Giustizia: in Italia più di 1.000 ergastolani "ostativi", lo Stato non rispetta la sua legalità Una Città, 15 ottobre 2014 Intervista ad Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, realizzata da Francesca de Carolis. Il luogo comune che nessuno muore in carcere a fronte di una realtà di più di mille ergastolani ostativi; il confine costituzionale fra forza e violenza che impedisce che l’uso della prima sconfini in quello della seconda; un tema, quello dell’ergastolo, su cui la volontà popolare non può esercitarsi, in quanto di rilevanza costituzionale; il rischio che il problema gravissimo del sovraffollamento fa correre: che il reo diventi vittima. Quando e perché ha scelto di fare della questione carceraria e in particolare dell’ergastolo non solo il suo filone principale di studio, ma anche una vera e propria battaglia civile? Provo a rispondere muovendo da un dato giuridico. Nel nostro ordinamento penale esiste un principio secondo il quale, quando si ha il dovere giuridico di impedirlo, non evitare un reato equivale a cagionarlo. Analogamente, avere una competenza (cioè un sapere) e non fare nulla, è un grave peccato di omissione o, per noi laici, una grave responsabilità personale. Nasce da qui, da questa consapevolezza, l’urgenza non solo di studiare e di scrivere, ma anche di trovare strumenti inediti ed efficaci in grado di veicolare il proprio sapere in una battaglia di scopo. Non accade spesso, tra i membri dell’Accademia… Non saprei dire. E comunque, in questo, ognuno risponde solo a se stesso: nel mio caso la circolarità tra l’impegno scientifico e l’impegno civile era un esito pressoché obbligato. Da costituzionalista, infatti, ho sempre pensato il diritto come violenza domata, e la Costituzione come regola e limite al potere. Visti da tale angolazione, il carcere e le pene rappresentano indubbiamente un campo d’indagine privilegiata, un banco di prova tra i più impegnativi per misurare la distanza tra la dimensione ontica del diritto, la sua effettività, e la dimensione deontica del diritto, il suo dover essere. O, se preferisce, tra il diritto vivente e il diritto che insegno. Iniziamo dall’ergastolo, al cui superamento lei ha dedicato un’attenzione tutta particolare. Un tema impopolare, senza parlare del luogo comune difficile da scalfire: "l’ergastolo in Italia non esiste più". Sul tema dell’ergastolo, ma vale in realtà per tutti i principali problemi che ruotano attorno alle pene e alla loro esecuzione, è davvero larga la forbice tra il senso comune e la realtà delle cose. Ecco perché è fondamentale la parola, lo scritto, il dibattito pubblico, la capacità di creare momenti di riflessione non reticente: tutte occasioni capaci di colmare la distanza abissale tra l’opinione omologata, la doxa dominante, e la consapevolezza delle cose, l’epistème. Quante persone sanno, ad esempio, che in Italia esistono non uno ma più tipi di ergastolo? Quante sono al corrente che, al 22 settembre 2014, dietro le sbarre si contavano 1.576 ergastolani dei quali ben 1.162 ostativi? Parlo di ergastoli al plurale perché, accanto a quello comune contemplato nell’art. 22 del codice penale, presentano un proprio regime autonomo ed una propria ratio l’ergastolo con isolamento diurno (art. 72 c.p.) e l’ergastolo ostativo (per i reati previsti all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario). Di ergastolo nascosto si deve poi parlare per l’internamento dei rei folli negli ospedali psichiatrici giudiziari che, di rinnovo in rinnovo, spesso si traduce in una detenzione senza fine. Degli attuali 1576 ergastolani, molti sono reclusi da oltre 26 anni, che pure è il termine raggiunto il quale è possibile accedere alla liberazione condizionale, anche se si sta scontando una pena a vita. Altri addirittura sono in carcere da più di 30 anni, che è la durata massima per le pene detentive. Quanto agli ergastolani ostativi (e sono almeno 681), sono condannati a morire murati vivi, perché per essi - salvo non mettano qualcuno al loro posto, collaborando proficuamente con la giustizia - le porte del carcere non si apriranno mai. Mi (e vi) domando: dobbiamo forse attenderne la morte in carcere, per affermare che queste persone stanno scontando una pena senza fine? L’ergastolo, però, è già stato sottoposto a giudizio, sia costituzionale, mi riferisco alla sentenza n. 264 del 1974, che popolare con referendum radicale del 1981. Tutte e due le vote ne è uscito confermato. Quanto a quel voto popolare contrario all’abrogazione dell’ergastolo, come per ogni altro referendum la vittoria del no non produce alcun vincolo giuridico, perché solo la vittoria del sì - con conseguente cancellazione della legge - è in grado di innovare l’ordinamento. Semmai, il fatto che la Corte costituzionale abbia allora dichiarato ammissibile il quesito, ci dice che l’ergastolo non è una pena costituzionalmente necessaria: le leggi il cui contenuto è imposto dalla Costituzione, infatti, non possono essere sottoposte a referendum abrogativo. Da ultimo, vorrei ricordare che anche la sovranità popolare si esercita "nelle forme e nei limiti della Costituzione" (art. 1, 2° comma) e se l’ergastolo è una pena illegittima, non basta a metterlo in sicurezza un voto referendario. Ma la Corte costituzionale, ricordavamo, ha escluso che il "fine pena mai" violi la nostra Carta fondamentale. Quella sentenza di rigetto, che risolveva un problema gigantesco con una motivazione di sole tremila battute, giuridicamente, non preclude la riproposizione della questione di legittimità dell’ergastolo. Da allora, infatti, il quadro costituzionale è mutato: pensi, ad esempio, all’introduzione in Costituzione nel 2007 del divieto incondizionato della pena di morte (art. 27, 4° comma), che molto ci dice sull’illegittimità di pene irrimediabili e che eleva a paradigma la finalità risocializzatrice cui tutte le pene "devono tendere", come enuncia l’art. 27, 3° comma. La stessa giurisprudenza costituzionale, nel tempo, ha valorizzato in massimo grado questo vincolo di scopo, che non può mai essere sacrificato integralmente ad altre diverse finalità, arrivando anche, con la sentenza n. 161/1997, a dichiarare illegittimo l’ergastolo per i minori. Infine, quella sentenza di quarant’anni fa diceva cose che, oggi, andrebbero rilette con maggiore attenzione di quanto finora è stato fatto. Ci spiega? La ratio decidendi di quella decisione è che l’ergastolo non viola la Costituzione perché non è più pena perpetua, potendo il condannato a vita beneficiare della liberazione condizionale, istituto che estingue la pena restituendo il reo alla libertà. Con tutto il rispetto, si tratta di un sofisma. Equivale a dire che l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere. Rovesciato, quell’argomento dimostra che una reclusione a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i condannati che per le ragioni più varie hanno scontato l’ergastolo fino a morirne, sono stati sottoposti a una pena che la Costituzione respinge. È accaduto. Accade anche oggi. Continuerà ad accadere, finché sopravvivrà la previsione legislativa di una pena perpetua. Perché, allora, in tutti questi anni, l’ergastolo non è mai stato cancellato dal codice penale? Perché le pene, la loro tipologia, la loro durata, rappresentano un formidabile "medium comunicativo", come dice Giovanni Fiandaca, manipolabile ad arte e catalizzatore di ansie sociali, È un serbatoio cui la politica attinge a piene mani per rispondere simbolicamente alla paura percepita dal corpo sociale. Ma dal quale si tiene alla larga, quando si tratta di restituire al diritto penale cornici edittali più ragionevoli di quelle attuali, o se si tratta di mettere in discussione un sistema penale tolemaicamente costruito attorno al paradigma della pena detentiva. Difficile, in questo contesto, che l’ergastolo, cioè la massima tra le pene, possa essere cancellato da un voto, parlamentare o referendario, entrambi suggestionabili ad arte. Infatti lei ha indicato come strada alternativa l’incidente di costituzionalità davanti alla Consulta. E a questo scopo ha elaborato un atto di promovimento (pubblicato nella rivista Diritto Penale Contemporaneo e che è anche in appendice al volume Volti e maschere della pena curato con Franco Corleone). Perché questa strada dovrebbe riuscire dove hanno fallito legge e referendum? Prevedere come i giudici costituzionali risponderebbero a rinnovati dubbi di legittimità sull’ergastolo va oltre le mie capacità. Tuttavia, diversamente da un voto politico, so che il loro giudizio andrà argomentato secondo coerenza logica e giuridica, sarà guidato da un principio di legalità costituzionale che ha una sua logica stringente non inquinabile da ragioni di opportunità. Riducendo l’essenziale all’essenziale: i giudici delle leggi rispondono alla Costituzione, non al consenso popolare. Compito del giudice che impugna la legge è argomentare persuasivamente perché il carcere a vita, cioè a morte, si collochi fuori dall’orizzonte costituzionale delle pene. In ciò la dottrina giuridica può dare il suo contributo. Dopo di che, vale la massima "fai ciò che devi, accada quel che può". Può sembrare un atto di sfiducia nella logica democratica, fatta di partiti, confronto parlamentare, leggi approvate a maggioranza... Capisco l’obiezione ma la respingo. Nasce dall’ubriacatura di questi ultimi vent’anni a favore di una mera democrazia d’investitura, quasi che gli strumenti della sovranità popolare si risolvano esclusivamente nel voto periodico, inteso come delega a una forza politica, a sua volta riunita attorno al capo di turno che tutto prevede e a tutto provvede. La democrazia liberale, disegnata nella nostra Costituzione, è molto più ricca e articolata. Prevede la rappresentanza politica, ma anche la seconda scheda referendaria, il pluralismo associativo, l’esercizio delle libertà civili, la rivendicazione dei propri diritti per via giurisdizionale. La sovranità popolare, in altri termini, si esercita continuamente attraverso tutti questi canali di partecipazione. Tra essi c’è anche la via della questione di costituzionalità, laddove ne ricorrano le condizioni di ammissibilità previste dalla legge. La via giurisdizionale come forma complementare di partecipazione politica, dunque? In un certo senso è così. Per la condizione carceraria, ad esempio, il processo di riforme introdotte nell’ultimo anno da Governo e Parlamento è stato messo in moto da importanti decisioni giurisdizionali sui diritti dei detenuti, pronunciate dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte costituzionale, sollecitate opportunamente da singoli detenuti o da giudici chiamati, altrimenti, ad applicare norme illegittime. Diversamente, tutto sarebbe rimasto come prima. Spero accada, e presto, anche per l’ergastolo. Più in generale, comunque il diritto esige sanzioni per condotte penalmente illecite, pene detentive, anche dure... Premesso che la pena è un male necessario, senza il quale sarebbe a rischio l’esistenza stessa dell’ordinamento e, con esso, le condizioni minime necessarie a una convivenza pacifica, va fatta salva una precisazione, in verità decisiva. La nostra Costituzione ammette la forza di cui lo Stato ha il monopolio ma nega la violenza. E lo fa proprio con riferimento alle situazioni in cui il soggetto è nelle mani dell’apparato statale: se è costretto a una qualunque restrizione di libertà (art. 13, 4° comma), durante l’esecuzione della pena (art. 27, 3° comma), quando è sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio (art. 32, 2° comma). I tanti obblighi internazionali che pongono il divieto di trattamenti crudeli, inumani, degradanti, e ai quali l’Italia è egualmente vincolata ora anche per obbligo costituzionale (mi riferisco all’art. 117, 1° comma), chiudono questo cerchio normativo. Ecco il punto: quando la pena minacciata dal legislatore, irrogata dal giudice, eseguita dalla polizia penitenziaria sotto il controllo della magistratura di sorveglianza, travalica il confine che separa la forza dalla violenza, non è più una pena legale. E questo è proprio quello che accade nelle nostre carceri sovraffollate, come ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, condannando l’Italia per il divieto di tortura sancito dall’art. 3 della Cedu. Esattamente. Anche qui urge una precisazione, per me decisiva. Affrontare il problema "strutturale e sistemico", per dirla con i giudici di Strasburgo, di galere colme fino all’inverosimile, non significa fare fronte a un problema umanitario, né essere chiamati a un sussulto di civiltà o a un obbligo morale. Quello che abbiamo davanti, e di cui il sovraffollamento è solo il lato più visibile, è innanzitutto un problema di legalità. La sua soluzione, dunque, non è una scelta dettata da buonismo o affidata a valutazioni di opportunità politica. È, semmai, un vero è proprio dovere costituzionale cui non possiamo sottrarci. Pena, altrimenti, un micidiale cortocircuito ordinamentale. Quale? Quello per cui, mentre condanna un soggetto ad espiare una pena per aver violato la legge, è lo Stato che contestualmente viola la propria Costituzione, la Cedu, l’ordinamento penitenziario e finanche il suo regolamento di esecuzione. È un cortocircuito micidiale perché, a riconoscere che lo Stato non rispetta la propria legalità sono i suoi stessi organi apicali: sul problema del sovraffollamento carcerario, per esempio, i richiami più severi sono venuti dal Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale, dal Primo Presidente della Corte di cassazione. La stessa Presidenza del Consiglio, con propri decreti, ha proclamato nel 2010 e reiterato negli anni successivi lo stato di emergenza in ragione dell’attuale condizione carceraria. Sono state addirittura emanate apposite circolari ministeriali che riconoscono il problema dei troppi suicidi dietro le sbarre, la violazione della capienza regolamentare nelle carceri, il problema di una carente assistenza sanitaria per i detenuti. Se questo è il quadro, corriamo il serio pericolo che il reo diventi vittima, perdendo così la consapevolezza della propria condotta antigiuridica, percepita come minuscola davanti a una illegalità statale tanto certa quanto vasta. Lei fa molti incontri in carcere e in carcere, è entrato più volte. Che percezioni ne ha ricavato? Entrare in un carcere, anche se occasionalmente, è un’esperienza sconvolgente. Varchi uno, due, tre, più cancelli che, ad ogni passaggio, si richiudono rumorosamente alle tue spalle. Gli odori, i suoni, i colori, gli spazi, i visi che incroci - del detenuto, dell’agente penitenziario, dei familiari di detenuti, il più delle volte mogli, madri, sorelle fuori dal carcere in attesa di entrare per i colloqui - ti si imprimono nel ricordo. È come se tutti i tuoi sensi acuissero la loro capacità di percezione. Fondamentalmente, è un’esperienza che ti mette in contatto con il dolore più sordo, quello che sembra non avere né rimedio né speranza. Per quanto mi sia sforzato, non riesco minimamente a realizzare che cosa siano, quotidianamente, il tempo dietro le sbarre, l’assenza di spazio, la convivenza coatta tra detenuti, l’amputazione della sessualità come libera scelta. Dove trovare le parole per far capire a chi non ha visto, per raccontare... Nella letteratura spesso riesco a trovare le parole capaci di raccontare del carcere ciò che altrimenti non saprei personalmente narrare. Adriano Sofri, su tutti, ha questa straordinaria dote. Penso ai suoi libri più carcerari: Le prigioni degli altri (Sellerio), Altri Hotel (Mondadori, 2002), alcune pagine di Piccola posta (Sellerio, 1999) e quelle sull’ergastolo in Reagì Mauro Rostagno sorridendo (Sellerio, 2014). Tra le mie letture più recenti, ho trovato coinvolgenti alcuni romanzi che ruotano attorno all’esperienza del carcere, guardata con occhi diversi: lo sguardo del detenuto che è entrato e uscito di galera (Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi, 2012), lo sguardo dei figli di madri detenute che hanno vissuto i loro primi tre anni di vita dietro le sbarre (Rosella Postorino, Il corpo docile, Einaudi, 2013), lo sguardo dei genitori di figli detenuti in regimi di massima sicurezza (Francesca Melandri, Più alto del mare, Bur, 2012). Per capire l’ergastolo, poi, i libri di Nicola Valentino, Carmelo Musumeci e - senza alcuna piaggeria - le testimonianze da lei raccolte Urla a bassa voce (Stampa Alternativa, 2012) sono stati per me letture fondamentali. La scrittura e la lettura, in effetti, possono essere chiavi d’accesso a una realtà, come quella del carcere, altrimenti sconosciuta. È vero, ma c’è anche dell’altro. Le parole "libro" e "libertà" derivano dalla medesima radice: liber. Ci aveva mai fatto caso? Io la trovo una coincidenza fantastica. Non è una bizzarria, allora, se in altri paesi per ogni libro letto in detenzione è prevista una riduzione della pena da scontare. Del resto, non si è sempre detto che la lettura è una forma di evasione? Giustizia: Cassazione; condanna definitiva va rivista, se norme dichiarate incostituzionali www.blitzquotidiano.it, 15 ottobre 2014 La condanna in via definitiva è un tabù giuridico infranto: la Corte di Cassazione ha stabilito che se la pena è stata fondata su norme successivamente dichiarate incostituzionali, deve essere rivista. Già la sentenza di maggio aveva messo in soffitta la legge Fini-Giovanardi (giudicata incostituzionale a inizio anno) troppo punitiva per reati leggeri, ma con le motivazioni pubblicate ieri dai giudici delle Sezioni unite della Cassazione, il principio si estende a tutti i reati, aprendo di fatto le porte del carcere per chi vi è detenuto ingiustamente più di un provvedimento "svuota-carceri" di cui sempre si parla. È davvero storico il pronunciamento della Corte di Cassazione, il giudice delle leggi, per almeno tre motivi: intacca il tabù del giudicato, consente e ha già consentito l’uscita dal carcere di centinaia forse migliaia di detenuti, bacchetta severamente classe politica e Parlamento con la constatazione che negli ultimi anni ha approvato "una serie di irragionevoli previsioni sanzionatorie su cui è dovuto intervenire il Giudice delle leggi". La sentenza. La sentenza muoveva dal ricorso di un imputato per detenzione e spaccio di stupefacenti condannato nel 2012 a 6 anni di carcere a causa del divieto, introdotto nel 2005 dalla legge ex Cirielli, di dare prevalenza all’attenuante del "fatto di lieve entità" (la dose modesta di droga detenuta) rispetto alla recidiva. Un divieto cancellato dalla Corte costituzionale nel 2012, in quanto contrastante con l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Gli effetti sulla popolazione carceraria. In base alla sentenza pubblicata ieri dalla Cassazione, spetterà al giudice dell’esecuzione rimuovere l’illegalità di una pena inflitta in base a norme dichiarate poi incostituzionali. Ma, soprattutto, spetterà al pubblico ministero attivare il giudice dell’esecuzione per l’eventuale ricalcolo della pena, sia se deve ancora essere emesso l’ordine di esecuzione sia se la detenzione è già in corso. E questo specifico dovere del Pm è un punto centrale della decisione, destinata a incidere significativamente sulla popolazione carceraria Bacchettata al Parlamento "irragionevole". Negli ultimi anni, il Parlamento ha inasprito molte pene in maniera "irragionevole" e "senza fondamento" - non solo per quanto riguarda gli stupefacenti - costringendo la Consulta ad intervenire più volte, e la Cassazione a ridurre o disapplicare le pene dichiarate incostituzionali fino a travolgere il "mito giuridico" della "intangibilità del giudicato". Lo sottolinea la Suprema Corte prendendo di mira soprattutto, ma non solo, la legge Fini-Giovanardi, una normativa "imposta" violando la Costituzione. A sostegno della necessità di applicare le decisioni della Consulta, come la bocciature della Fini-Giovanardi dove inaspriva le pene per i piccoli pusher recidivi e dove non distingueva tra droghe pesanti e leggere, le Sezioni Unite rilevano che "far eseguire una condanna, o una parte di essa, fondata su una norma contraria alla Costituzione, e perciò dichiarata invalida dal Giudice delle leggi, significa violare il principio di legalità". Dunque via libera agli ‘sconti di pena’. Il principio non vale se cambia la legge: vale solo se la legge con cui qualcuno è stato condannato era incostituzionale. "Il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato". Secondo la Cassazione, inoltre, sarebbe "del tutto irrazionale" consentire "la sostituzione dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione", come è avvenuto in varie decine di casi di boss mafiosi per effetto della sentenza ‘Ercolano’ della Corte di Strasburgo, e ritenere, invece, "intangibile" la porzione di pena "applicata per effetto di norme che mai avrebbero dovuto vivere nell’ordinamento: un ‘sovrappiù’ che risulta l’effetto ancora in atto di una norma senza fondamento, estromessa dall’ordinamento giuridico". Tra l’altro, prosegue la Suprema Corte, continuare a tenere in carcere persone condannate a pene divenute fuorilegge, "costituirà un ostacolo" al perseguimento dello scopo "rieducativo" perché tale condanna sarà "inevitabilmente" avvertita "come ingiusta da chi la sta subendo". E questo in quanto la pena è stata "non già determinata dal giudice nell’esercizio dei suoi ordinari e legittimi poteri, ma imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione". Anche i giudici dell’esecuzione della pena, e i pubblici ministeri nell’ambito delle loro "funzioni istituzionali di vigilanza sulla osservanza delle leggi", hanno il compito di far ricalcolare le pene, al ribasso, obbedendo alle indicazioni della Consulta e degli ermellini, conclude la Cassazione invitando i magistrati a fare la loro parte per rendere il carcere meno disumano e le pene più equilibrate. Giustizia: non c’è riforma se resta il "doppio binario" nelle regole del processo di Salvatore Scuto Il Garantista, 15 ottobre 2014 C’è un silenzio assordante che caratterizza il pur acceso e vociante dibattito sulla giustizia di questo Paese. Del processo del "doppio binario", infatti, non si discute e riflette da troppo tempo. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che i processi di criminalità organizzata rappresentano un problema di rilievo nazionale per le questioni di principio e di civiltà giuridica che quotidianamente sollevano attesa la compressione delle garanzie difensive che li caratterizza. La storia del processo del doppio binario prende le mosse da un’emergenza drammatica quale fu quella delle stragi palermitane del 1992 e da allora è stata attraversata da mille nuove emergenze che ne hanno segnato il corso ed allargato il suo stesso perimetro. Non è un caso che tale sistema processuale speciale riguarda ormai tipologie di reato non direttamente connesse al fenomeno della criminalità organizzata mentre sono assai recenti gli appelli di un’alta carica istituzionale a che quel sistema sia esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione. Ha ragione Marc Auge quando e ricorda che viviamo avviluppati in una sorta di matassa delle paure, dalla quale si dipanano mille rivoli di insicurezza. Un serbatoio inesauribile per redditizie opportunità mediatiche e propagandistiche, dal quale la politica continua ad attingere a piene mani e senza tanti scrupoli. Del resto i ripetuti manifesti programmatici imperniati sulla fermezza, la repressione e la tolleranza zero costituiscono un ottimo strumento di procacciamento di consensi e costituiscono l’anima della retorica della sicurezza. Sull’altare dei numerosi totem securitari i fenomeni distorsivi, che ne sono diretta conseguenza, hanno investito la tipologia del processo del doppio binario, oggetto di ripetute scorribande, l’ultima delle quali oggetto di uno degli interventi del Governo annunciati e decisi il 29 agosto di quest’anno ma non ancora pubblicati. Ma se l’emergenza criminalità organizzata è stato senz’altro il primo motore di tale fenomeno processuale, alcuni recenti dati statistici costituiscono il presupposto per un migliore approfondimento del fenomeno. Nel 2012 in Italia sono stati commessi 526 omicidi dolosi, con una percentuale pari ad 1 omicidio ogni 100.000 abitanti a fronte di un indice medio europeo che è pari ad 1.9, ovvero quasi il doppio. Se disaggreghiamo tale dato complessivo avremo che: 159 sono omicidi che vedono come vittime la donna; 175 sono omicidi consumati all’interno delle mura domestiche, 84 sono omicidi di matrice mafiosa (mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita). Nonostante tale inversione di tendenza rispetto al passato, che continua a caratterizzare anche i dati del 2013 e che dovrebbe consigliare di far rientrare il processo penale nei ranghi delle regole ordinarie, tutte quelle compressioni delle garanzie e dei diritti di difesa introdotte in ragione di un’emergenza che non c’è più continuano tuttavia a mortificare il processo del doppio binario, ponendo un vera e propria questione di civiltà giuridica. Il legislatore, infatti, continua a creare sottosistemi processuali a prerogative difensive affievolite in ragione della sicurezza, con una marcata tendenza - governata dall’emergenza di turno - ad espandere tali caratteristiche a settori della repressione penale un tempo immuni. Se ne ricava un’immagine di un doppio binario in via di espansione, composto da un coacervo di norme processuali che derogano pesantemente ai principi generali ed incidono restrittivamente sui diritti della difesa, finendo per condizionare in negativo l’accertamento dei fatti, le dinamiche della prova e le stesse regole di giudizio nei processi di criminalità. Prova ne siano, tra le tante, la deroga al principio di immutabilità del giudice, la circolazione delle prove con serie limitazioni del diritto di difesa, in particolare rispetto al diritto di interrogare l’accusatore nel corso del giudizio in chiaro contrasto con i principi stabiliti dalla Carta costituzionale e dalla Cedu. Tali tematiche reclamano di essere riportare al centro del dibattito e della riflessione sulla Giustizia, senza alcuna demagogia ma con la determinazione che deriva dalla convinzione che il processo penale non può essere uno strumento dì lotta ai vari fenomeni emergenziali né un metodo per cambiare la società. Il processo, al contrario, ha la funzione di proteggere i diritti dal potere e più sarà giusto più condivise ed efficaci saranno le conseguenze che derivano dall’accertamento della responsabilità penale. In questo contesto deve registrarsi con preoccupazione come la legge sui collaboratori di giustizia (legge n. 45 del 2001) sia stata progressivamente svuotata per mano giurisprudenziale, Il rispetto del termine di 180 giorni per rendere le dichiarazioni e la conseguente sanzione di inutilizzabilità non costituiscono più un ostacolo per l’utilizzazione delle dichiarazioni effettuate fuori da quel termine almeno nella fase delle indagini preliminari, ai fini dell’emissione di misure cautelari personali e reali, nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato. Si è così verificata la sostanziale vanificazione dell’intento di evitare le dichiarazioni a rate con il concreto rischio che il sapere del collaboratore si adegui alle attese degli inquirenti. Non rari i casi, in questo contesto, in cui il collaboratore esce dal servizio di protezione e ritratta, salvo poi tornare a rendere dichiarazioni accusatorie in sede processuale. Giustizia: carcere dell’Asinara, così Gratteri vuole riaprire la "Guantánamo italiana" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 ottobre 2014 La storia di un carcere terribile che la Commissione di Via Arenula vorrebbe rispristinare tra le proteste dei sardi. La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La "Commissione Gratteri", istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri. si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: "Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna". Inoltre, sottolinea Caligaris, "la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla Regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-Parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante". Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: "Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare". Dagli anni Settanta al 1998, anno della stia effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destro ed estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche un luogo di detenzione per anarchici, come Passanante, e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato "il viceré" e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia. Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti, contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico un detenuto del carcere dì Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del "viceré" Cardullo. In quell’occasione, la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle accuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati. Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’adora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari, Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curdo e Sante Notarnicola, erano trattati da "sepolti vivi". L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso "ladro gentiluomo", perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo, ergastolano ostativo, che racconta quel periodo: "Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41 bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete e il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno. Ricordo di avere letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità". Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere. La chiusura del super carcere della Asinara, definito la "Guantánamo" italiana, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta "trattativa mafia-stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41bis, subito rispunta il fantasma della "trattativa". Una spada di Damocle davvero insostenibile. Giustizia: chi siede al tavolo della riforma con le carte truccate di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane) Il Garantista, 15 ottobre 2014 Chi di voi ricorda la vecchia favola di Esopo della volpe che invitata a pranzo dalla cicogna, tutta contenta dell’invito, si vide servire le pietanze in un’anfora dal lungo collo adatta al sottile becco della cicogna ma nella quale la volpe non riuscì neppure a infilare il muso? Fuor di metafora, e andando alla morale della favola, a chi conviene sedere al tavolo delie riforme senza sapere chi sono gli interlocutori, chi è che davvero prepara le riforme ed in base a quali principi? Prima di sederci al tavolo delle riforme del processo penale si dovrebbe far chiarezza su alcune questioni fondamentali e (premesso che a quel tavolo ci piacerebbe sedere al più presto), vorremmo ad esempio capire chi ha interesse ad indebolire il Ministro Orlando che ci è sembrato sino ad ora un paziente tessitore che sa quanto difficile sia il dialogo con le componenti della giustizia, ma che sa anche come in questo momento sia necessario che la politica riaffermi il suo ruolo di "tecnica regia" capace di costruire nuovi rapporti e nuovi equilibri. Chi siede al tavolo della riforma della giustizia deve essere certo che le riforme in discussione siano il frutto di una solida visione del processo, incardinata sui valori condivisi dell’art. Ili, della terzietà del giudice, del valore epistemologico del contraddittorio, del processo inteso come accertamento delle responsabilità personali e non come strumento di lotta ai fenomeni criminali, come strumento di garanzia del cittadino davanti all’autorità dello Stato. Ma la condizione perché i temi cruciali della giustizia siano affrontati e risolti e perché il sedersi al tavolo della giustizia sia utile per tutti, dipende proprio dalla trasparenza e dalla lealtà dei convenuti. Chi discute di riforme della giustizia deve essere garante della congruenza delle diverse iniziative di riforma e soprattutto della loro compatibilità con quell’insieme di valori condivisi ed imprescindibili. Non si può coltivare, come auspicato dall’avvocatura penale, il rafforzamento della tutela della funzione difensiva attraverso la riforma dell’art. 103, e coltivare a un tempo una complessiva "amministrativizzazione" del processo penale; prospettare la limitazione dei ricorsi dei pubblici ministeri in caso di doppia conforme (sentenze di primo e secondo gradò uguali) e contraddittoriamente ipotizzare la soppressione o la limitazione dell’appello; da un lato affermare il valore del contraddittorio e dall’altro progettare la estensione dell’uso della videoconferenza e del "doppio binario"; da una parte ipotizzare l’interruzione dei termini di prescrizione in primo grado e dall’altra lasciare inalterata la discrezionalità assoluta del pubblico ministero nella iscrizione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale. La necessità di coerenza e di compatibilità della riforma con i valori costituzionali è un’esigenza del sistema che non può essere subordinata a spinte ideologiche o corporative. Ed è per questa ragione che quando sederemo al tavolo delle riforme, vorremmo confrontarci con i valori del "giusto processo", con i principi del codice penale minimo, della ragionevole durata come garanzia dell’imputato, e non con l’ennesimo incubo partorito "dall’inconscio inquisitorio" di una magistratura a corto di consenso popolare. A volte il sedere o non sedere a tavola dipende anche dalle stoviglie con le quali la tavola è stata apparecchiata. Giustizia: Viceministro Costa, proporrò Commissione su errori magistrati e risarcimenti Adnkronos, 15 ottobre 2014 Oltre 22mila fascicoli, per un totale di 567 milioni d euro. Sono i numeri delle procedure di risarcimento per ingiusta detenzione, aperte nei tribunali italiani, negli ultimi vent’anni. "Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all’origine dei risarcimenti". Lo dice al "Corriere della Sera" il vice ministro della Giustizia, Enrico Costa. Sono cifre, spiega il ministro, "importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell’errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip". Giustizia: Cantone (Anticorruzione); i detenuti per corruzione? si contano sulle dita Ansa, 15 ottobre 2014 "Credo si possano contare sulle dita di due mani i detenuti per corruzione: io non sono entusiasta all’idea del carcere ma semmai ad altre sanzioni come interdizioni dai pubblici uffici o confische dei beni. Non credo che il problema sia la carcerazione, ma lo scarso numero di indagini, sono ridottissime". Lo ha detto il presidente dell’Autorità nazionale Anti Corruzione, Raffaele Cantone, rispondendo alla domanda del senatore M5S Giarrusso. "Il numero degli episodi di corruzione che riusciamo a processare - ha aggiunto - è molto meno del 10% rispetto ai dati reali. Come far emergere i numeri neri della corruzione? Una riflessione prima o poi andrà fatta". Cantone ha anche detto che sarebbe impossibile attuare i controlli messi in atto per Expo a tutti gli appalti. Rispondendo ad una domanda della presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, la quale chiedeva se fosse auspicabile che i poteri utilizzati per Expo vengano estesi a tutti i grandi appalti, ha risposto: "sarebbe impossibile perchè richiederebbe strumenti di controllo eccezionali". Ed ha spiegato che per il controllo degli atti di Expo sono al lavoro, a tempo pieno, tre ufficiali della Guardia di finanza e a tempo parziale altre persone. "L’unico strumento è individuare gli indicatori di anomalia", ha concluso Cantone. Bindi ha rimarcato tuttavia che "il fatto che non ci siano adeguati strumenti, non significa che non ce ne sia bisogno". Giustizia: il 17 ottobre nasce la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili Ristretti Orizzonti, 15 ottobre 2014 Nasce la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili. Primo esperimento di contaminazione delle libertà la Cild nasce da un grandissimo numero di organizzazioni della società civile italiana che hanno deciso di dar vita a questa Coalizione, pur nella eterogeneità dei temi trattati e delle proprie storie. Il presidente è Patrizio Gonnella, attuale presidente dell’Associazione Antigone. Le associazioni che aderiscono sono: A buon diritto, Antigone, Arci, Arcigay, Asgi, Associazione 21 Luglio, Associazione Luca Coscioni, Associazione Nazionale Stampa Interculturale, Associazione Tefa Colombia - Cooperazione Internazionale Modena, Cie Piemonte, Certi Diritti, Cipsi, Cittadinanzattiva, Cittadini del mondo, Cospe, Diritto di sapere, Fondazione Leone Moressa, Forum Droghe, Lasciatecientrare, Lunaria, Movimento Difesa del Cittadino, Naga, Parsec, Progetto Diritti, Società della Ragione, Zabbara. Le grandi questioni di cui ci occuperemo riguardano la lotta al razzismo e ogni forma di discriminazione, i diritti delle persone immigrate e di etnia rom e sinti, il contrasto a un sistema penale e penitenziario privo di garanzie e irrispettoso della dignità umana, la lotta alla corruzione e le battaglie per la trasparenza nella pubblica amministrazione, i diritti delle persone della comunità Lgbt, la questione droghe, i diritti dei minori, la violenza contro le donne. Il 17 ottobre a Roma, a partire dalle ore 10 presso la sala Capranichetta (piazza Montecitorio), si terrà la prima Conferenza Nazionale che rappresenterà il primo momento pubblico della Coalizione. In quell’occasione verranno pubblicizzate alla stampa tute le raccomandazioni presentate a Ginevra dalla nostra organizzazione al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che, a partire dal 27 ottobre, dovrà giudicare il nostro paese. Il 17 ottobre è prevista la partecipazione di: Luigi Manconi (presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica); Aryeh Neier (già direttore dell’American Civil Liberties Union, di Human Rights Watch e presidente della Open Society Foundations); Ivan Scalfarotto (Sottosegretario di Stato al Ministero delle Riforme costituzionali e Rapporti con il Parlamento); Min. Plen Gian Ludovico de Martino (Presidente Comitato Interministeriale per i Diritti Umani); Silvio di Francia (delegato del Sindaco di Roma per i Diritti Fondamentali); Balazs Dénes (Open Society Foundations); Aldo Morrone (presidente Fondazione Ime); Eligio Resta (Università di Roma Tre, filosofo del diritto); Antonio Marchesi (Presidente di Amnesty International); Judith Sunderland (Human Rights Watch); Mauro Palma Consiglio d’Europa; Uno studente del liceo classico Virgilio di Roma; Stefano Anastasia (Società della Ragione); Guido Barbera (Cipsi); Paolo Beni (Deputato PD); Valentina Brinis (A Buon Diritto); Marco Cappato (Associazione Luca Coscioni); Francesca Chiavacci (Arci); Luca Cusani (Naga); Daniele Farina (Deputato Sel); Costanza Hermanin (Open Society Foundations); Pier Paolo Inserra (Parsec); Laura Liberto (Cittadinanzattiva); Antonio Longo (Movimento Difesa del Cittadino); Giulio Marcon (Deputato Sel); Susanna Marietti (Antigone); Gennaro Migliore (Deputato Led); Leonardo Monaco (Certi Diritti); Viorica Nechifor (Ansi); Grazia Naletto (Lunaria); Enrica Rigo (Law Clinic Università Roma Tre); Guido Romeo (Diritto di Sapere); Arturo Salerni (Progetto Diritti); Gianfranco Schiavone (Asgi); Gianluca Solera (Cospe); Maria Stagnitta (Forum Droghe); Carlo Stasolla (Associazione 21 Luglio); Gabriella Stramaccioni (Gruppo Abele); Gabriella Guido (Vicepresidente della Cild); Andrea Menapace (Cild). Inoltre, il giorno prima della conferenza, una delegazione della Cild, con alcuni degli ospiti internazionali, alcuni parlamentari e il vicesindaco di Roma, si recheranno in visita presso il Cie di Ponte Galeria e il carcere di Regina Coeli. Chi volesse ricevere informazioni dalla Cild può andare sul sito e iscriversi alla newsletter: www.associazioneantigone.it. Giustizia: processo Cucchi; avvocato Parte Civile "agenti colpevoli, vanno condannati" di Paolo Montalto Ansa, 15 ottobre 2014 Per la parte civile non c’è dubbio che Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato per droga nell’ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel Reparto detenuti dell’ospedale ‘Pertinì, è stato "pestato" nelle celle del tribunale di Roma in attesa dell’udienza di convalida del suo arresto. Per questo i responsabili di quel pestaggio, ovvero "gli agenti della polizia penitenziaria, in primo grado assolti, vanno condannati per omicidio preterintenzionale": dunque oggi la parte civile ha formalmente chiesto il rinvio degli atti al pm per rivalutare la posizione processuale, ed eventualmente procedere per l’accusa di omicidio preterintenzionale. Alla sbarra nel processo d’appello ci sono dodici persone: sei medici, tre infermieri e tre agenti della Penitenziaria. In primo grado, solo i medici sono stati condannati per omicidio colposo (tranne una, condannata per falso). In sede d’appello, però, il Pg Mario Remus ha chiesto di ribaltare la sentenza e di condannare tutti gli imputati. Secondo l’accusa Stefano subì un pestaggio e poi non fu curato dai medici che lo ebbero sotto controllo. La scorsa udienza, la famiglia Cucchi ha ritirato la costituzione di parte civile nei confronti di medici e infermieri, dopo essersi accordata con l’ospedale per un risarcimento danni. "Abbiamo sempre ritenuto ingiusto non attribuire l’omicidio preterintenzionale agli agenti della penitenziaria, a chi ha provocato quelle lesioni che hanno portato alla morte Stefano - ha detto l’avvocato Alessandro Gamberini, parte civile per Giovanni Cucchi, padre di Stefano. Quale sia la causa della morte, è evidente che il percorso parte da quell’avvenimento lesivo. Abbiamo un testimone, il detenuto gabbiano Yaya, che ci descrive perfettamente quelle lesioni; il resto è aria fritta. Chi procura lesioni a un detenuto, si assume tutte le responsabilità del caso. E quelle lesioni hanno avuto una incidenza nello sviluppo tragico di questa vicenda, il cui esito non era imprevedibile". "Il caso Cucchi non è un mistero - ha aggiunto l’avvocato Alessandra Pisa, parte civile per i nipoti minorenni di Stefano Cucchi. È un caso molto semplice; le carte ci dicono che Stefano ha subito un pestaggio nelle celle del tribunale perché aveva scocciato gli agenti della polizia penitenziaria. Nessun mistero; lui non voleva entrare in quella cella. E il pestaggio è avvenuto prima dell’arrivo in aula per l’udienza di convalida del suo arresto. Proprio lì Stefano manifesta i segni del pestaggio recente: era gonfio, aveva segni sotto gli occhi, difficoltà a stare seduto per una frattura all’osso sacro. Gli agenti, le mani le hanno alzate, i piedi li hanno alzati; non interessa che non sapessero a cosa si andava incontro, cosa sarebbe loro accaduto. L’hanno fatto, e non c’è una ricostruzione alternativa a quella fornita dal teste Yaya che quei colpi li ha sentiti, che ha visto Stefano piangere dal dolore". Sardegna: i Sindacati contro la chiusura delle carceri di Macomer e di Iglesias La Nuova Sardegna, 15 ottobre 2014 Nuova presa di posizione dei sindacati contro la chiusura delle carcere di Macomer e di Iglesias, per il momento sospesa in seguito a un provvedimento del ministro della Giustizia, ma non ancora scongiurata. Fns-Cisl sarda ha scritto al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu e al vicario Silvio Di Gregorio per chiedere un incontro urgente sulle ipotesi di riorganizzazione del sistema penitenziario della Sardegna "che finora - si legge nella lettera - il sindacato ha appreso solo da stampa e social network". La Fns-Cisl dice no anche alla trasformazione della scuola della polizia penitenziaria di Monastir in centro di accoglienza per immigrati e all’eventuale riapertura di un carcere di massima sicurezza all’Asinara che definisce "scelte sciagurate e incoscienti". Sul carcere di Macomer allo stato delle cose non si hanno certezze. Una parte dei detenuti, quelli condannati per reati di terrorismo di matrice islamica, sono stati trasferiti. Nei rimangono una quarantina condannati per altri reati. La situazione nell’istituto è come sospesa. Praticamente è come se si aspettasse il via per il definitivo al disarmo della struttura nonostante la decisione del ministro di bloccare tutto per saperne di più rispetto alle motivazioni che erano alla base della decisione di chiudere l’istituto. "La chiusura di due istituti penitenziari e della scuola di polizia penitenziaria - prosegue la lettera della Federazione nazionale sicurezza della Cisl, significa ulteriori perdite di posti di lavoro che, immancabilmente, si riversano negativamente su tutto l’indotto, quindi sui sardi". Chiede infine certezze e rispetto per i lavoratori. Parma: botte in cella, i nastri che accusano, anche Dap apre inchiesta sul carcere emiliano di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 ottobre 2014 Al processo le denunce del detenuto Rachid Assarag. "La verità la conoscono Dio e questo registratore". Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato "un supplemento di pena", almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più. Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: "Non voglio finire così", ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. È una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere. Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini. Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche ("Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu"), amare confessioni da parte di un medico ("Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte") e un tremendo dialogo con una guardia: "Va bene assistente - dice Rachid -, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?". "Sì, ho visto - la risposta -, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…". L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato. A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre. Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap - senza capo ormai dalla fine di maggio - ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: "Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura". Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale. Cagliari: proposta di Pd e La Base per carcere di Buoncammino "farne un polo culturale" Sardegna Oggi, 15 ottobre 2014 "Il complesso edilizio del carcere di Buoncammino è una enorme opportunità di crescita e sviluppo positivo della città e i Cagliaritani vorrebbero destinare questa grande struttura a una evidente vocazione culturale e turistica". Lo affermano i consiglieri comunali Claudio Cugusi (La Base Sardegna), e Davide Carta (Pd), primi firmatari di un ordine del giorno sulla riconversione del carcere cagliaritano in polo culturale e turistico. "Siamo allarmati da notizie secondo cui il Ministero della Giustizia, senza valutare gli effetti di una simile decisione, intenderebbe destinare il carcere a sede di detenzione dei minori attualmente ospiti dell’istituto di pena di Quartucciu" si legge nel documento indirizzato all’attenzione del Consiglio Comunale. "Ad allarmarci è la lettera del 9 ottobre scorso a firma del Vicecapo vicario dell’Ufficio del Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, nella quale è testualmente scritto che l’Amministrazione penitenziaria ha manifestato la disponibilità a mantenere la concessione in uso di parte del carcere di Buoncammino per destinarvi gli uffici del provveditorato regionale e dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna, ad oggi sistemati in considerato dunque che, nella previsione del Ministero della Giustizia, il carcere dovrebbe dunque essere restaurato a spese della collettività e destinato in parte a uffici pubblici e in parte a carcere ribadito che l’una e l’altra ipotesi rappresentano da una parte uno spreco di denaro e beni mentre dall’altra una soluzione del tutto contraria ai principi di una detenzione leggera, quale quella prevista dal legislatore a carico dei minori". Claudio Cugusi si definisce "stupefatto per il totale disinteresse manifestato dagli organi dello Stato rispetto al ruolo che la Regione Sardegna e il Comune devono esercitare in un’occasione simile, nonostante il buon senso e il protocollo vogliano il necessario coinvolgimento di ogni livello territoriale e in particolar modo del Comune, sul quale gli effetti di una simile decisione andrebbero a ricadere, come giustamente dichiarato dal Sindaco in risposta alle notizie di stampa". Per questi motivi, i gruppi consiliari Pd e La Base, chiedono al consiglio comunale che, "nel rifiuto di ogni proposta diversa dalla riqualificazione in chiave turistica e culturale dell’ormai ex carcere di Buoncammino, si impegni ad avviare una immediata interlocuzione con il Presidente del Consiglio, con il ministro della Giustizia e con il presidente della Regione, finalizzata alla immediata acquisizione del complesso edilizio al patrimonio del Comune di Cagliari". Sulmona (Aq): detenuti e agenti del carcere a lezione di rianimazione Il Centro, 15 ottobre 2014 Detenuti e agenti penitenziari del supercarcere sulmonese parteciperanno domani alle lezioni di rianimazione cardiopolmonare e uso del defibrillatore, che saranno tenute dalla Asd Sics Academy, centro accreditato Irc per la formazione Bls-D (Basic life support defibrillation). Scopo dell’iniziativa è quello di migliorare la conoscenza e la formazione dei cittadini, degli operatori sanitari e delle forze dell’ordine in fatto di manovre salva-vita. "Nostro obiettivo, identificato nel programma denominato settimana viva" interviene Fabrizio Bucci della Asd Sics Academy "con il patrocinio del senato e del consiglio dei ministri, è realizzare una ampia gamma di eventi volti ad informare le diverse fasce della popolazione circa la rilevanza dell’arresto cardiaco e l’importanza di conoscere e saper eseguire le manovre che possono salvare la vita. Si tratta di gesti semplici, sicuri, che chiunque di noi, anche senza una preparazione sanitaria specifica, è in grado di attuare". Sabato sarà la volta dei genitori delle scuole calcio. Catania: carcere e formazione, oggi in Bicocca discusse le tesine dei detenuti www.marketpress.info, 15 ottobre 2014 Sono sei le tesi conclusive del corso "Le forme della mediazione dei conflitti" presentate e discusse da venti persone detenute del Carcere di Opera (Milano). La presentazione dei lavori si è svolta questa mattina all’Università di Milano-bicocca che ha organizzato e tenuto il corso nel carcere di Opera da febbraio a giugno 2014 nell’ambito della Convenzione quadro stipulata il 28 giugno 2013 tra l’Ateneo e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) per la Lombardia che come ha come obiettivo la realizzazione di attività di collaborazione scientifica, culturale e didattica e l’istituzione di un Polo Universitario in carcere. Gli studenti-detenuti hanno un’età compresa tra i 25 e i 40 anni e sono di diverse nazionalità (Italia, Nord Africa, Europa dell’Est). Il corso è uno degli insegnamenti della laurea magistrale in Programmazione e Gestione delle Politiche e dei Servizi Sociali dell’Università di Milano-bicocca. Le lezioni in carcere si sono svolte da febbraio a giugno 2014 presso il teatro della Casa di Reclusione di Opera e vi hanno partecipato anche trentadue studentesse iscritte alla laurea magistrale. Il progetto Università in carcere è coordinato da Alberto Giasanti, ordinario di Sociologia dei processi culturali nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Ateneo. Le relazioni, frutto di un lavoro collettivo da parte di 27 studenti-detenuti suddivisi in sei gruppi, sono accomunate dalle parole chiave "conflitto, mediazione, perdono" e hanno ottenuto il massimo dei voti: cinque 30/30 e un 30 e lode per il gruppo Giochi di luci e ombre. La presentazione dei lavori è stata accompagnata dalla proiezione di foto di sketch teatrali a cura delle stesse persone detenute, con lo scopo di rappresentare visivamente i temi trattati. I titoli delle tesi: Il divenire della coscienza, Giochi di luci e ombre: dalla mediazione di sé alla responsabilità sociale, Leggere l’Amleto attraverso gli occhi della mediazione, Il potere terapeutico e formativo delle fiabe. Tra ombra e mediazione con stessi, L’ombra del potere, I conflitti in Medea: quale sbocco catartico? Le relazioni verranno raccolte e pubblicate prossimamente nel libro "università@carcere. Conflitto - mediazione - perdono", a cura di Anima Edizioni. La collaborazione tra l’Università di Milano-bicocca e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) per la Lombardia prosegue con l’obiettivo di costituire un vero e proprio Polo Universitario nel carcere di Opera. Per raggiungere questo traguardo è necessaria incrementare l’iscrizione dei detenuti ai percorsi universitari. Per l’anno accademico 2014/2015 sono ventisette le persone detenute delle Case circondariali di Opera e Bollate a essersi iscritte a uno dei corsi di laurea triennali dell’Università. "L’università di Milano-bicocca - ha detto il rettore Cristina Messa - è fortemente impegnata in progetti che restituiscano benefici al territorio. L’accordo con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) per la Lombardia rientra tra questi. Siamo molto soddisfatti della partecipazione e dell’impegno delle 25 persone detenute coinvolte nel corso e dei riscontri positivi arrivati anche dai nostri studenti. Continueremo la collaborazione con la Casa circondariale di Opera e con il Provveditorato per favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria anche in carcere e, in questo modo, favorire il reinserimento in società delle persone detenute". "Ringrazio l’Università per aver organizzato la giornata odierna - ha detto Aldo Fabozzi, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria - nella convinzione che la sinergia degli interventi profusi renda il sistema penitenziario parte integrante del tessuto socio-culturale del territorio, contribuendo alla crescita personale dei soggetti, per restituire alla società uomini in grado di operare meglio rivisitando le scelte e le condotte devianti". "Come coordinatore del corso "Le forme della mediazione dei conflitti" - ha detto Alberto Giasanti dell’Università di Milano-bicocca - ho condotto dentro il carcere di Opera un lavoro di gruppo con studenti-detenuti e studenti dell’Università su temi come "la mediazione con se stessi, il nostro rapporto con la maschera, il doppio e l’ombra": una esperienza molto significativa e davvero stimolante per tutti". Milano: ai detenuti-studenti del carcere di Opera tutti "30" dai prof. della Bicocca Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2014 Ieri mattina venti detenuti sono usciti dal Carcere di Opera, che si trova appena fuori Milano, tra il capolinea dei tram che portano in città e i prati della prima cintura urbana, per andare all’Università di Milano-Bicocca a discutere le sei tesi conclusive del corso "Le forme della mediazione dei conflitti" , che si è tenuto nella Casa di reclusione da febbraio a giugno di quest’anno. Gli studenti-detenuti hanno un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, sono di diverse nazionalità (Italia, Nord Africa, Europa dell’Est) e hanno seguito il programma didattico insieme a trentadue studentesse iscritte alla laurea magistrale in Programmazione e Gestione delle Politiche e dei Servizi Sociali dell’Università che, invece, per i quasi sei mesi del corso hanno fatto il percorso contrario, recandosi a far lezione nel teatro del carcere. Le relazioni, frutto di un lavoro collettivo da parte di 27 studenti-detenuti suddivisi in sei gruppi, sono accomunate dalle parole chiave "conflitto, mediazione, perdono" e hanno ottenuto il massimo dei voti: cinque 30/30 e un 30 e lode per il gruppo Giochi di luci e ombre. I lavori verranno raccolti e pubblicati presto nel libro "Università e carcere. Conflitto - mediazione - perdono", a cura di Anima Edizioni. Ill progetto Università in carcere è coordinato da Alberto Giasanti, ordinario di Sociologia dei processi culturali nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale. Si svolge nell’ambito di una Convenzione quadro stipulata nel 2013 tra l’Ateneo e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) per la Lombardia. Obiettivo, la realizzazione di attività di collaborazione scientifica, culturale e didattica - come questa conclusa oggi cum laude - e l’istituzione di un Polo Universitario in carcere. Per l’anno accademico 2014/2015 sono già ventisette i detenuti delle Case circondariali di Opera e Bollate che hanno potuto iscriversi a uno dei corsi di laurea triennali dell’Università, e alla Bicocca sperano di incrementare il numero degli studenti reclusi. Di questi universitari, "fuorisede con mobilità limitata" abbiamo parlato qui su JobTalk in un post in marzo. Pisa: "Musica dentro", detenuti della Casa Circondariale Don Bosco a lezione di canto di Valentina Villa Il Tirreno, 15 ottobre 2014 Cantare in un coro per sentirsi liberi e per migliorare se stessi prima di tornare alla vita fuori dal carcere è ciò che offre agli ospiti della Casa Circondariale di Pisa Don Bosco la terza edizione del progetto "Musica dentro", organizzata dall’Associazione Il Mosaico, presieduta da Riccardo Buscemi e finanziato dalla Fondazione Pisa. Anche quest’anno trenta detenuti scelti dalla sezione maschile e da quella femminile avranno l’occasione di costituire un coro, imparare a leggere uno spartito, a cantare insieme e sotto la direzione della dottoressa Marialuisa Pepi, ad esibirsi in un concerto-saggio con un programma di canti popolari davanti agli altri detenuti e ad ospiti esterni al carcere il 12 giugno. Il corso durerà otto mesi, da ottobre a giugno, sarà di almeno centoventi ore, circa sessanta incontri da due ore ciascuno, due volte a settimana compatibilmente alle esigenze organizzative e regolamentari del carcere che ospita lezioni e allievi. "La scelta dei detenuti che parteciperanno al corso - ha fatto sapere Fabio Prestopino direttore della Casa Circondariale - viene fatta in base alle esigenze dei carcerati proprio per permettere loro di esprimere ciò che hanno dentro e sfruttare il fine rieducativi del corso". Il direttore Prestopino ha notato dei buoni risultati sui carcerati derivanti dal corso che si augurava sarebbe diventato un evento fisso nel carcere. Il progetto è stato finanziato anche dal Comune di Pisa, dalla Società della Salute per la sua potenzialità nel promuovere l’inclusione sociale e dalla Fondazione Pisa: "Compito istituzionale della Fondazione Pisa è quello di finanziare progetti meritevoli - ha detto l’avvocato Donato Trenta, segretario generale della Fondazione - e sono pochi i progetti che ci vengono sottoposti, attendibili come questo e in grado di migliorare la qualità della vita. La Fondazione ha a disposizione circa dieci milioni di euro per finanziamenti, ma non riusciamo a spenderli tutti perché i progetti che ci vengono sottoposti non sono validi tanto quanto questo". Durante la Settimana Santa la Cappella del carcere sarà animata da un concerto di professionisti: il soprano Marialuisa Pepi, il mezzosoprano Elisa Malatesti, i violinisti Natalia Kuleshova e Costanza Costantino e l’organista Claudiano Pallottini che esibiranno sia per gli ospiti del Don Bosco che per gli invitati esterni. Trento: "Qui si resta passando"… lo spettacolo teatrale si fa in carcere di Claudio Libera Il Trentino, 15 ottobre 2014 Lo spettacolo si intitola "Qui si resta passando" e verrà proposto in una location particolare che, analizzando il titolo, potrebbe risultare di facile individuazione, la Nuova Casa Circondariale di Spini di Gardolo o Carcere di Trento. La recita si terrà il 13 dicembre alle 15 ma è necessario presentarsi all’ingresso mezz’ora prima per il controllo ed è obbligatorio inviare copia del documento, fronte e retro, entro domani, 15 ottobre, a spettacolocarcere@yahoo.it La replica domenica 14 dicembre sempre alle 15 al teatro Sanbàpolis, in via Malpensada a Trento Sud. Lo spettacolo viene proposto dalla "Compagnia degli Scatenati" ed è organizzato dall’Associazione "Con Arte e con parte" e "Sagapò Teatro"; si tratta di un recital letterario tratto da "L’imitatore di voci" di Thomas Bernhard, promosso dall’Assessorato alla Cultura, patrocinato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, coprodotto dal Centro Servizi Culturali Santa Chiara. Attrici ed attori: Chiara Ore Visca, Diletta La Rosa, Giada Gatti, Ana Isabel Andrade Luna, Alice Piano, Marta Montanaro, Deena Ondertoller, Francesca Pesce, Lucas Joaquin Da Tos, Emilio Frattini, Francesco Mosna, Robert Schuster, Brahim El Mouaatamid, Jarno Bontadi ed i detenuti: Tizki Said, Amri Noureddine, Maisto Luigi, El Zitouni Amine, Sassi Ahmed, Haji Moustapha, Diop Mohamed, Ayari Hessin, Serdari Kristo, Khamassi Noureddine, Fridi Hassan, Saidi Chaouki, Dridi Mahrez, Bouiselmi Omar, Ghanmi Aymen. Musicisti: Angel Ballester, sax; Alberto Masella, bass; Roberto Pangrazzi, percussioni, tecnici: Claudio Boniatti, luci, Lucio Zandonati, fonica, messa in scena, drammaturgia e regia, Emilio Frattini, assistenti alla regia Francesca Sorrentino e Chiara Ore Visca. Gli organizzatori si sentono in dovere di ringraziare Fabio Biasi, la Direzione della Casa Circondariale di Trento, gli agenti della Polizia Penitenziaria Domenico Gorla, Daniele Cotugno e Benedetto Caldararo, Michele Traversa e Tommaso Amadei, la Polizia Municipale di Trento e l’Ufficio Parchi e Giardini del Comune di Trento. Per info: Centro Servizi Culturali S. Chiara, Katia Cont 0461 213854, Emilio Frattini 335 7057351. Droghe: città e riduzione del danno in Europa di Susanna Ronconi Il Manifesto, 15 ottobre 2014 Il convegno della rete Eurohrn in prospettiva di un consumo più sicuro, autodeterminato e centrato su competenze individuali e collettive in grado di proteggere da rischi e danni. Bilancio positivo e nuove sfide per la riduzione del danno europea (Rdd): nata a Marsiglia nel 2011, da operatori, consumatori e città, la rete europea Eurohrn ha fatto il punto ad Amsterdam, il 2 e 3 ottobre. Si è cominciato dal contributo dell’Olanda, che si è interrogata sul proprio pluridecennale modello, offrendo una riflessione su alcune questioni cruciali. Intanto la centralità, nella Rdd di successo, del paradigma dell’apprendimento sociale, quel "consumatori si diventa" giocato in prospettiva di un consumo più sicuro, autodeterminato e centrato su competenze individuali e collettive in grado di proteggere da rischi e danni; in seconda battuta, l’attenzione a non incentivare, con scelte politiche e legislative, processi di etichettamento dei consumatori, come quelli relativi alla criminalizzazione (ma anche alla patologizzazione), il che consente di costruire un contesto sociale incline alla normalizzazione del consumo e a facilitare la coesione sociale: per intenderci, quella scelta che alla fine degli anni ‘60 consentì la rinuncia a sanzionare una quota importante della gioventù olandese. Ma anche, su un altro piano, scelte di politica sociale, in cui certi fattori "determinanti" la qualità della vita dei consumatori a rischio di esclusione giocano un ruolo incisivo, come e più di specifiche politiche "delle droghe". L’Europa di Eurohrn, dalla Scandinavia ai Balcani, dall’Italia all’Estonia, non è l’Olanda, ma queste "lezioni apprese" hanno risuonato con concretezza e forza nelle esperienze comuni. Una sfida condivisa è apparsa quella dei nuovi consumi e dei consumatori del loisir: lo scenario è quello di una produzione mutante e "home made" di molecole, in un mercato frammentato e veicolato dal web, e dall’altro di consumatori lontanissimi dall’immagine del consumatore-tipo su cui la Rdd è andata costruendosi negli anni 80 e 90: i nuovi consumatori si collocano agli antipodi di ogni lettura all’insegna del modello medico o di quello dell’esclusione sociale. Una distanza che è risuonata non solo tra gli operatori alla ricerca di prassi rinnovate, ma anche nella neo-nata rete europea dei consumatori, Euronpud (European Network of People who use Drugs) che ne ha fatto un fulcro critico. Tre temi specifici nei lavori della rete. Le stanze del consumo, analizzate in una aggiornata tornata di ricerche: 83 in tutta Europa, con un trend di clienti che non accenna a diminuire, una differenziazione nell’offerta che si adegua al mutare dei consumi e una conquistata capacità di interagire con i contesti urbani. E una novità: una rete europea delle stanze che offrirà esperti a chi vuole aprirne una (e l’Italia, si sa, potrebbe fruirne per superare un ormai insostenibile gap). La lotta alle overdose: studi di assessement sulle migliori prassi europee, con le tante variabili che, insieme, dovrebbero concorrere all’efficacia degli interventi. Ruolo importante è risultato quello dei consumatori e delle loro competenze, e qui l’Italia - per una volta - può vantare come miglior prassi la distribuzione del farmaco salvavita, il naloxone, nell’ambito degli interventi di bassa soglia e di peer support. Infine, il lavoro della Rdd nei e con i contesti urbani è stata posta come un trend necessario del suo sviluppo: le città continuano ad essere attori e luoghi privilegiati della Rdd che deve assumere sempre più la dimensione di una politica integrata nelle politiche municipali. Proprio agganciandosi a questa priorità, la rete italiana Itardd - che di Eurohrn è focal point nazionale - terrà il suo appuntamento annuale 2014, il 14 e 15 novembre a Napoli, proprio sui contesti urbani e i loro attori (www.eurohrn.eu). Stati Uniti: il carcere di Guantánamo e l’impotenza di Obama di Giulia Bazzanella www.lavocedeltrentino.it, 15 ottobre 2014 Nel 2006, un interessante docu-film inglese rievocava la storia di tre cittadini britannici di origine pakistana e bengalese, i quali, recatisi in Afghanistan nel 2001 per partecipare alle nozze di un amico, venivano catturati nel corso del raid punitivo statunitense contro quello stato, dopo la grande tragedia dell’attacco alle torri gemelle. Per due anni, i tre cittadini inglesi furono detenuti nella prigione di Guantánamo, a Cuba, e subirono ogni sorta di tortura e degradazione morale, a causa del loro presunto coinvolgimento nella rete terroristica di Al-Qaeda e dei Talebani. Le pratiche tristemente note del centro detentivo vanno dalla privazione del sonno alla umiliazione verbale, dall’alimentazione forzata al water-boarding. Quest’ultima prassi, in particolare, consiste nel coprire il volto del detenuto con un cappuccio e versargli addosso tanta acqua da provocargli un senso di annegamento, per poi rianimarlo una volta che egli ha perso i sensi e ricominciare la tortura. Guantánamo è sotto la giurisdizione statunitense dai primi anni del 1900, per un accordo con Cuba. Dal 2002, in risposta all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, la storica base navale Usa di Guantánamo è stata dotata di un centro detentivo di massima sicurezza, al fine di accogliere chiunque fosse considerato un pericolo per la sicurezza nazionale statunitense. Nel 2009, il neo-eletto Presidente Barack Obama affermava che la struttura sarebbe stata chiusa entro l’anno successivo. Oggi, la prigione è ancora attiva e conta al suo interno 149 individui, la maggior parte dei quali detenuti senza essere stati sottoposti ad alcun processo. Per non aver tenuto fede alla sua promessa, il Presidente Obama è stato aspramente criticato, sia dai suoi stessi sostenitori sia dai gruppi in difesa dei diritti umani, tra i quali Amnesty International e Human Rights Watch. L’esistenza della prigione di Guantánamo, oltre alla macchia indelebile che costituisce per l’immagine di esportatori di democrazia, di giustizia e di libertà, tanto cara agli Stati Uniti, sembra inoltre fornire agli estremisti islamici un ulteriore pretesto per uccidere, preferibilmente gli Americani. Non è un caso che ai giornalisti decapitati dall’Isis siano stati fatti indossare abiti arancioni analoghi a quelli indossati dai detenuti di Guantánamo. Il Presidente Obama subisce pressioni continue circa la chiusura della prigione cubana, in particolare dall’opinione pubblica e dal Congresso. Questi ultimi due attori ribadiscono a gran voce il timore per la minaccia che i detenuti costituirebbero, una volta trasferiti in centri detentivi sul suolo statunitense. Tuttavia, si vocifera che il Presidente non abbia intenzione di lasciare l’incarico senza aver tenuto fede a questo impegno e pare che stia considerando un’azione unilaterale attraverso il suo potere esecutivo, qualora non riuscisse a raggiungere un accordo con il Congresso per rivedere le restrizioni da quest’ultimo imposte per il trasferimento dei detenuti. Marocco: ministro della Giustizia Ramid "trovare forme di pena alternative al carcere" Nova, 15 ottobre 2014 Il ministro della Giustizia marocchino, Mustafa Ramid, ha chiesto di avviare una discussione nel paese "per trovare forme di pena alternative al carcere". Parlando ieri ad una conferenza a Rabat, il ministro ha spiegato che "bisogna trovare altri modi oltre quelli tradizionali per infliggere le pene". Per questo è pronto un progetto di legge che si dovrà discutere in parlamento dove il ministro avanzerà le sue proposte in merito. Mauritania: le Ong chiedono alle autorità di Nouakchott di salvare i detenuti salafiti Nova, 15 ottobre 2014 Le Ong e le associazioni per i diritti umani mauritane hanno chiesto alle autorità di Nouakchott di salvare i detenuti salafiti presenti nelle carceri del paese, in sciopero della fame da settimane. Le Ong chiedono si intervenire per risolvere i loro problemi relativi alle cattive condizioni carcerarie "alla luce del fatto che le condizioni di salute di molti di loro stanno peggiorando notevolmente". Secondo l’agenzia di stampa mauritana "Ani", alcuni di questi detenuti islamici soffrono di gravi malattie specifiche che necessitano le cure di un ospedale. Russia: appello 300 professionisti mondo del cinema per liberazione regista Oleg Sentsov www.cinemaitaliano.info, 15 ottobre 2014 Il regista Oleg Sentsov, che era stato coinvolto nelle proteste a favore di Euro Maidan a Kiev e si era opposto all’annessione della Crimea da parte della Russia, è stato arrestato dal Federal Security Service della Federazione Russa (Fsb) nella sua casa di Simferopol il 10 maggio scorso e trasferito in una prigione di Mosca dove è tutt’ora detenuto in attesa di giudizio. Il suo processo doveva iniziare l’11 ottobre ma è stato posticipato di altri tre mesi, all’11 gennaio. Questo significa che il regista ucraino è detenuto da ormai otto mesi senza processo. La European Film Academy e l’Associazione Francese dei Registi di Film (Srf) credono che sia necessario dare nuovo slancio a questa mobilitazione unendo le proprie voci, le voci di tutti i registi e di tutti coloro che lavorano nel mondo del cinema, affinché Oleg Sentsov venga rilasciato. Ecco perché hanno chiesto a tutti i propri membri di ripetere la seguente frase in ogni intervista o apparizione pubblica, di modo che da adesso in poi non ci sia un giorno e nemmeno un’ora, senza che queste parole vengano ribadite e possano essere udite al di sopra del rumore del mondo: "Appartengo alla comunità internazionale dei registi e, alla luce di questo, chiedo al Presidente Putin di liberare uno di noi, il regista ucraino Oleg Sentsov. Il suo processo è previsto l’11 gennaio 2015 a Mosca. Nonostante lui si proclami innocente, è accusato di "aver commesso crimini di natura terroristica" e rischia 20 anni di prigione. Insieme a tutti i registi che hanno firmato questo appello, io denuncio solennemente questo processo per crimini immaginari. L’attacco ad Oleg Sentsov è un attacco a tutti i registi, in tutto il mondo". Tra i primi firmatari: Barbara Albert, Niels Arden Oplev, Jacques Audiard, Juan Antonio Bayona, Marco Bellocchio, Catherine Breillat, Agata Buzek, Laurent Cantet, Costa Gavras, Jean-Pierre Dardenne, Maria de Medeiros, Pascale Ferran, Marcel Gisler, Arto Halonen, Jerzy Hoffman, Agnieszka Holland, Agnès Jaoui, Mika Kaurismäki, Cédric Klapisch, Andrei Kurkov, Sébastien Lifshitz, Sergei Loznitsa, Angelina Maccarone, David Mackenzie, Manuel Martín Cuenca, Ulrich Matthes, Ursula Meier, Labina Mitevska, Dominik Moll, Thaddeus ÒSullivan, Pawel Pawlikowski, Mikael Persbrandt, Nicolas Philibert, Céline Sciamma, Stellan Skarsgård, Maciej Stuhr, Anatole Taubman, Bertrand Tavernier, Eskil Vogt.