La paura dell’attesa di Carmelo Musumeci (Ergastolano detenuto a Padova) Ristretti Orizzonti, 16 ottobre 2014 Circa due anni fa ho presentato una richiesta di permesso alla magistratura di Sorveglianza. In seguito ne ho presentate altre due. E non ho ancora ricevuto nessuna risposta. E oggi la giornata è durata una eternità. In carcere si sta al mondo, ma non si vive nessuna vita. Quando aspetti una risposta accade spesso che quella che passa sembra la giornata più lunga. Poi l’indomani però pensi la stessa cosa perché il tempo in carcere non passa mai. Forse perché dentro l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) il tempo è tempo perso. Tempo vuoto. E senza amore. La sera è ancora più lunga. E la mattina non arriva mai. Ti senti come un cadavere vivo chiuso fra quattro mura. Davanti un blindato. Dietro una finestra piena di sbarre. Nel mezzo il tuo cuore vivo. E prigioniero in attesa di una risposta. In questi ultimi tempi faccio fatica ad arrivare alla fine della giornata. Questa maledetta o benedetta risposta che sto aspettando tarda ad arrivare. Il mio magistrato di Sorveglianza continua a non rispondermi. Ed io non ce la faccio più ad aspettare di sapere se posso sperare di morire un giorno da uomo libero. La mia unica consolazione è che se questa risposta ritarda così tanto potrebbe essere positiva, ma è poco, troppo poco per poter fare sera e mattina. Mentre aspetto questa maledetta o benedetta risposta non riesco a trovare nessuna via di uscita da questo tunnel di ansia. E non riesco a trovare nessun conforto che questa risposta potrebbe essere positiva, perché quando sei torturato t’interessa poco sapere che un giorno non lo sarai più. L’ansia di questa maledetta benedetta risposta che non arriva mai mi tormenta dalle prime ore del mattino fino all’ultimo minuto della giornata. Prima di presentare questa richiesta di permesso mi sentivo vivo e avevo tanta forza per tenermi in vita. Adesso invece quando mi sveglio al mattino mi chiedo come riuscirò ad affrontare un’altra giornata per arrivare alla sera. Non riesco più a trovare la forza di andare avanti e neanche di trovare conforto in una eventuale risposta positiva. Vorrei che arrivasse solo questa maledetta o benedetta risposta. E anche se fosse una condanna a morte sarei lo stesso felice perché una non risposta è più crudele dell’ergastolo. Ormai sono stressato dall’attesa. E ho ripreso a fumare. Ho perso 14 kg. E tutto tace. Non m’importa se mi arriva una risposta negativa. M’importa piuttosto avere qualsiasi risposta. Nella mia vita ho conosciuto tutto quello che c’era da avere paura nelle mie mille vite, ma non conoscevo ancora la paura della attesa. Giustizia: lo schema di decreto in materia di regolamento di organizzazione del ministero www.giustizia.it, 16 ottobre 2014 Il Gabinetto del ministero della Giustizia ha inviato oggi alla Funzione pubblica, in vista dell’esame in Consiglio dei ministri, lo schema di decreto in materia di Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli Uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche. "Si tratta - ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando - di una profonda e incisiva opera di ristrutturazione e semplificazione fondata su un unico principio ispiratore: aumentare l’efficienza, l’efficacia e la trasparenza dell’azione amministrativa attraverso una riqualificazione delle risorse disponibili anche attraverso l’eliminazione di duplicazioni di funzioni e gestioni". "È una riforma innovativa e funzionale di cui il ministero aveva urgentemente bisogno e che risponde al criterio di conciliare una necessaria riorganizzazione degli apparati amministrativi del ministero con il contenimento della spesa di gestione tramite il recupero di risorse e la razionalizzazione delle attività di servizio", ha concluso il Guardasigilli. Complessivamente, la riorganizzazione del ministero della Giustizia passa sostanzialmente attraverso quattro obiettivi: rendere la struttura del Ministero compatibile con le prescrizioni in materia di riduzione della spesa pubblica succedutesi dal 2006 ad oggi; innovare e completare il decentramento delle funzioni amministrative di competenza del Ministero; avviare un processo di unificazione e razionalizzazione della gestione dei beni e dei servizi serventi tutte le articolazioni ministeriali, in un’ottica di maggiore efficienza complessiva e di complessivo risparmio per l’Amministrazione; rendere la struttura del Ministero più efficace e con maggiori livelli di specializzazione e competenza, favorendo nel contempo l’integrazione operativa tra le diverse articolazioni, sia a livello centrale che periferico. A questo scopo, oltre all’istituzione di una Conferenza dei capi dipartimento, con compiti di coordinamento delle attività del Ministero e alla creazione di un unico centro competente in materia di acquisti e spese, si segnala l’ampliamento delle competenze del Dipartimento per la Giustizia Minorile a cui sarà assegnata anche l’esecuzione di tutte le misure alternative e le sanzioni sostitutive della detenzione in carcere, così creandosi una moderna struttura di controllo della cosiddetta probation secondo i più avanzati modelli europei. In particolare, la ristrutturazione del ministero prevede un robusto dimagrimento dei dirigenti generali che passano da 61 a 36 e dei dirigenti che passano da 1006 a 712. Il risparmio totale dell’opera di ristrutturazione è calcolato in circa 65 milioni di euro. Giustizia: bene il riordino del ministero, ora evitare le rivalità di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 ottobre 2014 Il "dimagrimento" delle strutture statali imposto da leggi di Stabilità e revisioni della spesa tocca anche il ministero della Giustizia, che finora ne era rimasto fuori. Stavolta però l’inadempienza avrebbe determinato la paralisi del dicastero. Così il Guardasigilli Andrea Orlando ha inviato alla Funzione pubblica la bozza di decreto sulla riorganizzazione della struttura, volta alla "riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche". Si tratta di un progetto ambizioso, che lega un generale ridimensionamento all’obiettivo di un rinnovamento produttivo. Secondo il piano, i dirigenti generali saranno poco meno che dimezzati, passando da 61 a 36 (dei 25 posti in meno molti sono ricoperti da magistrati, che potranno rientrare in ruolo), con ulteriori tagli per le altre categorie di personale. Si introduce una Centrale unica degli acquisti, per razionalizzare le spese, mentre al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, viene sottratta la competenza sulle oltre 24.000 persone che scontano la pena fuori dal carcere, assorbita dal Dipartimento della giustizia minorile. Il ministro Orlando si dice soddisfatto per una "riforma innovativa e funzionale di cui c’era urgente bisogno", e tutto ciò avviene mentre dagli Stati Uniti il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gratteri (Guardasigilli mancato nelle intenzioni del premier Renzi) rivela che "se fossi stato nominato la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata il "dimagrimento" del ministero, la riduzione di molte direzioni e l’abolizione del Dap". Gratteri promette, a breve, nuove soluzioni da un’apposita commissione che lui stesso presiede a Palazzo Chigi. Ma la giustizia malata non ha bisogno di dualismi e rivalità, bensì di innovazioni efficaci. Per adesso c’è una bozza di decreto piena di buone intenzioni, che si spera produca qualche risultato in termini di risparmio e efficienza. In attesa che agli annunci si sostituiscano riforme che affrontino finalmente i problemi reali. Magari imboccando la giusta direzione. Con il nuovo ministero risparmio di 65 milioni (Sole 24 Ore) Dalla riduzione del numero di dirigenti alla concentrazione degli uffici. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando calcola che la ristrutturazione del ministero dovrebbe far risparmiare 65 milioni di euro. Il nuovo volto del dicastero passa attraverso quattro obiettivi: rendere la struttura compatibile con le prescrizioni in tema di riduzione della spesa pubblica; innovare e completare il decentramento delle funzioni amministrative; avviare un processo di unificazione e razionalizzazione della gestione dei beni e dei servizi; aumentare l’efficacia grazie a una maggiore specializzazione e competenza, favorendo anche l’integrazione tra le diverse articolazioni centrali e periferiche. Per raggiungere lo scopo, oltre all’istituzione di una Conferenza dei capi dipartimento con compiti di coordinamento e alla creazione di un ufficio centrale per la gestione dei contratti, saranno ampliate le competenza del dipartimento per la giustizia minorile, al quale sarà assegnata l’esecuzione delle misure alternative al carcere. Cura "dimagrante" poi per i dirigenti generali che passano da 61 a 36 e per i dirigenti ridotti da 1006 a 712. Giustizia: la lotta alla criminalità usata per rafforzare il potere della magistratura di Maria Brucale Il Garantista, 16 ottobre 2014 Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della giustizia. Trapelano i punti cardine delle proposte della Commissione presieduta a Via Arenula dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Una vera e propria spada di Damocle sullo stato di diritto. Forse non tutti lo sanno ma il pm antimafia Nicola Gratteri presiede anche una commissione ministeriale per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. L’Ansa ha fatto trapelare le prime indiscrezioni sulle sue proposte. I punti focali sono un concetto di giustizia come negazione del diritto di difesa, l’umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, l’annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova. Si era detto disponibile a diventare ministro della Giustizia per il governo Renzi, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a patto di avere la libertà di realizzare le cose che aveva in testa. La nomina sembrava certa prima che Renzi salisse al Colle. Poi il nulla di fatto. Uno stop del presidente Napolitano, pare, determinato da ragioni di opportunità. Un magistrato ancora in servizio attivo non dovrebbe rivestire incarichi politici, tanto più che al ministro della Giustizia spettano compiti vistosamente incompatibili con il ruolo di pm dell’antimafia rivestito da Gratteri, quali la firma sui decreti di applicazione e proroga dei 41 bis. Allora la nomina del ministro Orlando con il suo passato di garantista, anti manette facili, contro l’ergastolo e l’obbligatorietà dell’azione penale. Certo è che sul fronte della garanzia dei diritti nessun passo sembra essere stato mosso. Intanto l’Ansa rende note le linee guida della riforma voluta da Gratteri. Sì, perché il pm antimafia presiede la commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità, istituita presso Palazzo Chigi. I punti focali delle proposte di modifica appaiono una stridente espressione di una impostazione del concetto di "giustizia" come negazione del diritto di difesa, umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova, disattenzione alle logiche deflattive dei giudizi a vantaggio della celere definizione dei processi, superamento del principio del favor rei e perfino confusione tra i ruoli - e già ce n’è troppa - tra chi esercita l’azione penale e chi giudica. Il primo punto riguarda la parificazione, in termini sanzionatori, del partecipe ad associazione mafiosa al partecipe ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Pene fino a trent’anni di reclusione - tuona Gratteri - per i mafiosi che, a suo dire, temono solo le condanne per omicidio, che possono comportare l’ergastolo, e per la droga, che comportano pene assai severe. Un aumento sanzionatorio, quello prospettato, che appare già un abominio giuridico se si pensa che la contestazione di partecipazione non viene certo mossa soltanto ai boss ma a piccoli fiancheggiatori con una capacità criminale a volte infima che sarebbe quanto meno spropositato punire con sanzioni così follemente afflittive. Cadrebbe il divieto di re-formatio in pejus in sede di appello proposto dal solo imputato. In parole povere: oggi, se la procura non impugna la sentenza di condanna a carico dell’imputato e tacitamente si dichiara soddisfatta dell’esito del giudizio, opera un divieto per i giudici dell’appello di aggravare la condanna emessa dal primo giudice. È un principio di civiltà che, nel nostro ordinamento, risponde anche alla divisione di funzioni operata dal codice di rito. È il pm che esercita l’azione penale. Se ritiene che la condanna a carico dell’accusato sia coerente all’atto di accusa che ha formulato, nessun potere è dato al magistrato giudicante di ravvisare nuovi elementi di responsabilità dai quali far scaturire inasprimenti sanzionatori. Ancora: verrebbe abrogato il rito abbreviato, la possibilità, cioè, per l’imputato di scegliere di essere giudicato con il materiale di prova raccolto nelle indagini rinunciando a un processo in aula nel quale confutare gli esiti istruttori raccolti dalla pubblica accusa con conseguente sconto di pena in caso di condanna. Una modifica normativa del genere comporterebbe la paralisi definitiva dei tribunali. L’accesso al rito abbreviato, infatti, determina il venir meno di centinaia di udienze, di video conferenze, di traduzioni in aula di detenuti, di trasferimenti in località protette di collaboratori di giustizia, un abbattimento considerevole dei costi e dei tempi della giustizia. La logica della cancellazione di tale rito - che peraltro santifica l’operato dei pm poiché sottopone ai magistrati che giudicano, quale prova da valutare, solo l’esito delle attività di indagine - appare del tutto incomprensibile. Non trova, peraltro, alcuna compensazione nell’ulteriore progetto di ampliare l’accesso al patteggiamento a tutti i reati. La proposta appare incoerente se si pensa che lo stesso Gratteri ha più volte parificato patteggiamento e rito abbreviato definendoli "sconti fatti alle mafie". Diverso sarebbe se, come sembra, l’accesso al patteggiamento venga subordinato alla confessione, sulla bontà e pienezza della quale è ipotizzabile si preveda il parere del pm e il vaglio del magistrato. Si apre la prospettiva a derive incostituzionali di coazione psicologica all’accusato che sarebbe indotto a confessare e ad indicare i corresponsabili per accedere al solo rito -abrogata la previsione dell’abbreviato - che permetta uno sconto di pena. Non è finita! Il progetto di modifica contempla l’estensione ai legali, in solido con i propri assistiti, del pagamento delle spese processuali in caso di ricorso dichiarato inammissibile. Una norma che se esistente spazzerebbe via del tutto il diritto di difesa e troncherebbe ogni anelito di giustizia inibendo di fatto gli avvocati dal prospettare questioni giuridiche talora innovative e creative per non correre il rischio di subire un danno economico. L’avvocato è per sua essenza sentinella del diritto. Studia le norme, le loro interpretazioni e implicazioni, le rapporta in aula con il caso concreto, ne osserva l’applicazione al fatto e le illogicità, le storture e le abnormità e se ne fa portavoce. È una voce di garanzia, quella dell’avvocatura, che non può, non deve essere menomata! Ancora: videoconferenze per tutti i detenuti per i reati più gravi. Nessun imputato potrebbe più essere presente in udienza. Verrebbe meno radicalmente l’oralità del processo penale. La videoconferenza, infatti, già prevista per i soli detenuti in 41 bis, vanifica, di fatto, la possibilità di intervenire in aula in corso di giudizio. Mentre il detenuto in saletta video chiede il permesso di intervenire, o di comunicare telefonicamente con il proprio difensore in aula, il processo si svolge, va avanti e rende inutile la pretesa legittima del detenuto. Questa follia antigiuridica, finora accettata - seppur inaccettabile - per i 41 bis in ragione del prevalere di logiche di sicurezza, dovrebbe essere estesa ad una enorme categoria di detenuti che verrebbero di fatto estromessi dalla partecipazione attiva ai processi. Verrebbe abolito l’appello incidentale, ossia l’impugnazione proposta dall’imputato per contrastare quella del pm, con vistoso detrimento del principio costituzionale del favor rei. Sarebbe introdotta la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in appello per manifesta infondatezza, con un iter che in sostanza ricalcherebbe quello analogo già operante in Cassazione: soppressione, dunque, ancorata a parametri discrezionali, di un grado di giudizio di merito e insensata ed illusoria attribuzione ad un solo giudicante delle sorti dell’imputato. L’abolizione del ricorso per Cassazione per vizio di motivazione che sottrarrebbe al giudice di legittimità il potere di annullare le sentenze illogiche o contraddittorie: una grave menomazione delle garanzie difensive se solo si pensa al frequente approdo, alla Corte di Cassazione, di sentenze di condanna che poggiano interamente sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia in relazione alle quali fondamentale appare che il giudice di legittimità preservi il compito di verifica di coerenza e logicità dell’apparato motivazionale. La militarizzazione degli istituti penitenziari che avrebbero, come direttori, non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno, dunque, che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi (un pò come il Csm che giudica i magistrati!). Una serie, dunque, di ipotesi normative nella sostanza antigiuridiche e costituzionalmente illegittime, una minaccia concreta al giusto processo, una spada di Damocle sullo stato di diritto. Giustizia: c’era una volta il giudicato penale di Giovanni Flora (Membro della Giunta dell’Unione delle Camere Penali) Il Garantista, 16 ottobre 2014 La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 29 maggio scorso è un monito contro la tendenza alla legislazione compulsiva, frutto di istanze punitive e irrazionali. Il granitico principio della intangibilità del giudicato, da un lato omaggio alla esigenza di "certezza" delle "relazioni giuridiche" (anche di quelle Stato-cittadino) e dall’altro, figlio di un periodo storico ove si immaginava una minore frenesia produttiva del legislatore penale, da tempo non è più tale. Proprio perché sono man mano venuti a mancare sia il presupposto ideologico (con la progressiva valorizzazione del principio della "inviolabilità" della libertà personale), sia il presupposto della tendenziale stabilità dell’assetto normativo in materia. Non solo, ma la marea montante del diritto europeo ha mostrato la sua capacità di abbattere le barriere del giudicato per dare ingresso all’applicazione della norma penale successiva più favorevole. Possiamo insomma ben dire: c’era una volta l’art. 2, comma 4 del codice penale che consentiva di travolgere la barriera del giudicato per applicare la norma penale successiva più favorevole solo quando veniva cancellata la norma incriminatrice; quando insomma il legislatore non considerava più reato il fatto per il quale il condannato aveva subito la pena. Principio che, a seguito della sentenza Scoppola della Corte Edu, può considerarsi ormai superato in virtù della prevalenza dell’art. 7, paragrafo 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza del 29 maggio scorso - le cui motivazioni sono state solo ieri l’altro depositate - hanno stabilito un principio per certi versi rivoluzionario, ma che da tempo, come si suole dire "era nell’aria". Quando un determinato trattamento sanzionatorio è stato determinato sulla base di una norma dichiarata incostituzionale, pur successivamente al passaggio in giudicato della sentenza che lo ha stabilito, quel trattamento sanzionatorio deve essere rivalutato alla luce dell’assetto normativo risultante dalla dichiarazione di incostituzionalità. Nel caso di specie la pena applicata per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti era stata calcolata in base a quell’art. 69 quarto comma del codice penale che escludeva il giudizio di prevalenza tra l’attenuante del "piccolo spaccio" (ora fattispecie autonoma) e l’aggravante della recidiva reiterata (art. 99, quarto comma codice penale) . Poiché, però, la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità dell’art. 69, quarto comma codice penale proprio nella parte in cui non consentiva che il Giudice potesse dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti sull’aggravante "inerente la persona del colpevole" della recidiva reiterata, la pena applicata è frutto di una regola di calcolo costituzionalmente illegittima. Dunque, poiché il vizio di illegittimità costituzionale di una norma la cancella dall’ordinamento fin dall’inizio, ora per allora (ex tunc, dicono i giuristi), insomma, è nata morta, come dicono efficacemente le Sezioni Unite, il calcolo della pena va rifatto. E non solo in relazione al caso di specie. Ma anche in relazione a tutti i casi in cui un trattamento sanzionatorio, ancorché giunto alla fase esecutiva, sia il frutto avvelenato di un meccanismo di calcolo costituzionalmente illegittimo. E, prosegue la Corte, non c’è neanche bisogno che sia il condannato (o il suo Avvocato) a chiederlo, ma dovranno farlo d’ufficio i magistrati deputati all’esecuzione della pena. In pratica, il pubblico ministero competente dovrà rifare i conti e, se del caso, ordinare la scarcerazione. La recente sentenza delle Sezioni Unite merita una duplice riflessione: una sugli effetti pratici; una sul messaggio politico che contiene. Gli effetti pratici sono davvero rilevantissimi. In primo luogo, gli uffici di esecuzione saranno chiamati ad un impegnativo lavoro supplementare che difficilmente potranno assolvere tempestivamente senza una richiesta del condannato e/o del suo Avvocato. Il che richiama, se ce ne fosse ancora bisogno, il fondamentale impegno dell’Avvocatura verso una adeguata e puntigliosa specializzazione che nel settore penale non può non investire anche la delicatissima e fondamentale fase dell’esecuzione. In secondo luogo, tale lavoro, da un lato, potrebbe sembrare complicato poiché, una volta caduto il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, il giudizio di bilanciamento da effettuare rimarrebbe pur sempre discrezionale e ci si chiede come possa effettuarlo un organo deputato ad eseguire un, pur a volte complicato, computo numerico. Dall’altro, risulta però semplificato dall’intervenuta modifica legislativa (l. n. 79/2014) che configura il piccolo spaccio come reato autonomo, come tale, non soggetto a nessun giudizio di bilanciamento con un’eventuale aggravante. Ancor più importante però ci sembra il messaggio politico. La sentenza muove un severissimo monito contro la tendenza alla legislazione scompostamente compulsiva, frutto di istanze punitive irrazionali e discriminatorie, da sempre oggetto di critica anche da parte dell’Ucpi. Ma essa critica, nemmeno tanto implicitamente, anche il continuo agitarsi del legislatore che riversa nell’ordinamento un magma continuo di norme penali eterogenee, senza alcun collegamento tra di loro, da biasimare anche indipendentemente dai contenuti. E allora, la politica raccolga questo monito e l’invito che da sempre le rivolge l’Ucpi ad una meditata riforma della legislazione penale in modo organico ed in linea con i principi costituzionali (anche a quelli di ragionevolezza e di rieducatività della pena, richiamati proprio da questa sentenza delle Sezioni Unite). Non si pretende certo, come sarebbe auspicabile, che si faccia tutto insieme (parte generale, parte speciale, sistema sanzionatorio). Si proceda pure per settori omogenei, ma avendo ben chiara in mente una precisa linea di politica criminale conforme a Costituzione. Giustizia: Petrelli (Ucpi); la sentenza della Cassazione muove da una "legge malata" Ansa, 16 ottobre 2014 Al giudice dell’esecuzione ampi poteri di rideterminazione della pena come rimedio alla dichiarazione di incostituzionalità. Un uso simbolico della legislazione penale e un irragionevole innalzamento del livello sanzionatorio hanno più volte determinato l’intervento della Corte Costituzionale. Alla base della decisione della Cassazione in tema di droghe c’è una "legge geneticamente malata" e il pronunciamento si traduce in un "terremoto per il sistema penale" perché tocca il "tabù o il mito del giudicato", ma tutto prende le mosse "non da una fisiologica modifica nel sistema normativo, ma da un fatto patologico". Sono le valutazioni del segretario dell’Unione camere penali, Francesco Petrelli, sulla sentenza delle sezioni unite della Cassazione di cui ieri sono state rese note le motivazioni e che apre la strada alla possibilità di rivedere le sentenze definitive di condanna emesse sulle base di una legge poi dichiarata incostituzionale (come, nel caso specifico, la Fini-Giovanardi sulle droghe). "La sentenza - spiega il penalista - tocca il rapporto tra una norma dichiarata incostituzionale e lo statuto del sistema penale e impatta sul mito dell’intangibilità del giudicato. La questione che si poneva era come agire quando ci si trova di fronte a sentenze di condanna che non sono il frutto di una fisiologica modificazione apportata dal legislatore o di un’ordinaria abrogazione, ma di una patologia e di una conseguente dichiarazione di incostituzionalità. La questione che si è posta la Suprema Corte è se si possa legittimamente porre in esecuzione ai danni di un condannato una sentenza frutto di una norma che non fa parte del nostro ordinamento, che è geneticamente malata ed è inadatta ad apportare modifiche al sistema. Le sezioni unite hanno risposto che in questo caso, tra il bene dell’intangibilità del giudicato e la libertà personale, prevale la seconda". La decisione "fornisce delle coordinate ai giudici che finora sono andati un pò in ordine sparso rispetto alle richieste di ricalcolo della pena. La competenza spetta al giudice dell’esecuzione, che valuterà caso per caso, ma alla luce dell’orientamento espresso dalla Cassazione: il giudice dovrà riportare nella legalità la condanna, eliminando integralmente o in parte, la pena illegale". Petrelli specifica poi un punto: se è vero che la decisione della Cassazione tocca l’intangibilità del giudicato, "non possiamo dimenticare l’esigenza di stabilità dell’ordinamento: se la si rimuovesse del tutto, gli effetti sarebbero sconvolgenti. Ma una cosa sono le fisiologiche modifiche nel sistema normativo, un altro il fatto patologico". "Ora - conclude il penalista - la sentenza andrà studiata e meditata. Ma al di là degli aspetti tecnici, va sottolineato che negli ultimi anni da parte del Parlamento c’è stato un uso della legislazione penale piuttosto simbolico, ma l’innalzamento delle pene o le leggi con pene severissime, che concretamente non possono neppure applicare per la difficoltà di individuare gli stessi autori dei reati, determinano squilibri irrazionali, che costringono la Corte Costituzionale a intervenire". Giustizia: Pannella (Ri); siamo tecnicamente in condizioni criminali rispetto ai diritti umani di Vittoria Dolci www.clandestinoweb.com, 16 ottobre 2014 La situazione delle carceri italiane è una piaga che da tempo affligge la penisola italiana. Nonostante i richiami della Corte di Strasburgo, che aveva condannato l’Italia a versare indennizzi per la violazione dei diritti dei propri cittadini, l’emergenza relativa al sovraffollamento e più in generale al sistema carcerario italiano non sembra essersi esaurita. Da sempre i radicali sono impegnati in prima fila con la loro lotta non violenta nel contestare questi "crimini" umani. Sulla questione interviene nuovamente lo storico leader radicale, Marco Pannella, che a margine di un evento organizzato da "Nessuno tocchi Caino" a Bruxelles, ha spiegato ai microfoni di Vista, Agenzia Televisiva Parlamentare: "Siamo fuorilegge, sul piano tecnico in perfetta continuità con una situazione europea degli anni Trenta Quaranta. Siamo tecnicamente in condizioni criminali rispetto ai diritti umani". Pannella, ha sottolineato nella presentazione del rapporto annuale sulla pena di morte di "Nessuno Tocchi Caino", come il mondo in cui viviamo è "un mondo in putrefazione. Ci sono zone italiane che rischiano di avere l’oro nero. Penso che il semestre europee italiano è bene che riesca a sorprendere. Questo è possibile". Giustizia: Rita Bernardini; audizione dei Radicali in Commissione diritti umani al senato Public Policy, 16 ottobre 2014 "Sull’amnistia non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare". Lo dice durante un’audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani il segretario di Radicali italiani, Rita Bernardini, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia. Non più 20% detenuti hanno accesso a possibilità lavoro "Ci sono intere sezioni detentive esclusivamente in mano alla polizia penitenziaria, anch’essa sotto organico e sofferente, e lo dimostra il numero di suicidi, nove a ottobre. Anche sull’aspetto lavoro a me non risulta che i numeri siano notevolmente cambiati. Siamo sempre a una percentuale di non più del 20% di detenuti che hanno accesso alla possibilità di lavoro e questo determina - certo, generalizzo - la giornata del detenuto, che viene trascorsa nell’ozio". Lo dice durante un’audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani il segretario di Radicali italiani, Rita Bernardini, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia. SI RISPARMIA SU TUTTO TRANNE CHE SUGLI PSICOFARMACI "In carcere si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. È molto alta infatti, intorno al 25%, la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza". Lo dice durante un’audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani il segretario di Radicali italiani, Rita Bernardini, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia. L’amnistia non porta voti, anche per colpa dei media Il ministro della Giustizia Andrea Orlando "è stato molto più sincero del premier Matteo Renzi, dicendo che "l’amnistia è impopolare, non porta voti, e quindi non se ne parla". Ma ciò riguarda un altro problema: come funziona l’informazione in Italia? Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero", solo "perchè fa audience, in un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei cittadini, dimostra di essere fuori da ogni criterio di democrazia". Lo dice durante un’audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani il segretario di Radicali italiani, Rita Bernardini, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia. Giustizia: Sappe; richiesta risarcimento dei detenuti è business per avvocati, rivedere legge Adnkronos, 16 ottobre 2014 "Sono decine di migliaia le richieste di risarcimento danni da parte dei detenuti che a seguito della sentenza Torreggiani per cui l’Europa ammonendo l’Italia ha costretto il governo a fare un provvedimento raffazzonato in cui viene previsto di pagare un risarcimento ai detenuti di 8 euro per i giorni trascorsi in carcere. Una legge fatta male ed applicata ancora peggio, poiché molti magistrati stanno aprendo fascicoli riferite a detenzioni di decine di anni fa. Tutto ciò comporterà una spesa di decine, se non centinaia di milioni di euro per lo Stato italiano e un vero e proprio business per gli avvocati". È quanto denuncia in una nota Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Il Sappe "ritiene tutto ciò ingiusto poiché non è stata data alcuna tempistica di prescrizione ai periodi di detenzione, e né si è costretti gli ex detenuti ricorrenti, a saldare eventuali spese di risarcimento alle vittime o di giustizia, prima di ricevere il denaro". "Per questo si impone al più presto una correzione con cui venga stabilita una tempistica prescrittiva per le richieste - conclude il sindacato - nonché un provvedimento del giudice che prima di risarcire i detenuti deve verificare se lo stesso ha incombenze economiche di risarcimento del danno sia alle vittime o allo Stato". Giustizia: Giuseppe Orsi (Finmeccanica); 83 giorni in carcere… perché confessassi il falso di Annalisa Chirico Panorama, 16 ottobre 2014 Parla Giuseppe Orsi, ex amministratore delegato dì Finmeccanica, assolto dall’accusa dì corruzione sulla vendita di 12 elicotteri all’India: "La cella" dice "è come una tortura. Ma lì ho riscoperto la solidarietà". Assolto perché il fatto non sussiste. Una sentenza dopo 20 mesi può essere una consolazione, quando ti hanno tolto la tua vita? Giuseppe Orsi lavorava 18 ore al giorno, sette giorni su sette, viaggiava 365 giorni l’anno: era l’esistenza che si era scelto. Ma il 12 febbraio 2013 l’onda di un’inchiesta, avviata dalla Procura di Napoli e trasferita per competenza a Busto Arsizio, lo risucchia. Viene arrestato con l’accusa di corruzione internazionale per una tangente da 51 milioni di euro che la sua Finmeccanica avrebbe pagato all’India per chiudere la vendita di 12 elicotteri Aw 101. L’ad di Agusta Wesland Bruno Spagnolini va ai domiciliari. "In poche ore" racconta Orsi a Panorama "sono passato dall’avere a disposizione tutto e tutti a dovermi muovere in 10 metri quadrati e a dover fare la coda per una doccia negli orari previsti". Ma 83 giorni di carcere preventivo non piegano l’Ingegnere, come lo chiamano i collaboratori: Orsi nega ogni addebito. "Ho sempre agito per il bene del Paese e dell’azienda. Chi mi ha accusato ha cercato di vendicarsi perché gli interessi a lui vicini avevano subito un duro contraccolpo dal mio arrivo". Il manager si riferisce a Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica e vicino al precedente numero 1 dell’azienda, Pier Francesco Guarguaglini, Borgogni parla di un pagamento alla Lega come ricompensa per avere ottenuto la nomina di Orsi. Il quale, a sua volta, lo denuncia per calunnia. In luglio il pm Eugenio Fusco chiede l’archiviazione del finanziamento illecito: mancano le prove. Il 9 ottobre il giudice assolve gli imputati per la corruzione, e li condanna a 2 anni per false fatturazioni. "A fronte della eclatante assoluzione si vuole evitare un esito troppo punitivo nei confronti del pm" dice Ennio Amodio, legale di Orsi. "Ma dimostreremo che anche il reato tributario non ha fondamento". Da manager di una delle maggiori aziende statali a galeotto: c’è di che soffrire e, forse, provare rancore. Il rancore non mi appartiene. Sono amareggiato perché sapevo che il fatto non sussisteva, ero conscio dell’ingiustizia che stavo subendo. Per accettarla l’ho collocata tra le prove che la vita ti dà e che ti fanno domandare: "Perché proprio a me?". Ecco: perché a lei? Che risposta si dà? Ho subito la vendetta di chi avevo allontanato dall’azienda. Sono convinto che il pm non avesse nulla di personale contro di me. Ma pensavo che l’indagine venisse archiviata e mai mi sarei aspettato di essere arrestato prima di essere interrogato. Invece è finito in carcere e sulle prime pagine dei giornali, non solo italiani. Sulla stampa avrei tanto da dire. Alcune testate hanno dato una corretta informazione, altre si sono comportate come acritico amplificatore delle accuse o come superficiale e voyeuristico riproduttore d’intercettazioni. E tutto per vendere qualche copia in più... Con la violenta invadenza di chi ha fatto circolare notizie false, rivelatesi poi infondate. Come ha superato 83 giorni di carcere? Grazie alle tre F: Faith, Family e Friends. Senza la fede e la vicinanza dei miei cari non ce l’avrei fatta. Ho una moglie che mi supporta e mi sopporta da 41 anni; ho due figli che amo. Mi scrivevano tutti i giorni. Certo che 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di visita al mese sono poche. Per non parlare delle 2 ore d’aria al giorno. A sentirla il carcere è una livella: dietro le sbarre i manager come i poveri cristi… Anche dei delinquenti va salvata la dignità. E poi c’è un 40 per cento di detenuti in attesa dì giudizio, quindi innocenti o presunti tali. Il suo avvocato dice che le manette dovevano "scucirle la bocca" e spingerla a un patteggiamento. È così? Mi hanno sottoposto a una sorta di tortura perché pur di uscire ammettessi qualcosa, anche a danno di terzi. In cella la politica le voltò le spalle? La maggior parte di quanti avevano rapporti con me hanno finto di non avermi mai conosciuto. In cella il 19 febbraio 2013 vidi una puntata di Porta a Porta: il mio concittadino Pier Luigi Bersani, sotto elezioni, si limitava sorprendentemente a parole di circostanza. La sera dopo, da Bruno Vespa, Silvio Berlusconi disse qualcosa di più: "Siamo diventati autarchici; le nostre aziende produrranno elicotteri solo a uso interno. Io sono un consumatore di elicotteri, quindi di che ci lamentiamo?". Provai un lieve sollievo. Come ricorda la liberazione? A casa mi aspettavano moglie, figli e Ue nipoti. E ho saputo che il quarto era in arrivo, Si potrà recuperare la commessa che l’India ha sospeso dopo il suo arresto? Penso e mi auguro che si potrà. Ma il problema va oltre. Il danno arrecato ad Agusta è grande: a partire dall’averla privata di un ad come Spagnolini, Il team che guidavo l’aveva portata ai vertici mondiali del volo verticale. Deve ritrovare lo spirito di leader. Ingegnere, si rimette a lavorare? Don Luigi Molinari, storico cappellano del lavoro di Genova, mi ha ricordato i miei obblighi di cristiano. Così ho deciso dì dedicarmi alla fondazione Ernesto Pellegrini. Ci occupiamo dei "nuovi poveri" che, perduto il lavoro, sono passati dal benessere all’indigenza. A Milano abbiamo aperto il ristorante Ruben dove si può cenare a 1 euro. Insomma, ha scelto la solidarietà. Quel che mi è rimasto. Marche: lezioni di cucina in carcere, un progetto formativo promosso dal Garante Ansa, 16 ottobre 2014 Migliorare il vitto in carcere e offrire ai detenuti un’esperienza formativa spendibile nel mondo del lavoro esterno. Sono gli obiettivi del progetto "Migliorare la qualità del cibo negli istituti penitenziari", promosso dall’Ombudsman regionale in collaborazione con l’Assam (Agenzia servizi settore agroalimentare Marche) e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il progetto, già sperimentato nel 2012 con risultati positivi, è stato sollecitato dagli stessi istituti di pena e prevede l’attivazione di corsi teorici e pratici rivolti ai detenuti addetti alla preparazione dei pasti nelle cucine. A Palazzo delle Marche si è svolta la prima riunione per definire i contenuti del corso e coinvolgere gli istituti alberghieri. Oltre al Garante regionale dei detenuti Italo Tanoni, sono intervenuti l’amministratore unico dell’Assam Gianluca Carrabs e la responsabile dell’Area trattamentale Prap Marche Daniela Grilli. L’Assam, nuovo partner dell’iniziativa, cofinanzierà il percorso formativo con fondi comunitari e metterà a disposizione il suo personale per le lezioni e per l’organizzazione dell’evento conclusivo. All’incontro sono stati invitati i dirigenti scolastici di tutti gli istituti alberghieri delle Marche (Loreto, Senigallia, Cingoli, Pesaro, Ascoli Piceno, Porto Sant’Elpidio e San Benedetto). Sicilia: Italia dei Valori; la situazione delle carceri regionali è davvero insostenibile Italpress, 16 ottobre 2014 "In Sicilia la situazione delle carceri è davvero insostenibile. Il quadro che viene dalla polizia penitenziaria riporta difficoltà notevoli: più di seimila detenuti in ventiquattro carceri, solo due asili nido per mamme detenute, il 16% circa dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza e solamente uno su cinque lavora durante la detenzione, senza contare che nei primi sei messi si sono contati 68 atti di autolesionismo, 46 tentati suicidi e tre decessi per cause naturali". Lo dice il segretario nazionale di Italia dei Valori Ignazio Messina. "Questo dimostra come sia necessario garantire condizioni di detenzione nel rispetto dei diritti e della dignità umana. Costruzione di nuove strutture carcerarie associate a forme di pena alternative alla detenzione per reati minori, sono alcuni interventi utili e perseguibili. Chiediamo al Governo di intervenire in tal senso e di ovviare con soluzioni efficaci al problema che rischia di diventare ingestibile", conclude Messina. Emilia Romagna: pratiche dei detenuti nel caos, 2 giudici di sorveglianza per 3 province di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 16 ottobre 2014 È arrivato a Modena, ha guardato le pile di incartamenti, è andato in ferie e poi in pensione. Da quando è passato in città il giudice Sebastiano Bongiorno - dato che la sua presenza a Modena in luglio è stata un evento fugace - l’Ufficio del Magistrato di Sorveglianza, che si trova in via San Pietro (sopra il giudice di Pace, foto a sinistra) sta vivendo giorni difficili. Da fine maggio è andato via il giudice Giovanni Mazza e da allora - a parte questo interludio pre-pensionistico - non esiste più un magistrato assegnato a Modena e provincia. E in situazione analoga si trovano oggi Reggio e Parma. A Reggio il giudice Manuela Mirandola sta per andare a Ferrara, dove è stata assegnata, ma in questi giorni si sta impegnando al massimo per garantire un servizio minimo oltre alle emergenze. Si occupa di Parma e per Reggio dei detenuti dalla A alla L. Dalla M alla Z per Reggio e per tutta Modena fa tutto da sola il giudice modenese Maria Giovanna Salsi. Insomma, due magistrati per tre province. Un’attività complicata, spesso caotica, per poter venire incontro alle richieste dei detenuti e dei loro legali. Non è facile trovare questi giudici che si fanno in quattro. Per questo diventa difficile per gli avvocati ottenere permessi, affidamenti, cure e persino la liberazione di chi ne ha diritto anche in base al recente provvedimento del governo. Le difficoltà e i gravi disagi sono noti a tutti gli avvocati. Dell’ufficio senza magistrato titolare se ne sono occupate la camera Penale di Modena e l’Unione camere Penali. A Roma c’è consapevolezza di cosa accade a Modena, come a Reggio e a Parma, ma finora non si è mosso nulla. La nomina deve arrivare dal Csm dal Ministero di Grazia e Giustizia. Negli ultimi giorni però, su sollecitazione di varie forze che seguono i detenuti, sono arrivati segnali un pò più rassicuranti. Come spiega Desi Bruno, garante regionale per i detenuti, il Ministero ha garantito che presto verranno nominati due magistrati che aiuteranno quelli attualmente divisi tra le tre province, la Salsi e la Mirandola. Certo, l’estate è stata drammatica ma in questi giorni le difficoltà non mancano e numerosi avvocati hanno singoli casi di detenuti per ora di difficile soluzione. "La situazione è molto grave - conferma Desi Bruno - ma sono moderatamente ottimista per i segnali che arrivano dal Ministero". Veneto: il Sappe visita le carceri e denuncia "agenti picchiati e problemi strutturali" L’Arena di Verona, 16 ottobre 2014 Ieri mattina il segretario generale aggiunto del Sappe (sindacato autonomo Polizia penitenziaria) Giovanni Battista Durante, accompagnato dal segretario regionale Giovanni Vona, ha visitato gli istituti penitenziari di Montorio e di Vicenza. "A Verona sono stati riscontrati rilevanti problemi strutturali, soprattutto nel locale passeggi, dove le infiltrazioni di acqua hanno provocato l’allagamento di tutto il corridoio, causando problemi di umidità e anche rischi per il personale che ci lavora, causati dalla scivolosità del pavimento stesso", denuncia il Sappe in una nota. "Le sezioni non sono adeguatamente controllate con il sistema di video sorveglianza, poiché le telecamere riprendono solo parzialmente le sezioni detentive. Gli eventi critici aumentano sempre di più, poiché i detenuti, soprattutto stranieri, sono sempre più riottosi al rispetto delle regole e del personale di polizia penitenziaria. Nei giorni scorsi due agenti sono stati aggrediti con una spranga di ferro da un detenuto che gli ha procurato lesioni al corpo, un altro agente ha ricevuto una testata in un occhio. I detenuti sono in regime aperto in tutte le sezioni, le stanze restano aperte dalla mattina fino alla sera, ma, a nostro avviso, manca l’adeguata applicazione del sistema sanzionatorio previsto dall’ordinamento, finalizzata anche al ripristino delle normali regole di convivenza. Il dato positivo che emerge è il calo dei detenuti presenti che sono meno di 600, rispetto ai circa 900 di un anno fa". "A Vicenza la situazione è diversa, soprattutto perché si tratta di un istituto molto più piccolo, anche se non mancano i problemi legati al rispetto delle regole. Ieri si è verificata una maxi rissa tra detenuti stranieri e solo grazie alla professionalità della polizia penitenziaria la situazione non è degenerata. Sarebbe opportuno anche a Vicenza fare dei lavori di ristrutturazione, per adeguare il sistema di sicurezza della struttura, sia all’interno, sia all’esterno, dove la vigilanza è fatta con una pattuglia auto montata, con due agenti in servizio. Spesso, però, gli agenti non hanno la macchina a disposizione per effettuare il servizio; ci è stato riferito che nell’ultimo anno, per ben 12 volte, l’auto si è rotta. Quello degli automezzi è un grave problema che non risparmia neanche il Veneto". Domani la delegazione del Sappe proseguirà la visita nei due istituti penitenziari di Padova. Sassari: detenuto morto in cella, la Procura apre una inchiesta di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2014 Un filmato che non si trova perché è stato "sovrascritto", una cena mai consumata, una famiglia che non si rassegna alla tesi del suicidio e che mette in campo esperti di fama nazionale. La Procura ha aperto una inchiesta per fare chiarezza sulla morte di Francesco Saverio Russo, il detenuto algherese trovato nella sua cella a Bancali il 6 settembre. È ancora sotto sequestro la cella del carcere di Bancali dove la sera del 6 settembre è stato trovato privo di vita Francesco Saverio Russo, di 34 anni. L’ipotesi è che il detenuto algherese si sia tolto la vita, ma l’inchiesta avviata dalla Procura e affidata al pubblico ministero Cristina Carunchio dovrà chiarire se esiste anche il minimo dubbio sul suicidio. E i familiari della vittima - fin dal primo momento - hanno chiesto che vengano svolti tutti gli accertamenti per capire che cosa è successo quella sera. La mamma del giovane, in particolare, ha più volte espresso la convinzione che il figlio non avesse mai manifestato - tanto meno nell’ultimo periodo - l’intenzione di togliersi la vita. Ha anche raccontato di averci parlato il giorno stesso, di avergli portato la cena (che non era stata neppure consumata, in larga parte era nel piatto). Gli esperti. Dal giorno della morte di Francesco Saverio Russo, i familiari hanno affidato l’incarico agli avvocati Elias Vacca e Paolo Spano di seguire la vicenda e fare in modo che venga accertata la verità. Nominati anche consulenti tecnici piuttosto conosciuti a livello nazionale: si tratta della criminologa Roberta Bruzzone (che ha seguito tutti i casi più importanti degli ultimi anni), di Mariano Pitzianti (esperto della ricerca della prova elettronica-digitale e conoscitore di sistemi di sicurezza e server ministeriali), dell’avvocato Federico Delitala e del genetista Andrea Maludrottu, del team di esperti fanno parte anche un medico legale e un investigatore privato. In carcere. I legali sono stati in carcere per un sopralluogo. Hanno potuto vedere l’ambiente dove è avvenuta la tragedia e si sono resi conto della presenza di una sbarra orizzontale (a una altezza di circa due metri da terra) che divide il bagno da una sorta di disimpegno. Ora, che cosa ci faccia una sbarra in una cella di un nuovo carcere è da capire. L’indagine. L’indagine sta muovendo i primi passi e la parte più importante è rappresentata dall’esame dei filmati registrati dalle telecamere che nel nuovo carcere di Bancali sono ovunque. La perizia del medico legale darà un contributo prezioso per la valutazione del caso e le valutazioni dei consulenti della Procura sono già sulla scrivania del magistrato che si occupa dell’inchiesta. Ci sono, però, diversi dubbi da chiarire. Le immagini. Pare che il filmato del giorno 6 settembre - quello fondamentale perché quella sera viene scoperto il corpo senza vita del detenuto - non sia disponibile. Nel senso che sarebbe stato sovrascritto da altri dati. I familiari di Francesco Saverio Russo vogliono che sia fatta chiarezza sulla morte in cella, e quel filmato ha un valore enorme, anche per capire se la sera della tragedia ci sono stati movimenti in entrata o in uscita. I consulenti tecnici chiederanno di avere accesso al server ministeriale che - per norma - ha un sistema ridondante e deve continuare a funzionare in presenza di qualunque anomalia e quindi conservare anche la memoria. Ipotesi. Dalle verifiche risulta che Francesco Saverio Russo era solo in cella, aveva la vicinanza della famiglia ed era seguito regolarmente dagli avvocati. Una situazione che, teoricamente, porterebbe a escludere eventuali tentativi di suicidio che in carcere si realizzano in presenza di una serie di elementi negativi. Tra le ipotesi prese in esame c’è anche quella di un atto dimostrativo finito in tragedia: "Ci abbiamo pensato - ha spiegato l’avvocato Elias Vacca - ma se decidi di mettere in pratica una azione simile non la fai nell’angolo nascosto, ti posizioni nel punto più visibile per fare in modo che i soccorsi possano scattare immediatamente". L’inchiesta dovrà chiarire se davvero quello di Francesco Saverio Russo è il primo suicidio nel carcere di Bancali oppure se dietro quella morte inspiegabile e che ha sorpreso tutti c’è dell’altro. Catanzaro: 2,3 milioni di risarcimenti per ingiuste detenzioni, un record negativo L’Opinione, 16 ottobre 2014 Catanzaro conquista il secondo posto a livello nazionale nella drammatica classifica dei rimborsi dovuti a chi è stato ingiustamente in carcere. Un record per nulla positivo, secondo solo a Palermo. Le cifre provengono dal Ministero dell’Economia, che materialmente liquida le somme. La statistica semestrale dei fascicoli per ingiusta detenzione vede in testa proprio la città siciliana, con 35 casi e risarcimenti per 2 milioni e 790 mila euro. Seguono Catanzaro, con 2,3 milioni; Roma, con 1,3 milioni, e Napoli con 1 milione e 235mila euro. Solo nei primi sei mesi del 2014 lo Stato ha già pagato 16 milioni e 200 mila di euro di risarcimenti per 431 casi di ingiusta detenzione nelle carceri. Un dato che si aggiunge a quello degli oltre 567 milioni di euro pagati a partire dal 1992 per le 22.689 richieste autorizzate. E ai 30 milioni e 650 mila euro sborsati per i soli errori giudiziari, cioè quelli sanciti dopo un processo di revisione che ha dichiarato innocenti soggetti precedentemente condannati in via definitiva. Ma "al di là delle cifre - osserva il vice ministro della Giustizia, Enrico Costa - che certo servono a misurare l’entità del fenomeno, bisogna comprendere meglio quali vicende si nascondano dietro i numeri. Bisogna andare oltre i dati, per capire meglio come si produca l’errore: per questo ritengo si debba quanto prima avviare un’istruttoria in merito". "Il solo passaggio all’interno del carcere - afferma Costa - è un’esperienza che segna e spesso spezza una vita. Dietro i numeri ci sono storie personali che vanno analizzate non solo per prevenire il pagamento di ingenti somme da parte dello Stato, ma anche per capire perché e in che fase, principalmente, si apra la falla: se per esempio prevalga un’errata valutazione di fatti e circostanze o piuttosto una applicazione della custodia cautelare non corretta. Noi, per esempio, non desumiamo dai dati se la percentuale maggiore di ingiusta detenzione si determini nella fase preliminare con ordinanze dei gip o in quelle successive. Ma sarebbe importante capirlo". Per Costa, un veicolo di possibile intervento per introdurre contromisure potrebbe essere proprio il provvedimento sulla custodia cautelare all’esame della Camera. Ma in prima battuta serve un supplemento di indagine per comprendere il fenomeno. Un’istruttoria, appunto. Che tra l’altro Costa riterrebbe utile anche su un altro versante: quello della responsabilità civile dei magistrati. L’ambito e i meccanismi non sono esattamente gli stessi, ma alla base c’è comunque un errore che può essere riconosciuto come danno, sebbene i casi di risarcimento siano stati molto pochi nel corso degli anni. L’intenzione di Costa è di "chiedere ed esaminare anche i fascicoli relativi alla responsabilità civile per avere un quadro chiaro", tanto più in un momento in cui l’intera materia oggetto di un disegno di legge di riforma all’esame del Senato. E l’idea di una commissione sugli errori dei magistrati piace all’Unione camere penali, che invita l’Anm, "stabilmente impegnata in un’azione di contrasto a tutto campo delle politiche di riforma del sistema giudiziario", a riflettere sulle cifre fornite da Costa. Pordenone: detenuto addetto alle pulizie evade dopo aver colpito l’agente in portineria Il Gazzettino, 16 ottobre 2014 Un detenuto 28enne del carcere di Castello - Swilah Tawfyk - ha aggredito una guardia in portineria, l’ha picchiata ed è evaso ieri mattina mentre faceva le pulizie. Si tratta di un giovane tunisino che ha colpito l’agente alla testa, tramortendolo, prima di fuggire e far perdere le proprie tracce. È accaduto questa mattina alle 7.30. Il giovane si trovava rinchiuso per un reato sessuale. Ricerche in corso da parte della polizia. Il Sappe precisa che si tratterebbe di un "pluripregiudicato, con una serie infinita di reati quali sequestro di persona, rapina aggravata e violenza sessuale, e che nonostante questo profilo criminale è stato ammesso a lavorare nelle aree aperte del carcere". Secondo altre fonti l’evaso era invece in attesa di giudizio per vari reati dopo l’arresto avvenuto un anno fa a Vigonza (Padova) e il trasferimento nella sezione speciale dei detenuti per reati sessuali a Pordenone. Sempre secondo quanto riferisce il Sappe, l’agente ferito è stato colpito con un violento colpo in testa che ne ha provocato lo stordimento e "in quel momento in carcere c’erano solamente tre poliziotti penitenziari di servizio, uno dei quali è quello ferito e aggredito". Critico sull’accaduto il segretario generale del Sappe, Donato Capece. "Viene da chiedersi - afferma il sindacalista - come si sia potuto ammettere a lavorare quel detenuto in quello specifico incarico di addetto alle pulizie, che gli ha dato possibilità di muoversi liberamente nel penitenziario e, quindi, di fare quel che ha fatto: un errore gravissimo, ad avviso nostro. Del tutto evidente che fallimentare è anche l’organizzazione del lavoro e la predisposizione delle adeguate misure di sicurezza della struttura". Varese: caso Uva, cambia il pm (è il quarto) nel nuovo processo con 150 testimoni di Roberto Rotondo Corriere della Sera, 16 ottobre 2014 Sarà il nuovo procuratore capo di Varese, Daniela Borgonovo, a sostenere l’accusa nel processo Uva, che comincerà lunedì 20 ottobre. Si tratta del quarto pubblico ministero che si avvicenda in questo caso spinoso. Tutti i predecessori della Borgonovo avevano sempre chiesto l’archiviazione o il non luogo a procedere per gli indagati: due carabinieri e sei poliziotti. È una delle tante anomalie di questa vicenda: la morte di un 43enne di Varese, Giuseppe Uva, come i casi Aldrovandi e Cucchi, è balzata agli onori delle cronache come una presunta morte di Stato, ma in Procura i tre pubblici ministeri, che hanno indagato finora, hanno sempre concluso che non era accaduto nulla. I giudici che si sono occupati dell’incartamento, viceversa, sono sempre arrivati a conclusioni opposte: sia il gip Giuseppe Battarino, sia il gup Stefano Sala del tribunale di Varese, nei mesi scorsi, hanno rigettato le richieste di archiviazione e sono arrivati dritti fino al rinvio a giudizio. Lunedì prossimo si ricomincia, quindi, dalla Corte d’Assise, con una lista testimoni di 150 nomi. Ci sarà anche la curiosità di vedere un procuratore capo sostenere l’accusa e un presidente di tribunale, il giudice Vito Piglionica, presiedere la Corte d’Assise, a testimonianza di come questo caso sia considerato delicato. Gli scontri tra il pm Agostino Abate, il primo a indagare, e l’avvocato di parte civile Fabio Anselmo sono, infatti, finiti davanti al Csm e persino in Parlamento. Entrambi, però, non saranno in aula. Al pm varesino e alla collega Sara Arduini è stato infatti revocato il fascicolo, mentre l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo ha abbandonato la difesa della sorella della vittima, Lucia Uva. Il reato principale contestato agli otto imputati è l’omicidio preterintenzionale. Tra accuse, perizie e controperizie, la storia di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno del 2008 all’ospedale di Varese, dopo essere stato trattenuto in caserma dai carabinieri, va avanti da sei anni tra una serie di polemiche infinite. Monza: realizzato un album rap racconta le storie di cinque detenuti stranieri Redattore Sociale, 16 ottobre 2014 Prodotto grazie a un progetto del Comune di Monza e di "Il razzismo è una brutta storia". Lo ha prodotto Mirko Kiave, rapper cosentino che ha aiutato i ragazzi a scrivere i testi e a metterli in musica. L’album è scaricabile gratuitamente. Un album per rinascere. Per far uscire le proprie rabbie, le proprie storie, ora recluse nel carcere di Monza. La musica rap è il veicolo per oltrepassare le mura dentro le quali sono ristretti Manolo, El Cachorro, Nene Bellaco, Henry Dannato e Afrosen. Sono i nomi d’arte di giovani rapper stranieri. Il cosentino Mirko Kiave, rapper famoso sulla scena italiana, è stato il loro produttore: ha aiutato i ragazzi a scrivere i testi, a metterli in musica e a incidere l’album. Il risultato è scaricabile gratuitamente qui, oppure lo si può ascoltare su Youtube, dove si trova anche l’intervista al cantante e il backstage del lavoro. Spagnolo, francese e italiano sono le lingue scelte per i testi delle canzoni. L’associazione "Il razzismo è una brutta storia", principale partner di questo progetto del Comune di Monza, li ha tradotti e resi disponibili sul suo sito. Questo prodotto è solo uno dei capitoli di "La biblioteca è una bella storia", iniziativa con la quale il Comune di Monza promuove il suo sistema bibliotecario Brianza Biblioteche. L’idea è rendere le biblioteche luoghi d’incontro, di scambio, di eventi e di socialità. Tra le biblioteche coinvolte c’è anche quella della Casa circondariale di Monza, trasformata in sala di registrazione per l’occasione. Mirko Kiave "La mia vita ricomincia con questa canzone/quando ho toccato il fondo/il momento in cui sono entrato in prigione,/e ricevere una lettera del mio amico Simon/mi ricordo come fosse ieri quando tutto è iniziato/sembrava sarebbe stata la miseria per sempre", canta Afrosen ne La renaissence, la rinascita, una delle storie più crude raccontata in questo album. "Sono tornato alle origini del rap lavorando a questo progetto. Qui ci sono ragazzi che la strada l’hanno vissuta davvero a differenza di certi rapper in Italia", spiega in un’intervista rilasciata a "Il razzismo è una brutta storia" Kiave. E per questo non vede l’ora di ripetere l’esperienza in altre carceri italiane. Cinema: note di regia del documentario "Meno Male è Lunedì" di Filippo Vendemmiati www.cinemaitaliano.info, 16 ottobre 2014 Il carcere è un non luogo senza tempo. I giorni non passano e non hanno nome. Credo sia la peggiore condanna cui è sottoposto un detenuto, non solo la negazione di uno spazio libero, ma soprattutto la sottrazione del trascorrere dei giorni. I detenuti che lavorano in questa insolita officina all’interno del carcere della Dozza in qualche modo hanno ritrovato un luogo di libertà e un tempo di vita. I giorni della settimana hanno un senso e una cadenza dettata dai turni di lavoro. I gesti e le parole evadono per costruire un mestiere e relazioni umane. Né detenuti, né uomini liberi, solo colleghi e operai che s’incontrano e lavorano accanto, scambiandosi conoscenze, saperi, "storie di viti e di vite". "Ho immaginato "Meno male è lunedì" come una "commedia brillante" ambientata in un carcere. Otto giorni, da lunedì a lunedì, per costruire un grande manufatto, uno spider dalla calotta arancione, ingranaggio fondamentale di un sistema avanzato di confezionamento della merce. I dialoghi dei protagonisti (scherzosi, tecnici, arrabbiati e intimi) accompagnano la costruzione del manufatto, anzi sono "la storia del manufatto" e delle mani che lo hanno creato. Un discorso a parte merita la colonna sonora del film composta dopo una lungo e appassionante confronto da Carlo Amato, compositore e bassista dei Têtes de Bois. Abbiamo visto in questa grande officina dalle finestre alte e dalle inferriate simili a croci una cattedrale "laica", una chiesa nel quale "monaci di clausura" lavorano e cantano durante il giorno e poi la sera tornano nelle loro "celle" al piano di sopra per pregare. "Labor omnia vincit", Virgilio Le Georgiche, la fatica vince ogni cosa. Immigrazione: Milano; l’ex Cie ospiterà profughi, Sottosegretario Manzione sigla l’intesa di Zita Dazzi La Repubblica, 16 ottobre 2014 Non sarà più una prigione e i profughi che entreranno in via Corelli non finiranno schedati dalla polizia. Questo garantisce il Comune. I siriani che non hanno intenzione di chiedere asilo in Italia, cercheranno come già fanno oggi di proseguire il loro viaggio verso altri Paesi europei, Svezia in primis. È venuto da Roma il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione ieri per sottoscrivere l’accordo con cui l’ex Centro di identificazione ed espulsione (Cie) all’Ortica viene ceduto temporaneamente al Comune per farne una struttura d’accoglienza per i siriani ed eritrei che arrivano in città. Centro al quale in seguito verrà anche aggiunto un Cara, struttura dove lo Stato accoglierà i rifugiati con la protezione del programma Sprar, gente che quindi si ferma in Italia almeno due anni. A gestire l’ex Cie sarà la Gepsa, società francese di proprietà del colosso dell’energia Gdf Suez che si occupa della manutenzioni dei carceri per il ministero dell’Interno transalpino. Ma da ieri è attiva la convenzione con cui lo Stato cede al Comune la struttura dove fermati i clandestini, e che dalla prossima settimana ospiterà invece i reduci dai viaggi in barcone nel canale di Sicilia, salvati con l’operazione Mare Nostrum. Ieri in prefettura il sottosegretario Manzione ha spiegato come si sta procedendo: "Per chi arriva in Italia è un obbligo di legge farsi identificare, infatti il Viminale ha fatto una circolare 15 giorni fa, anche se ad oggi non tutti quelli che vengono salvati dalla nostra Marina vengono poi identificati. Stiamo aumentando il numero di commissioni regionali che devono esaminare le richieste d’asilo per velocizzare i tempi e permettere a queste persone eventualmente di chiedere ricongiungimento familiare con i parenti in altri Paesi Ue". L’accordo sui 155 posti letto di via Corelli firmato ieri in prefettura dice che "Il Comune ha l’obbligo di trasmettere alla prefettura l’elenco degli ospiti presenti nella struttura al fine di consentire i previsti controlli di legge da parte della Questura". E il questore Luigi Savina ha sottolineato che da quando c’è la circolare "il 99 per cento dei profughi " rilascia la impronte, col rischio quindi di venire rispedito indietro in caso riuscisse a raggiungere Svezia e Germania, le mete che tutti sognano. Ma gli assessori Piefrancesco Majorino e Marco Granelli frenano: "La clausola sugli elenchi dei nomi nel contratto non cambia la prassi che già seguiamo oggi quando trasmettiamo alla prefettura i nomi di tutti quelli che passano in Stazione centrale e dei circa 1100 che ospitiamo ogni notte nelle nostre strutture. L’identificazione non scatta automaticamente. Ora speriamo che la collaborazione con lo Stato continui su questa linea, Milano non può restare sola a fronteggiare il flusso. In un anno abbiamo assistito 45.876 profughi ". L’apertura del centro di via Corelli consentirà di liberare posti letto nelle strutture che d’inverno devono ospitare i senza tetto per l’"emergenza freddo". Iran: rifiutato il perdono a Reyhaneh Jabbari, adesso rischia l’impiccagione Avvenire, 16 ottobre 2014 La giovane non vuole smentire lo stupro come richiesto dalla famiglia dell’uomo che ha assassinato per difendersi. Un gesto che la salverebbe dalla forca. L’otto ottobre aveva firmato la richiesta di perdono alla famiglia della vittima. E la sua pena era stata sospesa. Ma ora Reyhaneh Jabbari, la giovane iraniana condannata all’impiccagione per aver ucciso, sette anni fa, l’uomo che ha tentato di stuprarla, rischia di essere messa a morte perché i parenti di quest’ultimo hanno negato il perdono e richiesto l’esecuzione. A rivelarlo, ieri, sono state fonti della famiglia di Reyhaneh. "Questa mattina - hanno spiegato - c’è stata una riunione tra il figlio maggiore della vittima e il padre, la madre e l’avvocato di Reyhaneh, oltre a due uomini dell’intelligence iraniana". Ma non è stato raggiunto un accordo. In base all’ordinamento della Repubblica islamica, la famiglia della persona uccisa può perdonare l’omicida e salvarlo in questo modo dalla forca. "La madre della ragazza - hanno riferito le fonti - ha supplicato il figlio delle vittima, che però è stato irremovibile nel chiedere che Reyhaneh smentisca di aver subito un tentativo di stupro, unica condizione alla quale sarebbe disposto a concedere il perdono". Ma Reyhaneh è rimasta ferma nella sua versione dei fatti. "Preferisce essere impiccata piuttosto che mentire, perché lei ha subito lo stupro", ha detto il portavoce della Ong "Neda Day", che segue il caso. La famiglia spera ora in una mobilitazione internazionale che porti a una revisione del processo. "La salvezza - ha sottolineato il portavoce Taher Djafarizad - viene prima di tutto dall’Europa, perché l’Iran sta cercando di avere rapporti con il mondo occidentale". Il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha inviato una lettera al capo del Parlamento iraniano, Ali Larijani, esprimendo grande preoccupazione. Un appello per salvare Reyhaneh è stato rivolto da Sergio D’Elia, segretario di "Nessuno tocchi Caino", l’organizzazione che da anni si batte contro la pena di morte. Tunisia: 1.360 detenuti amnistiati per Festa Aid El Idha, ma carceri ancora sovraffollate Ansa, 16 ottobre 2014 Come annunciato in occasione della Festività religiosa dell’Aid El Idha, una delle più importanti del calendario musulmano, il Presidente Moncef Marzouki ha concesso una grazia speciale in favore di 1.360 detenuti. Questa decisione è stata presa in concertazione con la Commissione speciale incaricata per l’amnistia presieduta dal Ministro della Giustizia, dei diritti dell’uomo e della giustizia transizionale, Hafedh Ben Salah, che ha analizzato i dossier relativi a tutti i possibili beneficiari. Il comunicato della Presidenza precisa che l’amnistia riguarda soltanto i reclusi cui le pene da scontare sono inferiori ai tre mesi e che non sono implicati in altri reati. Tra i fruitori del provvedimento anche Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, graziato nel 2013 e poi nuovamente in carcere con una condanna a 8 mesi di reclusione per aver insultato un cancelliere del Tribunale. L’amnistia non riguarda i responsabili di crimini gravi come terrorismo, traffico d’armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario. La situazione delle carceri tunisine rimane critica: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, e spesso è stata oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droghe leggere, l’uso personale di stupefacenti in Tunisia è infatti punito con la reclusione. Da tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma della legge sugli stupefacenti e, secondo le recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia Ben Salah, sarebbe già pronto un disegno di legge per sostituire la famigerata legge 52 del 1992 su consumo e spaccio di stupefacenti, giudicata da molti troppo severa. Brasile: nel carcere di Guarapuava prosegue rivolta per avere migliori condizioni di vita Il Velino, 16 ottobre 2014 I detenuti chiedono cibo migliore, cure mediche e un generale miglioramento delle condizioni carcerarie. Terzo giorno di protesta per i detenuti della prigione di Guarapuava, nello stato meridionale di Paraná, in Brasile. Un gruppo di prigionieri ha preso in ostaggio lunedì 13 guardie per protestare contro le condizioni in carcere. Tre sono state già liberate e sono in corso trattative per il rilascio dei dieci rimanenti ostaggi. I detenuti chiedono cibo migliore, cure mediche e un generale miglioramento delle condizioni carcerarie. Il Brasile ha la quarta più grande popolazione carceraria del mondo - 500 mila detenuti in carceri destinate a contenerne massimo 300 mila - e le rivolte nelle strutture penitenziarie non sono così rare. Cinque persone sono state uccise nel mese di agosto in una rivolta nel carcere di Cascavel, due di loro sono state decapitate. Mauritania: detenuti islamici salafiti, violenti scontri all’interno del carcere di Nouakchott Nova, 16 ottobre 2014 Violenti scontri si registrano da ieri notte nel carcere centrale di Nouakchott. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa mauritana "Ani", le violenze sono scoppiate nel settore numero 6 del centro di detenzione, dove si trovano i detenuti islamici salafiti. Gli scontri sono iniziati dopo una serie di perquisizioni condotte dalle guardie carcerarie nelle celle degli estremisti islamici. Le guardie sono state costrette ad intervenire lanciando dei lacrimogeni dopo il ferimento di alcuni colleghi ed alcune fonti non escludono che la polizia mauritana sarà costretta ad assaltare il carcere. Tunisia: postò vignette Maometto su Facebook, scarcerato blogger Jabeur Mejri Aki, 16 ottobre 2014 È tornato in libertà il blogger tunisino Jabeur Mejri condannato a otto mesi di carcere per oltraggio a pubblico ufficiale e già finito in precedenza in prigione per aver pubblicato su Facebook caricature di Maometto considerate "offensive" per l’Islam. La notizia della liberazione del blogger, come riporta l’agenzia di stampa Dpa, è stata diffusa dall’avvocato del giovane. Nel 2012 il 31enne Mejri era stato condannato da un tribunale tunisino a sette anni e mezzo di carcere in relazione alla pubblicazione su Facebook di caricature di Maometto e per "disturbo dell’ordine pubblico". Lo scorso marzo il presidente ad interim Moncef Marzouki ha concesso la grazia a Mejri, ma il giovane è stato subito nuovamente arrestato con l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale e condannato a otto mesi di carcere. "Il mio cliente è già uscito dal carcere dopo aver scontato sei degli otto mesi di condanna", ha detto oggi l’avvocato, Bushra Belhaj. Marzouki, come riferito dai media tunisini, ha concesso la grazia a oltre 1.300 detenuti. Il blogger, considerato il "primo detenuto d’opinione" della Tunisia del dopo Ben Ali, era finito sotto accusa per aver pubblicato su Facebook alcuni post dal contenuto considerato "offensivo" nei confronti dell’Islam. In particolare, alcune caricature del profeta Maometto e stralci del provocatorio libro satirico "Wahm Al-Islam", scritto da Ghazi Beji, che ha ottenuto asilo politico in Francia. Svizzera: secondina riforniva detenuti di droga, suo collega invece rubava soldi al carcere www.tio.ch, 16 ottobre 2014 Le indagini avviate la scorsa estate contro due ex guardie del carcere zurighese di Affoltern am Albis - un uomo e una donna - stanno per arrivare all’epilogo: l’incriminazione. Entrambi sono rei confessi, ha indicato oggi in una nota la Procura pubblica regionale: l’uomo ha ammesso di aver rubato in cassa, la donna di aver spacciato droga ai detenuti. Il primo, ex capo secondino di 47 anni, è accusato di ripetuta appropriazione indebita e falsità in documenti per aver sottratto dalla cassa del penitenziario e intascato per uso proprio, dal 2012, complessivamente 47.000 franchi. Di abuso di autorità e violazione della legge sugli stupefacenti è invece accusata una ex collega 29enne che dal settembre 2013, secondo la Procura, ha rifornito regolarmente detenuti di marijuana, cocaina e anabolizzanti. Il traffico illegale della donna è stato scoperto all’inizio dello scorso luglio, su indicazioni fornite da detenuti, ha detto la procuratrice Claudia Wiederkehr. Le indagini hanno poi portato alla scoperta dei furti fatti dal collega. Entrambi sono stati licenziati con effetto immediato e saranno presto incriminati formalmente. I sospetti caduti su un terzo dipendente del carcere con funzioni direttive, al quale era stato rimproverato di aver concesso illegalmente giorni di congedo in cambio di denaro, non hanno invece trovato conferma. L’uomo non è stato licenziato e lavora tuttora nel carcere, ha precisato la procuratrice. Il direttore del penitenziario era stato sospeso dopo che erano emerse le illegalità. La Procura lo ha interrogato, come altri dipendenti del carcere, ma contro di lui non sono stati rilevati atti penalmente reprensibili, ha indicato Rebecca de Silva, portavoce dell’Ufficio cantonale per l’esecuzione delle pene. Pochi giorni fa, il 10 ottobre, trenta poliziotti con quattro cani hanno perquisito il carcere di Affoltern, si legge ancora nel comunicato della Procura. Non sono state però trovate droghe, né utensili per il loro uso, nelle celle e negli spazi di soggiorno. Per il direttore non è al momento chiaro se ci saranno comunque conseguenze. Ancora sono in corso, infatti, chiarimenti sulla conduzione dell’istituto penitenziario, innescati dall’indagine penale e da quella condotta dal Controllo delle finanze cantonale.