"Vis-a-vis". Per qualche metro e un po' di amore in più nelle carceri di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2014 Il primo dicembre 2014: Seminario nel carcere di Padova organizzato dalla Redazione di "Ristretti Orizzonti" per riflettere su carceri e affetti. Un ergastolano non potrà mai fare felice la donna che ama ma la può amare più di qualsiasi altro uomo. La felicità passa ma l’amore no, il vero amore non passa mai. È l’amore quello di cui abbiamo più bisogno per vivere e l’amore per un ergastolano è l’unica ragione per vivere (Fonte: diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). La redazione di Ristretti Orizzonti ha appena lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. La mobilitazione dei giornalisti detenuti volontari della redazione di "Ristretti Orizzonti" insieme a moltissimi prigionieri di tutte le carceri d’Italia che si stanno anche attivando per raccogliere le firme dei propri compagni, sta suscitando attenzione e interesse su questi temi. Lunedì primo dicembre 2014 nel carcere di Padova ci sarà un convegno sull’umanizzazione delle visite ai detenuti e l’introduzione dei colloqui riservati per le famiglie in carcere. E colgo l’occasione per rendere pubblica la lettera privata che mi ha scritto il ricercatore professore Matteo Guidi che ha curato il libro "Cucinare in Massima Sicurezza" (Edito da Stampa Alternativa). Caro Carmelo, sono entrato, grazie ad un’amica medico che lavora lì dentro, in un carcere spagnolo ed ho visitato una sezione maschile e una femminile. E poi ho avuto un colloquio con medici ed educatori dove ho presentato il lavoro di Cucinare in Massima Sicurezza. Sono rimasti stupiti, se non di più, di due cose: del fatto che in Italia esiste l’ergastolo, quello vero, e del fatto che non si possono avere vis-a-vis, ovvero momenti d’intimità. In Spagna questo è consentito due volte al mese, con un tuo familiare o con qualsiasi, chiamiamolo così, volontario da fuori. Inoltre, le classi scolastiche nelle carcere spagnole sono miste, maschi e femmine e questo comporta la nascita di relazioni d’amore, che poi permettono d’incontrarsi, oltre che nelle ore di scuola, nelle feste comandate, dove partecipa tutta la comunità del carcere mescolata fra uomini e donne. Eppure anche la Spagna è un paese fortemente cattolico, però nessun politico ha mai provato a paragonare il vis-a-vis a stanze a luci rosse o a case chiuse così come hanno fatto certi bigotti politici italiani ogni volta che si è provato a proporre un cambio positivo di questa assurda proibizione. La stragrande maggioranza dei detenuti pensa che sia importante introdurre per le persone detenute la possibilità di avere dei colloqui con un po’ di intimità con le loro famiglie. La stragrande maggioranza dei detenuti pensa che la privazione e la restrizione degli affetti familiari in carcere può solo peggiorare le persone prigioniere. La stragrande maggioranza dei detenuti pensa che il divieto di qualsiasi tipo di intimità con i propri cari che c’è attualmente nelle carceri italiane è fuori da ogni logica rieducativa e di buon senso. La stragrande maggioranza dei detenuti pensa che l’amore può sconfiggere la piccola e grande criminalità più di tanti anni di carcere. Voi del mondo di fuori che ne pensate? Un sorriso d’amore fra le sbarre. Samir ha pensato che la soluzione migliore era appendersi a queste fottute sbarre di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2014 Fino al 31 settembre nelle carceri italiane si sono registrate 31 morti per suicidio. Con molto dispiacere mi vedo costretto ad aggiungere un altro a questa lista che sembra non finire mai. Ieri 18 ottobre 2014 alle ore 18 nella Casa di Reclusione di Padova si è tolto la vita un giovane tunisino di 38 anni di nome Samir Riahi impiccandosi alle sbarre del bagno. Pochi mesi fa un altro uomo aveva tentato lo stesso gesto e nella stessa sezione, solo grazie all’intervento di un detenuto è riuscito a essere salvato da quella che per lui era l’unica via d’uscita da questo posto. La mia cella è molto vicina alla cancellata che si affaccia sull’altra sezione. Ero in cella che stavo cucinando quando ho sentito delle forti grida, ma la mia curiosità non è stata stuzzicata, ho pensato che potevano essere le solite grida che accompagnano discussioni che a volte accadono in questi posti. Poi un mio compagno è entrato nella mia cella dicendo "Lorenzo si è impiccato uno". Ho spento i fornelli e sono andato di fronte al cancello per vedere cosa fosse successo. Le guardie continuavano a muoversi avanti e indietro in maniera frenetica di fronte alla cella di Samir. Ogni volta che passavano di fronte a noi "spettatori" provavamo a domandare se fosse ancora vivo, ma non riuscivamo a strappargli notizie, fino a quando un agente, senza dire niente, ha fatto una chiara espressione di resa. Lì abbiamo capito che il ragazzo era morto. Verso le sette ci hanno chiusi tutti nelle nostre celle, stava per arrivare il magistrato, credo che sia la prassi in questi casi. Entrato in cella ho preso uno specchio e, facendo uscire il braccio tra le sbarre del mio cancello, sono riuscito a vedere quello che stava accadendo. È molto difficile spiegare quello che ho provato nel momento in cui ho visto questa specie di "astuccio" gigante con dentro il corpo senza vita di una persona. Poi è arrivata una bara, una di quelle che si vedono quando succede qualche incidente stradale, chiare, credo che siano fatte di alluminio, hanno adagiato il corpo al suo interno e poi è scomparso nel lungo corridoio trasportato dagli appuntati. È faticoso cercare di essere razionali in questi momenti, perché quando veniamo arrestati la nostra vita è affidata alle istituzioni, ma in tutta onestà non credo che sia così. La nostra vita è affidata al proprio limite di sopportazione, alla sofferenza che uno ha e se arrivi al limite ci sono sempre queste sbarre arrugginite a darti la soluzione a tutti i problemi. Io non so la storia di Samir e non so neanche per cosa era carcerato, so che aveva una famiglia, aveva due fratelli a Verona che lo aspettavano e una madre a Tunisi che attendeva di poter riabbracciare suo figlio. Per me che sono detenuto, che ho commesso dei reati e ho delle responsabilità, parlare di abbandono da parte delle istituzioni può essere anche scomodo, ma credo non sia giusto che persone che hanno fatto delle scelte sbagliate vengano abbandonate a se stesse, e per piacere non diamo esclusivamente la colpa al sovraffollamento, è proprio la cultura, il concetto di punizione che abbiamo nel nostro Paese, il "buttare via le chiavi" oppure esclamare "uno in meno" che deve mutare. Anch’io ho passato momenti della mia carcerazione dove è stato difficile ritrovare motivazioni per andare avanti e me la sono dovuta "smazzare" da solo. Sono stato fortunato niente di più, solo grazie a delle piccole circostanze che mi hanno portato a scovare il desiderio di continuare ad amare la vita, anche avendo una condanna di 30 anni, ma Samir questa fortuna non l’ha avuta. Samir ha pensato che la soluzione migliore era appendersi a queste fottute sbarre, le stesse sbarre che lo stavano uccidendo giorno per giorno, allora ha deciso di farla finita. Vorrei terminare questo mio scritto con la speranza che le cose possano cambiare, ma soprattutto invitando le persone che possono "fare" ad agire in fretta, ma in tutta onestà inizio a credere che non cambieranno mai. Sono certo che a breve mi ritroverò di nuovo dietro a un foglio a scrivere di qualche altro suicidio e a pensare a quei familiari che non sono riusciti neanche a dire addio al proprio caro. Detenuto s’impicca in carcere (Il Mattino di Padova, 20 ottobre 2014) Era arrivato al carcere Due Palazzi da appena quattro giorno: fine pena nel 2021. Samir Riahi, 38 anni, tunisino, non ha retto psicologicamente al pensiero di dover trascorrere così tanto tempo in galera. Sabato pomeriggio si è tolto la vita in una cella del penitenziario: si è impiccato con una cintura. È il quarto suicidio dall’inizio dell’anno all’interno del carcere di Padova. Il nordafricano stava scontando un tentato omicidio commesso a Gradisca d’Isonzo. Alle spalle aveva alcuni precedenti penali per droga ed è stato più volte denunciato per liti all’interno delle carceri. Avevano deciso il suo trasferimento a Padova dopo un periodo trascorso a Verona. Ma sabato pomeriggio il detenuto ha deciso di farla finita. L’allarme l’ha dato il compagno di stanza al rientro dall’ora d’aria. Il trentottenne tunisino giaceva esanime nel bagno della cella, con la cintura intorno al collo. Gli accertamenti sul caso sono stati affidati agli uomini della Squadra mobile di Padova. Gli investigatori del vicequestore aggiunto Marco Calì hanno visionato i filmati ripresi dalle telecamere del circuito interno al carcere. Dalle immagini si vede chiaramente il compagno di stanza entrare e uscire subito dopo di corsa per chiedere aiuto. Anche l’esame esterno della salma non ha dato altro responso, se non quello del suicidio. Nessun segno di violenza o altro che faccia pensare al coinvolgimento di qualcuno. Per togliersi la vita Samir Riahi ha utilizzato la cintura dei pantaloni. Questa è la quarta tragedia dall’inizio dell’anno all’interno del penitenziario padovano. In aprile Alessandro Braidic, 39 anni, condannato ad una pena che lo obbligava a rimanere in carcere fino al 2039, si è tolto la vita nella sua cella. Poi due casi strettamente legati perché connessi all’inchiesta sul giro di droga all’interno della casa di reclusione. In luglio si è tolto la vita il detenuto Giovanni Pucci, 44 anni, elettricista di Castrignano dei Greci (Lecce). È stato trovato morto impiccato nella sua cella al terzo blocco della casa di reclusione, poche ore dopo l’interrogatorio. Nemmeno un mese dopo è stata la volta dell’assistente della polizia penitenziaria Paolo Giordano, 40 anni, anch’egli coinvolto direttamente nell’inchiesta della Squadra mobile. Con una lametta da barba si è tagliato la gola nel suo alloggio di via Due Palazzi. Ora questo nuovo caso con un altro detenuto che preferisce la morta alla detenzione. Giustizia: l’Unione delle Camere Penali "ma… la riforma la fa Orlando o la fa Gratteri?" di Marco Grasso Secolo XIX, 21 ottobre 2014 Allarme delle camere penali sulla bozza del procuratore di Reggio Calabria che lederebbe il diritto alla difesa. Silvio Romanelli, presidente della camera penale di Chiavari, la butta giù dura: "Dire che siamo sul piede di guerra è poco. Un giorno sì e uno no leggiamo anticipazioni sui lavori della commissione Gratteri, con palesi contraddizioni rispetto alle proposte di cui stavamo discutendo. Andrea Orlando ci dica se è ancora lui il ministro, altrimenti ci regoliamo di conseguenza". È un attacco durissimo quello degli avvocati penalisti alla bozza di riforma che sta preparando il pool coordinato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, sferrato con un comunicato dell’Unione delle camere penali italiane: "Mentre è in corso un confronto, certamente vivace, a volte anche aspro, con il ministro della Giustizia, al quale riconosciamo il merito di dialogare anche con l’avvocatura, sulle ipotesi di riforma della giustizia penale, notizie di stampa riferiscono che la Commissione presieduta dal dottor Nicola Gratteri avrebbe predisposto ipotesi di riforma ancora una volta parziali e settoriali, ispirate ad una logica di compressione del diritto di difesa, portato di una visione inquisitoria del processo, in aperto contrasto con i principi costituzionali". Più che le singole proposte, è la visione generale che ispira la proposta Gratteri a far infuriare i legali: "Se partiamo dalle indiscrezioni che finora abbiamo letto sui media -compressione del diritto all’appello e teleconferenze al posto del dibattito in aula, per citarne alcune - noi rilanciamo con la responsabilità personale dei magistrati che sbagliano e l’elezione di avvocati nei posti vacanti della Corte di Cassazione, come peraltro sarebbe previsto anche dalla Costituzione". La polemica investe indirettamente anche il ministro Orlando, che fino a questo momento aveva tenuto aperto il dialogo con gli avvocati: "Ci dica chi conta davvero nel governo Renzi, perché altrimenti è inutile persino sedersi e discutere - incalza Romanelli - Vedo profilarsi un serio pericolo di scavalcamento. E più che di una riforma della giustizia ho l’impressione che qualcuno voglia la Santa Inquisizione. Se si volesse davvero percorrere questa strada, troverà la ferma opposizione dell’avvocatura penale". Nelle stesse ore, sull’altro tavolo, quello aperto con Orlando e il viceministro Enrico Costa, i difensori esultano per una modifica apportata alla norma sull’antiriciclaggio: "È stata approvata alla Camera la disciplina della voluntary disclosure - si legge in una nota. La norma rimane certo estranea alla logica di un diritto penale liberal democratico, ma il voto di ieri porta almeno un aspetto positivo rispetto alla precedente formulazione. Così congegnata, la norma sarebbe venuta meno al proprio scopo dichiarato di evitare l’introduzione di capitali di provenienza illecita nell’economia del Paese ed avrebbe totalmente travolto un principio cardine del diritto penale per cui non si può essere puniti due volte per lo stesso fatto. Anche il ladruncolo che avesse trasferito il profitto di qualche centinaio di euro del proprio furto, sarebbe incorso nel reato di auto-riciclaggio". "L’impressione è che l’obiettivo del governo con questa legge sia di far cassa e non di combattere la criminalità organizzata - sostiene Rinaldo Romanelli, anch’egli membro della camera penale. Si vogliono attirare i capitali trasferiti all’estero, con la depenalizzazione per chi li riporta indietro. Ma l’Italia rimane un Paese poco attraente per i capitali esteri, tanto più con questa norma". L’Associazione Nazionale Magistrati nei giorni scorsi aveva denunciato, al contrario, il tentativo di svuotamento della norma sull’antiriciclaggio Giustizia: io ero già ministro, storia di uno stop di Nicola Gratteri Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2014 Mi telefonarono Delrio e Renzi, avevo dato la mia disponibilità per la Giustizia. Poi, al Quirinale, è successo qualcosa che ha bloccato tutto. Pubblichiamo un’anticipazione dell’intervento di Nicola Gratteri - scritto per il prossimo numero di Micro Mega interamente dedicato alla Giustizia - in cui il procuratore aggiunto di Reggio Calabria espone le linee essenziali del programma di riforma della giustizia che Matteo Renzi aveva accolto con entusiasmo quando gli propose il ministero della Giustizia. Nelle righe che seguono tenterò di esporre i dettagli del programma che giudico necessario attuare in Italia per rendere più efficiente la macchina della giustizia e per contrastare efficacemente il crimine organizzato. Prima di fare ciò, tuttavia, vorrei rapidamente rievocare le circostanze della mia mancata nomina a ministro della Giustizia nell’esecutivo guidato da Matteo Renzi. È noto infatti come il mio nome fosse circolato insistentemente in qualità di possibile Guardasigilli nei giorni che hanno preceduto la formazione del governo entrato in carica lo scorso 22 febbraio. Personalmente posso confermare di essere stato contattato, attraverso il ministro Delrio, dal presidente incaricato, la sera prima che si recasse dal presidente della Repubblica con la lista dei ministri. Durante quella prima conversazione il presidente mi ha effettivamente proposto di entrare a far parte della sua squadra di governo. Io gli ho fatto presente che, avendo alle spalle trent’anni di anzianità di servizio e non essendo in età pensionabile, accettare un incarico politico avrebbe significato per me un radicale mutamento di vita, nel senso che, dopo un’eventuale esperienza da ministro, mi sarei dovuto trovare un lavoro, non essendo figlio di ereditieri e non avendo un patrimonio con il quale vivere di rendita. Pertanto, ho esposto al presidente del Consiglio incaricato i punti essenziali del programma sulla giustizia che avrei inteso realizzare - gli stessi che elencherò di seguito - per verificare che ci fosse da parte sua la necessaria condivisione, chiedendogli anche tutta una serie di garanzie e di rassicurazioni circa la possibilità di poter scegliere personalmente la squadra di collaboratori che avrei portato al ministero, individuandoli fra personalità valide e degne della mia fiducia. Tali rassicurazioni mi sono state date dal presidente Renzi, che inoltre si è detto assolutamente entusiasta del mio programma, affermando di condividerlo in pieno. Ho quindi accettato la sua proposta, sapendo di mettere in gioco la mia vita professionale, perché attratto dall’idea di avere l’opportunità di fare una rivoluzione, di realizzare un sogno, quello di dar vita a un sistema giudiziario diverso e migliore dell’attuale. Anche il giorno successivo, sono stato raggiunto telefonicamente dal presidente incaricato, il quale mi ha nuovamente confermato che ero nella lista dei 16 ministri che di lì a poco avrebbe presentato al presidente della Repubblica. In quel secondo colloquio, Renzi mi ha chiesto se poteva considerare definitivo il mio sì, se non c’era il rischio di un mio successivo ripensamento e di una mia uscita di scena. Io l’ho rassicurato, facendogli presente che sono un uomo di parola e che, avendo dato una risposta affermativa, non mi sarei poi sottratto all’impegno preso. Lui, per tutta risposta, mi ha detto una volta di più che allora sarebbe andato avanti proponendo il mio nome come Guardasigilli al capo dello Stato. Cosa sia poi successo al momento dei colloqui per la formazione del nuovo esecutivo svoltisi al Quirinale non sono ovviamente in grado di dirlo. So però che ho in seguito ricevuto una nuova telefonata, stavolta del sottosegretario Delrio, che si rammaricava per la mia mancata nomina, ribadendo tuttavia la sintonia del governo con le mie proposte, tanto da insistere perché accettassi di presiedere una commissione per la riforma della giustizia di cui avrei potuto scegliere personalmente tutti i componenti. Tale commissione, com’è noto, è stata poi formata e si è insediata ufficialmente lo scorso 30 luglio a Palazzo Chigi. Come ho già ricordato, nei vari contatti di cui sopra ho esposto al presidente incaricato il mio programma sulla giustizia. Giustizia: intercettare i colloqui tra avvocato e cliente è un vero abominio di Domenico Ciruzzi (Vicepresidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 21 ottobre 2014 Registro con soddisfazione che l’idiota slogan "Intercettateci tutti" sembra essere scomparso dai circuiti mediatici. Allo stesso modo - e ciò invece non può che destare preoccupazione - il tema afferente la disciplina delle intercettazioni telefoniche e più in particolare il divieto di intercettare le conversazioni tra il difensore e l’assistito, sembra essere scomparso dai radar della politica. Di contro, ritengo che una seria e costituzionalmente orientata riforma dell’art. 103 c.p.p. (codice di procedura penale) dovrebbe costituire la precondizione per sedersi al tavolo ed iniziare a discutere della riforma della giustizia. L’art. 103 comma 5 c.p.p. prevede, come è noto, il divieto di intercettare le conversazioni tra il difensore e l’assistito. Una norma che racchiude un principio fondamentale non solo di ordine processuale ma, soprattutto, di civiltà giuridica e di libertà per la funzione difensiva nell’interesse dell’assistito che ha diritto all’assoluta segretezza nella sua interlocuzione con il difensore. Ed invero, la ratio della disposizione (di cui all’art. 103 co. 5 codice di procedura penale), va rinvenuta nel diritto - sancito dall’articolo 24 della Costituzione - di ogni individuo che risulti indagato o imputato ad avere una difesa forte, libera ed indipendente. Le garanzie, le prerogative ed i divieti sanciti dalla norma in oggetto sono, in altri termini, strumentali a tutelare l’attività difensiva dalle ingerenze dei poteri investigativi, coercitivi e probatori dell’autorità giudiziaria, che possano ostacolare, snaturare o rendere impossibile l’effettivo esercizio della difesa stessa. Per svolgere la propria fondamentale funzione a tutela dei cittadini, l’avvocato deve essere libero. Non deve avere neanche il remoto timore che le parole dette al proprio assistito (idee, ipotesi, strategie, paradossi, e, persino, innocenti vanterie autocelebrative dirette a rassicurare l’assistito), possano essere ascoltate dagli organi inquirenti. Il rapporto che si crea tra l’inquisito ed il difensore è un rapporto particolare, borderline. L’estrapolazione, in senso esclusivamente accusatorio, di spezzoni di conversazioni che intercorrono tra i due può dar vita a tragici equivoci (se non travisamenti dei fatti). Parole dette in un’ottica difensiva (idee, ipotesi) rischiano di essere scambiate per connivenza, complicità. Ciò non è tollerabile. La funzione difensiva non può e non deve essere sottoposta a tali pressioni. Nel rapporto con il suo assistito, l’avvocato deve conciliare l’asettico apporto tecnico afferente la linea difensiva da intraprendere, con la compartecipazione umana nei confronti di una persona presunta innocente braccata dall’imponente sistema repressivo dello Stato. Al fine di instaurare un rapporto di natura fiduciaria corretto ed effettivo, il rapporto di interazione tra difensore e difeso deve essere sospeso in un limbo, sottratto ad ogni controllo esterno. Il colloquio instaura una comunicazione non soltanto verbale ma anche mimica, gestuale, in cui anche i silenzi, le pause, i sospiri, gli scatti d’ira, il vittimismo, i paradossi, le reticenze, le provocazioni lessicali sono profondamente significative per la maturazione di un rapporto di conoscenza fiduciaria. Il colloquio tra difensore ed assistito è anche una esplorazione para-terapeutica e psicanalitica tra due soggetti che si scrutano, si fiutano, tentando di superare diffidenze di ruoli, di classe, di posizioni. Il difensore, l’advocatus, è chiamato anche per svolgere la sua funzione con compassione. E se tutto quanto sopra riferito corrisponde alla verità del diritto vivente, si comprende appieno la tutela di rango di assoluta riservatezza costituzionale prevista nel rapporto tra difensore ed assistito: un rapporto sacro ed inviolabile che, se captato dall’esterno, sarà foriero di inevitabili equivoci e bias cognitivi produttivi di effetti di criminalizzazione ingiusti e fuorvianti per la corretta comprensione degli accadimenti. Ciò che sorprende ed allarma è che tale "sacralità" dei colloqui difensivi sia frequentemente vilipesa dai Pubblici Ministeri che dovrebbero di contro educare al rispetto assoluto delle garanzie di libertà del difensore la stessa polizia giudiziaria. E sovente i giudici avallano tale inaccettabile cultura autoritaria in dispregio delle norme vigenti. In ragione di ciò i cittadini mentre ricevono una miriade di giuste sollecitazioni sulla tutela dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura, ricevono di contro informazioni fuorvianti -amplificate dai media - sulla tutela delle prerogative della difesa. L’assoluto ed inderogabile divieto - una autentica immunità della funzione - di sottoporre ad intercettazione le conversazioni tra il difensore e l’assistito è stato recentemente ribadito anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2013 che, al proposito. La giurisprudenza della Suprema Corte, successiva alla decisione della Corte Costituzionale, sembrava aver finalmente fatto propri tali principi. Ed invece, in data 18 giugno 2014, è intervenuta una ulteriore pronuncia della Corte di Cassazione (II sez. penale) che ha operato un inaccettabile stravolgimento interpretativo, enucleando un principio di diritto assolutamente antitetico rispetto al dictum della Corte Costituzionale. Sul punto, è opportuno evidenziare come la decisione da ultimo citata costituisce un grave e macroscopico vulnus alla funzione difensiva, essendo la pronunzia della Cassazione intrisa di un humus giuridico, e prima ancora culturale, totalmente incondivisibile. Ed invero, nella sentenza si operano capziose distinzioni tra colloqui amicali e colloqui professionali, si parcellizzano le singole frasi, e addirittura le singole parole, pronunziate dagli interlocutori (avvocato ed assistito), si attribuiscono significati particolari ai silenzi; si pretende da ultimo - ed è questa l’operazione più inaccettabile - di dettare, attraverso un micidiale mix di arroganza e di totale ignoranza dell’essenza stessa della funzione difensiva, il decalogo del "buon avvocato", stabilendo (a seguito dell’illegittima utilizzazione di una conversazione che, secondo quanto statuito dal codice, non poteva neppure essere ascoltata) cosa è lecito dire o non dire nel corso di un colloquio difensivo. Riteniamo che il progetto di riforma in tema di art. 103 c.p. (codice penale)a cui starebbe attualmente lavorando il Governo sia non soltanto inadeguato ma, addirittura, idoneo a peggiorare la situazione. Ed invero, il progetto di legge citato prevedrebbe, da un lato, il (giusto) divieto per gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria che procedono all’ascolto di annotare sul brogliaccio le conversazioni intercorrenti tra il difensore e l’assistito ma, dall’altro, la possibilità di far ascoltare al P.M. le conversazioni tra difensore ed assistito ritenute "sospette". Una vera e propria disposizione-truffa ai danni della funzione difensiva atteso che è proprio il P.M. - e cioè la controparte dell’indagato - il primo soggetto a cui è - e deve essere - posto il divieto insormontabile di ascoltare le conversazioni tra difensore ed assistito. In ragione di quanto sin qui evidenziato e considerato che la prassi applicativa - avallata dalla giurisprudenza di legittimità che, sul punto, si rivela quantomeno oscillante -ha operato un vero e proprio "svuotamento" delle garanzie di libertà del difensore (e, quindi, potenzialmente, di tutti i cittadini), si impone - così come sostenuto da tempo dall’Unione Camere Penali. - una modifica legislativa dell’art. 103 c.p.p. che disponga in modo ancor più chiaro ed espresso l’assoluto divieto di ascolto delle conversazioni tra difensore ed assistito, impedendo in tal modo improprie letture ex post foriere di illegittimi "sconfinamenti". Giustizia: il Tao del manganello di Luigi Manconi Il Foglio, 21 ottobre 2014 I casi Aldrovandi e Magherini e il senso della mia proposta di legge sulla nonviolenza in divisa. Oddio, signora mia, qui si vogliono disarmare i poliziotti e consegnarli, inermi, a facinorosi armati fino ai denti. Tanto scandalo perché, insieme ad altri parlamentari, ho presentato un disegno di legge che prevede, nei corsi di formazione per gli appartenenti alle forze di polizia, l’insegnamento delle tecniche della nonviolenza. Per ragioni misteriose, la formula "tecniche della nonviolenza" è stata letta come una sorta di "resa", se non di totale capitolazione di poliziotti e carabinieri di fronte alla minaccia della criminalità comune e politica. E perché mai? Le tecniche della nonviolenza sono una metodologia di lotta appunto nonviolenta, che non ricorre alle armi né all’aggressione fisica e che intende ridurre al minimo l’uso della forza, limitandola allo stretto necessario così da contenere i danni subiti dai diversi soggetti. E, infatti, la nonviolenza non è inerzia o passività: è piuttosto una metodica per disinnescare l’aggressività altrui senza incrementare la propria. Si tratta di provvedere a migliorare la qualità e l’efficacia della formazione professionale degli appartenenti alle forze dell’ordine, riducendo drasticamente i rischi di causare vittime tra i fermati (o tra i manifestanti) e conseguenze giudiziarie, anche gravi e gravissime, per gli operatori di polizia. Si tenga conto che l’apprendimento di tali tecniche è previsto da anni nei corsi di formazione delle polizie di molti stati democratici (a partire dagli Stati Uniti). Ma qui si impone una privatissima premessa. Precisato che non si tratta di un merito da rivendicare, bensì di un dovere da onorare, dico che i miei conti personali con la violenza politica li ho fatti da decenni. E li ho fatti in pubblico (già nel 1979, per dirne una, pubblicai con altri "La violenza e la politica"). Il fatto che "negli anni Settanta protestavo in piazza" (come ha titolato in questi giorni un quotidiano) non mi sembra un buon argomento per dissuadermi dal prestare attenzione a quanto accade ancora oggi "in piazza". D’altra parte, prima di andare a scuola dai Radicali nella seconda metà degli anni Settanta, capii l’importanza tattica e strategica della nonviolenza dalla traduzione italiana (pubblicata su Quaderni piacentini) del volantino del Free speech movement di Berkeley, guidato da Mario Savio, nell’autunno 1964. Qualche anno dopo, me ne convinsi ancor più leggendo le poche pagine di "Le tecniche della nonviolenza" di Aldo Capitini, edito nel 1967 dalla Libreria Feltrinelli. Quanto accadde negli anni immediatamente successivi smorzò quel mio interesse e lo piegò in tutt’altra direzione. Superato bene o male quel decennio, ho appreso infine dai Radicali le lezioni più importanti sul tema. Torniamo, dunque, al punto di partenza e consideriamo se una legge sull’insegnamento della nonviolenza sia opportuna o meno. Limitiamoci a esaminare le situazioni che possono determinarsi a seguito di un fermo di polizia e, in particolare, quelle che hanno portato alla morte di Federico Aldrovandi (Ferrara, 2005) e di Riccardo Magherini (Firenze, 2014). Per la prima sono stati condannati in via definitiva quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo; per la seconda sono stati rinviati a giudizio quattro carabinieri anche in questo caso per omicidio colposo. Analizziamo le due vicende, assumendo che condannati e imputati non siano dei sadici (non lo penso affatto), bensì operatori di pubblica sicurezza incapaci di svolgere correttamente ed efficacemente il proprio compito. Non può che essere così dal momento che quattro agenti hanno mostrato di non essere in grado di mettere in condizioni di non nuocere un diciottenne disarmato e incensurato e un quarantenne altrettanto disarmato e altrettanto incensurato, se non provocandone il decesso. Quattro poliziotti a Ferrara e quattro carabinieri a Firenze si sono rivelati tragicamente inadeguati a contenere la persona da fermare se non attraverso mezzi violenti, palesemente sproporzionati, non controllabili, che hanno prodotto la morte di due persone non armate e non pregiudicate; e hanno portato in tribunale otto appartenenti alle forze dell’ordine. Mi sono limitato a richiamare due episodi particolarmente noti, ma sono decine e decine le vicende in cui emerge l’impreparazione degli operatori dell’ordine pubblico. E spesso sono i sindacati di categoria a denunciare la carenza e l’arretratezza della formazione professionale, anche su questo delicatissimo piano. D’altra parte, consideriamo una situazione-tipo. La persona fermata viene rovesciata in qualche modo a terra, in posizione prona, il volto sulla pavimentazione, le braccia piegate dietro la schiena e i polsi ammanettati: e sul quel corpo disteso gravano con tutto il loro peso, al fine di immobilizzarlo, tre o quattro poliziotti o carabinieri. Da quella incontrollata "compressione toracica" deriva, in un numero non irrilevante di casi, la morte per asfissia. Si tratta di una tecnica che i massimi responsabili dei due corpi di polizia, il prefetto Alessandro Pansa e il generale Leonardo Gallitelli, in più di un colloquio, mi hanno detto non essere regolamentata da un preciso protocollo. Dunque, un metodo diventato prassi, senza che ne venisse definita l’applicazione e indicati i limiti: e, soprattutto, senza che se ne segnalasse l’estrema pericolosità. Se non è già sufficiente questa drammatica casistica, cos’altro si aspetta per riconoscere la spaventosa debolezza, anche tecnico professionale, della formazione degli operatori di polizia? Ma, persino a prescindere da questo, come ignorare che esiste una pluralità di metodi e discipline, atti e comportamenti, capaci di evitare il ricorso alla violenza nell’attività di controllo del territorio, ma anche di contenimento delle azioni di piazza? Se non avete tempo di studiare il buddismo o il taoismo potete farvi un’idea di cosa significhi il ricorso intelligente ed equilibrato alla forza "senza il desiderio di nuocere" (questo è il significato antico di nonviolenza), andando a vedere le vecchie serie americane in cui David Carradine interpreta il ruolo del monaco shaolin di Kwai Chang Caine. Irresistibile. Giustizia: agenti sotto processo per la morte di Giuseppe Uva…. ci sono voluti 6 anni di Mario di Vito Il Manifesto, 21 ottobre 2014 Imputati, in aula. Sei anni e mezzo dopo la morte di Giuseppe Uva, per la prima volta i due carabinieri e i sei poliziotti che lo arrestarono e lo portarono nella caserma di via Saffi, varcano le soglie dell’aula bunker del tribunale di Varese. Contro di loro le accuse sono pesantissime: omicidio preterintenzionale, abuso di potere, arresto illegale e abbandono d’incapace. Una vittoria già così, visti i sei anni di fatiche dolorosissime patite dalla sorella della vittima, Lucia Uva, che in più occasioni si è scontrata con i procuratori Agostino Abate e Sara Arduini, che hanno messo sotto inchiesta tutti (medici, giornalisti, la stessa Lucia) ma mai hanno voluto sfiorare gli uomini in divisa: per loro avevano chiesto due volte l’archiviazione, trovando sempre l’opposizione del gip di turno. Anche il pm che arrivò in loro sostituzione, Felice Isnardi, concluse che Giuseppe non era stato pestato, ma, anche in questo caso, alla fine il gup Stefano Sala decise per il dibattimento in aula. La giornata a Varese è cominciata con l’ammissione delle telecamere di Raitre e dei microfoni di Radio Radicale, che potranno trasmettere il processo in differita. La Corte d’Assise di Varese, presieduta dal giudice Vito Piglionica, ha anche ammesso i parenti di Uva come parti civili, escludendo però l’associazione A Buon Diritto del senatore Luigi Manconi. L’avvocato degli agenti (nonché consigliere regionale eletto con il Pdl) Luca Marsico ha cercato di opporsi a entrambe le istanze, parlando apertamente di "processo mediatico" e cercando di mettere subito sotto accusa lo stile di vita di Giuseppe Uva. Tutto era cominciato con una bravata, la notte del 14 giugno 2008, Giuseppe e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi, stavano spostando una transenna in mezzo alla strada. Arrivò una pattuglia, un agente disse: "Uva, proprio te cercavamo". Poi l’arresto, le ore in caserma tra urla e - secondo l’accusa - sevizie, il Tso, il ricovero in ospedale e la morte. Adesso sarà un processo a stabilire cosa successe quella notte. L’aspettativa è grande: tra il pubblico si sono visti i ragazzi di Acad (Associazione contro gli abusi in divisa), Domenica Ferrulli (figlia di Michele, morto durante l’arresto, a Milano, nel 2011), Paolo Scaroni (il tifoso del Brescia picchiato brutalmente dalla celere dopo la partita, a Verona, nel 2005), oltre a Biggiogero: tutti lì a sostenere Lucia Uva e la sua battaglia. C’era anche Gianni Tonelli, leader del Sap, a testimoniare la solidarietà sua e del sindacato di polizia ai colleghi finiti alla sbarra. Un copione che si ripete sempre uguale: furono proprio i militanti del Sap a tributare cinque minuti con standing ovation agli agenti condannati per l’omicidio Aldrovandi, durante l’ultimo congresso, lo scorso aprile. "La sua presenza non ci disturba - ha detto l’avvocato di Lucia, Fabio Ambrosetti - l’udienza è pubblica, chiunque può venire a vedere". La giornata, ad ogni modo, è stata buona: "A noi basterebbe una condanna in primo grado per poter dimostrare che quella notte ci furono violenze. La Corte ci ha dato l’idea di voler fare in fretta". I primi testimoni saranno sentiti il prossimo 14 novembre, a parte l’omicidio preterintenzionale, tutti i reati contestati agli agenti andranno in prescrizione il 15 dicembre del 2015: c’è tempo per fare un processo, ma non per superare tutti e tre i gradi di giudizio. Giustizia: caso Ruby, ci si può dimettere anche contro un’ingiustizia di Livio Pepino Il Manifesto, 21 ottobre 2014 Le dimissioni del giudice Tranfa dopo la sentenza d’appello sul "caso Ruby" sono lecite. Sbaglia la magistratura a stracciarsi le vesti in modo corporativo. Piuttosto, si consenta ai magistrati di presentare la propria sentenza "di minoranza" come accade nei giudizi di altri paesi. L’assoluzione in appello di Silvio Berlusconi dai reati di concussione e prostituzione minorile nel cosiddetto caso Ruby continua a far discutere. Dapprima la motivazione della sentenza: "È stato accertato aldilà di ogni ragionevole dubbio che durante alcune serate organizzate in compagnia delle più disinibite ragazze che erano solite frequentare Arcore e trarne utilità economiche, attività di prostituzione fu effettivamente svolta e con modalità significativamente ricorrenti. […]Si trattava di un sistema in cui l’aspetto fisico, la disponibilità delle donne a esibire i propri attributi femminili, inscenare esibizioni seduttive e erotizzanti provocare e consentire eventuali toccamenti erano credenziali apprezzate". E anche la diciassettenne El Mahroug Karima detta Ruby era partecipe del sistema, come confermato dal brusco innalzamento del tenore di vita della ragazza in contemporanea con le visite ad Arcore. A ciò vanno ricollegate le telefonate effettuate in questura per ottenere l’immediato (e illegittimo) rilascio di Ruby, in quanto "con la fuoriuscita della giovane dall’area di controllo delle autorità minorili l’allora presidente del Consiglio vedeva diminuire il rischio che la stessa rivelasse i retroscena compromettenti della loro frequentazione". E tuttavia l’imputato eccellente deve essere assolto: perché manca la prova che, all’epoca della frequentazione, egli fosse consapevole della minore età della sua giovane favorita e perché le pressioni da lui esercitate, seppur indebite, "non esprimono né implicitamente tradiscono alcun contenuto minatorio". La lettura della motivazione conferma le perplessità espresse all’atto della pronuncia del dispositivo. I giudizi di fatto sono certo opinabili ma sostenere che qualcuno (nella specie il presidente del Consiglio) chieda il rilascio di una ragazza trattenuta in questura perché minorenne ignorandone (e avendone ignorato nei precedenti mesi di intima frequentazione) la minore età è cosa a dir poco ardita. E lo stesso vale per le considerazioni in diritto, essendo davvero spericolato sostenere che la richiesta dell’ex cavaliere, fatta anche con una telefonata notturna a casa del responsabile della Questura, di liberare (illegittimamente e contro l’indicazione del magistrato minorile) l’avvenente Ruby vada interpretata come un semplice (seppur fastidioso) suggerimento inidoneo a condizionare il funzionario. È come dire che la costrizione, elemento costitutivo del delitto di concussione, esiste solo in caso di minaccia esplicita (magari con armi): cioè mai, ché non sono certo queste le intimidazioni usate dai pubblici ufficiali. Sembrava, a questo punto, che il discorso fosse chiuso, salvo le valutazioni dei giuristi e dell’opinione pubblica, in attesa del giudizio della Cassazione. E invece no. Subito dopo avere sottoscritto la motivazione, il 16 ottobre, il presidente del collegio giudicante ha comunicato al Consiglio superiore la decisione di lasciare, con effetto immediato, la magistratura. Una decisione all’evidenza dirompente, presentata dai media in modo univoco: "Con un gesto senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, Enrico Tranfa, il presidente del collegio della Corte d’appello di Milano nel processo Ruby, ieri si è dimesso di colpo dalla magistratura con una scelta che svela così il suo radicale dissenso dalla decisione, maturata nella terna del suo collegio, di assolvere l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi". Sono passati due giorni ed è intervenuto, con una nota formale, il presidente della Corte di appello di Milano per stigmatizzare il comportamento di Tranfa osservando che "le sue dimissioni non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche se dettate dal motivo di segnare il personale dissenso rispetto alla sentenza assolutoria di appello nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi". Di male in peggio, vien da dire. Non conosco i giudici coinvolti nella decisione e nulla so delle ragioni (evidentemente gravi, almeno da un punto di vista soggettivo) che hanno indotto il presidente del collegio a una decisione drastica come le dimissioni. Ma ci sono problemi di principio che travalicano le vicende personali. In particolare la pretesa, sottostante alla nota del presidente della Corte milanese, di escludere finanche il diritto ad andarsene di chi vuol prendere le distanze da decisioni per lui inaccettabili rivela una concezione burocratica della magistratura che ci riporta indietro di decenni. Io non so - lo ripeto - se sia stata questa la ragione della scelta di Tranfa ma se lo è stata, tanto di cappello! L’assunzione di responsabilità personali, infatti, non piace alle corporazioni ma è un fattore di trasparenza. E non c’entra nulla la violazione del segreto della camera di consiglio che ne è, caso mai, un effetto indiretto! Piuttosto, anziché stracciarsi le vesti, sarebbe il caso di aprire finalmente un confronto sull’introduzione, anche nel nostro Paese, della facoltà, per il giudice rimasto in minoranza, di depositare la propria motivazione dissenziente (così collegando l’autorevolezza delle decisioni alla solidità degli argomenti contrapposti e non al peso di una unanimità solo apparente). Giustizia: Storace oggi a processo per il caso vilipendio, la telefonata con Orlando di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 21 ottobre 2014 "Pronto anche alla galera". Lite e chiarimento con il ministro. "Vado in aula a testa alta, con la certezza che il diritto prevarrà e i miei legali Naso e Reboa riusciranno a portare a casa il verdetto di assoluzione. Se così non sarà, non ci si illuda con soluzioni ipocrite. Se pensano di cavarsela con la condizionale, sbagliano di grosso. L’ho detto ieri anche al ministro Orlando, al telefono: la mia reazione a una sanzione ingiusta sarebbe la reiterazione di un reato che dovrebbe essere cancellato dal codice penale". Così Francesco Storace nel suo editoriale di questa mattina sul Giornale d’Italia online, di cui è il direttore, proprio mentre il leader de La Destra sarà in tribunale a piazzale Clodio per rispondere dell’accusa di vilipendio al capo dello Stato. Rischia il carcere, Storace, anche se l’udienza di oggi potrebbe essere rinviata per l’astensione in corso dei magistrati onorari. In caso di condanna, comunque, lui non farà appello: "Via questa roba che ancora oggi resiste a dispetto del tempo... il Parlamento può legiferare velocemente in materia - scrive Storace nel suo editoriale. Occorre riflettere sulla possibilità che si possa andare in carcere per una sorta di lesa maestà. Occorre evitare che possa essere punita con la prigione una frase di troppo...". La parola di troppo, "indegno", pronunciata nei confronti di Giorgio Napolitano, risale al 2007, nel bel mezzo di una polemica rovente sui senatori a vita, ritenuti all’epoca dal centrodestra le "stampelle" del governo Prodi: Storace se la prese con Rita Levi Montalcini, il capo dello Stato intervenne a difesa del Premio Nobel e il leader de La Destra reagì definendo "indegno" il suo comportamento. "Sì, ma poi io scrissi al presidente - ha ricordato più volte, lui, negli ultimi giorni - dicendogli chiaramente che mi dispiaceva di avere ecceduto nei toni e chiedendogli un incontro. Napolitano mi ricevette, stemmo molto tempo a conversare. Lo stesso portavoce del Quirinale di allora, Pasquale Cascella, dichiarò chiuso l’incidente. E invece eccoci arrivati al processo. Ma non voglio privilegi e sono pronto ad affrontare la galera". Così, ha passato le ultime ore a rispondere a centinaia di telefonate, tweet e messaggi su Facebook: da Gianfranco Fini a Vladimir Luxuria, da Silvio Berlusconi a Roberto D’Agostino, in tantissimi gli hanno manifestato solidarietà. Ieri è stata la volta anche di Donna Assunta Almirante, con cui pure in passato non son mancati i diverbi: "Francesco non è cattivo, anzi è un uomo buono - lo difende a spada tratta Donna Assunta - Lui aiuta tutti, solo che è impulsivo e spesso non sa trattenere la lingua. Davvero sarebbe ingiusto il carcere per una parola, io comunque l’andrei a trovare...". La telefonata più importante, ieri, Storace l’ha avuta però col ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Gli va dato atto - dice l’imputato - di aver compiuto un gesto di apprezzabile umiltà. Colto in fallo sui social network, il Guardasigilli mi ha chiamato alla vigilia del processo per scusarsi. L’ho accolto con un "ben alzato" dei miei...". Lo stesso Orlando ha svelato poi quel che era successo: "Non avevo alcuna intenzione di schernire Storace. Mentre domenica su Twitter seguivo la discussione relativa all’hashtag #iostoconstorace ho cliccato inavvertitamente sul commento di un utente (che diceva in sostanza: "Storace? Problema suo" ndr)". "La cosa più importante, però - conclude l’ex governatore del Lazio - è che Orlando abbia pubblicamente preso impegno a discutere con Nitto Palma, il presidente della commissione Giustizia del Senato, la proposta di legge per l’abrogazione del reato di vilipendio. Forse anche in casa del Pd si può abbattere un muro". Lombardia: un detenuto su due fa sport, ma non mancano le difficoltà Redattore Sociale, 21 ottobre 2014 Ricerca del Pd lombardo. Mancano però anche le attrezzature più banali, come palloni e reti di pallavolo. Nella primavera 2015 si terrà la settimana dello sport dietro le sbarre. Un detenuto su due in Lombardia fa sport. Anche se con difficoltà per carenza di strutture e attrezzature. Anche quelle più banali, ma essenziali: 7 carceri su 12 infatti non hanno palloni propri e solo 4 istituti hanno una rete per il campo di pallavolo. Meno male che ci sono i volontari, che portano l’attrezzatura da fuori. È quanto emerge dalla ricerca realizzata dal Partito democratico della Lombardia e presentata oggi nella sede del Consiglio regionale. Su 12 carceri lombarde oggetto della ricerca, ci sono in totale 11 campi di calcio (di cui quattro al coperto), sei campi di pallavolo, due di basket e uno di rugby. Tutte, tranne uno, hanno una palestra. L’unica nota positiva è che le risorse dedicate allo sport in carcere sono in aumento: ma si tratta di pochi spiccioli e recuperati grazie agli sponsor. Nel 2014 ammontano a 74.333 euro, due anni fa erano solo 4.400 euro. "Lo sport è fondamentale per la rieducazione dei detenuti - spiega Fabio Pizzul, consigliere regionale del Pd e promotore della ricerca. Ci sono tante realtà di volontariato che si dedicano a questo aspetto della vita dietro le sbarre. Propongo che nella primavera 2015 si celebri una settimana dello sport in carcere, con l’obiettivo di dare visibilità al lavoro che si sta già facendo e porre l’attenzione sulla carenza di risorse". In particolare durante questa settimana verrebbe lanciata una raccolta di fondi e di attrezzature, anche tramite il Centro sportivo italiano (Csi) e l’Unione italiana sport per tutti (Uisp), che già operano in quasi tutti gli istituti lombardi. Ascoli Piceno: imprenditore suicida in cella. Il Dap: nessun segnale precedente Ansa, 21 ottobre 2014 Per questo Ciferri non era sorvegliato a vista. Gianluca Ciferri non aveva dato segnali che facessero temere un gesto autolesionistico nei colloqui specifici avuti con gli operatori del carcere di Ascoli Piceno: "per questo era rinchiuso in una cella comune, con altri tre detenuti, e non era sorvegliato a vista". È quanto si apprende dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria delle Marche, che, come da prassi, disporrà un’inchiesta interna sul suicidio sulla base degli atti che verranno trasmessi dalla Direzione del carcere. Ad accorgersi dell’accaduto sono stati gli stessi compagni di cella di Ciferri, che l’hanno trovato appeso ad una corda di lenzuola e federe fissata alla grata della finestra del bagno: sono stati loro a chiamare gli agenti di custodia. È arrivato il medico del penitenziario, e subito dopo un’equipe del 118, ma i tentativi di rianimare l’imprenditore si sono rivelati inutili. Beneduci (Osapp): senza agenti è difficile prevenzione "Il suicidio di Ciferri? Non posso dire con certezza quante e quali siano le cause, ma è certo che senza organico a disposizione è difficile prevenire questo genere di cose". Lo ha detto a LaPresse il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) Leo Beneduci. "Da quando c’è Orlando alla guida del ministero - aggiunge - il sistema penitenziario è allo scatafascio: ci sono troppi tagli alle spese, non c’è personale per effettuare le visite di primo ingresso, le celle sono strapiene, come quella di Ciferri che conteneva 9 persone. Ci sono 54mila detenuti per circa 42mila posti ed è ovvio che in una situazione del genere è quasi impossibile garantire la giusta sorveglianza. Con la conseguenza di perdere di vista i casi più a rischio, com’è successo con Ciferri. È inutile dire che così non si può andare avanti". Busto Arsizio: il carcere è un po’ meno "Alcatraz", dopo anni apre la nuova ala sanitaria La Provincia di Varese, 21 ottobre 2014 La Casa circondariale ora è dotata di un reparto moderno: "Un lavoro eccezionale". Migliorano anche le condizioni dei detenuti legate allo storico sovraffollamento. Ala sanitaria del carcere, dopo sei anni finalmente inaugurato il reparto di riabilitazione: in poche settimane, grazie a lavori "fatti in casa", anche dai detenuti che hanno tinteggiato le pareti. Il taglio del nastro ieri mattina alla presenza del vicegovernatore e assessore alla salute di Regione Lombardia Mario Mantovani e del provveditore regionale delle carceri Aldo Fabozzi. "Originariamente destinato ai disabili, è stato riconvertito alle cure fisioterapiche e alla riabilitazione" annuncia il direttore della Casa Circondariale Orazio Sorrentini. L’assessore Mantovani ricorda di essere stato "qui lo scorso 7 luglio, con un reparto buio e abbandonato, che in poche settimane grazie al progetto elaborato in sinergia tra azienda ospedaliera e direzione del carcere è stato riconvertito, nel pieno rispetto delle normative europee". Il primo paziente è stato accolto nel nuovo reparto di riabilitazione "già il 30 settembre", rivela il direttore dell’azienda ospedaliera di Busto Arsizio Armando Gozzini, che è formalmente il "padrone di casa" (strutture e apparecchiature, oltre al personale, dipendono direttamente da Piazzale Solaro) all’interno dell’ala sanitaria del carcere. "C’eravamo impegnati a risolvere questo problema e con un gran lavoro di coordinamento durante i mesi estivi finalmente ce l’abbiamo fatta. Lo staff medico era già presente, ora si è aggiunta la cooperativa che gestisce l’attività fisioterapica e riabilitativa, con un monte ore che dipende dalle esigenze dell’utenza". Ora la nuova ala è pronta per partire a tutti gli effetti. "Per ora ad usufruire del servizio sono i nostri detenuti, che fanno "su e giù" dalle loro celle - racconta il direttore Orazio Sorrentini - ma già in settimana arriveranno i primi detenuti da altre carceri lombarde che verranno ospitati nelle celle della nuova ala (otto in tutto, ndr). I protocolli prevedono un affidamento per le cure per periodi di non più di tre settimane". La soluzione di una vecchia magagna va di pari passo con una situazione di generale rasserenamento in via per Cassano: stando agli ultimi dati disponibili (aggiornati a sabato 18 ottobre), il numero di detenuti reclusi era di 329, con un "netto miglioramento, grazie al provvedimento svuota-carceri", come rimarca il direttore Sorrentini, rispetto ai momenti più critici di sovraffollamento, quando l’istituto di pena (che formalmente non potrebbe accogliere più di 167 posti) arrivava ad ospitare più di 400 detenuti. I minori arrivi sono legati soprattutto ai detenuti in attesa di giudizio, le cui possibilità di custodia cautelare in carcere sono state considerevolmente ridotte dalla nuova legge. Per l’assessore ai servizi sociali di Busto Arsizio Mario Cislaghi è stato fatto "un lavoro eccezionale": ora la speranza è che questa iniziativa "possa essere l’occasione per rendere sempre più stretti i rapporti tra azienda ospedaliera, casa circondariale e servizi sociali". L’Assessore Mantovani: nuovi servizi migliorano cure a detenuti "Migliorare ulteriormente l’assistenza sanitaria a favore delle persone detenute". È l’impegno assunto dalla Regione Lombardia. Oggi si aggiunge un nuovo tassello, con l’inaugurazione nella casa circondariale di Busto Arsizio, del reparto di riabilitazione motoria, alla presenza del vice presidente e assessore regionale alla salute Mario Mantovani, stamane. Il nuovo servizio è stato realizzato con l’intervento dell’Azienda ospedaliera di Busto Arsizio, in collaborazione con la direzione dell’istituto di pena. "Ho visitato questa ala del carcere il 7 luglio scorso e appariva in stato di abbandono - commenta Mantovani. In poche settimane sono di nuovo qui per inaugurare, con piacere, un servizio sanitario per i detenuti che ora potranno avvalersi di una struttura attrezzata e qualificata". A fare da cornice un più vasto progetto della Regione Lombardia teso a migliorare le condizioni di vita e di lavoro di detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Venerdì scorso la Giunta lombarda ha deliberato di "estendere alla realtà carceraria, con il contributo dei servizi sanitari interni agli Istituti penitenziari, l’esperienza acquisita dai servizi sanitari regionali nella prevenzione e nella cura delle patologie". Con il provvedimento, spiega Mantovani, "la Regione Lombardia diventa parte integrante del progetto avviato dall’Emilia Romagna, a seguito dell’accordo sottoscritto con il Ministero della Salute nel novembre 2013". Un progetto che punta alla "condivisione tra le Regioni partecipanti di strumenti di raccolta e di analisi dei dati relativi alle condizioni di salute della popolazione detenuta e all’utilizzo dei servizi sanitari, di rilevazione delle condizioni ambientali e di supporto alla programmazione di interventi di presa in carico e alla adozione di modelli assistenziali appropriati". Per quanto riguarda la Regione Lombardia, gli istituti penitenziari che aderiscono all’iniziativa sono quelli di Bollate, San Vittore e Opera - afferenti all’Azienda ospedaliera San Paolo di Milano - con un impegno di spesa pari a 67.250 euro. Le tappe previste sono la rilevazione dei parametri ambientali negli Istituti penitenziari in questione, l’implementazione di un software per la raccolta delle informazioni socio-sanitarie individuali dei detenuti, la rilevazione dei dati e la stesura, in collaborazione con le altre Regioni convolte, delle linee guida relative alle principali criticità sanitarie rilevate. "Siamo certi che questo strumento di studio e di analisi delle esperienze maturate - aggiunge Mantovani - potrà contribuire a migliorare ulteriormente l’assistenza sanitaria a favore delle persone detenute. La Regione è infatti impegnata concretamente nel risolvere la questione del sovraffollamento delle carceri e nel garantire il benessere dei detenuti". Roma: progetto del Forum Nazionale dei Giovani per i detenuti tra i 18 e i 35 anni di Carmine Alboretti www.lavocesociale.it, 21 ottobre 2014 Domani a Roma alla Camera dei Deputati, a partire dalle ore 15, il Forum Nazionale dei Giovani presenta un documento programmatico di approfondimento sulla problematica delle carceri italiane, focalizzando l’attenzione sui detenuti tra i 18 e i 35 anni. Durante l’incontro verrà presentato un progetto per il loro reinserimento in società, dopo l’espiazione della pena. Il documento programmatico è stato sottoscritto ad oggi da oltre 40 parlamentari italiani ed europei ed esponenti attivi nel mondo della giustizia. Interverranno alla Conferenza Stampa: Giuseppe Failla, Portavoce del Forum Nazionale dei Giovani; Luigi Iorio, Coordinatore del Gruppo FNG sull’emergenza carceraria, Marco Di Lello, Membro Commissione Giustizia e Segretario Commissione Antimafia, Micaela Campana, Segreteria Nazionale PD Responsabile Welfare e Diritti, Arturo Scotto, Presidente Gruppo Deputati Camera deputati , Anna Grazia Calabria, Coordinatrice Giovani Forza Italia, Gianpiero D’Alia, Membro Commissione Giustizia, già Ministro nel governo Letta. Benevento: 12 detenuti diventano pizzaioli, progetto finanziato fondi Por Campania Fse www.metropolisweb.it, 21 ottobre 2014 La pizza napoletana, regina indiscussa del made in Campania, diventa protagonista di un riscatto sociale. Lo fa attraverso i dodici detenuti che hanno ricevuto un attestato di pizzaiolo, in seguito ad un corso di accompagnamento al lavoro, svolto nella casa circondariale di Benevento. L’iniziativa formativa - si legge in una nota - scelta dall’Istituto penitenziario di Benevento ed attuata dall’Ente Infothesi, è finanziata dai fondi Por Campania FSE 2007/2013 destinati dalla Regione al catalogo carceri. "Riteniamo questa un’esperienza straordinaria - sottolinea Giuseppina Mele, rappresentante di Infothesi - che ci ha arricchito sia da un punto di vista professionale che umano. Quello che colpisce in questa particolare situazione è la profonda motivazione con cui i detenuti hanno partecipato alle attività formative, che si è tradotta in una altrettanto forte determinazione ad imparare ed a dimostrare di saper fare". "Lavorare in un penitenziario - aggiunge Mele - pone gli operatori di fronte ad un mondo sconosciuto. L’azione di facilitazione di dirigenza e personale aveva come obiettivo garantire ai detenuti, attraverso una formazione vera, una concreta opportunità di riscatto". Chieti: l’Ass. "Voci di dentro" apre il Punto Orientamento Lavoro, rivolto a ex detenuti Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2014 Dal 21 ottobre ogni martedì dalle 10,30 alle 12 nella sede della Onlus, in via Concezio de Horatiis n. 6 a Chieti, (dietro la piazza della Questura), sarà possibile incontrare i volontari referenti del progetto per una consulenza e fissare gli eventuali appuntamenti successivi per iniziare il percorso. Il gruppo, formato da Athena D’Orazio, Caterina Ianniello, Alessia Paradiso, Rossella Capuano e Francesco Spadola, laureati e specializzandi in Psicologia, Sociologia, Scienze Politiche, Gestione delle Risorse Umane, garantiranno agli utenti supporto nella fase della ricerca del lavoro - decisamente complessa per tutti in questo periodo storico e a maggior ragione per chi esce fuori dal carcere - trasmettendo buone pratiche e metodologie da poter utilizzare autonomamente secondo le proprie esigenze e prospettive. Queste le attività individuate dal Punto Orientamento Lavoro: compilazione di curriculum, analisi del mercato del lavoro, conoscenza tipologie di contratti, legislatura attuale sul lavoro, agevolazioni, test attitudinali individuali, valutazioni personali inclinazioni e competenze, modalità di ricerca lavoro anche attraverso giornali e siti internet, simulazione colloqui, proposte corsi di formazione/ tirocini/ patrocini/ politiche lavorative. "L’idea di uno sportello di lavoro rivolto esclusivamente ad ex detenuti, muove dal fatto che l’inserimento lavorativo rappresenta un fattore privilegiato per la ricostruzione di legami sociali e per diminuire il rischio di recidiva" sottolinea Athena D’Orazio a nome del gruppo. Il nuovo servizio si aggiunge al Punto di ascolto legale che la Onlus Voci di dentro ha istituito di recente e che, a sua volta, ogni giovedì pomeriggio, dalle 18 alle 20, offre attività di informazione giuridica e consulenze di carattere extragiudiziale a ex detenuti e cittadini stranieri su problematiche relative ad accesso al lavoro, discriminazioni, contratti, ricongiungimenti familiari. Servizio che a breve sarà introdotto anche all’interno della casa circondariale di Pescara. Roma: dal Garante Angiolo Marroni solidarietà ad agenti Nucleo Traduzioni di Rebibbia Agenparl, 21 ottobre 2014 Fuori uso da tempo, lasciati inutilizzati e rotti in giro per l’Italia e in larga parte da rottamare. È questa la desolante situazione del parco automezzi per le traduzioni e i piantonamenti del Polo Penitenziario di Rebibbia secondo la lettera-denuncia inviata dalla Fp-Cgil alle direzioni delle carceri e al Prap e ripresa dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il Garante ha espresso la propria solidarietà agli agenti di polizia penitenziaria, costretti a lavorare in condizioni critiche, con automezzi che non rispetterebbero neanche la normativa vigente in tema di limiti imposti per l’inquinamento. "Ho ritenuto di approfondire la denuncia della Fp-Cgil - ha detto Angiolo Marroni - ed ho interessato della vicenda le direzioni delle carceri del Polo di Rebibbia e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria affinché verifichino la situazione. Occorre intervenire immediatamente prevedendo, nel caso, anche l’ammodernamento del parco macchine, al fine di garantire la sicurezza dei detenuti e degli agenti penitenziari che si trovano quotidianamente a svolgere un lavoro tanto delicato". Taranto: allarme nel carcere per due casi di scabbia, i detenuti sono in isolamento www.tarantosera.it, 21 ottobre 2014 Scabbia in carcere. L’allarme è scattato qualche tempo fa, ma la notizia è trapelata solo ora. Due i casi di scabbia segnalati alla Asl di Taranto. Un mesetto fa il primo, mentre risale ad una settimana fa il secondo caso. Si tratta di due detenuti italiani, pare tarantini. Attualmente sono in isolamento. È subito scattata la procedura prevista dal protocollo con la bonifica degli ambienti. I due pazienti, che avvertivano prurito, sono stati visitati da un dermatologo che ha confermato la diagnosi. Il direttore del carcere di largo Magli, la dottoressa Stefania Baldassarri, da noi contattata, ha confermato la notizia rassicurando però sul fatto che è tutto sotto controllo. Tutti e due i detenuti erano nella stessa cella. Ora sono in isolamento sanitario ma sarebbero entrambi in via di guarigione. Potenza: detenuto esce dal colloquio ed aggredisce gli agenti www.nuovadelsud.it, 21 ottobre 2014 Ancora un’altra aggressione di un detenuto ristretto nel Carcere di Potenza a danno di un assistente capo di Polizia Penitenziaria. È accaduto ieri nel penitenziario del capoluogo lucano, dopo che lo stesso detenuto aveva dapprima tentato anche l’aggressione nei confronti dei familiari che erano andati a trovarlo in carcere, evitato proprio dal tempestivo intervento della Polizia penitenziaria. Un giovane detenuto italiano, terminato il colloquio con la propria convivente, all’uscita delle sale colloqui ha spintonato gli agenti ed ha cercato di correre verso la vicina uscita che da nel piazzale esterno all’istituto. Prontamente il personale in servizio ha cercato di bloccarlo, il detenuto M.G. ha aggredito gli agenti colpendoli con calci e pugni, un agente è rimasto ferito ed ha riportato una prognosi di 5 giorni. Pesaro: detenuto si ferisce, poi picchia i compagni di cella e le guardie carcerarie Corriere Adriatico, 21 ottobre 2014 Ancora atti di violenza nel carcere di Pesaro con una vicenda che ha visto episodi di autolesionismo e aggressione. Un detenuto di nazionalità magrebina J.M in galera per droga si è procurato tagli profondi all’avambraccio sinistro e al collo. Dopo tali gesti si è recato nella sala della sezione detentiva del carcere di Villa Fastiggi e ha dato in escandescenza contro altri detenuti che stavano tranquillamente giocando a biliardino. Ha colpito in particolare con un pugno al volto G.B. italiano in carcere per droga. Ma le violenze continuano. Quando i due detenuti sono stati portati entrambi in infermeria per le cure, sia il magrebino che il suo compagno di stanza in carcere per violenza e minaccia, si sono scaraventati di nuovo su G.B colpendolo a ripetizione con pugni al volto. Solo grazie all’intervento del personale di Polizia penitenziaria e di alcuni detenuti, la colluttazione è stata fermata. Terni: tennis in carcere con "Sport all’orizzonte", progetto del Coni a favore di 30 detenuti www.ternioggi.it, 21 ottobre 2014 Tennis in carcere con "Sport all’orizzonte", progetto che il Coni di Terni ha programmato da mercoledì prossimo fino al 31 dicembre, grazie alla collaborazione di quattro tecnici della "Fit" (Federazione italiana tennis). In particolare Fabio Moscatelli, Marco Ruello, Fabio Todini e Marco Verducci si metteranno a disposizione di un gruppo di 30 detenuti del carcere di Terni selezionati tra le numerose richieste pervenute. Il delegato provinciale del Coni Stefano Lupi spiega che "si tratta di un progetto sportivo che qualifica l’azione del Coni sul territorio. Siamo fortemente impegnati nella promozione dello sport, cercando di coniugarlo a valori e messaggi sociali e di solidarietà". Un progetto accolto con grande favore dal direttore della casa circondariale ternana Chiara Pellegrini: "Lo sport come strumento di salute psicofisica è importantissimo soprattutto per chi è in una situazione di detenzione. A maggior ragione nel periodo natalizio, un momento particolarmente delicato, dove si acuisce ancora di più la sofferenza per la lontananza dai propri affetti e dalle famiglie. Lo sport aiuta ad esprimere emozioni che spesso nei 9 metri quadrati della cella non si riescono a metabolizzare". "È un’esperienza positiva - ha aggiunto Fabio Moscatelli, il referente tecnico della Fit nell’ambito del progetto - e che arricchisce anche chi la porta avanti come noi. Siamo felici di poterci mettere a disposizione per una così importante attività sociale, di aiuto a chi in un determinato momento della vita si trova in difficoltà". Cinema: "Menomale è lunedì", sul red carpet ex detenuti e tutor di Fare impresa in Dozza di Ambra Notari Redattore Sociale, 21 ottobre 2014 Anteprima mondiale del docu-film di Filippo Vendemmiati, il 22 ottobre alle 17 al Festival del Cinema di Roma: con lo staff tecnico, due ex detenuti, sette tutor e i rappresentanti delle imprese coinvolte nell’officina metalmeccanica del carcere bolognese. La squadra è quasi al completo: in partenza per il Festival del Cinema di Roma, oltre allo staff tecnico, ci sono 2 ex detenuti, 7 tutor ex dipendenti metalmeccanici e 2 rappresentanti per ogni azienda coinvolta nel progetto "Fare impresa in Dozza", l’officina nata nel carcere bolognese: Gd, Ima e Marchesini Group. Forse, si potrebbe aggiungere un terzo passeggero, un altro ex detenuto. Il giorno dell’anteprima mondiale di "Menomale è lunedì", l’ultimo docu-film del giornalista e regista ferrarese Filippo Vendemmiati, si avvicina e i preparativi fervono: il 22 ottobre, alle ore 17, alla kermesse cinematografica della capitale sarà proiettato nella sezione "Prospettiva Italia". "Menomale è lunedì" racconta le storie che si intrecciano nell’officina del carcere bolognese: attori, i 13 detenuti assunti a tempo indeterminato guidati da ex operai che a loro tramandano competenze e segreti. Un red carpet decisamente atipico: "Uno dei due ex detenuti in partenza per Roma è in affidamento ai servizi sociali con il permesso di lavoro esterno; l’altro ha finito la pena e ora sta lavorando in un’azienda che gli abbiamo trovato grazie al progetto - spiega Valerio Monteventi, coordinatore del gruppo dell’officina ed ex consigliere comunale di Bologna - Forse anche un altro ragazzo in affidamento ai servizi sociali avrà il permesso di venire con noi". Monteventi racconta la felicità anche di tutti i ragazzi in carcere, entusiasti di vedere che qualcosa - finalmente - comincia a muoversi e qualche varco ad aprirsi: "Quando il film arriverà a Bologna chiederemo che anche loro possano partecipare alla prima: sono i protagonisti, non possono mancare". Libri: giudici, non dimenticate che la memoria è imperfetta di Valentina Stella (Associazione Luca Coscioni) Il Garantista, 21 ottobre 2014 L’uso diffuso delle neuroscienze al di fuori della ricerca e dei laboratori medici solleva questioni etiche e pratiche. Lo sapete che da non molto siamo tutti soggetti di una nuova disciplina, denominata neuro-marketing la quale, attraverso le nuove scoperte delle neuroscienze, aiuta a individuare modalità di comunicazione più efficaci per entrare nella mente dei possibili clienti? Tuttavia, c’è un luogo in cui lo studio dei processi mentali può davvero essere determinante per il destino delle persone: il tribunale. Lo spiega il professor Piergiorgio Strata nel libro "La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze", Carocci Editore. Strata, emerito di Neurofisiologia all’Università di Torino, già presidente dell’Istituto Nazionale di Neuroscienze, intraprende un viaggio lungo 160 pagine nella macchina complessa del cervello, seguendo l’evoluzione storica dei fatti acquisiti dalla scienza, nella cornice culturale in cui sono maturate le grandi scoperte. Spiega le basi biologiche di fenomeni comuni quali l’amore, il piacere, l’aggressività, l’odio e l’emarginazione. Ma soprattutto porta alla luce le ricadute sul sistema giudiziario dei nuovi studi sulla coscienza e sulla memoria. "Non sono assolutamente convinto della colpevolezza di Rosa Bazzi e Olindo Romano", condannati all’ergastolo per la strage di Erba, ha dichiarato pochi giorni fa Strata alla trasmissione "Il Maratoneta", su Radio Radicale. "La giustizia deve prendere atto che la memoria è imperfetta e manipolabile", continua Strata, che nel libro giustifica tale affermazione esaminando la testimonianza di Mario Frigerio, marito di ima delle vittime della Strage di Erba, che vide in faccia l’assassino. Tipico "caso da manuale sulla manipolazione della mente dei testimoni oculari": la versione dei fatti è mutata sotto l’azione di interrogatori (stralci sono riportali nel libro e in maniera più estesa su piergiorgiostrata.net), nei quali si suggeriscono le risposte, si instillano dubbi e si pongono esercizi di immaginazione. E contesta una dichiarazione del Generale dell’Arma dei carabinieri in congedo Luciano Garofano, il quale scrive in un suo libro, riferito al racconto di Frigerio: "probabilmente la sua testimonianza è la più convincente e indubbiamente giocò un ruolo chiave nell’ottenere un verdetto di colpevolezza. Probabilmente fu proprio grazie alla sua testimonianza che la Cassazione confermò le sentenze". "Che questa testimonianza fosse la prova regina lascia molto perplessi", sottolinea Strata, il quale dedica un capitolo anche al processo Marta Russo, uccisa il 9 maggio 1997 da un colpo di pistola in un cortile dell’Università La Sapienza di Roma. Anche in questo caso, per il quale fu condannato per omicidio colposo Giovanni Scattone e per favoreggiamento Salvatore Ferraro, le testimonianze-chiave della Lipari e dell’Alletto per Strata sono inattendibili perché estorte sotto pressioni e anche minacce. Se da un lato, dunque, le conoscenze acquisite sulle false-memorie possono essere utili a magistrati e giurie per dare un giusto peso a quanto dichiarato dai testimoni, dall’altro lato Strata contesta l’uso in ambito processuale della imaging cerebrale con l’obiettivo di mettere in evidenza anomalie sia anatomiche (presenza di tumori, atrofie, lesioni) sia funzionali (aree che presentano un’alterazione nel grado di attività) che possano essere responsabili di comportamenti offensivi al fine di decidere la condanna e l’entità della pena. "Istruttivo - scrive Strata - il caso di Brian Dugan che all’età di 52 anni rapì e uccise Jeanine Nicarico di appena 10 anni. Si trattava del terzo omicidio. Al processo, nel 2006-2009, secondo il perito della difesa l’imaging cerebrale dell’imputato mostrava gravi segni di psicopatia, pur ammettendo che ciò non dimostrava la sua innocenza, essendo peraltro lui reo confesso. Il perito del tribunale affermò "le immagini sono meravigliose, ma non rilevanti. La corte condannò l’imputato alla pena di morte che per moratoria fu poi tramutata in ergastolo". E giunto forse finalmente il momento che anche il processo penale italiano, come quello dei Paesi anglosassoni, faccia propri gli sviluppi scientifici descritti da Strata, e che l’approccio neuro-scientifico possa rappresentare un contributo aggiuntivo in ambito forense? Pakistan: caso di Asia Bibi, la Commissione Diritti Umani confida nella Corte Suprema Adnkronos, 21 ottobre 2014 La Commissione per i diritti umani del Pakistan auspica che la Corte suprema analizzi tutti gli aspetti del caso che vede coinvolta Asia Bibi, la donna cristiana con cinque figli condannata a morte per blasfemia e il cui appello è stato respinto la scorsa settimana dall’Alta Corte. In un comunicato la Commissione per i diritti umani del Pakistan scrive: "L’esito dell’appello presentato da Asia Bibi ha sconvolto un gran numero di persone e ora tutti gli occhi sono puntati sulla Corte suprema. Mentre la Commissione ritiene che non si debba interferire nei procedimenti giudiziari con commenti, in questo caso le ricadute non possono essere ignorate". Nel testo rilanciato dal sito del quotidiano Dawn si sottolinea poi che "il Pakistan è in una situazione difficile perché la legge sulla blasfemia e il modo in cui viene applicata non sono stati soggetti a votazioni. Mentre noi continuiamo ad aspettarci che la magistratura non tradisca le aspettative di giustizia per una povera donna, il compito essenziale spetta ai legislatori e agli ulema. Se loro non comprendono l’impatto che questa legge sta avendo sul modo di pensare delle persone e nell’aumentare l’intolleranza in Pakistan, ci troveremo davanti a difficoltà maggiori". Egitto: presidente al Sisi valuta la possibilità di espellere giornalisti stranieri arrestati Nova, 21 ottobre 2014 Il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha prospettato la possibilità di espellere i giornalisti stranieri arrestati dopo la caduta del presidente islamico, Mohammed Morsi, dello scorso anno. Rispondendo alla richiesta del sindacato dei giornalisti egiziani di liberare i cronisti stranieri dell’emittente "al Jazeera", in carcere il presidente egiziano ha affermato che "il modo migliore per rispondere alle violazioni commesse da alcuni giornalisti stranieri sia quello di espellerli dal paese". Medio Oriente: Anp, lavori forzati e pene per i palestinesi che vendono terreni a israeliani Nova, 21 ottobre 2014 Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha emesso un’ordinanza per inasprire le pene per i palestinesi coinvolti in offerte immobiliari con i "paesi ostili" e i loro cittadini. La decisione di Abbas è arrivata in seguito alla notizia secondo cui alcuni palestinesi avrebbero venduto delle case a Gerusalemme nel quartiere ebraico di Silwan. Già da oggi alcune famiglie israeliane si trasferiranno in altre due residenze a Silwan, tutte case acquistate grazie a un mediatore palestinese. Nella sua ordinanza, Abbas ha deciso di modificare il codice penale palestinese in modo da includere i lavori forzati, oltre al carcere a vita, per i palestinesi che si offrono da mediatori nelle transazioni immobiliari con i "paesi ostili".