Giustizia: ministro Orlando; aumento detenuti non causato da reati, ma da scelta politica di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 19 ottobre 2014 Intervista al ministro Guardasigilli. "L’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità". Ministro Orlando, anche lei pensa che i magistrati facciano troppe ferie? "Penso che il taglio delle ferie si sia caricato di un significato ulteriore. Non è certo la pietra angolare della riforma; ma non è neppure un atto di lesa maestà, o un’aggressione". È evidente che le ferie sono un simbolo. Il punto è che la giustizia è lenta e incerta. "Non sono solo un simbolo. È uno dei tanti provvedimenti per migliorare le performance della giustizia. Pur riconoscendo la specificità del lavoro dei magistrati, credo se ne possa e se ne debba discutere". Questa settimana arrivano alla Camera il decreto e la legge delega sulla riforma del civile. Il governo punta sulla composizione extragiudiziale. Che esiste già; e non funziona. "Ampliamo percorsi che già ci sono. Ne apriamo di nuovi. E facciamo diventare gli avvocati promotori di questi percorsi. L’avvocato non ha interesse solo a mantenere la causa; diventa un soggetto che previene e ricompone il conflitto". Così il cittadino deve pagare per avere giustizia. "Non è vero. Lavoriamo a un sistema di incentivi: una parte delle spese per gli arbitri e per la negoziazione sarà detraibile. E non è vero che la giustizia viene privatizzata: se le parti non si ritengono soddisfatte, possono tornare alla giustizia ordinaria. La vera privatizzazione è un processo che dura 10 o più anni, in cui soccombe la parte più debole, che non è nelle condizioni di aspettare". In Italia ci sono troppi avvocati? "Il blocco del turn-over ha spinto una generazione verso la libera professione. La crisi dello status dell’avvocato diventa un problema democratico: l’avvocatura era un bacino in cui si selezionava la classe dirigente del Paese. Miglioreremo la formazione dei giovani, che potranno fare il tirocinio accanto a un giudice, e attueremo la riforma dell’ordinamento: avremo avvocati specializzati, come i medici". È possibile rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale? "Il principio costituzionale deve restare. Però leggi già votate dal Parlamento hanno già ampliato la flessibilità. La riforma introduce un ulteriore elemento di discrezionalità per il pm, la condotta riparatoria: chi fa un danno si impegna a risarcirlo, ripristina la situazione precedente, e il reato si estingue prima del processo". Perché si parla sempre di svuotare le carceri? È impossibile costruirne di nuove? Riconvertendo quelle nei centri storici, da San Vittore a Milano a Regina Coeli a Roma? "Costruire è necessario. Va anche detto che l’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità. Con Regioni e Comuni rimoduleremo il piano carceri, anche per cogliere l’occasione urbanistica legata a immobili di grande valore. Io sono per chiudere le carceri ottocentesche con i raggi, come San Vittore, non per riaprirlo altrove ma per sostituirlo con un carcere più piccolo fuori Milano". È possibile limitare l’appello e il ricorso in Cassazione? "Ci confronteremo con l’associazione magistrati e con gli avvocati. Non credo a ricette tranchant, tipo abolire l’appello. Ma si può far sì che non tutto sia appellabile, e non tutto possa finire in Cassazione. Nella riforma è prevista una sorta di "super patteggiamento": una confessione con sconto di pena, una "condanna concordata" non appellabile". La responsabilità civile dei magistrati non sarà una punizione? "Modificare la legge Vassalli del 1988 era una necessità, imposta anche dall’Unione Europea, che ci obbliga a varare una nuova legge entro fine anno. Se il Parlamento non farà in tempo dovremo intervenire per decreto; ma la considero una estrema ratio. La responsabilità dei magistrati resta indiretta: paga lo Stato, che può rivalersi sul magistrato, che però risponderà per l’errore, non in base alla grandezza della causa. Altrimenti nessuno vorrà fare processi grandi e quindi rischiosi". La magistratura ha un atteggiamento conservatore? "Avevamo avviato un dialogo costruttivo. Ho visto un cambio di atteggiamento molto forte legato alla vicenda delle ferie, forse perché le si è attribuita un’enfasi che è stata scambiata per un’aggressione". Renzi ha sbagliato? "Penso abbia voluto emblematizzare alcuni interventi, come in altri campi. C’è bisogno di parlare con l’opinione pubblica, di semplificare il messaggio. Credo che l’Anm sappia che noi non abbiamo mai fatto di questa misura un punto centrale. Mi auguro che si riprenda la discussione, ora che la legge di stabilità risponde a molte richieste dei magistrati. Ci sono i soldi per mille assunzioni nelle cancellerie, per stabilizzare i precari della giustizia, per riqualificare il personale". L’Anm critica le nuove norme sull’auto-riciclaggio: limitarlo alle attività economiche e speculative consente ad esempio di comprarsi una villa con i fondi neri. "Se il reato di auto-riciclaggio fosse una cosa semplice sarebbe già stato introdotto non tanto dalla destra, che non l’ha mai voluto, quanto dalla sinistra. Si tratta di una misura storica. Il cuore è impedire l’inquinamento dell’economia da parte di capitali illeciti, che alterano la concorrenza. Possiamo stabilire che comprare una villa con i fondi neri alteri il mercato immobiliare. Ma non possiamo semplicemente moltiplicare le sanzioni già previste per il reato presupposto, quello per intenderci con cui si è fatto il nero". Come cambieranno le intercettazioni? "Il tema va affrontato. La delega lo prevede. Dobbiamo conciliare le esigenze delle indagini con quelle della privacy e del diritto all’informazione. Serve un filtro per non far finire nei fascicoli ciò che non è penalmente rilevante". Il patto del Nazareno prevede un accordo sulla giustizia? "No. E non ne ho avuto alcun tipo di segnale. Non ho mai ricevuto un diktat legato a patti segreti. Ma l’esigenza del confronto è fisiologica. Nella maggioranza ci sono forze che avevano programmi sulla giustizia molto diversi. E i numeri molto risicati al Senato ci impongono il confronto con le opposizioni. So che la navigazione è difficile: bisogna cercare ogni giorno punti di contatto. Ma andare oltre la maggioranza non è solo un’esigenza numerica; è un esigenza politica. Non è un obbligo previsto dalla Costituzione. Ma dopo lo scontro di questi vent’anni costruire una grande infrastruttura come la giustizia è una questione di rilevanza democratica". Sta dicendo che il governo vuole fare la riforma della giustizia con le opposizioni? "Sul civile c’è stato in commissione un atteggiamento costruttivo da parte di tutte le opposizioni. Mi auguro prosegua in Aula. Il consenso cambia a seconda del tema. Ci sono priorità simili sui reati di criminalità economica con i 5 Stelle e con settori di Forza Italia sulla responsabilità dei magistrati. Sul civile si possono ridurre le distanze con tutti. Del resto non esiste "la" riforma della giustizia. Esistono molti provvedimenti". Un eventuale appoggio di Berlusconi su alcuni punti farà pensare a patti inconfessabili. Grazia compresa. "La storia di questi mesi dimostra che si tratta di allarmi infondati. Un genere letterario, più che un’azione del legislatore o del governo". Che voto dà a Renzi? "Sicuramente positivo. Renzi sta cercando di rompere la temperie tecnocratica degli ultimi vent’anni, sorprendendo tutti. Renzi ha smentito Renzi. Ai tempi di Monti lo ricordo tra i più convinti supporter della sua agenda. Ora ha ridato respiro alla politica, incrinando la logica ragionieristica della gestione europea della crisi. Non solo rigore, ma redistribuzione del reddito e incentivi. Ora va proposta una politica industriale". Lei però viene da una parte del Pd che rischia di essere spazzata via. Il partito diventerà il comitato elettorale di Renzi? "Il rischio comitato elettorale c’è. Ma non inizia con Renzi. Non si tratta di coltivare la nostalgia del tempo delle sezioni. Dobbiamo costruire il partito facendo i conti con le nuove tecnologie, dando uno sbocco alla partecipazione attiva dei cittadini, in altre forme oltre a quelle delle primarie. Altrimenti sono in pericolo, oltre al partito e alla qualità democratica, anche le riforme. Che non dipendono solo dalle norme, ma da quel che si riesce a cambiare nel profondo del Paese". D’Alema e Bersani faranno la scissione? "Sono convinto di no. Non è nella loro cultura politica un posizionamento di mera testimonianza". Giustizia: ministro Orlando "nessuna Corte Appello chiude". Anm: "Troppi slogan falsi" di Luca Prosperi Ansa, 19 ottobre 2014 Difende la riforma della giustizia, dall’auto-riciclaggio al falso in bilancio, dalla degiurisdizione alla responsabilità dei giudici; prova a stemperare i toni, specie con i magistrati, plaude all’avvocatura e spiega che nessuna riforma può funzionare senza una adeguata copertura di personale. Il ministro Andrea Orlando ripete all’Aquila, al convegno organizzato da università abruzzesi, Anm e avvocati, lo schema complessivo dell’impalcatura e nello stesso tempo annuncia che proprio per questo "il prossimo anno nella legge di stabilità sono previste mille assunzioni per il personale delle cancellerie, con un impegno di cinquanta milioni. Nel 2016 abbiamo stanziato 90 milioni e 120 nel 2017. È un risultato straordinario, uno dei pezzi della riforma, perché i vuoti di organico sono l’emergenza tra le emergenze", in più aperture verso i precari del ministero. Apertura importante cui segue un altro annuncio particolarmente gradito all’Aquila: "Non chiuderemo nessuna Corte d’Appello, nemmeno quella dell’Aquila", spiega riferendosi alle ipotesi di cancellare quelle della dorsale appenninica come ipotizzato. Ma resta sempre in piedi la spina del rapporto coi magistrati perché, quando sul palco del Ridotto del Teatro dell’Aquila sale il rappresentante dell’Anm Abruzzo, il pm aquilano David Mancini, i sorrisi diventano a denti stretti: "Sulla nostra scarsa presunta produttività abbiamo ascoltato slogan falsi mentre invece i magistrati italiani sono tra i primi in Europa", dice il giudice riferendosi specialmente alle polemiche sulle ferie dei magistrati. E poi incalza: "Non abbiamo invece mai sentito provvedimento contro il cancro della prescrizione, ma solo palliativi senza senso". Orlando ha raccolto la sfida e, a sua volta, ha rilanciato con un "io sono contrario agli slogan ma non vorrei che si rispondesse con altrettanti slogan", sulle ferie "non vorrei che anche per l’Anm, che ritiene la questione sia centrale, sia invece un fatto simbolico. Chiediamo al resto del Paese di adeguarsi ai tempi e riteniamo giusto chiederlo anche ai magistrati, perché non credo che questa riduzione sia un male". L’ostacolo ferie resta in campo, però "è bene recuperare quel clima di dialogo con le toghe", che esisteva prima dell’entrata in campo della questione ferie. Orlando, infine, ha voluto rimarcare che questa riforma "è un intervento su una infrastruttura democratica e che il Governo, senza avere maggioranze di altri nel passato, riuscirà laddove appunti altri non sono riusciti". Giustizia: Rita Bernardini "Il famoso decreto degli 8 euro? Una sòla di Stato" di Errico Novi Il Garantista, 19 ottobre 2014 La legge è scritta male, i Magistrati di Sorveglianza respingono quasi tutti i ricorsi, il Governo chiarisca. È come se la legge non ci fosse. Fuffa. Niente che sia compatibile con la realtà del sistema penitenziario. Il famoso decreto sugli 8 euro da risarcire ai detenuti costretti in "condizioni inumane e degradanti" è un fiocco di neve che non cade in nessun posto, come avrebbe detto il protagonista di Nirvana, il film di Gabriele Salvatores. I radicali denunciano la cosa attraverso la loro radio, e in particolare nel corso di Radio Carcere, trasmissione che da anni si occupa di chi sta dietro le sbarre. E in onda non vengono lette solo le missive dei detenuti. Si espongono in prima persona i presidenti di due Tribunali di Sorveglianza, Antonietta Fiorillo di Firenze e Giovanni Maria Pavarin di Venezia. Spiegano come alcuni passaggi della norma rendano impossibile o quasi l’accoglimento delle istanze. Fiorillo riferisce una statistica raggelante: nel suo distretto, su 1.200 domande, è stato possibile dare seguito solo ad una. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti raccoglie il tutto e ne fa un’interrogazione al premier Renzi e al guardasigilli Orlando. Ma insomma, Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani, questo decreto legge è un pacco ai detenuti? Avrei utilizzato il romanesco "sòla" ma in effetti, visto che si tratta di detenuti, la parola "pacco" ha una sua consonanza. D’altronde qui il pacco è anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo e per il Comitato dei ministri. Questa norma avrebbe dovuto dare attuazione alla sentenza Torreggiani. E invece non adempie a quegli obblighi... Di fatto non vi adempie. Quando il nostro ministro della Giustizia ha riferito a Bruxelles sulle iniziative del governo, il Comitato dei ministri ha dato credito all’Italia e ha dichiarato decaduti quasi 4.000 ricorsi presentati da detenuti reclusi nelle carceri italiane, visto che Roma aveva finalmente predisposto i rimedi. In realtà il decreto era ancora in preparazione, comunque l’Europa ci ha creduto. E ha scritto testualmente: "Non abbiamo motivo di ritenere che i rimedi non siano effettivi". Sulle difficoltà che emergono c’è la solita resistenza della burocrazia, di alcuni giudici di sorveglianza in questo caso? Anche. Poi però ci sono magistrati come Pavarin e Fiorillo che si danno da fare, ma anche loro dicono che i chiarimenti devono essere dati. La principale difficoltà riguarda le detenzioni pregresse... Non avrebbe senso d’altronde ritenere che il decreto debba riguardare solo le detenzioni in corso: è stata prevista la possibilità di monetizzare con il risarcimento degli 8 euro al giorno proprio perché si è pensato anche a chi è già uscito dal carcere o vi uscirebbe nel giro di poco tempo e dunque non potrebbe fruire della riduzione di un giorno di pena ogni dieci scontati in condizioni degradanti. E se la Corte europea arriva ad annullare i quasi 4.000 ricorsi è appunto perché erano previsti i risarcimenti per tutti. Serve una norma di interpretazione autentica... Assolutamente sì, la chiede Giachetti nella sua interrogazione. D’altra parte se anche i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza avessero una visione univoca, comunque le cose sarebbero lo stesso complicate perché resta il problema della ricostruzione da parte del detenuto delle sue condizioni pregresse. La legge doveva prevedere un meccanismo chiaro, automatico. C’è il problema degli 8 euro che valgono per tutti: da chi non lavora in carcere a chi sta in 12 in una cella... Certo. Come si fa a parlare di risarcimento? Un risarcimento deve essere commisurato alle singole specifiche circostanze. A Poggioreale o a Messina, per esempio, si patisce una condizione ancora più inumana che altrove. Al momento comunque le istanze sono inevase per la stragrande maggioranza... Milano e Piacenza le respingono tutte, per la questione del pregiudizio che deve essere "attuale", quindi niente da fare per titoli esecutivi diversi da quello che il detenuto sta scontando o per periodi trascorsi in altri penitenziari. Come si spiega l’errore? La legge è scritta male, non è chiara. Va detto anche che i magistrati di sorveglianza riescono a stento a star dietro all’ordinario. Una nota del presidente del Tribunale di Bologna l’abbiamo mandata al Comitato dei ministri di Bruxelles: prescriveva a tutti i giudici di occuparsi solo delle questioni urgenti, non degli sconti di pena. Chi fa istanza deve ricostruire la metratura della cella, anche se si tratta di una detenzione scontata anni addietro. Impossibile senza la collaborazione del Dap. Che peraltro ha cominciato a fare i conteggi solo da pochi anni. Riguardo al pregresso non si sa neppure dove e come siano custoditi i dati, se sul cartaceo o in elettronico. È il risarcimento che è virtuale. Chi è attualmente detenuto può recuperare le informazioni solo attraverso un avvocato. Spende più soldi a pagarselo di quelli che magari recupera. Eppure la Corte europea in virtù di questi rimedi ha annullato 4.000 ricorsi... Si è voluta fidare. Non ha tenuto conto del dossier che avevamo inviato. D’altronde l’Italia ha avuto un anno di tempo, che scade a maggio 2015. Nel frattempo è monitorata. Sarebbe grave se non si uscisse da questo guazzabuglio... Avremmo la conferma di quello che denunciamo da anni con Pannella: quella italiana è una situazione di non democrazia. Giustizia: contrordine compagni… inizia la stagione delle regole di Valerio Spigarelli (Unione delle Camere Penali) Il Garantista, 19 ottobre 2014 I due fatti epocali avvenuti nel corso della settimana sembrano del tutto slegati: il presidente della Corte che ha assolto Berlusconi nel processo Ruby se ne va in pensione proprio il giorno che firma la sentenza, e la cosa viene subito letta come una clamorosa sconfessione dell’esito giudiziario da parte di uno dei tre giudici che l’hanno determinato; contestualmente (forse) il duo Santoro/Travaglio si scioglie all’esito di una clamorosa litigata televisiva nella quale il secondo, a la maniera dei politici di tutti le risme, abbandona l’aula, pardon lo studio televisivo dove stava giudiziosamente ghigliottinando Burlando. Quanto alla prima vicenda, emersa grazie ad uno scoop di un giornalista del Corriere, si rinvengono molti spunti comici. Il primo riguarda, alternativamente, le capacità immaginifiche della stampa nazionale ovvero il concetto, assai relativo, del riserbo, che hanno i giudici italiani, Il giudice di Milano, infatti, non rilascia nessuna intervista sui motivi del suo gesto, anzi, come riporta l’autore dello scoop, dichiara "le mie dimissioni sono lì non ho altro da aggiungere", questo il giorno del fattaccio. Il giorno dopo, quando infuria la polemica, la portentosa stampa nazionale invece inonda le cronache di sue dichiarazioni virgolettate. C’ha ripensato? No, solo che invece di parlare con la stampa parla - così dicono i giornali - con qualche amico suo che a sua volta parla con la stampa, pertanto l’onore e salvo, E che dice? Secondo un altro scoppista milanese, stavolta della Repubblica, dopo un viaggio a Lourdes ha deciso di andare via dalla magistratura perché, "non ci vuole certo una zingara per capire come è andata quella notte", sempre per come avrebbe confidato ai suoi amici. Amici che devono essere una pletora, e soprattutto non molto rispettosi del riserbo che invece il giudice invoca, se, stavolta al Corriere, aggiungono che lo stesso avrebbe detto "non me la sento di decidere domani per un marocchino in modo diverso". Ora è vero che il giudice non è più un giudice, visto che si è dimesso, però è tenuto al riserbo rispetto a quello che e successo in camera di consiglio anche dopo che si è dimesso, questo è pacifico. Siccome è un giudice esperto lo sa, tanto è vero che non casca nella trappola nella quale, sempre a proposito di B era cascato un altro giudice un anno fa. Ma il riserbo è riserbo, e vale nei confronti di tutti, giornalisti o amici poco conta. Quindi delle due Luna: o le frasi che la stampa, attraverso amici suoi (che non devono essere molto amici suoi) riporta, non le ha mai pronunciate, e gli amici suoi se le siano inventate, oppure le ha dette ma allora il riserbo è andato a farsi benedire. Nel primo caso non ci fa una bella figura la stampa, nel secondo, almeno, il concetto di riserbo che i giudici, in servizio o in pensione, coltivano. In realtà però, che abbia detto o non detto qualcosa alla stampa, o a qualche suo infedele amico, ciò che più conta è che quel giudice ha compiuto un gesto che, per i tempi, ha un suo significato che non abbisogna di parole: lui quella sentenza non la condivide. Su questo c’è poco da interpretare proprio perché i tempi contano: se fosse andato in pensione un mese dopo la cosa non sarebbe stata la stessa. Solo che per significare la propria contrarietà rispetto ad una decisione collegiale un magistrato può fare una cosa: depositare agli atti una busta con un opinione dissenziente, il che, però, non risulta. Allora è legittimo pensare che di fronte all’alternativa tra seguire una regola che avrebbe avuto uno scarso impatto mediatico ovvero compiere un gesto, magari muto ma pieno di "principi", che avrebbe trovato il clamore mediatico, quel giudice ha deciso per la seconda che abbiamo detto. E non gli si può dare torto, dal punto di vista dei risultati, visto che in questo benedetto Paese i processi mediatici contano più di quelli veri. Dall’altro ieri, e probabilmente per sempre, l’assoluzione di B nel processo di Milano varrà di meno; sia che, in futuro, la Cassazione la confermi sia che la annulli, quella sentenza non sarà così importante rispetto al fatto che uno dei giudici che l’aveva siglata se n’era andato in pensione il giorno stesso del deposito perché era sbagliata. Tra la regola, la busta, e i principi, quelli che tirano in ballo zingare e marocchini, valgono i secondi perché si preferisce la rappresentazione mediatica a quella giudiziaria . Ed ecco che qui il fattaccio si sposa con l’altro evento epocale. Il giudice Santoro divorzia dal pm Travaglio, in diretta, accusandolo di eccessivo giustizialismo. Mentre la giurisdizione vera capisce che i processi mediatici contano più di quelli giudiziari questi ultimi, però, arrivano al capitolo finale di ogni rivoluzione: con un corto circuito nel quale i Robespierre vengono fatti fuori dagli apprendisti stregoni che li hanno creati. Santoro invoca una regola, quella sacra del contraddittorio, della libertà di parola dell’imputato, del diritto di replica. Lo fa perché il format è in crisi di ascolti e un po’ di garanze magari attirano spettatori, oppure lo fa perché il pm d’aula strabocca e vuole zittire pure lui che è il giudice. Comunque lo fa, fatelo sapere a tutti, pure a Milano: contrordine compagni, è iniziata una nuova stagione, quelle delle regole. Giustizia: "Parco verde" di Caivano, qui la criminalità organizzata si fa Stato di Giovanni De Cicco Il Garantista, 19 ottobre 2014 Lo chiamano "Parco verde". Si trova a Caivano, comune in provincia di Napoli che segna il confine tra l’area a nord del capoluogo partenopeo e l’entroterra casertano. Caivano periferia di Napoli. Il "Parco verde" periferia della periferia. Settecentocinquanta appartamenti ufficiali. Ai quali vanno aggiunti gli "alloggi fantasma", ossia le mansarde abusive e le abitazioni ricavate persino dai porticati. Poco più di 5mila residenti censiti. Ma la cifra si alza se contiamo anche la parte di rione inesistente pure sulle carte. Da sempre uno dei "droga shop" più grandi del Mezzogiorno. Qui è morta Chicca Loffredo. Sei anni. La dinamica è ancora un mistero: si pensava all’inizio fosse caduta da un balcone di una palazzina. Ma i punti da chiarire erano e restano ancora tanti da quel maledetto 24 giugno. A distanza di mesi non c’è certezza nemmeno su come sia morta. I medici legali hanno scritto "per precipitazione da oltre 10 metri" , ma le zone d’ombra emerse agli occhi degli investigatori già analizzando la scena del delitto sono diventate sempre più grandi appena l’autopsia ha scoperto che la piccola dai "buccoli d’oro" è stata più volte violentata. Nessuno sa ancora se le violenze sessuali siano legate alla morte di Chicca oppure se si tratti di questioni indipendenti. Gli investigatori sono al lavoro ma l’inchiesta della Procura di Aversa-Napoli nord, coordinata dal procuratore capo Franco Greco, non è ancora arrivata al "salto di qualità". È difficile, spinosa, intrigata nonostante non si lasci nulla al caso: i disegni della piccola Chicca conservati dalla madre della vittima; si scava tra gli amici di famiglia, tra i parenti, tra i residenti del "Parco", tra le amichette, in cerca di elementi e dichiarazioni in grado di fornire anche minimi dettagli che potrebbero risultare poi determinanti al fine di sciogliere la matassa. Operazione difficilissima perché parliamo di un "bunker" della criminalità organizzata. Non il solito ghetto di periferia tipico del Sud. Il "Parco Verde" è qualcosa di più. Molto di più. E da queste parti non c’è proprio voglia di parlare con le "divise". Attenzione. Non bisogna confondersi: non sono tutti "orchi" che giustificano o coprono anche violenze sessuali nei confronti di minorenni. Tutt’altro. Il quartiere, con la guerra a Napoli tra i "signori dello spaccio" di Scampia, ha cambiato volto. È diventato strategico per il narcotraffico. Nel capoluogo, le famigerate "vele" sono blindate. Circola sempre droga ma le "piazze migliori", quelle più redditizie e quindi affollate, non producevano più denaro. Le pistole, i kalashnikov a sparare; il clima teso, il timore di finire in agguati nei quali hanno perso la vita anche gli innocenti, colpevoli di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato; e poi la militarizzazione del territorio che allontana i clienti migliori. Ecco allora che serviva una zona che momentaneamente potesse sostituire le "vele" in attesa che la guerra di Secondigliano stabilisse i nomi delle famiglie vincitrici. E il "Parco Verde" ha rappresentato la soluzione migliore per gli "scissionisti". Sotto tutti i punti di vista. Distante dal teatro di guerra di Scampia ma comunque un bunker già rodato e soprattutto pronto immediatamente ad essere operativo. Anche come rifugio per i latitanti. Quegli appartamenti - questo emerge dalle inchieste della Procura - sono gestiti dalla camorra e sistematicamente utilizzati anche come rifugi sicuri per i killer dopo gli omicidi. L’ultima "terra di nessuno". Spostate le piazze di spaccio, quindi, si stabiliscono le gerarchie: i "capi piazza", i responsabili delle singole palazzine, gli spacciatori, le vedette appostate sui fabbricati in modo da "anticipare" l’eventuale arrivo di forze dell’ordine e le "sentinelle", a piedi e a bordo di motociclette, per perlustrare il territorio in modo da garantire accesso solo ai residenti o ai clienti. Mosaico completo. Padova: si impicca con una cintura in cella, suicidio di un detenuto al "Due Palazzi" Il Mattino di Padova, 19 ottobre 2014 Era arrivato al carcere Due Palazzi da appena quattro giorno: fine pena nel 2021. Samir Riahi, 38 anni, tunisino, non ha retto psicologicamente al pensiero di dover trascorrere così tanto tempo in galera. Sabato pomeriggio si è tolto la vita in una cella del penitenziario: si è impiccato con una cintura. È il quarto suicidio dall’inizio dell’anno all’interno del carcere di Padova. Il nordafricano stava scontando un tentato omicidio commesso a Gradisca d’Isonzo. Alle spalle aveva alcuni precedenti penali per droga ed è stato più volte denunciato per liti all’interno delle carceri. Avevano deciso il suo trasferimento a Padova dopo un periodo trascorso a Verona. Ma sabato pomeriggio il detenuto ha deciso di farla finita. L’allarme l’ha dato il compagno di stanza al rientro dall’ora d’aria. Il trentottenne tunisino giaceva esanime nel bagno della cella, con la cintura intorno al collo. Gli accertamenti sul caso sono stati affidati agli uomini della Squadra mobile di Padova. Gli investigatori del vicequestore aggiunto Marco Calì hanno visionato i filmati ripresi dalle telecamere del circuito interno al carcere. Dalle immagini si vede chiaramente il compagno di stanza entrare e uscire subito dopo di corsa per chiedere aiuto. Anche l’esame esterno della salma non ha dato altro responso, se non quello del suicidio. Nessun segno di violenza o altro che faccia pensare al coinvolgimento di qualcuno. Per togliersi la vita Samir Riahi ha utilizzato la cintura dei pantaloni. Questa è la quarta tragedia dall’inizio dell’anno all’interno del penitenziario padovano. In aprile Alessandro Braidic, 39 anni, condannato ad una pena che lo obbligava a rimanere in carcere fino al 2039, si è tolto la vita nella sua cella. Poi due casi strettamente legati perché connessi all’inchiesta sul giro di droga all’interno della casa di reclusione. In luglio si è tolto la vita il detenuto Giovanni Pucci, 44 anni, elettricista di Castrignano de’ Greci (Lecce). È stato trovato morto impiccato nella sua cella al terzo blocco della casa di reclusione, poche ore dopo l’interrogatorio. Nemmeno un mese dopo è stata la volta dell’assistente della polizia penitenziaria Paolo Giordano, 40 anni, anch’egli coinvolto direttamente nell’inchiesta della Squadra mobile. Con una lametta da barba si è tagliato la gola nel suo alloggio di via Due Palazzi. Ora questo nuovo caso con un altro detenuto che preferisce la morta alla detenzione. Milano: Casa di Reclusione di Bollate, dove i detenuti pedofili hanno una speranza di Damiano Aliprandi Il Garantista, 19 ottobre 2014 La prigione lombarda è uno dei pochi centri di reclusione dove la recidiva dei "sex offenders" è sotto la media nazionale. "Negli Stati Uniti troppe persone finiscono in carcere ingiustamente per guardare video pedopornografici". Lo ha detto lo scrittore americana John Grisham nel corso di un’intervista al quotidiano britannico Telegraph in cui ha criticato l’intero sistema giudiziario americano. Il "re" del legal thriller sconvolge tutti con una intervista al Daily Telegraph, non nuovo a frasi controverse, accusando i giudici americani di essere impazziti. Secondo Grisham, 59 anni, i giudici americani, negli ultimi 30 anni, mandano in prigione troppe persone: dai criminali con il ‘colletto biancò come la manager Martha Stewart, agli adolescenti neri accusati di reati minori legati alla droga, nonché coloro che hanno visto pedopornografia online. "Adesso ci sono carceri piene di uomini della mia età - ha detto lo scrittore durante l’intervista esclusiva per promuovere il suo ultimo romanzo, Gray Mountain, che uscirà la settimana prossima. Uomini bianchi di 60 anni in prigione che non hanno mai fatto male a nessuno e che non toccherebbero mai un bambino". La giustizia, ha sottolineato, non fa distinzione tra i veri pedofili e coloro che, accidentalmente o meno, scaricano dalla rete contenuti pedopornografici. "Non ho nessuna compassione per i veri pedofili", ha sottolineato Grisham, "Dio ti prego rinchiudi questa gente. Ma molte di queste persone non si meritano dure sentenze in prigione e questo è ciò che ricevono". Frasi che hanno scatenato la reazione di alcune associazioni britanniche. "I commenti di Grisham mandano un messaggio pericoloso secondo cui il solo guardare le immagini non fa alcun male", ha detto John Brown, dell’associazione di volontariato per la protezione dei minori Nspcc. "In realtà, ogni immagine riguarda un bambino vero che ha sofferto e ogni volta che queste immagini sono cliccate o scaricate si crea una domanda che non fa che provocare altri abusi sui minori", ha aggiunto. Più dure le parole di Bharti Patel, del gruppo Ecpat Uk, che ha definito lo scrittore "irresponsabile" por quanto affermato. Così Grisham, che già aveva lasciato il segno in passato per le sue dichiarazioni - nel 2013 aveva detto che "siamo tutti razzisti a livelli differenti, preferiamo la nostra razza e siamo pronti a condannare gli altri" - ha ritenuto di dovere delle scuse: "Chiunque faccia del male a un bambino per profitto o per piacere, o chi partecipi in qualsiasi forma ad attività pedopornografiche - online o altro - deve essere punito applicando a pieno la legge", scrive Grisham sul suo sito web. "I miei commenti non intendevano in alcun modo esprimere compassione verso chi 6 condannato per crimini sessuali". Anche in Italia, la pedofilia è un grave problema. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della Giustizia il numero di pedofili detenuti nelle carceri italiane sono 1322 di cui 400 stranieri e 98 donne. Tra le regioni che detengono il maggior numero di pedofili ci sono Lombardia, Sicilia, Piemonte e Lazio. In Italia esistono 15 organizzazioni pedofile che si autodefiniscono culturali e il nostro è il secondo Paese al mondo per vìsite legate al turismo sessuale in Tailandia. E gli abusanti sono quasi sempre all’interno del nucleo familiare: padri, madri, nonni, nuovi conviventi o coniugi. Solo il 9,0% riguarda soggetti estranei. I pedofili che entrano in carcere, non vengono reclusi nello colle comuni perché rise filerebbero la loro incolumità. Nella cultura del mondo carcerario, vengono definiti "gli infami". Nel gergo tecnico di psicologi e operatori penitenziari sono i "sex offendere". Qualunque sia il modo di chiamarli, una cosa è certa: quando entrano in galera, le persone che si sono macchiate di un reato sessuale vengono spedite dritte nei reparti protetti e isolate dal resto dei detenuti. Ma c’è un carcere dove questo non accade e mette in discussione i numerosi luoghi comuni che definiscono, i pedofili, come persone irrecuperabili e da castrare. Un carcere definito erroneamente "sperimentale" , ma che si limita semplicemente a rispettare l’articolo 27 della costituzione italiana. Parliamo del famoso carcere di Bollate, conosciuto per essere uno dei pochi centri di reclusione dove la recidiva è sotto la media nazionale. E per i detenuti pedofili è proprio la recidiva il vero problema. Si possono aumentare le pene, si possono varare norme che tengano i pedofili lontani dalle possibile "prede", come viene fatto in diversi paesi europei, ma se non s’intraprende un percorso di "cura", il sex offender di turno tornerà a commettere le violenze, fino a quando verrà scoperto nuovamente. Per questo a Bollate, dal 2005, è in corso una sperimentazione per il recupero dei pedofili. Sì chiama "Progetto di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali in Unità di Trattamento Intensificato e sezione attenuata" ed è l’unico caso in Italia in cui, dopo un anno di terapia in un’unità specializzata all’interno del carcere, i detenuti possono lasciarsi alle spalle il reparto protetto e vivere quotidianamente insieme agli altri detenuti dì reati "comuni". Il progetto è stato ben spiegata dalla ex direttrice del carcere Lucia Castellano in una intervista a Repubblica: "I sex offenders seguono un trattamento avanzato, un percorso studiato appositamente per chi ha commesso reati sessuali. Qui a Bollate - ha spiegato l’ex direttrice - in questo momento ci sono trenta persone, su un totale di 750 detenuti. E in questi tre anni posso dire che il progetto ha dato i suoi frutti. Su 80 soggetti, solo tre sono stati recidivi e uno di loro ha chiesto di tornare per continuare le terapie". Il carcere di Bollate è considerato all’avanguardia per il modo costruttivo nell’abbattere il rischio di recidiva e favorire il graduale, ma anche definitivo reinserimento del condannato nel contesto sociale. "Perché una cosa è certa - ha continuato l’ex direttrice Castellano - pensare al carcere come a un luogo in cui si prende la chiave e la si butta via, non ha alcun senso. Non serve a niente. Il modo migliore per evitare che questi gravissimi fatti si ripetano ancora è accompagnare la galera a dei percorsi sensati. Non farsi prendere dall’onda emotiva, studiare bene le misure da adottare per evitare la recidiva. Affrontare il problema con razionalità. E poi, infine, "sperare" nel soggetto. Perché più di ogni altra cosa, la scelta del recupero dipende dalla persona". La sperimentazione per il recupero dei pedofili e violentatori sessuali in genere è pianificata e gestita dai professionisti del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione. È un’associazione fondata nel marzo del 1995 a Milano, da un gruppo di criminologi, sociologi, psicologi, operatori sociali e magistrati. Essa costituisce la prima presenza organizzata su territorio nazionale per la formazione e la diffusione delle pratiche di mediazione. Al carcere di Bollate la terapia si basa su tre passaggi fondamentali: ospitare i sex offender in una struttura isolata dal resto del carcere, creando il clima ottimale per l’avvio della terapia; il secondo passaggio è utilizzare il gruppo come uno strumento di confronto e introspezione, il terzo è quello di puntare al progressivo reinserimento di queste persone tra gli altri detenuti, preparandoli gradualmente alla scarcerazione. Un percorso che non si esaurisce dopo la scarcerazione, ma continua nel Presidio criminologico di Milano. Un centro dell’assessorato comunale alla Sicurezza, dove i gruppi di cura vengono costituiti con "sex offender" usciti di prigione, altri che stanno scontando pene alternative, e altri ancora a piede libero, mai individuati dalla giustizia, ma con l’urgenza di farsi curare. Nella cosiddetta società civile, ma anche tra gli stessi detenuti, i pedofili e stupratori non sono recuperabili e meriterebbero l’ergastolo. In realtà la sperimentazione che avviene nel carcere di Bollate, dimostra l’esatto contrario. E contribuisce anche alla sicurezza stessa, abbassando la recidiva. Sassari: no alla riapertura del carcere, il reparto del 41bis all’Asinara è fuori tempo La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2014 "La proposta di riaprire il carcere dell’Asinara e di destinarlo ai detenuti in regime di 41 bis è fuori dal tempo e dalla storia per motivi sociali, ambientali ed economici". Per il presidente della Provincia di Sassari, Alessandra Giudici, la sola risposta alla proposta della Commissione guidata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, è un no secco. Il magistrato fa parte del gruppo di lavoro cui è affidato lo studio del progetto di riorganizzazione del sistema carcerario italiano che fa capo alla presidenza del Consiglio dei ministri. Proprio in questa veste Gratteri ha presentato un’analisi con cui contesta la distribuzione di 750 detenuti in regime di carcere duro in dodici istituti, e ha indicato come soluzione la costruzione di quattro nuove carceri dedicate a ospitare esclusivamente i "41 bis". "Non entro nel merito di questa proposta, sulla quale per certi versi si potrebbe anche concordare - dice Alessandra Giudici - ma non capisco come si possa pretendere di riavvolgere il nastro della storia e restituire l’Asinara a un passato con cui l’isola non può, non deve e non vuole più avere niente a che fare". Tanto più che "l’isola carcere venne chiusa soprattutto per i costi esorbitanti necessari per raggiungerla e per gestirla - ricorda il presidente della Provincia - e le condizioni economiche in Italia non sono certamente migliorate". Il problema è anche di natura sociale. Alessandra Giudici si era espressa apertamente contro l’ipotesi che nel nuovo carcere di Bancali possano arrivare boss mafiosi e camorristi. "Abbiamo manifestato chiaramente la nostra opposizione sin dal momento in cui si progettava il carcere e si ipotizzava la realizzazione di un braccio destinato al 41 bis - spiega Alessandra Giudici - ma la volontà della comunità locale, che immaginiamo sempre di rappresentare e tutelare quando ci rivolgiamo alle altre istituzioni, non era stata tenuta nella minima considerazione". Il presidente della Provincia sottolinea che "al riguardo avevamo detto che si stava commettendo un errore gravissimo, rischiando di mettere a repentaglio la salute di un territorio che finora non ha mai avuto a che fare con la mafia. Figuriamoci se siamo disposti ad accettare un’altra imposizione sull’Asinara". Perché al di là dei costi che il carcere richiede, ci sono anche altri aspetti economici. "Il presente dell’Asinara è fatto di progetti legati allo sviluppo turistico e ai temi della sostenibilità ambientale, con la possibilità di restituire finalmente al territorio una straordinaria risorsa su cui puntare per cercare di uscire da questa lunga e pesante depressione produttiva e occupazionale". Per procedere in quella direzione - secondo Alessandra Giudici, "sarebbe auspicabile che venisse insediato al più presto il comitato direttivo dell’Ente parco, proprio come hanno promesso gli ultimi due ministri dell’Ambiente, Andrea Orlando e Gian Luca Galletti, da un paio d’anni a questa parte". Vibo Valentia: Socialisti e Radicali visitano il carcere "qui condizioni conformi alla legge" www.radicali.it, 19 ottobre 2014 Continua l’attività del Partito Radicale in Calabria. Nella giornata di ieri, su iniziativa del radicale calabrese Emilio Quintieri, si è tenuta una Visita Ispettiva presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia. L’ispezione è stata effettuata dal Senatore della Repubblica Enrico Buemi (Psi), membro delle Commissioni Parlamentari Giustizia e Antimafia di Palazzo Madama. Il socialista Buemi, nella circostanza, è stato accompagnato oltre da Quintieri anche da Leonardo Trento, già Assessore alla Provincia di Cosenza e Dirigente del Partito Socialista Italiano. La delegazione è stata ricevuta dai Vice Commissari di Polizia Penitenziaria Domenico Montauro e Paolo Cugliari, rispettivamente Comandante e Vice Comandante di Reparto. Al momento della visita era assente il Direttore dell’Istituto. Dopo un breve colloquio con i vertici della Polizia Penitenziaria, gli esponenti politici, sono stati accompagnati all’interno del Carcere ove hanno visitato la Sezione Isolamento, i Reparti in cui sono allocati i detenuti appartenenti al circuito dell’Alta Sicurezza (As3) e la Sezione in cui sono ristretti i "sex offenders", detenuti imputati o condannati per reati di tipo sessuale, aperta proprio la scorsa settimana. Nel corso della visita sono stati ispezionati anche i cortili passeggio, il Teatro, la Cucina, le Aule Scolastiche, le Sale Colloquio, le Sale per la Socialità, gli Ambulatori ed i locali dell’Area Sanitaria. La struttura penitenziaria vibonese - a fronte di una capienza regolamentare di 365 posti (50 dei quali non disponibili per lavori di ristrutturazione) - ospita 258 detenuti (57 in esubero). Tra i detenuti, il 40% di essi, per come riferito dai Sanitari Penitenziari, soffre di disturbi mentali o patologie psichiatriche. Circostanza questa che il Governo (Vice Ministro della Giustizia On. Enrico Costa) non ha elencato nella recentissima risposta fornita all’Interrogazione Parlamentare dell’On. Vittorio Ferraresi, Capogruppo del Movimento Cinque Stelle in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati. Pochissimi, invece, i detenuti tossicodipendenti (3) e sieropositivi (2) presenti nell’Istituto. Non è stato riscontrato nulla di illegale anzi, le condizioni di detenzione, sono risultate del tutto conformi alla Costituzione ed alla Legge Penitenziaria. In particolare, la delegazione socialista e radicale, ha verificato la ristrutturazione completa dei reparti detentivi ed il loro adeguamento al regolamento di esecuzione penitenziaria del 2000 (fatta eccezione per l’Isolamento) il quale stabilisce che, le docce, debbono essere sistemate in un vano annesso alla camera di pernottamento e non all’interno di locali comuni posti nel Reparto. Stanno per essere ultimati, altresì, i lavori di tinteggiatura dei corridoi interni alle Sezioni. Per quanto concerne la vigilanza sull’Istituto Penitenziario da parte dell’Autorità Giudiziaria competente è stato riferito che il Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro vi si reca mensilmente sia per colloqui con i detenuti e sia per ispezioni dei locali. Relativamente all’assistenza medico sanitaria, la stessa, viene garantita 24 ore su 24. Nell’Istituto, peraltro, sono presenti ben 12 branche specialistiche (Oculistica, Neurologia, Psichiatria, Cardiologia, Radiologia, Dermatologia, Chirurgia, Otorinolarigoiatria, Odontoiatria, Infettivologia, Fisioterapia ed Ortopedia). Quanto all’area verde esterna di cui è dotato l’Istituto, la stessa, è chiusa e non funzionante da tempo, per non meglio definite problematiche strutturali. Sono presenti anche dei mediatori linguistico - culturali per i detenuti stranieri. L’Istituto non è dotato di un impianto di illuminazione notturna nelle celle per cui, i controlli, da parte del personale di vigilanza, avvengono con delle torce a batteria di intensità attenuata per come prevede la Legge. Due sono le cucine dell’Istituto (anche se ne funziona soltanto una) preposte alla preparazione del vitto. I locali sono stati trovati puliti e ben attrezzati. I detenuti che vi lavorano, sono alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. La Casa Circondariale di Vibo Valentia dispone di un laboratorio adibito alla lavorazione dell’alluminio, di dimensioni ampissime e, soprattutto, di macchinari all’avanguardia. Qualche anno fa, la gestione venne affidata ad un’impresa esterna, specializzata nella produzione di infissi, che riusciva ad impiegare 8 detenuti. Attualmente, tale laboratorio, risulta chiuso e non funzionante per mancanza di commesse. Carente il personale di Polizia Penitenziaria che presta servizio nell’Istituto, anche per i numerosi distacchi, missioni ed aspettative (circa una trentina). Un organico esiguo se si considera anche che nell’Istituto ci sono ben 6 reparti, con detenuti che non possono incontrarsi: comuni, alta sicurezza e protetti. Insufficiente anche il personale dell’Area Giuridico Pedagogica (Educatori) ed inadeguata l’assistenza psicologica per la popolazione ristretta, garantita soltanto per poche ore mensili/settimanali da esperti dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Azienda Sanitaria Provinciale. A tutti i detenuti ristretti nella struttura carceraria vibonese, eccetto quelli classificati "Alta Sicurezza" - per come accertato da Buemi, Trento e Quintieri - in conformità alle indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, vengono garantite almeno 8 ore al giorno al di fuori della camera di pernottamento. Oristano: braccialetti elettronici finiti, la "sperimentazione" interrotta prima di iniziare di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2014 Tanti annunci anche sulla stampa ma alla fine la sperimentazione voluta dal ministero di Grazia e giustizia sul braccialetto elettronico è stato un vero flop. Ne erano stati autorizzati 2.000 in tutta Italia, ma ora sono finiti. Uno solo era stato autorizzato ad Oristano. I motivi: il servizio telefonico (Telecom), utilizzato per far funzionare il braccialetto elettronico costerebbe troppo. E così, tra i tagli della spesa pubblica c’è finito anche questo strumento che nel resto del mondo sta funzionando perfettamente. Il comunicato del Governo Renzi nel dicembre del 2013 annunciava l’importante novità: "Questo strumento rappresenta una sicura garanzia in ordine al mantenimento di adeguati standard di controllo istituzionale sui detenuti". Ora, pare che prima del 2015 non si possa procedere con un nuovo contratto a causa della spending review. Ad Oristano la sperimentazione del "braccialetto" era partita nello scorso mese di maggio, su richiesta del Ministeri ed era stata accolta favorevolmente dal questore Francesco di Ruberto. Le prove erano andate bene tanto che pochi giorni dopo il magistrato aveva autorizzato il suo utilizzo su una persona sottoposta al regime degli arresti domiciliari. In questi mesi poi tutto si è fermato perché le richieste di nuovi braccialetti sono rimaste inevase. Quei 2.000 pezzi sono tutti stati utilizzati nella Penisola. Dove e con quali priorità però nessuno lo sa. Ci troviamo davanti ai soliti misteri della giustizia italiana, tanto da ritenere che ci siano tribunali di serie A e altri di serie B. Nel Capoluogo le recenti richieste di alcuni avvocati, che sollecitavano l’utilizzo dei braccialetti per alcuni loro assistiti, non hanno ottenuto, almeno per ora, alcuna risposta. "Lo strumento è utile e limita per le forze dell’ordine gli interventi di controllo e accertamento sul territorio - ha ricordato il questore Francesco di Ruberto. La richiesta per il suo utilizzo deve essere motivata al magistrato che lo richiede al Ministero. Risulta anche a me che siano terminati". Il "braccialetto elettronico", normalmente applicato alla caviglia del detenuto, è collegato ad una elettronica attraverso un ripetitore installato nell’abitazione o nel luogo disposto dal magistrato dove si deve scontare la pena detentiva. La centralina, dialogando con il dispositivo di controllo a distanza, invia alla centrale operativa gli eventuali spostamenti del detenuto dall’abitazione. In caso di violazione del perimetro scatta un allarme con il conseguente intervento delle pattuglie impegnate sul territorio. Paliano (Fr): condannato per droga, malato di tubercolosi, va in carcere a 78 anni Corriere del Mezzogiorno, 19 ottobre 2014 Sentenza 10 anni dopo l’arresto per un anziano di Manfredonia. Arrestato per spaccio di droga nel 2004, è finito in prigione al termine del processo dieci anni dopo, nel 2014, e a 78 anni, con la necessità di assistenza continua per ogni attività. La vicenda di Michele C., 78enne di Manfredonia recluso nel carcere di Paliano (Frosinone) e con un fine pena nel 2016, è stata resa nota dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’anziano all’inizio di settembre è stato trasferito dal carcere di Foggia a Paliano - sezione sanatorio - perché malato di tubercolosi. Il penitenziario frusinate è attrezzato per questo tipo di situazioni. Michele C. era stato arrestato il 16 giugno del 2004, ma è entrato in carcere solo lo scorso 4 luglio, quando la sentenza è divenuta definitiva, per scontare una pena fino al 12 marzo 2016. Prima di entrare nel carcere di Foggia l’uomo avevano presentato istanza di affidamento al servizio sociale o di detenzione domiciliare, ma il Tribunale di Sorveglianza di Bari l’aveva respinta "per una persistente e radicata pericolosità sociale del condannato - si legge nella motivazione - specie nel campo della detenzione illecita degli stupefacenti". I magistrati hanno fissato la camera di consiglio per discutere il ricorso al 15 gennaio, riferisce Marroni. Oltre che di tubercolosi Michele C. soffre di cardiopatia ischemica per un infarto pregresso, di diabete mellito tipo 2 ed è stato sottoposto ad angioplastica. Al colloquio con i collaboratori del Garante è arrivato in pigiama, sorretto da un piantone, e si è preoccupato di dire: "A Paliano mi trovo bene, tutti mi aiutano e si mangia bene, anche se ormai mi sono rimasti solo pochi denti", sempre secondo quanto riferito. "Abbiamo deciso di raccontare questa storia - ha detto Marroni - perché è l’emblema dello stato attuale della giustizia italiana. Si varano norme per svuotare le carceri e restituire dignità al trattamento, ma poi le norme si inceppano davanti ai tempi biblici della giustizia. Purtroppo sono tanti, in tutta Italia, i casi di detenuti anziani con ridotta se non nulla pericolosità sociale, che in carcere hanno bisogno di cure costanti e pertanto, rappresentano un costo aggiuntivo per il sistema. Per tutti costoro dovrebbe essere automatico l’accesso alle misure alternative". Genova: senegalese detenuto in Alta Sicurezza nel carcere di Marassi ingoia lamette e pile Ansa, 19 ottobre 2014 Un senegalese di 35 anni, detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere di Marassi è stato ricoverato, nel pomeriggio, all’ospedale San Martino, dopo aver ingoiato quattro lamette da barba e due pile. Lo comunica Michele Lorenzo, segretario regionale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe). Ed ora nasce un caso sui tempi biblici di attesa al pronto soccorso, visto che il detenuto ha ingoiato pile e lamette, alle 17 di ieri, ma alle 2 della scorsa notte, dopo aver anche dato in escandescenze, ha firmato la dimissione dal pronto soccorso. Lo stesso immigrato, oggi, ha dichiarato di aver ingerito altre lamette, finendo di nuovo all’ospedale, ma questa volta sarà sicuramente operato. "Chiediamo una maggiore attenzione, specialmente all’assessore regionale alla Sanità, Claudio Montaldo - spiega il sindacalista - perché non è possibile tenere i detenuti, tutte queste ore, in corsia, specie se sono ad Alta Sicurezza e necessitano di una scorta armata. C’è bisogno di una corsia preferenziale". Verona: Sappe; a Montorio meno detenuti ma problemi strutturali e aggressioni ad agenti www.veronasera.it, 19 ottobre 2014 Un sopralluogo in carcere dopo le emergenze segnalate dai colleghi della polizia e dopo alcuni disordini registrati tra i detenuti. È avvenuta mercoledì mattina la visita del segretario generale del Sappe (sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria), Giovanni Battista Durante, accompagnato dal segretario regionale Giovanni Vona. Il tour l’ha portato a visitare in due giorni gli istituti di Verona-Montorio, Padova e Vicenza. A Verona, in particolare, sono stati riscontrati "rilevanti" problemi strutturali, soprattutto nel locale passeggi, dove le infiltrazioni di acqua hanno provocato l’allagamento di tutto il corridoio, causando problemi di umidità e anche rilevanti rischi per il personale che ci lavora, causati proprio alla scivolosità del pavimento stesso. Secondo Durante, le sezioni non sono adeguatamente controllate con il sistema di video sorveglianza, poiché le telecamere riprendono solo parzialmente le stesse sezioni detentive. "Gli eventi critici aumentano sempre di più - spiega - poiché i detenuti, soprattutto stranieri, sono sempre più riottosi al rispetto delle regole e del personale di Polizia Penitenziaria. Nei giorni scorsi due agenti sono stati aggrediti con una spranga di ferro da un detenuto che gli ha procurato lesioni al corpo, un altro agente ha ricevuto una testata in un occhio". I detenuti sono in regime aperto in tutte le sezioni, le stanze restano aperte dalla mattina fino alla sera. Continua Durante: "A nostro avviso manca l’adeguata applicazione del sistema sanzionatorio previsto dall’ordinamento, finalizzata anche al ripristino delle normali regole di convivenza". Un dato positivo però è emerso: ovvero quello del calo dei detenuti presenti. Sono meno di 600, rispetto ai circa 900 di un anno fa. Sassari: isola dell’Asinara, tra memoria del carcere e un Parco in agonia di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2014 Ogni tanto ritorna, come il corso delle stagioni, la discussione sull’apertura del carcere nell’isola dell’Asinara che, da tempo, è ormai un parco nazionale. Ritorna perché, in fondo, quello scoglio adagiato su un mare apparentemente raffermo, appare a tutti lontano, come i parenti che, dal continente, ogni tanto telefonano. Ho sempre pensato all’Asinara come un sesto continente perché per chi ci ha vissuto, negli anni in cui il carcere era aperto, rappresentava, davvero un luogo diverso dove la vita di tutti, operatori e detenuti appariva sospesa. La richiesta di riaprire il carcere per i detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario è, però, sotto alcuni aspetti anacronistica e poco praticabile. Sono tempi diversi quelli che stiamo attraversando, rispetto a quelli del 1980 o del 1992 quando, dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si decise, in solo due mesi, di riaprire la diramazione di massima sicurezza di Fornelli ormai smantellata alla fine degli anni ottanta. Fu un’operazione dettata dall’emozione del momento, dal dover dare una risposta forte ad una criminalità che aveva oltrepassato il muro della decenza e del rispetto sociale. I detenuti che soggiornarono a Fornelli dal settembre del 1992 sino al 1995 erano tutti grossi esponenti della mafia e della camorra organizzata. C’erano componenti della Stidda e della sacra corona unita. Soggiornarono anche i capi storici, Totò Riina compreso. Furono momenti intensi, dove l’Asinara, che aveva intrapreso la via del carcere "leggero", si trovò catapultata in un altro e complicato orizzonte dal quale non riuscì a salvarsi perché, ormai, l’idea della sua liberalizzazione era stata sancita. Su quel passaggio la mia idea è sempre stata chiara e netta e il tempo, purtroppo, mi ha dato ragione: si è passati dal carcere al parco senza avere un’idea chiara di cosa quel parco dovesse diventare. Sull’Asinara Parco ci hanno scommesso in pochi e con pochi mezzi e quando ci si trova davanti al capezzale di un animale ferito ci sono sempre due soluzioni: o lo si cura o lo si uccide. Ci sarebbe poi la terza, quella di lasciarlo in agonia, soluzione terribile che, per anni è stata scelta per quest’isola dimenticata. L’animale ferito è debole, non ha la forza di difendersi dagli attacchi. Giace, in agonia, abbandonato da molti, considerato ormai quasi inutile ed ecco che arriva la soluzione per la sua salvezza: riapriamo il carcere duro per isolare i mafiosi. Come se fosse facile, come se fosse normale adesso, dopo sedici anni, riprendere la vecchia diramazione di Fornelli e ripopolarla di detenuti mafiosi. Oggi, quella struttura - peraltro in completo abbandono - andrebbe completamente ripensata in base alle nuove regole per i detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis. Sarebbe oltremodo difficile - se non impossibile - condividere con le restrizioni e la sicurezza di un carcere speciale e quelle di un parco che, proprio per le sue bellezze, è aperto per essere visitato da tutti. Perché, allora, ciclicamente si parla di Asinara associandola ad un penitenziario? Perché quella è, in fondo la memoria di chi la ricorda come un carcere e che, come carcere, aveva dato anche dei risultati. Troppo frettolosamente si è chiusa quell’esperienza e troppo frettolosamente si vorrebbe riaprire. Oggi, l’idea di un carcere di massima sicurezza all’Asinara non è pensabile, mancano i mezzi e le possibilità. I costi sarebbero esorbitanti e nascerebbero dei conflitti con il parco che si avvia, seppure lentamente, a delineare un futuro legato al rispetto per l’ambiente. Manca solo un tassello: un museo che ricordi il passaggio centeneraio di un penitenziario anomalo e di operatori che ancora oggi sentono di essere rimasti orfani di un periodo da ricordare e da poter raccontare. In fondo le storie degli uomini hanno sempre colori forti e meritano un quadro, una fotografia e qualche parola nelle stanze e nei luoghi dove quelle storie sono state vissute. Torino: la cooperativa dei detenuti "Pausa cafè", un successo replicato in altre carceri di Stefano Parola La Repubblica, 19 ottobre 2014 In 10 anni è diventato un modello: i detenuti ora producono anche birra, pane e cacao. Sono passati dieci anni da quando i fondatori della cooperativa Pausa Cafè bussavano le porte delle grandi torrefazioni italiane. Chiedevano se fossero interessate a produrre un marchio di qualità con l’etichetta Huehuetenango, per aiutare i piccoli raccoglitori di caffè del Guatemala colpiti da una violenta crisi di mercato. Purtroppo, o per fortuna, tutti risposero picche perché preferivano le classiche miscele a base di "robusta". Così, a ottobre 2004, quel gruppo di appassionati di caffè scelse una strada ancora più ardua: "Decidemmo di iniziare a produrre in carcere, alle Vallette", ricorda Marco Ferrero, che oggi è il presidente di Pausa Cafè. Sembrava una follia, invece era l’inizio di una storia di successo. Oggi infatti il caffè Huehuetenango, oltre a essere un presidio Slow Food dal 2002, è sugli scaffali e nei bar di tutti i punti vendita di Eataly nel mondo, oltre che nelle botteghe del commercio equo e solidale e nei supermercati Coop. Viene raccolto dai "cafetales" guatemaltechi e poi torrefatto al Lorusso-Cotugno da cinque detenuti e da due addetti esterni, che ogni anno sfornano tra le 70 e le 80 tonnellate di caffè. La scelta, racconta Ferrero, "si è rivelata corretta, perché abbiamo trovato delle professionalità elevate in persone che non in precedenza non avevano avuto modo di mettere in mostra il proprio talento". L’idea è stata talmente buona che in questi dieci anni (la ricorrenza verrà celebrata il 24 novembre con una cena "stellata") la cooperativa Pausa Cafè l’ha fatta diventare un modello. Oggi sempre alle Vallette si tosta anche il cacao, nel carcere di Saluzzo si producono diversi tipi di birra artigianale, ad Alessandria si sforna pane biologico poi venduto in 120 negozi e nella casa circondariale di Cuneo tra qualche settimana si impasteranno grissini. Senza contare che la coop gestisce anche il ristorante dell’Ordine degli avvocati di Torino e il chiosco della Città universitaria della conciliazione di Grugliasco. Tutto questo, tradotto in numeri, suona così: 37 addetti, di cui 22 detenuti, oltre 1,5 milioni di fatturato e più di 12 mila giornate lavorative trascorse fuori dalla cella. Insomma, il connubio tra carcere e cibo di qualità funziona. E il primo a decretarlo è stato proprio il mercato: "Volevamo generare occasioni di sviluppo e di inclusione sociale in Guatemala - racconta il presidente Ferrero - e al tempo stesso creare opportunità di lavoro per chi in Italia era socialmente escluso: la nostra scelta si è dimostrata corretta". Lo dice anche un altro numero: tra i detenuti che hanno lavorato in Pausa Cafè in questo primo decennio la percentuale di chi ci ricasca e torna dentro è inferiore al 20 per cento, contro il 30 per cento di recidivi che normalmente si registra tra gli ex carcerati che hanno goduto di un’opportunità lavorativa e contro il 70 per cento di chi invece resta in galera senza essere coinvolto in nessuna attività. Tutto ruota sempre attorno alla stessa parola: "qualità". Perché, spiega Ferrero, "attraverso le produzioni di alto livello i colleghi detenuti capiscono di essere a loro volta delle persone di qualità, in grado di riscattarsi". Libri: "Viaggio nelle carceri", a cura di Nino Castorina e Davide La Cara di Andrea Di Consoli Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2014 Le carceri italiane, "fabbriche di delinquenti" Un dato su tutti, a proposito di carceri sovraffollate: "Nel complesso di Rebibbia sono reclusi 1.735 detenuti, il doppio dei posti disponibili, vi lavorano circa 500 agenti, la metà di quanti previsti in pianta organica". Sono informazioni che si traggono dal libro collettaneo "Viaggio nelle carceri" (Editori Riuniti, pagg. 112, € 14,,00) a cura di Nino Castorina e Davide La Cara, un lavoro a più maniche ha come obiettivo quello di rendere applicatoli disatteso articolo 27 della Costituzione italiana, che recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Il saggio di Nadia Bizzotto, per esempio, si chiede proprio come possa la pena dell’ergastolo conciliarsi con questo dettato costituzionale. Per disumanità di condizione, per mancanza di progettualità pedagogica, per disorganizzazione endemica, colui che oggi viene recluso in un carcere italiano è quasi certamente candidato al peggioramento della propria condizione, rischiando di dover dare ragione a Filippo Turati, il quale sosteneva che "le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento di malfattori". Chiude il libro un’interessante intervista a Raffaele Sollecito. Immigrazione: a Castel Volturno diecimila in piazza: "cancellare la legge Bossi-Fini…" di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 ottobre 2014 In corso un tavolo di trattativa con il Viminale per un piano straordinario che permetta l’emersione di oltre mille immigrati irregolari che vivono da anni qui, hanno un lavoro e una famiglia. In diecimila hanno sfilato ieri lungo la Domitiana, dal Palazzo degli Americani al Municipio di Castel Volturno, per raccontare una storia completamente opposta a quella propagandata dalla Lega a Milano. Sui cartelli "Stop razzismo", "Stop ignoranza". Sullo striscione coloratissimo la scritta "Uniti nella lotta per il salario reale" in italiano e in inglese perché il corteo del casertano ha chiamato in strada l’intera comunità, locali e migranti, a lottare contro la povertà e lo sfruttamento e non contro i poveri e gli sfruttati. Forza Italia e Fratelli d’Italia avevano provato a bloccare l’iniziativa, il neosindaco di Castel Volturno, Dimitri Russo, ha deciso di partecipare nonostante le polemiche della destra: "Condivido lo spirito della manifestazione anche se mi piacerebbe vedere più cittadini locali a sfilate perché il degrado sociale accomuna entrambe le comunità. E trovo assurdo che nel 2014 qualcuno anteponga il diritto degli italiani a quello degli immigrati". È stata anche l’occasione per fare controinformazione: "Salvini dà falsi numeri sugli immigrati - spiega Mimma D’Amico, responsabile del Centro sociale ex Canapificio - dice che su 40.754 richieste di asilo presentate negli ultimi 14 mesi solo 4.288, ovvero il 10%, sono state accettate mentre la restante parte dei richiedenti è ora clandestina. Falso: i quasi 38mila non sono tutti clandestini ma hanno ricevuto altre forme di riconoscimento internazionale". Secondo gli organizzatori, 9.055 richiedenti asilo hanno avuto il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, altri 13.649 quello di protezione umanitaria. Per 12.081 c’è stato il diniego: andrebbero espulsi ma, spiegano, qualcuno fa ricorso in tribunale, qualche altro si rende irreperibile, molti non hanno il passaporto per cui, in mancanza di accordi con i paesi d’origine, l’espulsione diventa impossibile. Tra le richieste del Movimento migranti e rifugiati di Caserta, la cancellazione della Bossi-Fini, la stesura di una nuova legge che favorisca processi di regolarizzazione, corsi di formazione professionale e forme di sostegno al reddito per tutti, al di là dell’origine. Intanto è in corso un tavolo di trattativa con il Viminale per un piano straordinario che permetta l’emersione di oltre mille immigrati irregolari che vivono da anni a Castel Volturno, hanno un lavoro e una famiglia. In sostanza non sono più rimpatriabili. Si discute anche di finanziamenti per corsi di formazione e di lingua ma un impegno definito del governo non c’è ancora. Intanto a Napoli andava in scena il flop di Forza Nuova. Il movimento aveva chiamato a raccolta i militanti (anche Bologna, Bergamo, Palermo, Ancona) contro i migranti, sui manifesti la scritta nera in campo giallo, come nei casi di pericolo: "Con loro sbarcano scabbia, meningite, tubercolosi e ebola". A Napoli erano una cinquantina, in camicia bianca come dei renziani qualsiasi: "Ma noi l’abbiamo adottata prima - spiegano - è il simbolo della purezza e della madonna, un omaggio a Evita Peron!". Un centinaio di attivisti si sono radunati per una contromanifestazione, sullo striscione: "Via i fascisti dalla mia città". Pakistan: non lasciamo sola Asia Bibi (e i cristiani perseguitati in ogni parte del mondo) di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 ottobre 2014 Speriamo tutti che per Asia Bibi ci sia un epilogo simile a quello di Meriam Ibrahim, la cristiana condannata all’impiccagione per apostasia in Sudan e liberata lo scorso luglio grazie a una mobilitazione internazionale. Ma le premesse per questa pachistana di 47 anni, cattolica, madre di cinque figli, in cella da 1.943 giorni per aver insultato Maometto, non sono delle migliori. Giovedì l’Alta Corte di Lahore ha confermato la condanna a morte del 2010 nonostante l’inconsistenza delle accuse formulate da due donne musulmane. Non c’è da stupirsi perché le leggi sulla blasfemia in Pakistan vengono applicate in modo arbitrario diventando così il mezzo per incarcerare persone allo scopo di ottenere vantaggi negli affari o una vendetta. La Commissione giustizia e pace dei vescovi pachistani ha registrato 32 accuse di blasfemia nel 2013. In 12 casi riguardavano cristiani. "La giustizia è sempre in mano agli estremisti" ha commentato l’avvocato di Asia Bibi, Naeem Shakir. Ed è vero. In Pakistan i musulmani moderati che chiedono di cambiare le "leggi nere" vengono uccisi. "Bisogna continuare a pregare per Asia Bibi - ha detto padre Yousaf Emmanuel, direttore della Commissione nazionale Giustizia e Pace dei vescovi pachistani. Ci sarà un ricorso alla Corte Suprema". Bisogna mobilitarsi, diciamo noi, in nome della libertà di espressione e di religione, per fermare le stragi di cristiani nel mondo. Il 64% della popolazione del pianeta, stima il Pew Research Center, vive in Paesi che limitano o impediscono la libertà religiosa. L’80% delle persone uccise per il proprio credo è cristiano. L’Ocse ha calcolato che ogni cinque minuti un cristiano muore a causa della fede.