Telefono nemico di Carmelo Musumeci Il Mattino di Padova, 20 ottobre 2014 Nella società "libera" il telefono è un mezzo straordinario per comunicare, e non a caso quando si parla di servizi telefonici che aiutano a far fronte alla solitudine si usa l’espressione "Telefono amico". In carcere no, in carcere il telefono diventa ben presto "nemico" quando i dieci miseri minuti che hai a disposizione in una settimana, per giunta in un’unica telefonata, li devi dividere fra figli che non capiscono perché hai tutta quella fretta e una moglie angosciata di sentirsi addosso tutto il peso della famiglia. Il dialogo che segue è il racconto, minuto per minuto, della telefonata di un detenuto, inframezzato dai suoi pensieri, dalle sue ansie, dalle sue paure. "I condannati possono essere autorizzati dal direttore dell'istituto alla corrispondenza telefonica una volta alla settimana. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti". (Art. 39 del Regolamento penitenziario) Dieci minuti d’amore tra le sbarre Normalmente telefono di domenica. Verso l'una del pomeriggio. Quando ho più probabilità di trovare tutti i miei familiari a casa. Spero sempre soprattutto di trovare Michael e Lorenzo. Sono i miei due nipotini. Li penso di giorno. E di notte. Poi di notte. E ancora di giorno. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E guardo tutti i momenti l'orologio, e rimango teso dall'ansia fino a quando non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a poco a poco a occuparmi la mente. E il cuore. Finalmente è l'orario. Sono sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo tanto a casa lo sanno. Corro nella celletta dove c'è il telefono, accosto il blindato. E faccio il numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dalla parte del filo sento trattenere il respiro. Di sottofondo ascolto le voci dei miei due nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio. Passami il telefono. Ascolto un rumore di cuscino sbattere. Sono arrivata prima io. Subito dopo avverto un grugnito di mio figlio: Sei una stronza, tanto papà vuole più bene a me che a te perché sono un maschio. Sento mia figlia sospirare. Pronto. Da quando l'ho lasciata bambina è quasi sempre mia figlia Barbara che prende per prima il telefono. Amore. Si potrebbe dire che è da ventitré anni che mi aspetta vicino al telefono. Papà. È stata la prima cosa bella che i miei occhi hanno visto nella mia vita. Come stai? Da quando è nata è l'energia del mio cuore. Bene papà e tu? E della mia mente. Anch'io. Voglio bene ai miei figli anche perché sono diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita. Ti vengo a trovare la prossima settimana. Spesso ho il senso di colpa di averli fatti crescere senza di me accanto. Va bene amore. Ho sempre paura di non essere stato un buon padre. Cosa vuoi che ti porto da mangiare? E questo pensiero mi fa stare spesso male. La focaccia con le cipolle. Quando telefono sembra che il tempo voli via. Va bene. E che non puoi fare nulla per fermarlo. Amore, adesso passami tuo fratello. Non ho mai capito perché quando telefono sembra che i secondi volino via come le foglie in autunno. Papà ti amo. Non li puoi afferrare. Anch'io amore. E con il passare degli anni sembra che i minuti del telefono diventino sempre più brevi. Papà, come al solito la Barbi s'è consumata tutta la telefonata lei. Se solo ci dessero più tempo. Lasciala stare, sai com'è fatta. E più telefonate. Papà ci sono i bambini che stanno aspettando. Mio figlio si lamenta sempre di sua sorella. Chi ti passo per primo? L'ho lasciato che aveva sette anni. Passami Lorenzo. Ormai è grande. Ti voglio bene papà. Continua però lo stesso ad abitare nel mio cuore. Anch'io figliolo. Mi ha dato due meravigliosi nipotini. Ciao nonno Melo. E adesso che sono anziano sono entrambi loro il centro del mio mondo. Ciao amore. Ed il principio del mio universo. Nonno quando vieni a casa? Sono il cielo della mia anima. Presto. La mia acqua nel deserto. Ce la fai a venire a casa prima che compio dieci anni? E i raggi del sole che riscaldano il mio cuore. Certo, adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire. Quando parlo con i miei due nipotini la loro voce mi accarezza il cuore. Ciao nonno ti voglio tanto bene. E m'immagino i loro visini. Anch'io tesoro. E mi viene ancora più voglia di abbracciarli. Ciao nonno. Michael è il più piccolo. Ciao amore. E più scalmanato di suo fratello. Lorenzo dice che le telefonate dove sei tu durano così poco perché le guardie sono cattive. Muovo la testa da una parte all'altra. No amore, non sono cattivi. Poi chiudo gli occhi. E allora perché non telefoni tutti i giorni? E penso a come rispondergli. Perché qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare. Non voglio che imparino ad odiare lo Stato. Amore adesso passami la nonna perché ormai c'è rimasto poco tempo. La sua vocina si fa più dolce. Va bene nonno, ti voglio bene più di Lorenzo. Spero che i sogni a forza di crederci diventino veri. Ciao amore. E mi auguro di vedere crescere almeno loro. Adesso è il turno della mia compagna. Carmelaccio. E scatta l'avviso che la telefonata sta per terminare. Amore Bello. Fra trenta secondi cadrà la linea. Il magistrato di sorveglianza ti ha risposto sul permesso che hai chiesto? Lei è sempre la più scalognata. Ancora no. E le rimangono solo una manciata di secondi. E porca miseria quanto ci mette? Non capirò mai perché ci danno cosi poco tempo per telefonare a casa. Non dire parolacce che le telefonate sono registrate. Mi sembra una pura cattiveria. Sono due anni che aspettiamo questa c. di risposta. In fondo la telefonata la paghiamo noi. Amore lo so, ma che possiamo farci? La presenza della mia compagna nel mio cuore mi aiuta a vivere giorno per giorno. A me dispiace per te. Senza di lei nel mio cuore non ce l'avrei fatta. E a me per te. Non ce l'avrei mai potuta fare. Carmelaccio sbrigati a venire a casa. Potrei fare a meno della libertà, ma non potrei certo fare a meno del suo amore. Penso che questa volta sia quella buona. Vivo grazie o per colpa del suo amore. Mandami un bacino. È stato facile amarla. Prima mandamelo tu. Impossibile smettere di amarla. Cade la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. In compagnia solo di me stesso. E contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose. Ritorno nella mia cella come un lupo bastonato pensando al motivo perché il carcere ha così paura e terrore dell'amore dei nostri familiari e ci proibisce le telefonate libere e i colloqui riservati come accade negli altri paesi. Non riesco a trovare una risposta razionale. Penso solo che i buoni quando puniscono non sono meno malvagi dei cattivi. La paura dell’attesa di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2014 Circa due anni fa ho presentato una richiesta di permesso alla magistratura di Sorveglianza. In seguito ne ho presentate altre due. E non ho ancora ricevuto nessuna risposta. E oggi la giornata è durata una eternità. In carcere si sta al mondo, ma non si vive nessuna vita. Quando aspetti una risposta accade spesso che quella che passa sembra la giornata più lunga. Poi l’indomani però pensi la stessa cosa perché il tempo in carcere non passa mai. Forse perché dentro l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) il tempo è tempo perso. Tempo vuoto. E senza amore. La sera è ancora più lunga. E la mattina non arriva mai. Ti senti come un cadavere vivo chiuso fra quattro mura. Davanti un blindato. Dietro una finestra piena di sbarre. Nel mezzo il tuo cuore vivo. E prigioniero in attesa di una risposta. In questi ultimi tempi faccio fatica ad arrivare alla fine della giornata. Questa maledetta o benedetta risposta che sto aspettando tarda ad arrivare. Il mio magistrato di Sorveglianza continua a non rispondermi. Ed io non ce la faccio più ad aspettare di sapere se posso sperare di morire un giorno da uomo libero. La mia unica consolazione è che se questa risposta ritarda così tanto potrebbe essere positiva, ma è poco, troppo poco per poter fare sera e mattina. Mentre aspetto questa maledetta o benedetta risposta non riesco a trovare nessuna via di uscita da questo tunnel di ansia. E non riesco a trovare nessun conforto che questa risposta potrebbe essere positiva, perché quando sei torturato t’interessa poco sapere che un giorno non lo sarai più. L’ansia di questa maledetta benedetta risposta che non arriva mai mi tormenta dalle prime ore del mattino fino all’ultimo minuto della giornata. Prima di presentare questa richiesta di permesso mi sentivo vivo e avevo tanta forza per tenermi in vita. Adesso invece quando mi sveglio al mattino mi chiedo come riuscirò ad affrontare un’altra giornata per arrivare alla sera. Non riesco più a trovare la forza di andare avanti e neanche di trovare conforto in una eventuale risposta positiva. Vorrei che arrivasse solo questa maledetta o benedetta risposta. E anche se fosse una condanna a morte sarei lo stesso felice perché una non risposta è più crudele dell’ergastolo. Ormai sono stressato dall’attesa. E ho ripreso a fumare. Ho perso 14 kg. E tutto tace. Non m’importa se mi arriva una risposta negativa. M’importa piuttosto avere qualsiasi risposta. Nella mia vita ho conosciuto tutto quello che c’era da avere paura nelle mie mille vite, ma non conoscevo ancora la paura della attesa. L’attesa è finita Caro Carmelo credo che il miglior metodo per lottare e sopravvivere lo abbia trovato lei da sé, scrivendo bellissime pagine. Seguiti a scrivere, a far conoscere la vita e i sogni, se ci sono ancora, di un ergastolano, far conoscere quanta umanità si può trovare in carcere e quanta cattiveria fuori. (Margherita Hack) Dove eravamo rimasti: Non m’importa se mi arriva una risposta negativa. M’importa piuttosto avere qualsiasi risposta. Nella mia vita ho conosciuto tutto quello che c’era da avere paura nelle mie mille vite, ma non conoscevo ancora la paura della attesa. I filosofi dicono che le cose belle accadono solo a chi sa aspettare. E io credo sempre a quello che dicono i pensatori, ma a volte anche loro si sbagliano. Ieri finalmente mi è arrivata la risposta che tanto aspettavo. Dopo due anni anche la magistratura di sorveglianza di Padova mi ha confermato che uscirò dal carcere solo da morto. Chissà perché ci hanno messo tutto questo tempo a decidere. I buoni sono proprio strani. Io proprio non li capisco. Probabilmente non li capisco perché sono cattivo. La cosa buffa è che sono contento di essere come sono piuttosto che essere buono come loro. E spesso mi domando se chissà se esisterà il paradiso dei cattivi, perché in quello dei buoni non ci voglio proprio andare. Questa mattina ho fatto fatica ad alzarmi dalla mia branda perché per dieci mesi mi ero abituato a pensare di nuovo come un uomo normale. Ora invece dopo la brutta risposta della magistratura di sorveglianza devo riprendere l’abitudine di pensare di nuovo da uomo ombra. Prima di alzarmi dal letto ho riletto la lettera di un’amica, Tiziana, che avevo sopra lo sgabello ancora da ieri: "Una sola cosa sento di non potere condividere di ciò che mi scrivi, certamente non per spirito di contraddizione, né tanto meno per smorzare la verità di ciò che sei costretto a subire. È solo che quando parli di speranza e la equipari al "veleno" che avvelena pian pianino la tua vita, io non riesco a condividere con te questa convinzione. Capisco il senso e il motivo per cui parli così: cioè come se la speranza fosse il respiratore che costringe un corpo a restare in vita. Ma io credo che il veleno di cui parli sia la frustrazione della speranza. Allora, mentre la speranza abita la tua anima bellissima e di lei devi fidarti ed esserne fiero, la frustrazione della speranza non proviene da te, né dalla tua responsabilità, né dalle tue scelte. La speranza è la tua stessa vita, i tuoi affetti, quelli per i quali hai il coraggio di rappezzare ancora una volta il cuore rinunciando a gesti decisi nello sconforto, ma del tutto inefficaci. Ti chiedo di continuare a scrivere, di non fermarti nel far sapere, a noi che siamo qui ignari di tante cose, ciò che vivi e vivete. Il dono di scrivere che hai non è di tutti. Parla e racconta non solo per te, ma per tanti". Finito di leggere la lettera di Tiziana ho scrollato la testa pensando che per realizzare i sogni bisogna prima sognarli, ma gli uomini ombra non possono sognare. Possono solo sopravvivere e sopravvivere non è come vivere e non è neppure come morire. Poi per tutto il giorno il mio cuore mi ha sussurrato di smettere di pensare al futuro perché ormai per me tutto è finito. E mi ha consigliato di vivere vivo solo le emozioni dei miei figli e dei miei nipotini perché io non ne avrò mai più. Alla sera ho telefonato alla mia compagna che mi aspetta inutilmente da ventitré anni. Le ho dato la notizia. Le ho detto che l’attesa è finita. E negli ultimi secondi di quei miseri dieci minuti di telefonata che ci concedono ho fatto in tempo a dirle che il suo amore è tutto quello che mi è rimasto di lei. Ho fatto in tempo a dirle anche un’altra cosa, ma a voi non ve lo dico. Giustizia: Orlando; "no" all’abolizione dell’appello… ma non tutto sia appellabile La Presse, 20 ottobre 2014 "Non credo a ricette tranchant, tipo abolire l’appello. Ma si può far sì che non tutto sia appellabile, e non tutto possa finire in Cassazione". Così il ministro della giustizia Andrea Orlando in un’intervista al Corriere della Sera. "L’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità", ha aggiunto il ministro parlando del numero crescente di detenuti. Inoltre, soffermandosi sulla responsabilità della magistratura nei processi, Orlando ha spiegato che "la responsabilità dei magistrati resta indiretta: paga lo Stato, che può rivalersi sul magistrato che però risponderà per l’errore, non in base alla grandezza della causa. Altrimenti nessuno vorrà fare processi grandi e quindi rischiosi". Giustizia: una settimana di sciopero per procuratori e giudici "onorari" di Massimiliano Peggio La Stampa, 20 ottobre 2014 Ogni giorno difendono i diritti degli altri rappresentando lo Stato in tribunale. In compenso, nessuno difende i loro diritti, nemmeno lo Stato che li ha introdotti nel sistema giudiziario nel 1998 come soluzione temporanea ai malanni cronici dei tribunali. Anzi, contro una recente sentenza pilota di un giudice del lavoro di Torino, che ha riconosciuto loro il diritto alla previdenza, il Ministero della Giustizia ha presentato ricorso in appello, per non pagare un centesimo di contributi. Sono le toghe onorarie, pomposamente chiamate così perché di fatto non sono magistrati ordinari. Sono tutti "precari della giustizia", pagati a cottimo: 98 euro ad udienza. Sono circa 3.800 magistrati suddivisi in giudici e procuratori onorari, chiamati in gergo tecnico "Got" e "Vpo". I giudici in servizio sono 2.044, i procuratori 1.737. Altro che ferie prolungate dei colleghi ordinari. Loro, se vanno in vacanza, restano senza stipendio, che lo Stato chiama "indennità". E guai a desiderare di avere figli: la maternità se la sognano. Da oggi, e per tutta la settimana, saranno in sciopero, bloccando la maggior parte dell’attività giudiziaria dei tribunali italiani, per protestare contro le recenti proposte di riforma del Governo, in contrasto con le promesse elargite la scorsa estate ai rappresentanti sindacali dal ministro della Giustizia Andrea Orlando in vari incontri. "Le nuove linee esposte dal Ministro - afferma l’unione nazionale magistrati onorari - hanno rivelato che le riunioni al ministero erano state solo un simulacro, non avendo il governo alcuna intenzione di stabilizzare i magistrati onorari". Anzi, l’indirizzo del Governo è quello di adottare una maxi proroga degli incarichi, in linea col passato. E, secondo i consigli del ministro, questo tempo potrebbe essere utilizzato dai magistrati onorari per "guardarsi intorno", alla ricerca di nuovi impieghi. Precari "recidivi" e beffati. A Torino, uno dei centri più attivi dell’astensione, i procuratori onorari hanno deciso di andare al di là della protesta. Per scrivere una loro proposta di legge da presentare al premier Renzi, andranno in ufficio anche di notte. Saranno le "Notti della Giustizia", destinate a comporre un "controcanto" di norme al disegno di legge del Governo. Propongono il "mantenimento dei contenuti di efficienza" ma anche "la permanenza in servizio fino all’età pensionabile, secondo il modello dell’Ufficio del Processo, che valorizzerà la professionalità acquisita dai magistrati onorari, e tutti i diritti dei lavoratori previsti dalla Costituzione". Alle "Notti della Giustizia" ha dato pieno appoggio il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, scrivendo una lettera all’Associazione Nazionale Magistrati per chiedere ai colleghi di scendere "decisamente in campo al fianco della magistratura onoraria". Appello accorato. "Condivido - ha scritto Spataro - le loro rivendicazioni e il non accontentarsi della ulteriore reiterabilità dei mandati quadriennali senza che sia loro riconosciuto il diritto di lavorare con serenità e di esercitare con dignità le loro funzioni in nome dello Stato, fino all’età pensionabile: immagino quanto sia dura la prospettiva di un gravoso impegno per venti/trent’anni per far fronte a problemi non risolti per poi trovarsi di colpo "in strada", senza diritto ad un trattamento pensionistico". Giustizia: "Porteremo violenza nelle vostre vite…", inchiesta sulla devianza minorile di Emiliano Liuzzi e Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014 A Napoli un ragazzo viene violentato con un tubo d’aria compressa. La madre: "non parla, non vuole ricordare quello che gli è accaduto". La suocera dell’aggressore: "io sono fiera di mio genero, scherzava". Forse, nei dintorni di Napoli, si consuma l’epilogo di quella che è una lunga serie di violenze, molte emerse, altre lasciate nascoste per paura. Ma il fenomeno non conosce ostacoli di geografia: i casi sono in aumento ovunque, ragazzini tra i 9 e i 17 anni, più maschi, il numero delle femmine in aumento del 12.5 per cento, seppure i primi facciano sentire la forza del branco con la fisicità, le adolescenti sono più propense alla diffamazione. Ma sempre violenza è. Inappropriato sarebbe limitare la definizione al bullismo. Spesso non lo è. Prendiamo l’ultimo episodio, quello di Napoli appunto. Violenza sessuale e tentato omicidio. Vincenzo Iacolare, si chiama l’uomo di 24 anni in carcere. Vincè, per gli amici, apre il tubo e spruzza aria compressa sul volto di un ragazzino, 14 anni, unico segno particolare che è sovrappeso. Prima sul volto, poi nel sedere e il ragazzino cade a terra. Lesioni al colon, diranno i medici. Grazie a un intervento chirurgico gli salvano la vita, ma il ragazzo è ancora in ospedale. La periferia violenta di Napoli "Guarda il soffitto", dice la mamma al Fatto Quotidiano, "non parla di quanto gli è accaduto. Forse non ricorda nemmeno, si è chiuso in un mutismo per lui inusuale". Iannone viene arrestato, i due complici della violenza sono denunciati a piede libero. In diretta tv, per giorni, va in scena lo scontro tra le due famiglie e culmina con le parole della suocera di Iannone. Che dice: "Quello era uno scherzo, io sono fiera di mio genero". Nessuna scusa, solo la rivendicazione. Ci manca solo che dica: "Ha fatto bene, se lo meritava". Non era uno scherzo. Nemmeno bullismo. Solo violenza. Lo dice anche il garante per i minori, Vincenzo Sapadafora. Si chiama violenza sessuale. E non solo: un uomo di 24 anni sa che sparare aria compressa nel sedere di un ragazzo può portarlo alla morte. Ci è mancato poco, dicono i medici. Lesioni gravissime e un’invalidità permanente, dicono. Oltre a tutto quello che una violenza sessuale può portare. Dice Raffaele Morelli, psicoterapeuta e una specializzazione per quello che riguarda i minori: "Il ragazzo in questo momento ha bisogno di silenzio e di un aiuto psicologico per superare un trauma che gli resterà addosso. Sono vite ai margini della mentalità camorristica, quelle di cui parliamo. Il quartiere dove è avvenuto l’episodio si chiama Pianura, uno dei luoghi del disagio di Napoli, un quartiere satellite, popolato da persone che cercavano un affitto ridotto e una zona, seppur lontana dal centro, ben collegata con il resto della città, sia attraverso la tangenziale che la Circumflegrea. Area dove sopravvivere è difficile e vince la sottocultura legata al branco, al dominio. Il pm, Fabio De Cristofaro, non commenta. Ha chiesto e ottenuto la custodia cautelare per il responsabile della violenza e l’ha ottenuta, gli altri al momento restano denunciati, ma a piede libero. L’indagine, però, conferma la Procura di Napoli, è tutt’altro che chiusa. Ucciso con un pugno a Pisa Si chiama knockout game. La pratica, esportata da città metropolitane, è arrivata ovunque. La modalità è semplice: una buona dose di alcolici o droghe, poi in strada a picchiare qualcuno. La prima persona che passa, chiunque possa trovarsi nel posto sbagliato al momento spagliato. La prima vittima, in Italia, è a Pisa, aprile scorso. Zakir Hoassin, 34 anni, bengalese, una moglie e tre figli che si porta appresso in una fotografia nel portafogli e che però vivono a migliaia di chilometri di distanza causa reddito troppo basso, esce dal lavoro e cammina per rientrare nella stanza dove vive. Le telecamere riprendono tutto: nessuna aggressione per rapina o a sfondo razziale. Incrocia semplicemente quello che lo metterà giù con un pugno. Morirà poche ore dopo all’ospedale di Cisanello. L’episodio più tragico, ma pratiche del genere avvengono in tutte le principali città. È un gioco di ubriachi, con epilogo che si risolve con un pugno. Chi lo sferra più forte e nei confronti di una persona che sta passeggiando. Possibilmente solo, per non lasciare testimoni. Profondo nord: Mestre e Belluno È la radiografia di un Paese che non esclude nessuno. Il Veneto, un tempo locomotiva economica, non è immune. A Mestre un gruppo di minori ha organizzato un Fight Club, proprio come nel film di David Fincher. Si ritrovavano quasi tutti i giorni in un piazzale della città non lontano dal centro e in due, a turno, combattevano. Gli altri intorno scommettevano sul vincitore e incitavano alla lotta. Chi rimaneva in piedi passava il turno. La musica sparata a tutto volume, alcol e sigarette e i pugni per passare il tempo massacrandosi. Bulli tra di loro per trasferire, poi, la violenza sugli altri. Secondo la polizia, infatti, le stesse persone, tutti ragazzi minorenni, sarebbero responsabili di alcune aggressioni nelle discoteche. A Belluno, invece, un ragazzino, preso di mira dai bulli, è stato costretto a cambiare scuola. Sono stati i genitori, con le spalle al muro, a decidere di trasferirsi per proteggerlo. D’altronde le violenze erano documentate e la Procura, nei giorni scorsi, ha aperto un fascicolo con due indagati. Gli aggressori in una intercettazione dicono: "Così ti facciamo diventare uomo". Parole registrate sul telefonino della vittima, a cui i due denunciati dal ragazzino chiedevano anche di dire che è "solo uno scherzo". "O fai così, altrimenti ti aspetta l’acqua bollente". Bande di notte: Milano L’ordine arriva con una parola in codice: "Luce verde". Il capo comanda, i soldati eseguono. La vittima, quasi sempre, viene presa sul predellino della metropolitana. Picchiata. Perché così vuole il codice dell’onore degli Ms13, pandillas sudamericana che a Milano si spartisce una fetta di territorio. Sono in guerra. E così tutto vale. Chi assiste alla violenza non alza un dito tanta la furia della gang. Per capire, ecco alcune frasi del loro inno alla violenza. Dice: "La Mara Salvatrucha sta ammazzando, l’Italia invadendo, con intelligenza ci stiamo espandendo, la Lombardia in un inferno la stiamo avvolgendo". In città, dal centro alla periferia, ci si batte per l’onore ma anche per i soldi, come successo al quartiere della Barone, quando, pochi mesi fa, tre minorenni di origini egiziane sono stati arrestati per aver tentato di estorcere 50 euro a un coetaneo italiano utilizzando, per farsi forza, anche un pitbull. E poi c’è il controllo del territorio. Con bande di giovanissimi e quasi tutti italiani che fanno il verso alla grande criminalità organizzata. È successo poco tempo fa in via Creta, una strada di palazzoni popolari nel cuore del quartiere di Baggio a sud-ovest di Milano. Qui comandano loro. Come? Con la violenza. Irrazionale e spietata. Tanti episodi messi insieme dalla polizia che della gang porta in carcere quattro minorenni. A loro carico anche l’aggressione a un clochard in perfetto stile Arancia Meccanica. Succede in pieno centro a Milano. All’Arco della Pace, dove le nuove baby-face del crimine meneghino sono arrivate in trasferta. Picchiano il barbone. A calci e pugni. Interviene un ragazzo che a sua volta vien massacrato, non solo perché difendeva l’uomo ma anche perché è di origini ebraiche. Succede anche questo. Tanto che il giudice del tribunale dei Minori per loro disporrà il carcere con una motivazione agghiacciante: "Per loro è l’unica soluzione, perché non hanno il minimo senso dello Stato". La banda di via Creta ringhia violenza anche nei caseggiati popolari. A farne le spese un transessuale di mezza età e in sedia a rotelle. L’uomo, dopo essere stato minacciato con frasi del tipo: "Ricchione di merda ti ammazzo di botte", per mesi non è più uscito di casa, ricevendo la spesa solo grazie all’aiuto degli assistenti sociali. Dopodiché la rete e i social-network sono il vettore privilegiato dell’odio metropolitano. Giustizia: dopo il pestaggio "Hai visto? Sono finito in tv", inchiesta sulla devianza minorile di Angela Camuso Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014 Oh, ma stasera se ne annamo al centro? Tanto c’avemo 10 euro sem briacamo come e merde... A Campo De Fiori che voi fà?" " Menà a qualcuno …" "Ma a chi voi menà…è pieno di guardie…." La violenza per noia. L’alcool e la droga, carburante micidiale delle notti brave. E poi il narcisismo, bieco. Diventare a tutti i costi protagonisti delle storie che si raccontano in tv. "F a m osi", appunto. Per aver massacrato a sprangate due persone scelte a caso per strada, entrambe finite malconce in ospedale, uno con la frattura del cranio. Solo perché il branco aveva un bisogno spasmodico di "emozionarsi". Ha 19 anni Alex Ciccolini, che parla al telefono mentre, a sua insaputa, gli investigatori sono in ascolto, è uno dei quattro giovanissimi incappucciati (due 17enni e due 19enni) componenti della gang stile Arancia Meccanica che ha seminato agli inizi di ottobre il terrore tra gli abitanti di Roma nord. Queste intercettazioni offrono uno spaccato sociale che lascia sgomenti. La rapina, per il branco, è un pretesto. La violenza ha come scopo la violenza. Il 3 ottobre scorso, alle 2.30, a farne le spese è il 28enne Enrico A., che sta portando sotto casa a spasso il cane. Siamo alla Balduina, zona residenziale bene della capitale. Il malcapitato in tasca non ha neppure il portafoglio e questi per poco non lo ammazzano, tant’è che lui arriva al pronto soccorso in codice rosso. Quando gli sfilano il cellulare di tasca, mentre lui è a terra, che sanguina, lo fanno per sfregio. Neppure due ore prima il branco era a Monte Mario, quartiere adiacente alla Balduina: il 32enne Claudio B. viene colpito a colpi di crick e chiave inglese. Si trovava fermo in macchina in compagnia della fidanzata quando a un certo punto i balordi, cappucci e bandane calati sul viso, avevano iniziato a bussare sui finestrini. "Erano alterati oltremodo, gridavano e ci intimavano di consegnare loro tutto ciò che avevamo. Ricordo che più volte hanno minacciato di uccidere Claudio e di stuprare me o addirittura di stuprare entrambi", ha raccontato alla polizia la fidanzata del giovane picchiato. "Claudio non riusciva a difendersi. Tentava vanamente si coprirsi il volto con le braccia mentre i quattro insistevano senza tregua a malmenarlo con calci su ogni parte del corpo e fendenti sferrati soprattutto con la chiave a L. I quattro continuavano a bestemmiare ad alta voce dicendo a Claudio di non reagire e di lasciarsi picchiare. Sono certa che facevano questo per sadico divertimento, infatti non davano neppure tempo a Claudio di consegnare loro quanto richiesto…". La coppietta si salva grazie al sopraggiungere di un’altra macchina, che spinge il branco alla fuga. Due ore dopo gli incappucciati sono di nuovo all’opera contro il ragazzo che sta portando a spasso il cane. Ma una telecamera li mostra poco prima aggirarsi nei paraggi col volto scoperto e con indosso gli stessi vestiti notati dalla fidanzata del povero Claudio. Uno di loro è Alex Ciccolini e non è un volto nuovo alle forze dell’ordine. Nel 2012, a Viterbo, lo avevano fermato mentre commetteva una rapina. Immediatamente viene messo sotto intercettazione il suo cellulare. In una di queste telefonate, mentre Alex parla con un’amica, tale Carolina, accanto a lui c’è il diciassettenne Marco, nome di fantasia. Anche Marco, originario di Fiumicino, fa parte della gang. Se ne è andato di casa e si è trasferito da Alex. "I due vivono in simbiosi", scrivono gli inquirenti. Marco sta rollando una canna mentre il primo parla con la ragazza. È una conversazione farcita di volgare e feroce banalità. Alex: "Che mi racconti, sono tre anni che mi dici le stesse cose…". Carolina: "Non succede niente di emozionante..." Alex: "Porca troia questa settimana è stata la svolta della mia vita...". Carolina: "Perché?". Alex: "Eh, non te lo posso dire per telefono... non puoi capire che robba è. Non vedo l’ora di rivederti per dirtelo... so’ diventato famoso… avrai anche tu sentito parlare di me". Gli investigatori annotano che in sottofondo si Marco che lo corregge: "Di noi". "Di noi, scusa - riprende Alex parlando con l’amica - Stiamo in televisione. Ci hanno ripreso . Scrivi al computer: "Aggressione Monte Mario Balduina". E Carolina, senza scomporsi, dice che ora andrà ad accendere il tablet. Poi la ragazza e Alex iniziano a parlare di videogame e infine Alex invita l’amica, che vive fuori Roma, a farsi un giro nella capitale ricordandole che è venerdì. Lei sembra non avere la cognizione del tempo". Ah…. è venerdì?". Alex: "Stai peggio di me". Carolina: "Mi addormento tardi e mi sveglio presto… " Alex : "Non ti credere che noi famo meglio…siamo andati a dormire alle otto de mattina…Io lo faccio tutti i giorni ma tramite droghe. Una volta ogni due giorni mangio…". Dopo l’arresto, Alex si è giustificato dicendo che lui è la sua banda non volevano fare niente di male. Pericoloso, secondo il gip. Proprio perché inconsapevole. Giustizia: "In gruppo, così scompaiono i sensi di colpa", inchiesta sulla devianza minorile di Paola Porciello Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014 Sono 40mila i reati commessi da minori tra i 14 e i 18 anni in Italia ogni anno. I furti e lo spaccio di sostanze stupefacenti sono i più frequenti. Le aggressioni personali e quelle a sfondo sessuale rappresentano l’1-3 percento del totale, "anche se nella nostra zona abbiamo sfiorato picchi del 10%". Mauro Grimoldi, psicologo consulente dei servizi sociali del Tribunale minorenni di Brescia, sezione penale (che copre le aree di Bergamo, Brescia, Mantova e Cremona), ha diretto per 6 anni la sezione del servizio psicologico, lavorando con molti dei ragazzi che si sono macchiati di reati anche gravissimi, come l’omicidio. Nel nostro paese fino ai 14 anni non è prevista l’assunzione di responsabilità: si è considerati non imputabili. Tra i 14 e i 18 c’è una imputabilità, ma più sfumata. In entrambi i casi ci si concentra sul recupero. Ma emerge un dato sorprendente: "Mi occupo di autori di reati gravi e gravissimi e ho imparato che sono quelli che si recuperano più facilmente. Sullo sfondo c’è sempre una dimensione di disagio e una serie di fattori spesso esterni rispetto alla personalità. Soprattutto nei casi di omicidio. Per questo il nostro lavoro è sotto certi aspetti molto gratificante. Si ottengono risultati in tempi relativamente brevi. Quando gli autori del reato si rendono improvvisamente conto di quello che è successo, avviene un cambiamento". L’autore di reati meno gravi come furto e spaccio, invece, tipicamente indossa i panni dell’adolescente trasgressivo: "Un ruolo che gode spesso di riscontro positivo nell’universo sociale degli adolescenti. Questi ragazzi sono a volte talmente orgogliosi di quello che hanno fatto che sono inclini a confessare anche reati più gravi di quelli per cui sono stati fermati". Tra gli altri, Grimoldi ha seguito in prima persona i ragazzi coinvolti nell’omicidio Piovanelli. Rispettivamente di 14, 16 e 36 anni, i quattro vennero soprannominati il branco di Leno, prendendo spunto dal nome del paese della provincia di Brescia che nel 2002 fu teatro dell’assassinio a sfondo sessuale di Desirée, di appena 14 anni. Secondo lo psicologo: "Gli omicidi non vengono premeditati né vissuti fino in fondo. Nascono come risultato di un insieme di fattori che prendono forma nel luogo del delitto. Poi subentra l’inevitabile confronto con le conseguenze delle proprie azioni e una difficoltà enorme a farci i conti". La dimensione del gruppo gioca un ruolo fondamentale nel rendere possibili azioni che sarebbero impensabili per il singolo: "Il gruppo deresponsabilizza, non permette di fare un riferimento chiaro a se stessi come soggetto che prende le decisioni". Ma si arriva sempre a un bivio. "Uno degli autori dell’omicidio Piovanelli, il più giovane, arriva soltanto dopo nella villa dove i suoi amici avevano attirato la ragazza. Quando giunge in fondo alla scala della cascina vede delle gocce di sangue: lì c’è il punto di svolta. Lì viene fatta una scelta. Dalla quale non si torna più indietro". Non c’è mai una causa unica dietro a un omicidio: "La vittima è di solito conosciuta dagli aggressori e ha caratteristiche particolari, non è mai scelta a caso. Nei casi che ho trattato la vittima in qualche modo era sempre circondata da un sentimento o un vissuto importanti, o perché era una figura abusante o perché fortemente desiderata, come nel caso Piovanelli". Nell’omicidio del cittadino di origine marocchina a Desenzano sul Lago di Garda nel 2008, uno degli autori dell’omicidio (minorenne), ha riferito ai carabinieri che il pestaggio era avvenuto per il rancore maturato in seguito a dei tentativi di abuso sessuale nei suoi confronti. "Ubriachi, incontrano per la strada il loro nemico e trovano l’occasione per mettere in atto un comportamento che risponde a un bisogno di alcuni di loro". Giustizia: il magistrato "Non per soldi ma per noia…", inchiesta sulla devianza minorile di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014 Claudio De Angelis, procuratore capo del Tribunale dei minori di Roma, ne ha visti tanti di casi di baby gang, bullismo o cyberbullismo. Fenomeni diversi ma con una costante: "la violenza gratuita, senza giustificazione". Così il procuratore spiega quei casi che non sono solo titoli di quotidiani. Dietro si nasconde un fenomeno molto più complesso. Quando iniziano a diffondersi in Italia le baby gang? Negli anni 70, dopo che c’erano già stati molti casi in Inghilterra. In Italia aveva caratteristiche diverse, spesso legate alla territorialità. Ad esempio nel napoletano, le baby gang erano inserite spesso in organizzazioni criminali. Erano anni diversi e a spingere i minori ad azioni violente era la necessità. Ad esempio? Negli anni 80, ci fu la "banda dei piumoni": un gruppo di una ventina di minori, molti di Acilia, che colpivano per rubare. Ai loro coetanei rubavano i giacconi di moda, in un caso anche le scarpe. Sono stati presi tutti. Quali sono le caratteristiche di questi gruppi e come sono cambiati negli anni? Per capirne le caratteristiche basta osservare l’ultimo episodio della Balduina, dove senza ragione, è stato aggredito un ragazzo mentre portava a spasso il proprio cane. É violenza in quanto tale, fine a se stessa. In questo caso, come in tutti quelli che riguardano le baby gang, si tratta di gruppi organizzati, trainati da un leader. Tuttavia sono pochi casi di baby gang così organizzate, ma sono altri i fenomeni che preoccupano. Con il passare del tempo, quindi, sono cambiati i bisogni che spingono i giovani alla violenza: negli anni 70 c’era una ragione politica. Più di recente, la noia. Quali sono invece i fenomeni di violenza più frequenti? Il bullismo e il cyberbullismo, che è il più diffuso. Negli ultimi due anni a Roma ci sono stati tre suicidi di minori presi di mira su internet dai coetanei. A differenza del bullismo, si tratta di un fenomeno collettivo: invece di picchiare, tutti attaccano il più debole tramite il web. Alla base di questa violenza cosa c’è? L’abbandono, l’ignoranza e, come detto, la noia. Ma anche la mancanza dei centri di aggregazione o l’imitazione dei più grandi. E noi adulti in fondo non siamo poi così bravi. Giustizia: Storace "martedì la sentenza in processo per vilipendio, spero in assoluzione" Adnkronos, 20 ottobre 2014 Francesco Storace, leader de La Destra, vive l’antivigilia del processo per vilipendio nei confronti del Capo dello Stato con lo spirito di chi si attende un’assoluzione, senza baldanza né spirito di rivincita verso nessuno, ma perché convinto che "il diritto prevarrà". Raggiunto al telefono dall’Adnkronos, Storace ricorda che con il Capo dello Stato ci fu un chiarimento diretto, dopo una lettera dello stesso ex presidente della Regione Lazio. La macchina della giustizia, tuttavia, è andata avanti: "Fu Mastella come ministro della giustizia ad avviarla - ricorda - dicendo di essere "costretto", poi si corresse, parlando di ‘atto dovuto’. Io dico, ‘dovuto’ a chi?". "Se fosse un atto dovuto - sottolinea - quante altre centinaia di volte si sarebbe dovuto aprire un procedimento ai sensi dell’art. 278 del Codice penale? È un reato che vale solo per me?". Ma come vive un esponente politico come lui, di battaglia sempre in prima fila, già deputato, senatore e ministro, una situazione del genere? "È una cosa che affronto certo non a cuor leggero. Spero con tutto il cuore di essere assolto, senza animosità". Tra l’altro, proprio martedì dovrebbe iniziare la discussione in commissione giustizia di palazzo Madama dei ddl per l’abrogazione del reato. Sulla strategia processuale di martedì prossimo in Tribunale, Storace afferma: "C’è chi dice che non rischio di scontare la pena in carcere (da uno a 5 anni) perché incensurato. Ebbene, la concessione dei benefici di legge è una facoltà, non un obbligo. E io penso che da uno Stato che non si fermasse di fronte al ridicolo del carcere per una parola detta da un esponente dell’opposizione il cui destino è affidato ad un esponente del governo, non accetterei benefici. Il mio avvocato chiederà l’assoluzione, e, in caso contrario, che non vengano concessi i benefici di legge". Lettere: non fate vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri di Felice Foresta* e Giuseppe Carvelli** Il Garantista, 20 ottobre 2014 "E opportuno che nell’agenda politica si apra un dibattito riguardante i diritti dei detenuti. Perché quella sulla reclusione è una battaglia di civiltà". È opportuno che si apra un dibattito quanto mai allargato sulla realtà carceraria. E, proprio partendo da questa esigenza, la Camera Penale di Catanzaro "Alfredo Cantafora" ed il Rotary Club Catanzaro Tre Colli, due soggetti che per statuto e/o per vocazione sono assai attenti alla problematica in questione, intendono lanciare, anche nella Calabria, uno spunto di riflessione. "La battaglia non è per la riforma della legge ma per la riforma del costume. La legge, specialmente con le modificazioni più recenti, fa per il condannato quello che può. Non bisogna pretendere tutto dallo Stato. Purtroppo questa è una delle abitudini che si va sempre più consolidando tra gli uomini; e anche questo è un aspetto della crisi della civiltà. A un certo punto il problema del delitto e della pena cessa di essere un problema giuridico per rimanere, solamente, un problema morale". I numerosi interventi legislativi che, negli ultimi tempi, si stanno susseguendo sull’emergenza carceraria nel nostro Paese ripropongono i temi evocati, già più di mezzo secolo fa, da Francesco Carne lutti, cattedratico di altissimo profilo e avvocato di rango. In uno degli scritti di maggiore impatto emotivo, dal punto di vista sociale e di politica giudiziaria, quale fu "Le miserie del processo penale", il grande giurista colse, in tutta la sua drammaticità, il reale sostrato che bisogna indagare, costruire e vivificare per affrontare in concreto il problema del delitto e della pena. Non la dimensione demiurgica dello Stato, legislatore e riformatore per eccellenza. O, quanto meno, non solo essa. La chiave di lettura per risolvere il problema del delitto e della pena risiede nel grado di maturazione della coscienza civile e morale di una comunità, nell’apertura di una civiltà verso l’altro e verso il diverso, non solo per estrazione, etnia e censo, ma anche, è chiaro, per biografia penale. In buona sostanza, la chiave di lettura per risolvere il problema delitto e della pena risiede nell’affermazione, aliena da pregiudizi e preconcetti, dei diritti umani. Di tutti e per tutti. Purtroppo, oggettivamente, deve ritenersi che le direttrici auspicate, a suo tempo, dal famoso giureconsulto stentino, ancora oggi, ad essere condivise e percorse. Non v’è dubbio che il legislatore si stia sforzando. Tuttavia deve osservarsi che, ad oggi, quanto fatto non sia e non possa essere sufficiente. Non può negarsi, infatti, che rimangano irrisolti diversi nodi. Un primo problema afferisce al profilo di natura squisitamente tecnica che, e inevitabile, s’impone nell’impianto normativo ordinario. Si pensi, a mo’ d’esempio a quanto accaduto per la liberazione anticipata speciale con riferimento ai reati ostativi di cui all’articolo 4bis della legge 354/75 ed ai limiti reintrodotti in fase di conversione del di 146/13 nella legge 10/14. Ma il dato più preoccupante su cui occorre che la società civile s’interroghi nella sua interezza, e non lo facciano, quindi, solo gli operatori del settore, è un altro. I provvedimenti, sempre figli della decretazione d’urgenza, assunti dallo Stato italiano nel recentissimo passato, si pensi al di 92/2014 in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Cedu, sono stati provvedimenti in gran parte indotti dalle bacchettate inflitte dall’Unione Europea. I termini di speculazione sono, quindi, tanti. Due, però, prevalgono. Il primo è d’intuitiva evidenza ed è a monte. La colpevole disattenzione verso il dettato nella nostra Magna Charta dove Sono codificati in nuce una serie di principi, oggi sempre più attuali e che, all’epoca della promulgazione dell’editto costituzionale, furono indici di un grado di civiltà, non solo giuridica, elevatissima. Poiché riguardanti l’uomo nella più alta accezione e, quindi, anche chi si trova ristretto. Il secondo è che l’intervento invasivo comunitario e sintomatico di una non sufficiente considerazione nel nostro Paese della tutela dei diritti umani del recluso. Anche di quelli basilari, evidentemente compressi come ci inducono a pensare le sanzioni irrogate dalla stessa Ue. È, quindi, opportuno che nell’agenda politica, ma ancor di più nella coscienza civile collettiva, si apra un dibattito quanto mai allargato sulla realtà carceraria. E, proprio partendo da questa esigenza, la Camera Penale di Catanzaro "Alfredo Cantafora" ed il Rotary Club Catanzaro "Tre Colli", due soggetti che per statuto e/o per vocazione sono assai attenti alla problematica in questione, intendono lanciare, anche nella Calabria, uno spunto di riflessione che, si speri, abbia la capacità di contagiare il più ampio numero di soggetti, istituzionali e non, pubblici e privati. Quello del carcere non e un problema confinato oltre il muro di un penitenziario, ma un problema e, soprattutto, una battaglia di civiltà. E, quindi, un problema e, soprattutto, una battaglia di tutti. "Non fate vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione". L’invito di Voltaire ci sia da quotidiano monito ed ammonimento. *Felice Foresta è Presidente Rotary Club Catanzaro Tre Colli *Giuseppe Carrelli è Presidente della Camera Penale di Catanzaro Lettere: le troppe amnesie sui cristiani perseguitati di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 20 ottobre 2014 Hanno condannato in Appello Asia Bibi, che perciò morirà in Pakistan, se la Corte Suprema confermerà il verdetto. È stata condannata per "blasfemia". Una bugia: l’hanno condannata, ne ha scritto Monica Ricci Sargentini, perché è cristiana e si ostina a non convertirsi, come le intimano i suoi carnefici. Quando verrà assassinata dallo Stato sulla base di un capo di imputazione orripilante, non ci saranno mobilitazioni, campagne d’opinione sui blog, hashtag, nastrini colorati, solidarietà internazionale. Infatti Asia Bibi è cristiana, e perciò la sua sorte non terrà il mondo con il fiato sospeso. Il mondo è indifferente alle persecuzioni che i cristiani stanno subendo per mano del fondamentalismo islamista. Ogni tanto ha un sussulto per le bambine rapite, stuprate e costrette a convertirsi dalle milizie di Boko Haram in Nigeria, quelle che vogliono chiudere le scuole con le bombe perché, dicono, "l’istruzione occidentale è un peccato". Ma la scrittrice nigeriana e cristiana Chimamanda Ngozi Adichie, che vive negli Usa e di cui Einaudi ha appena tradotto il romanzo Americanah, ogni giorno si informa con angoscia su una suora che viene ammazzata in Nigeria, o una comunità cristiana massacrata. Ogni giorno: non ogni tanto, distrattamente. Ogni tanto restiamo sgomenti per la sorte di Meriam in Sudan o per le carneficine di cristiani che l’Isis pratica a Mosul, i bambini sterminati, le chiese devastate, le famiglie costrette a scappare. Ma poi ce lo dimentichiamo, e non ricordiamo che il mondo non fu scosso da nessuna indignazione quando i fanatici in Siria crocifissero "infedeli" in piazza. Facciamo finta di non accorgerci che nella moderatissima Arabia Saudita il possesso di un rosario è passibile di pena di morte, o di un po’ di frustate se la sentenza fosse clemente. Facciamo finta di non sapere che i cristiani in Pakistan sono torturati, umiliati, senza che questo possa minimamente interrogare la nostra coscienza ecumenica, pacifista e civilizzata. Facciamo finta di non ricordare che persino nell’Afghanistan buono, quello presidiato dai nostri soldati delle nostre missioni, è stato condannato a morte Sayed Mussa, reo di essersi convertito al cristianesimo. Asia Bibi: e chi è mai? E chi si ricorda dei cristiani trucidati nella chiesa di San Domenico? Cristiani trucidati: ce ne sono ogni giorno. Noi ce ne accorgiamo solo ogni tanto. Liguria: detenuti "problematici" a Imperia e Genova, la denuncia del Sappe www.primocanale.it, 20 ottobre 2014 Sono state ore difficili nelle carceri liguri con alcuni casi che hanno provocato al reazione del Sindacato di Polizia Penitenziaria, il Sappe. Ad Imperia un detenuto con un sospetto di tubercolosi ha fatto scattare l’allarme rosso con il trasporto dell’uomo al vicino ospedale, sempre sotto scorta da parte della Polizia Penitenziaria. I medici hanno, per fortuna, riscontrato l’assenza della malattia. Non passa che una manciata di minuti dal rientrato allarme che nuovamente scatta l’allerta per un detenuto appena arrestato e condotto in carcere. Qui ha accusato un malore forse determinato da un’overdose. L’uomo è stato trasportato per accertamenti in ospedale. A Genova, invece, altro episodio: un senegalese di 35 anni, detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere di Marassi è stato ricoverato, nel pomeriggio, all’ospedale San Martino, dopo aver ingoiato quattro lamette da barba e due pile. Alle 2 della scorsa notte, dopo aver anche dato in escandescenze, ha firmato la dimissione dal pronto soccorso. "Chiediamo una maggiore attenzione, specialmente all’assessore regionale alla Sanità, Claudio Montaldo - spiega il sindacalista - perché non è possibile tenere i detenuti, tutte queste ore, in corsia, specie se sono ad Alta Sicurezza e necessitano di una scorta armata. C’è bisogno di una corsia preferenziale". Veneto: inchiesta Mose… hanno patteggiato con la giustizia, non con i veneti di Daniele Ceschin La Tribuna di Treviso, 20 ottobre 2014 Sembravano invincibili, i "dogi" della politica veneta. Lo erano dal punto di vista elettorale. Ora sappiamo anche perché. Reclamavano giustamente un ruolo per il Veneto, ma senza averne personalmente alcun merito o titolo. Potenti e presuntuosi, forti di un sistema di intrecci tra istituzioni e affari che avevano costruito e affinato nel tempo. Sicuri di essere al di sopra di qualunque legge, perché la politica in Veneto era "cosa loro", comprese le cosiddette "grandi opere", quelle destinate a durare e che dovevano essere il biglietto da visita del "Terzo Veneto". Se poi andiamo a contarle, queste opere, registriamo che non sono poi tante. Se poi andiamo a vederle - dal Passante al Mose passando per l’Ospedale di Mestre - non possiamo non considerare come le modalità e gli strumenti utilizzati per costruirle lasciassero più di una zona d’ombra. Qualcuno, in realtà, un po’ di dubbi li aveva già avanzati in merito ai "padroni del Veneto". Oggi i protagonisti del malaffare in Laguna patteggiano uno dietro l’altro. Il contagio è in corso. Intanto, in poche ore di maxi udienza si è tirata una riga: 19 indagati (Galan compreso), 31 anni di carcere (in tutto) e quasi 12 milioni di euro recuperati. Vedere questi ex potenti farsi piccoli piccoli, piegati da pochi mesi di carcere, ci restituisce un quadro penoso dal punto di vista umano. Quello che in questi giorni sta patteggiando è il Veneto peggiore. Continuano a professarsi innocenti, gli ex potenti del Veneto, ma capiscono che non è aria. Meglio uscire in punta di piedi, senza tanti clamori. Ci sono motivi privati (tengo "case" e tengo famiglia) e in qualche caso qualche reale ragione di salute. Ma quasi tutti non intendono affrontare un processo, o meglio non vogliono stare sotto la lente mediatica nei prossimi mesi. Un assist elettorale a quel governatore, Luca Zaia, che comunque non li ha mai amati e che giudicano una delle fonti dei loro guai; uno capace di schivare tutti gli schizzi di fango e di separare il suo destino politico e personale da quello dei suoi ex compagni dì strada. Non torneranno più in carcere quelli che prendevano le mazzette provenienti dalle false fatturazioni, in sostanza soldi nostri. Ho scritto "mazzette", ma vuoi mai che qualcuno si offendesse; il termine usato nell’ambiente e politicamente corretto è "stipendio annuale". Non andranno in carcere e certo non per vergogna: chi non lo prova per essere stato a libro paga del Consorzio Venezia Nuova, di pudore non ne possiede neanche un grammo. Le pene sono certe, ma rappresentano poco più di un buffetto sulla guancia: "Siete stati cattivi, restituite le caramelle che non siete riusciti a mangiare e promettete di non farlo più". Renderanno qualche milione di euro, ma non potranno risarcire il danno d’immagine alla Regione Veneto intesa come istituzione. Potranno forse patteggiare con la giustizia, ma non con i cittadini veneti che hanno tradito, compresi quelli che li hanno sempre votati. La resa di questi ex potenti e nobili decaduti non è destinata a rimanere isolata, Questo almeno a giudicare da quanto emerge dalle nuove inchieste che interessano le stanze del potere e della burocrazia regionale. A cominciare dalla "cricca delle discariche" che coinvolge alcuni dirigenti pubblici come Fabio Fior, capaci di recitare tutte le parti in commedia. La "questione morale" non e dunque un residuato bellico ma, fin dalle prossime elezioni del 2015, va posta con forza dentro ì palazzi della Regione Veneto. Chi ha avuto vantaggi diretti o indiretti da questo sistema di corruzione, va gentilmente accompagnato alla porta, o dai partiti o dai loro elettori. Ascoli Piceno: muore suicida in carcere l’imprenditore edile che uccise due operai Ansa, 20 ottobre 2014 Si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere di Ascoli Piceno Gianluca Ciferri, l’imprenditore edile di Fermo, che il 15 settembre scorso, aveva ucciso a colpi di pistola due suoi ex operai kosovari, che erano andati a chiedergli stipendi arretrati. La notizia è stata confermata dal legale dell’uomo. Era accusato del duplice omicidio a colpi di pistola di Mustafa Nexhmedin, 38 anni, e Avdyli Valdet, 26, carpentieri immigrati dal Kosovo, Gianluca Ciferri, l’imprenditore fermano di 48 anni che la notte scorsa si è tolto la vita impiccandosi nel bagno della sua cella del carcere di Ascoli Piceno. Il 21 settembre scorso il Gip aveva convalidato l’arresto e il provvedimento di custodia cautelare in carcere, dopo uno lungo interrogatorio in cui Ciferri aveva ribadito la sua versione dei fatti: "mi sono difeso da un’aggressione. I due operai erano armati di una piccozza, ho avuto paura e ho sparato". Gli operai vantavano circa 20 mila euro di stipendi arretrati, più volte richiesti all’imprenditore, anche attraverso un contenzioso curato dal sindacato di categoria della Uil. Nexhmedin aveva moglie e quattro figli piccoli, Valdet un figlio e un altro in arrivo: "non sapevano più come sfamarli" diceva il fratello di Mustafa. La sparatoria è avvenuta il 15 settembre scorso, davanti alla villetta di Molini Girola di Fermo dove Ciferri viveva e aveva l’azienda. Appassionato di armi, l’uomo deteneva una quarantina di fucili e pistole fra la villa e un’altra abitazione. La pistola la teneva nel garage, e aveva detto di essere corso a prenderla quando si era visto minacciato: Nexhmedin, ha stabilito l’autopsia, è stato raggiunto da tre proiettili, uno alla testa, uno al torace e uno alla mano, Avdyli da due colpi. Il ventiseienne era stato ritrovato agonizzante in un campo di girasoli a 150 metri dalla sparatoria, ed era morto poco dopo. Ciferri lascia una compagna e tre figli. Milano: addio a San Vittore? picconata del ministro al carcere che non crolla mai di Enrico Silvestri Il Giornale, 20 ottobre 2014 Il Guardasigilli Orlando: "Troppo vecchio, va chiuso" È solo l’ennesimo annuncio. E il penitenziario resta lì. San Vittore era entrato per l’ultima volta nel dibattito nel maggio 2012 quando il Piano di governo del territorio del sindaco Giuliano Pisapia lo dichiarò inamovibile. "Anche perché rimanendo in centro, la gente si ricorda meglio dei detenuti" fu il suo evangelico commento. Caso chiuso dunque? Solo per un paio d’anni, perché ora il ministro di Giustizia Andrea Orlando ripropone lo spostamento in periferia. La vecchia struttura non è infatti più adeguabile ai parametri dell’Europa, che già ci bastona quotidianamente per la fatiscenza delle nostre prigioni. "Ballon d’essai" o "Voce dal sen fuggita", le parole di Orlando apriranno ora il consueto psicodramma tra i milanesi, che, gira e rigira, al loro carcere sono affezionati. È stato celebrato dal cinema, dalla letteratura persino dalla musica, su tutte la famosissima "Ma mi" di Giorgio Strehler, la ballata del balordo rimasto "quaranta dì, quaranta nott/A San Vittur a ciapaa i bott/dormì de can, pien de malann!". Era il 1962, andavano di moda le storie della mala e Ornella Vanoni cantava "Hanno ammazzato il Mario in bicicletta/gli hanno sparato dal tram che va all’Ortica" cioè lo stesso malfamato quartiere dove "lavorava" anche il "palo" di Enzo Jannacci. E ancora "Canto di carcerati calabresi" o "Senti come la vusa la sirena", tutte popolate da personaggi che prima a dopo avrebbero dovuto fare i conti con San Vittore. La struttura del resto di storie ne ha vissute tante, fin da quando venne inaugurato da Umberto I nel 1879 quando cioè, come dice il Grillo Parlante a Pinocchio: "Tutti quelli che fanno codesto mestiere (non lavorare o studiare, ndr) finiscono quasi sempre all’ospedale o in prigione". Venne subito celebrata come carcere modello o "Panopticon" perché con la sua struttura circolare permetteva a poche guardie di osservare molti detenuti e per di più senza essere visti. Nel 1900 vi fu brevemente rinchiuso l’anarchico Gaetano Bresci, l’assassino del "Re galantuomo", primo di una lunga lista di "politici". Che si allungò particolarmente durante il Fascismo e la Guerra, con nomi illustri come Indro Montanelli e Mike Bongiorno. Vi passarono anche molti ebrei, destinati ai campi di sterminio, trasformando San Vittore in un "monumento" ai martiri della Resistenza. Nel dopo guerra tornò a essere quella "ratera" in cui era reclusa una "ligera" romantica e tutto sommato formata da poveri cristi. Il livello si alzò notevolmente negli anni Sessanta quando le grandi "batterie" di rapinatori iniziarono a martellare Milano in pieno boom economico. Bande locali, come quella di Luciano Lutring, o da "esportazione" come i marsigliesi di Albert Bergamelli e i torinesi di Pietro Cavallero. Poi Renato Vallanzasca, a San Vittore dal 1972, autore di un’evasione finita con una violenta sparatoria. I bagliori dei feroci anni Settanta si erano spenti da tempo quando il portone del carcere si aprì per far entrare Mario Chiesa. Iniziava Tangentopoli e in piazza Filangeri presero a stazionare le troupe televisive per filmare ingressi e uscite. Negli ultimi 15 anni però, sparite le grandi "batterie" di rapinatori, usciti tutti i politici, San Vittore si riempie di stranieri fino ad arrivare a 2.400 carcerati su una capienza di poco più di 700. Poi ridotti progressivamente fino agli attuali 900, sui cui vigilano altrettanti agenti penitenziari. È allora che si inizia a parlare di spostamento, anzi di una grande "Cittadella della giustizia" dove far confluire tutti gli uffici giudiziari. Ma come spesso capita in questo Paese, la discussione, basata su questioni di praticità e di economicità, prende anche una piega "filosofica". "Portare in periferia i detenuti significherebbe dimenticarsi di loro" accusano cattolici e sinistra radicale. "Che siano in centro o in periferia, dei detenuti ci si dimentica ugualmente, per ricordarsene solo in caso di rivolte" replica l’attuale reggente del Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria Mario Pagano per anni direttore di San Vittore. "Un carcere all’avanguardia quando venne costruito, ed è tuttora bellissimo dal punto di vista architettonico e storico. Ma che non ha niente a che fare con una moderna struttura penitenziaria, come Bollate ma anche Opera. Molto meglio chiuderla e realizzarne una di nuova". Il suo ministro l’ha preso alla lettera lanciando la proposta di mandare in pensione la vecchia prigione. Seguiranno solite polemiche. Ex direttore Pagano: è inadeguato Un accenno alle carceri, fatto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando - "sono per chiudere quelle ottocentesche con i raggi, come San Vittore" - riapre l’annosa questione della chiusura del penitenziario milanese che data da almeno 30 anni. Inaugurato il 7 luglio del 1879, carcere panottico cioè consistente in corpi di fabbrica disposti radialmente intorno a un elemento centrale in modo che sia possibile la vigilanza e il controllo dell’intero complesso, San Vittore negli ultimi decenni è stato al centro di polemiche per la sovrappopolazione. Nel 1992 si erano superati i 2.400 detenuti, oggi però sono meno di 900. "Era un gran bel carcere, orgoglio dell’Italia quando fu costruito, perché rispondeva a tutti gli standard carcerari dell’epoca, ma oggi è inadeguato - ha spiegato Luigi Pagano, storico direttore per ben 16 anni dal 1989 al 2004 e ora vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Ai tempi dal centro bisognava controllare tutto e vigeva l’isolamento e perfino il silenzio notturno". "I criteri della pena sono però cambiati completamente per quanto riguarda l’umanizzazione della detenzione e il reinserimento al lavoro e a San Vittore non ci sono spazi adeguati neanche per i colloqui - sottolinea Pagano, napoletano di origine ma milanese di adozione e insignito dell’Ambrogino d’oro che ha casa tuttora, pur lavorando a Roma, davanti al carcere. È un edificio anelastico, i muri sono larghi anche tre metri. Pure se i servizi sono adeguati e il personale è ottimo, la struttura è angusta. Da sempre ho espresso l’opinione che dovesse essere chiuso e non per motivi ideologici o politici ma tecnici. Basta andare a Opera, fuori Milano, o a Gallarate, nel Varesotto, per vedere la differenza". Se San Vittore fosse chiuso come si potrebbe utilizzare l’edificio? "Non spetta a me dirlo, non sono un urbanista. Certo la struttura oggettivamente è bella, forse si potrebbe farne un percorso di architettura, di archeologia urbana". Una decina di anni fa si era parlato di una cittadella della giustizia milanese, dove trasferire il Tribunale e tutti gli uffici relativi e anche il penitenziario. Da più parti, nel tempo, sono arrivare proposte di trasformarlo in un polo culturale o residenziale. Milano: il Sindaco Pisapia difende San Vittore "il carcere resti dentro la città" di Maurizio Giannattasio Corriere della Sera, 20 ottobre 2014 Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano. Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: "Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata". Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a "servizio". Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. "Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche". Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: "Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo". Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: "Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità". Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce "culturale". "Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi". Il secondo: "Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere". Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: "ghettizzazione". La sostanza non cambia. Roma: l’Asl adotta una "Carta dei servizi sanitari" per l’Ipm di Casal del Marmo Adnkronos, 20 ottobre 2014 Garantire, ai minori ristretti nell’Istituto Penale Minorile (Ipm) di Casal del Marmo a Roma, le prestazioni di prevenzione, diagnosi e cura sulla base degli obiettivi generali di salute e dei livelli di assistenza stabiliti dalla Regione. Sono questi gli obiettivi della Carta dei servizi sanitari per i ristretti di Casal del Marmo approvata dalla Asl Rm A. "Quello alla salute - ha detto il Garante per i detenuti Angiolo Marroni - è il diritto più trascurato in carcere. L’adozione della Carta dei Servizi è un segnale che qualcosa sta cambiando. Ormai, nel Lazio, i detenuti di 7 carceri su 14 hanno visto statuiti i propri diritti in ambito sanitario. Una circostanza, questa, che pone il Lazio fra le prime regioni italiane a garantire il diritto alla salute dei detenuti". Nella Carta sono riepilogate le prestazioni mediche cui hanno diritto i minori ospitati nell’Ipm di Casal del Marmo, oltre alle modalità e alla tempistica per la loro fruizione. È, altresì, previsto, che la Carta possa essere modificata sulla base delle indicazioni App provenienti dal Tavolo tecnico congiunto appositamente costituito tra Asl, carceri e Garante dei detenuti. Il documento ribadisce il dettato dell’art. 1 del D.Lgs. 230/1999 e della Costituzione: "detenuti ed internati hanno diritto al pari dei cittadini in stato di libertà all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione efficaci ed appropriate sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali di assistenza". L’approvazione della Carta è solo l’ultima fase di un processo che ha coinvolto tutte le istituzioni, dalla Direzione dell’Ipm alla Asl, sensibili alla tutela del diritto della salute dei minori. Le Carte già predisposte coinvolgono la metà delle carceri della Regione, 7 su 14 e l’Ipm di Casal del Marmo: oltre alle due adottate a Civitavecchia, vi sono quelle per Regina Coeli e per le 4 strutture del complesso poli-penitenziario di Rebibbia. Nelle altre realtà, Latina, Viterbo, Rieti, Frosinone e Velletri, le Asl hanno deliberato l’istituzione del Tavolo tecnico di monitoraggio ed avviato le procedure per l’adozione del documento. "Nonostante le difficoltà in cui versa la sanità regionale - ha aggiunto il Garante - dal Lazio arriva un segnale incoraggiante. L’implementazione della Carta porterà ad una stretta correlazione tra carcere e territorio, aumentando l’efficienza e l’efficacia dei servizi sanitari e garantendo il diritto alla salute anche ai cittadini privati della libertà personale. In questi anni, sul tema della salute in carcere, abbiamo dato impulso al Forum per l’attuazione della riforma della sanità penitenziaria e favorito la nascita di un Osservatorio regionale per monitorare i punti di debolezza. La Carta dei servizi - conclude - è l’ultima delle nostre proposte. Una dimostrazione concreta di solidarietà istituzionale che, nei momenti più difficili e delicati, può fare la differenza". Bologna: Uil-Pa; al Pratello continua la violenza, chiederemo un’ispezione ministeriale Ansa, 20 ottobre 2014 "Continuano gli atti violenti all’interno del Pratello di Bologna. A due giorni dall’aggressione ad un’Agente di Polizia da parte di un detenuto che gli ha provocato la rottura del setto nasale è di questa mattina la notizia che un detenuto di origine albanese ha tentato di accoltellare un detenuto rumeno ai passeggi con un grosso punteruolo rudimentale". A rendere nota l’ennesimo atto di violenza è Domenico Maldarizzi del Coordinamento Provinciale della Uil Penitenziari di Bologna che continua affermando - "solo la prontezza di riflessi e la professionalità dell’intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria intervenuti ha evitato conseguenze peggiori". Ormai gli atti di violenza sono all’ordine del giorno - chiosa Maldarizzi - ed a pagare sono sempre gli uomini e le donne di Polizia Penitenziaria. Al Pratello a quanto pare la situazione sta sfuggendo di mano per questo chiederemo attraverso la nostra Segreteria Nazionale un’ispezione ministeriale presso la struttura minorile al fine di rilevare le responsabilità gestionali della struttura di Bologna. Chiediamo ancora una volta a gran voce - conclude il Coordinatore Provinciale di Bologna della Uil Penitenziari - che nei confronti dei detenuti che si siano macchiati di tali violenze si adottino misure esemplari, nel pieno rispetto della legge e di ogni garanzia, anche per fungere da deterrente per tali spiacevoli episodi. Napoli: minorenne in fuga dai carabinieri "scappa" in carcere www.napolitoday.it, 20 ottobre 2014 Ha evaso i domiciliari. È fuggito dai carabinieri. E si è "consegnato" in carcere, naturalmente non volendo. Ha dell’incredibile quanto accaduto giovedì sera a Secondigliano. Un minorenne, agli arresti domiciliari per spaccio di droga, si è allontanato da casa sua e al suo ritorno ha trovato i carabinieri ad attenderlo. Alla vista degli agenti, il giovane ha dato il là a un inseguimento che dalla circumvallazione è continuato per le strade del paese e per le campagna. La corsa è finita quando il ragazzo si è trovato difronte a un alto muro di recinzione che, per lui, è immediatamente significato possibilità di fuga definitiva. Dopo aver superato il muro con fatica, il minorenne si è nascosto tra i rovi, convinto di essere al sicuro. Purtroppo per lui, però, il muro che aveva scavalcato era quello della prima zona di sicurezza del carcere di Secondigliano. Gli agenti di Polizia Penitenziaria non hanno dovuto far altro che bloccarlo e arrestarlo. Fine della corsa. Parma: "Fare cinema in carcere libera la bellezza", corto realizzato da detenuti e studenti di Silvia Bia Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014 Fuga d’affetto, prodotto finale del laboratorio "Fare cinema in carcere… libera la bellezza", sarà proiettato lunedì 20 ottobre alla presenza di Agnese Moro. Raccontare una storia da dietro le sbarre, quando gli anni trascorsi in una cella sono così tanti che è quasi difficile tenerne il conto. Ci hanno provato a Parma una trentina di detenuti del carcere di massima sicurezza di via Burla, che con l’aiuto di 15 studenti del liceo artistico Paolo Toschi hanno realizzato un cortometraggio, il cui contenuto verrà svelato soltanto al momento della presentazione al pubblico. Per ora è solo noto il titolo dell’opera, Fuga d’affetto, risultato finale del laboratorio "Fare cinema in carcere… libera la bellezza", che sarà proiettato lunedì 20 ottobre alla presenza di Agnese Moro, psicosociologa e figlia dell’ex presidente del consiglio ucciso nel 1978 dalle Brigate rosse. "Il lavoro è cominciato lo scorso anno - spiega Giuseppe La Pietra, responsabile del progetto portato avanti dalla cooperativa Sirio, di cui fa parte, e dall’associazione culturale Kinoki. Abbiamo proposto l’iniziativa alla direzione del carcere e loro l’hanno accolta positivamente. Il nostro obiettivo è quello di continuare a rendere socialmente e culturalmente vivo il dialogo fra il carcere e il territorio di Parma". Al laboratorio hanno preso parte 25 persone detenute nelle sezioni Alta Sicurezza 1 e 3 dell’istituto penitenziario in accordo con la direzione e l’area giuridico-pedagogica. A giugno 2013 è cominciato il lavoro: lezioni e seminari sul linguaggio cinematografico e televisivo, fino alla scrittura, dopo sei mesi, di un soggetto firmato dai partecipanti. A fare uscire il progetto scritto dal carcere ci hanno pensato poi i ragazzi del liceo artistico Toschi, che da febbraio a luglio 2014 hanno provveduto a regia e riprese insieme all’attrice Franca Tragni, coordinati da Michele Gennari e Mario Ponzi. "Non avremmo mai pensato di riuscire ad accomunare persone così diverse, che appartengono a realtà apparentemente inconciliabili e invece, con questo lavoro collettivo, è accaduto - aggiunge La Pietra - Certo, sarebbe bello che i ragazzi e i detenuti si incontrassero per davvero, e non solo per mezzo di questo progetto. Non escludo che possa accadere in futuro". Il corto, girato e montato all’esterno del carcere, è stato visto e corretto dagli sceneggiatori di via Burla, per poi essere messo a punto di nuovo e infine completato dagli studenti, che lo presenteranno lunedì sera. "Abbiamo invitato Agnese Moro perché si batte per la rieducazione in carcere, è contraria all’ergastolo - ha detto il responsabile - Sono stati gli stessi detenuti a richiedere la sua presenza, la volevano incontrare e lei era in città proprio per un altro progetto di narrazione che stiamo facendo con loro". Dopo la presentazione del cortometraggio, infatti, la Moro parlerà agli studenti delle scuole superiori martedì 21 ottobre nell’incontro Un uomo così. Ricordando mio padre, mentre nel pomeriggio sarà in carcere per il laboratorio narrativo Etica sociale e legalità condotto dalla cooperativa Sirio, durante il quale si confronterà con i detenuti a partire dal suo vissuto e dalla condivisione di alcuni scritti di Aldo Moro. Così l’occasione è diventata anche la presentazione di Fuga d’affetto, che sarà proiettato in una sala nel cuore del Montanara, il quartiere tra i più martoriati dall’alluvione del Baganza di lunedì 13 ottobre. In un primo momento si era pensato di rimandare tutto per rispetto degli abitanti travolti dall’ondata di fango e acqua, che ancora stanno scavando, ma poi è stato deciso di mantenere l’appuntamento "nel profondo rispetto verso quanti sono stati duramente colpiti dall’alluvione e con la consapevolezza che siamo anche a testimoniare la volontà di reagire, di andare avanti". "Vogliamo che sia un momento per la città, per tutti - spiega La Pietra. La cosa più bella nel costruire e realizzare questo progetto è stato vedere come persone che non escono da anni dal carcere abbiano così tanta voglia di raccontare. E poi, tutte le collaborazioni che sono arrivate strada facendo". Al sostegno della Fondazione Mario Tommasini e al patrocinio della Provincia di Parma, si sono aggiunti artisti desiderosi di dare un contributo al progetto: i 99 Posse hanno concesso il permesso di poter utilizzare una loro canzone nel video, mentre un gruppo parmigiano, i Kabaré Voltaire, ha scritto una canzone appositamente per il corto. Per La Pietra questo "è il segno che c’è interesse al tema del dialogo, che di carcere bisogna parlare e discutere, perché non può e non deve diventare l’isola che non c’è". Milano: dal 13 novembre all’11 dicembre si aprono le porte del Teatro Stabile di Opera www.radiolombardia.it, 20 ottobre 2014 Dal 13 novembre all’11 dicembre le porte del Teatro Stabile nel carcere di Opera (la sala teatrale da 350 posti della Casa di Reclusione di Milano - Opera) si apriranno nuovamente, per ospitare spettacoli interpretati da attori reclusi o legati a tematiche correlate al mondo delle carceri. Le compagnie si esibiranno nel contesto del Festival Prova a sollevarti dal suolo. La rassegna, alla sua seconda edizione, è coordinata e promossa dalla Direzione della I Casa di Reclusione Milano - Opera e dall’Associazione Opera Liquida, compagnia teatrale residente presso lo Stabile in Opera, grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, Regione Lombardia e Comune di Milano. Il Festival vuole essere una finestra aperta sul profondo sentire degli esseri umani, nelle sue debolezze e più grandi fragilità, attraverso l’arte teatrale che spazia dall’ironia alla più intima corrispondenza. Opera Liquida, che incontra ogni giorno gli uomini reclusi e agisce, attraverso la prassi teatrale, in assenza di giudizio, vuole con questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’uomo, anche se ristretto. Il festival apre il 13 novembre con lo spettacolo "Anime cosmetiche", riallestimento di uno spettacolo di Opera Liquida del 2010, che parla di crisi economica, amore recluso, paura e colpa. In scena gli attori reclusi di Opera Liquida per la regia di Ivana Trettel; la rassegna prosegue il 27 novembre con "Antigone per Opera" di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, Special guest: Cesar Brie. Lo spettacolo è tratto dalla Prima Web Series italiana ambientata nelle carceri, vincitrice del Premio della critica nel contesto del concorso dell’ultimo Milano Film Festival. Al termine della rappresentazione verrà proiettata La puntata pilota "La banalità del male". Il 4 dicembre è la volta di "Che ne resta di noi?", pièce ispirata al pittore tedesco Josef Albers, portata sul palcoscenico dalla compagnia E.s.t.i.a, di attori detenuti e non della II Casa di Reclusione di Milano - Bollate, con la regia di Michelina Capato Sartore. La rassegna si conclude l’11 dicembre con lo spettacolo "Ma i sogni li ho presi?", prima produzione "esterna" produzione della Compagnia Opera Liquida, scritto e interpretato dall’attore ex detenuto, Roger Mazzaro. Narrazioni Video Civica Milano Scuola Scuola di Cinema e Televisione. India: caso marò, si profila l’ipotesi di uno scambio di prigionieri di Marco Ventura Il Messaggero, 20 ottobre 2014 Per chiudere la vicenda l’Italia potrebbe consegnare 18 marinai indiani catturati su una nave carica di droga. Il dubbio di Roma: mettere sullo stesso piano i fucilieri con dei "trafficanti". Ma le trattative segrete vanno avanti. Il negoziato c’è, ma non si vede. Un filo diretto corre adesso tra Palazzo Chigi e l’ufficio del primo ministro indiano, Narendra Modi. In Italia c’è una "cabina di regia", una specie di "gabinetto di crisi" permanente, che lega attorno alla vicenda dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in un circuito di scambi d’informazione e iniziative, da un lato il governo (Palazzo Chigi e il ministero della Difesa col supporto del ministero degli Esteri, con l’handicap della posizione di fatto vacante di Federica Mogherini proiettata verso il ruolo di "ministro degli Esteri" della Ue), dall’altro il Quirinale che discretamente segue ogni sviluppo, giuridico e diplomatico, per "liberare" i marò. Latorre si trova in Italia dopo l’ischemia del 31 agosto e dovrà tornare in India il 13 gennaio. Nel frattempo, il 12 dicembre è prevista un’udienza alla Corte Suprema di Delhi: l’Italia contesta l’impiego della Nia, la National Investigation Agency alias Fbi indiana, come dominus delle indagini sull’uccisione dei due pescatori del Kerala scambiati per pirati l’ormai lontano 15 febbraio 2012 dai marò comandati da Latorre sulla "Enrica Lexie". Abbandonata l’internazionalizzazione tramite arbitrato, anche se "tecnicamente" pronta in caso di necessità, l’Italia punta sulla diplomazia bilaterale sotterranea. La speranza è che Modi, il neo-leader indiano, voglia uscire dall’impasse. La realtà è che l’India ha il coltello dalla parte del manico (Girone è in India, e Latorre e se non rientra a gennaio mette nei guai il compagno). L’approccio italiano oscilla fra la prudenza e la tentazione di esercitare pressioni. Si è parlato anche di un possibile scambio di prigionieri. Latorre e Girone contro 18 marinai indiani catturati su una nave carica di droga. Ma non sarebbe una soluzione onorevole mettere sullo stesso piano due fucilieri del San Marco e 18 "trafficanti". Roma cerca di non urtare la suscettibilità indiana, al tempo stesso il non alzare la voce ha prodotto finora risultati modesti. L’Italia può far valere in questi mesi il suo esser presidente di turno dell’Unione Europa. Ma anche la nostra presidenza è a scadenza. L’assegnazione del fascicolo in India al consigliere di Modi per la sicurezza nazionale e ex capo dei servizi segreti indiani, Rajiv Doval, dà un nome e un volto a un possibile interlocutore che in passato ha compiuto "miracoli". Ma la strada è ancora lunga. Il governo italiano si è convinto che il rebus non si scioglierà per via giudiziaria, ma soltanto attraverso una decisione politica che è in mano ai leader. A Modi e Renzi. Iraq: allarme dell’Onu; eseguite 60 condanne a morte in primi 9 mesi del 2014 La Presse, 20 ottobre 2014 Sono almeno 60 le esecuzioni compiute in Iraq nei primi nove mesi del 2014. È quanto riferisce la missione delle Nazioni unite in Iraq, esprimendo preoccupazione per il possibile "fallimento della giustizia" e per il crescente uso della pena di morte da parte delle autorità irachene fin da quando è stata reintrodotta nel 2005. Ad agosto 2014 erano 1.724 i detenuti in attesa di esecuzione, riferisce l’Onu citando come fonte il ministero della Giustizia. In Iraq le condanne a morte vengono compiute soprattutto per impiccagione e tra i reati che le prevedono c’è quello di terrorismo. Iran: Nasrin Sotoudeh, avvocato dei diritti umani, interdetta da professione per 3 anni La Presse, 20 ottobre 2014 Il tribunale iraniano ha interdetto dalla sua professione Nasrin Sotoudeh, avvocato e attivista dei diritti umani, per tre anni. Lo ha riferito l’agenzia di stampa semiufficiale Isna citando la stessa Nasrin Sotoudeh. La donna, madre di due figli, è stata condannata a 6 anni di carcere nel 2011 con l’accusa di propaganda e cospirazione contro la sicurezza dello Stato. A settembre 2013 le era stata concessa la liberazione anticipata, tre mesi dopo l’elezione del presidente moderato Hassan Rouhani. Ora, l’avvocato ha denunciato le pressioni a cui è stato sottoposto l’ordine degli avvocati iraniano perchè annullasse la sua licenza all’esercizio della professione forense da quando è stata rilasciata dal carcere. Regno Unito: due anni di carcere per offese "oltre ogni misura" sui social network? La Presse, 20 ottobre 2014 Fino a due anni di carcere ai "trolls" di Internet, ovvero chi lancia attacchi e offese "oltre ogni misura" sui social network. È questa la proposta del Guardasigilli britannico, Chris Grayling, per bloccare e punire gli attacchi a sfondo sessuale e razziale sulla rete. Secondo la proposta del ministro della Giustizia, che dovrà essere votata dal Parlamento di Londra, la precedente pena massima di sei mesi di carcere sarà quadruplicata all’interno del piano contro i "vigliacchi" che postano commenti offensivi online. "Questi trolls di internet sono vigliacchi che stanno avvelenando la nostra vita nazionale. Nessuno consentirebbe un tale veleno in un faccia a faccia, così non dovrebbe esserci alcuno spazio per tale comportamento sui social media. Ecco perché siamo determinati a quadruplicare l’attuale condanna a sei mesi", ha spiegato Grayling in un’intervista al Mail on Sunday. La legge, ha concluso il ministro, punta a "combattere la crudeltà in rete e sottolineare la nostra determinazione contro questo fenomeno". La mossa arriva pochi giorni dopo le minacce rivolte a Chloe Madeley dopo che è intervenuta per difendere i commenti controversi della madre Judy Finnigan sul calciatore Ched Evans condannato per stupro. Finnigan aveva infiammato il dibattito scrivendo che Evans avrebbe dovuto riprendere la sua carriera calcistica perchè il suo crimine era "non-violento" e non ha causato "danni fisici". La figlia, intervenendo nel dibattito, è stato minacciata di stupro. "Dobbiamo essere chiari su questo punto - ha spiegato il Guardasigilli - i trolls di Internet rischiano due anni di carcere".