Kirchner questa settimana, "questa percentuale s’invertirà". "Oggi i processi durano da quattro a dieci anni. Con il nuovo codice un anno al massimo. Dopo l’anno, il giudice rischierà di essere sanzionato dal Consiglio dei magistrati per non avere portato avanti la causa", ha detto il funzionario. Per quanto riguarda le critiche che il progetto dell’Esecutivo ha ricevuto dai media e dall’opposizione, Alvarez ha affermato: "Dicono che facciamo questa riforma per garantire impunità, ma la critica non resiste a un minimo analisi. Dicono anche che siamo razzisti perché si prevede l’espulsione degli stranieri coinvolti in delitti gravi, ma questo è un Paese d’immigranti e la norma non ha niente a che vedere con il razzismo". Stati Uniti: dal carcere dei Blues Brothers per imparare la ricetta italiana di Salvatore Giannella Corriere della Sera, 26 ottobre 2014 Lo chef Bruno Abate, sponsor dell’esperimento di recupero nel carcere di Chicago, con uno dei panettoni dell’Officina Giotto di Padova, lo stesso dolce destinato in Vaticano. Il portone del carcere di massima sicurezza "Due Palazzi" di Padova si è aperto martedì 21 ottobre per far entrare un personaggio venuto dalla lontana America per una sana curiosità, non per questioni penali. Voleva approfondire, l’ospite americano, i segreti dei pasticceri detenuti, uniti nell’Officina Giotto, cooperativa del carcere che si è aggiudicato il riconoscimento di migliore pasticceria italiana assegnato dal gastronauta Davide Paolini dopo aver esaminato 200 case di goloserie in tutt’Italia. Un’ulteriore medaglia sul petto di questa squadra che ha i clienti più affezionati in Vaticano: ogni Natale Joseph Ratzinger ordinava 232 panettoni, Papa Francesco ha confermato la stessa quantità l’anno scorso e si aspetta l’ordinazione anche per il 2014. L’americano si chiama Bruno Abate, è un chef originario di Napoli, ha 59 anni, a Chicago gestisce due ristoranti "Tocco". Tra i suoi clienti annovera Clint Eastwood (con il quale gioca abitualmente a golf), Mariah Carey, Johnny Deep e, quando arriva per lavoro dalla più familiare Ravenna, Riccardo Muti. Abate è sponsor di un esperimento nel carcere della Contea di Cook, uno dei più famosi al mondo almeno per meriti cinematografici: è lo stesso reso celebre dalle scene girate da Dan Aykroyd e John Belushi nel film "I Blues Brothers". Lì vogliono raggiungere un obiettivo già sperimentato con successo a Padova: recuperare i detenuti a una vita normale attraverso i corsi di cucina, e con un’educazione al gusto italiano. "Vengo a Padova per trovare ispirazione ed energia, perché nella mia azione a Chicago mi ispiro al mondo della cooperazione sociale italiana e, in particolare, all’Officina Giotto", ha spiegato Abate, vestito con la casacca dei pasticceri, alla trentina di detenuti e di operatori durante un pranzo in comune. E ha poi raccontato del surreale mondo carcerario degli Stati Uniti, dove sono recluse 3 milioni di persone (oltre mezzo milione sono minorenni): sarebbe come se in Italia, anziché 54 mila attuali, avessimo 600 mila detenuti. "Questo segnale di attenzione d’oltreatlantico è una bella soddisfazione per il nostro gruppo di lavoro nato nel 2005", mi spiega il presidente dell’Officina Giotto Nicola Boscoletto, laurea in scienze forestali, che sintetizza la storia del virtuoso consorzio. "I detenuti impastano e sfornano panettoni, colombe, dolci e altri prodotti artigianali di qualità, distribuiti in 165 negozi in Italia, vendite on line e all’estero". Boscoletto ricambierà la visita di Abate portando il "modello Giotto" martedì 28 ottobre nel carcere di Chicago, in occasione del 60mo compleanno dello chef Abate: lì per 20 detenuti, grazie all’OK del vicesindaco Steve Koch e dello sceriffo Tom Dart, è partito il progetto "Recipe for change" (Ricetta per cambiare) in una grande cucina con i muri che riproducono gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, omaggio affettuoso ai "maestri" di Padova. "Anche in questo caso, come i Blues Brothers, stiamo facendo una missione per conto di Dio", scherza Boscoletto. La pasticceria è solo una delle varie attività attraverso cui Officina Giotto avvia al lavoro i detenuti. All’interno del carcere padovano sono attivi anche gli assemblaggi per la valigeria Roncato, il laboratorio di montaggio biciclette per Esperia, il call center per conto del provider energetico Illumia e per la prenotazione delle visite mediche specialistiche e l’assemblaggio di penne usb per le firme digitali destinate alle Camere di Commercio di tutta la penisola. Con quale bilancio? Il presidente tira le somme. "A fronte di una media nazionale ufficiale che sfiora il 90%, la recidiva scende a circa l’1% per i 700 detenuti finora coinvolti nelle lavorazioni del Consorzio. L’abbattimento della recidiva comporta grandissimi benefici economici e sociali per tutta la collettività. Attualmente ogni detenuto costa allo Stato circa 250 euro al giorno. Se la recidiva in Italia fosse abbattuta anche solo dell’1% ne deriverebbe un risparmio di circa 50 milioni di euro all’anno. E un milione di euro investito nel recupero dei detenuti ne fa risparmiare nove, di milioni". La favola bella del lavoro in carcere purtroppo è un’eccezione, non la regola. Su circa 54 mila detenuti in Italia sono solo 800 quelli che oggi lavorano all’interno delle carceri, praticamente un’inezia. Grazie ad altre 15 cooperative, sono fiorite esperienze simili in giro per la penisola: ci sono servizi di catering d’eccellenza nel carcere Vallette di Torino, a Rebibbia in Roma e alle porte di Milano, a Bollate (sotto la guida di una donna, Silvia Polleri, timoniera della onlus "Abc la sapienza in tavola", alla quale Nando Dalla Chiesa ha dedicato un capitolo del suo libro "I fiori dell’oleandro", Melampo). A Trani i carcerati sfornano taralli, a Siracusa fanno dolci tipici siciliani. Conclude Boscoletto: "La cosa più bella è vedere un altro uomo cambiare e noi, di questi spettacoli in carcere, ne abbiamo visti parecchi". Stati Uniti: Lindsay Lohan racconta il carcere "esperienza scioccante…" Asca, 26 ottobre 2014 Lindsay Lohan ha raccontato al varietà inglese di Jonathan Ross la sua esperienza vissuta in carcere a Los Angeles. La star era stata condannata a 90 giorni di carcere, poi ridotti a due settimane, per aver violato i termini della libertà vigilata. "Le altre ragazze nelle celle vicine erano dentro per omicidio… e io ho pensato: "Che fine farò?". La Lohan ha giudicato eccessiva la punizione subita: "Sono andata in un locale e ho bevuto e poi ho guidato fino a casa. Ho commesso solo questo errore. Mettere una persona in quella posizione. È stata davvero scioccante". Dall’esperienza negativa anche un elemento positivo: "Ho trovato un po’ di silenzio nella mia vita. Non dovevo rispondere a nessuno e fare nulla per nessuno". La Lohan è attualmente impegnata a teatro a Londra con Speed-the-Plough, un remake dell’opera di David Mamet.