Giustizia: la Commissione Gratteri e la riforma nostalgica delle carceri di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 14 ottobre 2014 Le carceri non devono essere dirette dalla Polizia e non devono finire sotto il controllo del Ministero degli Interni. Finanche chi ha privatizzato parte del sistema delle prigioni, come gli Usa o il Regno Unito, ha riservato le competenze al Ministero della Giustizia. Tra i suggerimenti che le organizzazioni internazionali danno alle nuove democrazie vi è quello di togliere le prigioni dal controllo dei ministeri di Polizia. Mario Gozzini, a cui si deve la grande riforma carceraria del 1986, scriveva di direttori penitenziari straordinari, motivati, democratici che si sentivano in perfetta sintonia con il dettato costituzionale, il quale prevede, va sempre ricordato, che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Gozzini raccontava anche di come accadesse spesso che giovani direttori, giunti entusiasti a lavorare in carcere, si fossero poi progressivamente demotivati scegliendo di lavorare altrove. La storia della pena in Italia ha vissuto anche anni bui, tristi. Si pensi a quando la giustizia italiana era nelle mani di Mario Borghezio (sottosegretario nel lontano 1994) o Roberto Castelli (Ministro dal 2001), entrambi leghisti: in quegli anni il sistema penitenziario non si è trasformato in un luogo a loro immagine e somiglianza solo perché direttori, educatori, assistenti sociali, psicologi e di conseguenza poliziotti penitenziari, si sono fatti carico di una gestione democratica e aperta al territorio. Un progetto di riforma che affidi ai poliziotti la direzione delle carceri non tiene conto della storia, del diritto internazionale, degli obiettivi costituzionali. Da giorni si parla di una proposta di scioglimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di cambiamento di funzioni della Polizia penitenziaria e di affidamento della direzione ai poliziotti stessi. Una proposta profondamente e pericolosamente anti-democratica. Il direttore deve essere un funzionario civile dello Stato. È lui a dover garantire la finalità costituzionale della pena. Deve avere spirito manageriale, non deve essere un maresciallo che organizza l’ordine pubblico interno. Già oggi i poliziotti penitenziari non possono portare armi all’interno degli istituti. Vi sono Stati della cui democrazia non si dubita che hanno rinunciato alla Polizia negli istituti di pena. Dentro ci sono solo funzionari civili, alcuni con compiti di gestione degli spazi, altri di gestione delle attività. Dappertutto, tranne che nelle dittature o nelle giovanissime democrazie post-regime, il direttore non è un poliziotto in divisa. Non lo è perché questo accadeva nei regimi. Il progetto di riforma di cui si discute pare sia l’esito dei lavori di una Commissione voluta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e composta da tre pubblici ministeri: Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita (quest’ultimo a lungo proprio ai vertici del Dap). Uso l’espressione verbale “pare” in quanto non è a nostra disposizione traccia istituzionale e pubblica di questa Commissione e delle sue proposte. Alcune domande sorgono spontanee: 1) perché affidare a tre pm che si occupano di mafie e colletti bianchi il progetto di riorganizzazione? Il 90% della popolazione detenuta non ha nulla a che fare con queste categorie di reclusi. Così si costruisce una riforma sulla base di presupposti non proprio corretti. A tre pm al limite si può chiedere una riflessione sulla Procura nazionale antimafia. La vita penitenziaria è invece fatta di organizzazione di attività, di azioni per la tutela della salute, di capacità di gestione del personale e delle relazioni sindacali. Che c’entra un poliziotto con tutto questo? 2) perché fare una riforma esplicitamente contro chi ci lavora? 3) perché non chiedere un parere a chi come noi si impegna da trent’anni per una pena rispettosa delle norme costituzionali? Se ci avessero sentito noi avremmo detto che: è giusto accorpare le forze di Polizia, è ingiusto retribuire così tanto il capo del Dap, non è giusto che costui sia un magistrato necessariamente. Inoltre avremmo aggiunto che i direttori devono continuare a essere dirigenti pubblici messi a capo di un personale omogeneo e qualificato, che i poliziotti penitenziari che lo vogliono possono andare a lavorare nella Polizia di Stato a cui si può affidare la sicurezza esterna, che dentro le mura del carcere devono operare principalmente operatori civili esperti nel trattamento tutti funzionalmente dipendenti dal direttore, che la competenza istituzionale sugli istituti penitenziari deve essere del ministero della Giustizia e non degli Interni in quanto quest’ultimo ha funzioni di ordine pubblico. Immaginiamo che al ministero della Giustizia si soffra della invadenza della commissione Gratteri. Se il progetto di riforma di cui si parla è quello preannunciato, noi ci opporremo non in nome della difesa dell’esistente ma per proporre cambiamenti profondi e sistemici che non guardino a un passato fatto di ordine e militarizzazione, ma a un futuro dove la violenza sia quanto meno minimizzata. Siamo certi di non essere soli in questa opposizione. I tanti operatori - magistrati di sorveglianza, direttori, educatori, assistenti sociali, psicologi, criminologi, medici, mediatori culturali e poliziotti - che lavorano in carcere e le tante associazioni che si occupano del “trattamento” non possono essere del tutto ignorati. È anche a loro che vogliamo dare la parola, è da loro che vogliamo ascoltare proposte innovative che affondino le radici nella loro esperienza pluridecennale e concreta, in una grande assemblea pubblica che sarà organizzata a Roma il prossimo 11 di novembre. Giustizia: noi impegnati contro le menzogne… quante bugie dette al popolo italiano di Laura Arconti (Presidente Radicali Italiani) il Garantista, 14 ottobre 2014 Giorni fa il Garantista pubblicava un editoriale di Sansonetti dal titolo: "Ci salveranno gli immigrati (e noi non avevamo capito niente)". Una notizia diffusa dalla Conferenza episcopale italiana fa piazza pulita di una falsa certezza che da anni si è consolidata sui media e nel giudizio popolare. La notizia è esplosiva: gli italiani emigrati, nella sola Gran Bretagna, sono più numerosi di quanti siano gli africani venuti a vivere in Italia. Perché, allora, l’affermazione falsa diffusa dalla Lega Nord è diventata opinione pubblica e ha determinato addirittura un senso di preoccupazione, la paura d’essere invasi, esautorati, oppressi, sfruttati da un nemico implacabile? "Siamo stati tutto questo tempo a discutere - precisa Sansonetti - partendo dalla convinzione che l’Italia fosse investita da un’ondata di immigrazione, e non era vero". Sansonetti poi continua: "Se ci pensate, più o meno la stessa cosa è avvenuta con il problema della sicurezza. Per anni è stata diffusa l’idea che la criminalità fosse in aumento, mentre in realtà è in calo netto dal 1997 in poi". Ci siamo, dunque, abbandonati come bambini stolti alla suggestione dei pregiudizi diffusi dalla Lega Nord di Bossi, solo perché nel frattempo la forza politica dei suoi numeri elettorali ne aveva accreditato l’attendibilità, mentre a nessuno era venuto in mente di andare a controllare i numeri veri, quelli delle statistiche? In realtà a qualcuno era venuto in mente di controllare quei numeri, ma si trattava di un gruppo politico delle cui idee e delle cui informazioni è da anni vietata la conoscenza agli italiani: quei tali, ormai sconosciuti, Radicali. Ad esempio io ricordo interventi, interviste, articoli sull’Economist, in cui Emma Bonino affermava che il nostro Paese ha urgente bisogno di forza lavoro per i mestieri più faticosi e meno remunerativi che i nostri viziati concittadini rifiutano, per non parlare della necessità di mantenere un equilibrio demografico in un Paese in cui il tasso di natalità è in continua diminuzione e si profila il rischio di spopolamento. Da anni Marco Pannella va ripetendo che fra i diritti civili c’è anche il diritto a conoscere la verità sui fatti, sugli avvenimenti, e sui meccanismi che governano la vita quotidiana di ciascuno di noi. Ha proclamato il diritto a conoscere la verità storica di avvenimenti che venivano presentati al pubblico in modo distorto: ricordate le sue intuizioni, che solo troppo tardi vengono confermate da fonti internazionali, sulle manovre di Bush, Blair e Berlusconi che portarono alla guerra in Iraq, mentre Saddam Hussein era pronto ad andare in esilio lasciando libero il suo popolo in cambio di denaro ed immunità? Già venti, trent’anni fa ascoltavo Marco Pannella mettere l’accento sul continuo aumento del debito pubblico, alimentato da malaffare e clientelismo, quando nessuno - nel mondo politico e in quello dell’economia - sembrava badare alla profonda incidenza del continuo aumento della spesa pubblica fuori controllo, sulla vita quotidiana del semplice cittadino. Mentre i Radicali venivano pian piano isolati e poi esiliati dalle istituzioni - nelle quali avevano pur dato prove continue di capacità e di rettitudine - Marco Pannella ha identificato nel silenzio dei media la causa prima della disaffezione degli elettori dal voto radicale. Emma Bonino, nota in Italia e all’estero ed apprezzata come una personalità di altissimo livello in tutti gli incarichi che le sono stati affidati, ha ironizzato: "amatemi di meno, e votatemi di più!". Allontanati dalle istituzioni, del tutto spariti dalle trasmissioni televisive e dai quotidiani nonostante continue iniziative politiche di grande importanza per i diritti dei cittadini, impediti da pastoie burocratiche nell’esercizio costituzionalmente sancito del referendum, da qualche anno i Radicali fanno ricorso alle giurisdizioni internazionali quando non trovano udienza in patria. Sono stati presentati al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa due dossier: uno sullo stato della Giustizia in Italia ed uno sulle condizioni carcerarie, curando con attenzione il seguito che la burocrazia di Strasburgo deve dar loro, e riuscendo a render pubblici alcuni tentativi dilatori nella disponibilità online dei documenti. È di sei giorni fa la più recente iniziativa. L’otto ottobre 2014, ad un anno esatto dal solenne messaggio a norma di Costituzione che il Capo dello Stato ha rivolto al Parlamento per illustrare lo stato disastroso del sistema giustizia, e l’obbligo di varare non solo riforme strutturali ma soprattutto misure di clemenza nell’immediato, il Partito Radicale e "Radicali Italiani" hanno celebrato la ricorrenza a modo loro. Marco Pannella nella sua veste di presidente del Senato del Partito Radicale, Rita Bernardini come segretario nazionale e Laura Arconti quale presidente di "Radicali Italiani" con l’avvocato Deborah Cianfanelli della direzione di "Radicali Italiani", hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti Regionale del Lazio. La stessa giurista radicale, ideatrice dell’azione, ha esposto con ampiezza di particolari e precisione di cifre la tesi dalla quale nasce l’esposto, con un articolo a sua firma apparso sul Garantista il 10 ottobre. Il succo, spremuto all’essenziale per l’economia di questo spazio, è molto semplice: l’intero sistema giustizia è in putrefazione, dai Tribunali fino alle estreme conseguenze sulle condizioni carcerarie. Governo, ministro guardasigilli e Parlamento, in dispregio dei consigli giunti dall’alto magistero del presidente della Repubblica, stanno varando provvedimenti di riforma strutturale che richiedono tempi di attuazione molto lunghi prima di mostrare compiutamente i loro effetti. Nell’intento di fronteggiare le pluriennali condanne che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha inferto all’Italia, si è fatto ricorso ad un sistema di risarcimenti verso chi ha subito processi irragionevolmente lunghi o periodi di detenzione in condizioni inumane e degradanti L’accumularsi nel tempo del costo bruto di tali provvedimenti costituisce un debito erariale molto gravoso, praticamente un’ipoteca in continuo aumento futuro, che è stato acceso sulla testa di ciascun cittadino italiano, anche di quello che sta per nascere. L’esposto chiede alla Corte dei Conti, che la Costituzione ha incaricato di verificare la spesa pubblica, di acclarare l’entità del debito erariale del capitolo giustizia e la sua incidenza sulle attese di crescita economica del Paese. Marco Pannella, il profeta, quando lesse lo studio dell’avvocato Cianfanelli e le cifre, vi intuì una possibile tutela del diritto degli italiani a conoscere ciò che sta piombando loro addosso, e disse subito: "È un’autentica ipoteca a carico dei cittadini. Questa idea può diventare la rivoluzione nonviolenta del nostro tempo a vantaggio del Paese". Ecco perché siamo andati alla Corte dei Conti, ed abbiamo affidato l’esposto al procuratore regionale Angelo Raffaele De Dominicis. Giustizia: errori dei magistrati; spesi 600 milioni in 20 anni, prime Palermo e Catanzaro di Dino Martirano Corriere della Sera, 14 ottobre 2014 Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l’inferno del carcere preventivo: "La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati - scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell’estate - mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...". Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell’ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un’assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell’Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell’applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest’anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose, anche perché piccole, le corti d’Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, "di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell’errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip". Oggi i magistrati del caso Tortora - gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l’ex giudice istruttore Giorgio Fontana - non sono degli sconosciuti "ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?", è la domanda provocatoria di Costa: "Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all’origine dei risarcimenti". È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd. Le norme La riparazione del danno da errore giudiziario è prevista dal codice di procedura penale (art 643). Chi è stato prosciolto nel giudizio di revisione (se non ha dato causa, con dolo o colpa grave, all’errore giudiziario) ha diritto ad una "riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna". La riparazione consiste in una somma di denaro o una rendita vitalizia La riparazione per ingiusta detenzione è un indennizzo previsto dal codice di procedura penale (art. 314 e 315) per chi ha subito una custodia cautelare ma poi è assolto con sentenza irrevocabile. Giustizia: scarcerate Bossetti, ha diritto a difendersi da libero di Tiziana Maiolo Il Garantista, 14 ottobre 2014 Da 130 giorni Massimo Bossetti è prigioniero senza processo. Quando tra due giorni il tribunale del riesame si riunirà, non potrà che scarcerarlo. Se non lo farà, il significato della decisione di rigetto della domanda sarà uno solo: siamo di fronte a un caso di tortura, messa in atto affinché l’indagato confessi, abbia o non abbia qualcosa da dire. I motivi per cui il tribunale del riesame dovrà scarcerare Massimo Bossetti sono almeno due. Il primo è procedurale. Magistrati obiettivi, e non a caccia di streghe, l’avrebbero già mandato a casa. Sarebbe bastato applicare gli articoli del codice di procedura penale. Prima di tutto la custodia cautelare in carcere può essere adottata solo "quando ogni altra misura risulti inadeguata": questo lo dice esplicitamente l’articolo 275 del codice di procedura penale. Nessuno sa spiegarci per quale motivo il carpentiere bergamasco debba avere un trattamento diverso per esempio da Alberto Stasi, l’unico imputato per la morte di Chiara Poggi, che nei due anni delle indagini preliminari è sempre rimasto libero, salvo quattro giorni. Cosa che dovrebbe essere normale in qualunque paese dell’Occidente, e ancora di più nella culla del diritto di romana memoria. Le forze dell’ordine sanno bene come sorvegliare una persona sottoposta a indagini, sia che sia libera sia, a maggior ragione, se agli arresti domiciliari. Dobbiamo pensare che un muratore sia più pericoloso di uno studente? Lo stesso magistrato, che ha respinto la prima richiesta di scarcerazione del resto, non ha motivato la sua decisione con il pericolo di inquinamento delle prove (uno dei tre motivi tassativamente previsti dall’articolo 274 ), che deve essere "concreto e attuale". E soprattutto che non deve consistere nel rifiuto di ammettere gli addebiti. Sarebbe stato un autogoal, e il giudice ha abilmente scansato questa ipotesi. Ma ne ha scartata anche un’altra, il pericolo di fuga. Non solo perché il pericolo che l’indagato si dia alla macchia deve essere "concreto" (e di questo non c’è la prova), ma anche perché sarebbe alquanto difficile per un muratore, privo di mezzi e con famiglia, programmare un’alternativa di vita chissà dove e senza aiuti. Rimaneva quindi solo la terza ipotesi, prevista dal codice, sulla base della quale si può trattenere in carcere una persona prima del processo, quella del pericolo che l’indagato, se lasciato libero, possa commettere di nuovo lo stesso reato. Questo pericolo però deve essere desunto dai suoi "comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali" (articolo 274 codice di procedura penale). Ora, prima di tutto Massimo Bossetti è incensurato, e questo è un dato importante. Secondariamente, quali sarebbero questi "comportamenti o atti concreti" da lui tenuti o compiuti? È stato forse visto davanti alle scuole con l’impermeabile aperto? È stato denunciato per molestie a qualche ragazzina? È stato beccato mentre dava passaggi in auto o sul furgone a minorenni? È stato denunciato per prostituzione minorile? Insomma, per il codice Massimo Bossetti deve essere scarcerato. Ma c’è anche un altro motivo per cui deve tornare a casa. Perché, innocente o colpevole che sia, ha già oggi diritto a un risarcimento. Non solo per la gogna mediatica che ha subito, ma anche perché il circo mediatico-giudiziario ha distrutto la vita sua e della sua famiglia. Improvvisamente gli si dice che suo padre non è suo padre, che sua fratello non è suo fratello, che sua madre è una poco di buono e che anche sua moglie se la cava con due amanti. E in più che lui ha seviziato e ucciso una bambina di 13 anni. Ha diritto a difendersi da libero. E anche, se ci riesce, a rimettere insieme i cocci e ricostruire la sua famiglia. Scarceratelo. Giustizia: inchiesta Mose; patteggia anche ex assessore Renato Chisso, due anni e sei mesi di Giorgio Cecchetti Il Mattino di Padova, 14 ottobre 2014 Pm e difesa: due anni, sei mesi, venti giorni. Ora parola al gip L’avvocato: "Decisione per imprescindibili motivi di salute". Renato Chisso, assessore regionale delle giunte di Galan e poi di Zaia, è gli arresti domiciliari. Arrestato per lo scandalo Mose, ha patteggiato due anni, sei mesi e venti giorni. Anche l’avvocato Antonio Forza, difensore dell’ex assessore regionale di Forza Italia Renato Chisso, ha raggiunto l’accordo con la Procura: due anni, sci mesi e 20 giorni di reclusione e gli arresti domiciliari. L’esponente politico è uscito dal carcere di Pisa, grazie al provvedimento firmato dal giudice Alberto Scaramuzza, nel primo pomeriggio ed è tornato nella sua casa di Favaro. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini non hanno trovato l’accordo, invece, sulla cifra che l’ex assessore dovrà consegnare, ma hanno deciso egualmente di procedere con il patteggiamento, lasciando al magistrato che giudicherà la congruità della pena frutto dell’accordo di decidere sulla cifra che Chisso dovrà restituire. Stando ai conti dei rappresentanti dell’accusa la cifra dovrebbe aggirarsi sul milione di euro o poco più. Pochi minuti dopo la firma del provvedimento che ha permesso all’ex assessore accusato di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul Mose, un altro giudice veneziano, Roberta Marchiori, ha dichiarato il non doversi procedere per la vicenda della compatibilità della detenzione con le condizioni di salute di Chisso. L’avvocato Forza aveva presentato un’istanza chiedendo la scarcerazione del suo cliente a causa delle gravi condizioni di salute, sia fisiche sia mentali. Sosteneva con i suoi consulenti medici che da un lato i problemi cardiaci (prima dell’arresto era stato colpito da un infarto) dall’altro la depressione (causata dalla permanenza in carcere) deponevano per il fatto che la carcerazione non era compatibile con la sua salute. La Procura aveva nominato altri consulenti che, invece, avevano affermato che poteva rimanere in carcere, anche perché quello di Pisa ospita un Centro clinico cardiologico di buon livello. Il giudice Marchiori, a sua volta, aveva nominato tre periti, che proprio entro il 13 ottobre avrebbero dovuto dire la loro e, sulla base delle conclusioni raggiunte dai tre medici, il magistrato avrebbe dovuto decidere sulla scarcerazione o meno. Il provvedimento del collega Scaramuzza, giunto dopo l’accordo con la Procura sul patteggiamento della pena, ha reso inutile la decisione, visto che ha dato la possibilità a Chisso di tornare a casa seppur agli arresti. L’avvocato Forza ha spiegato la decisione di patteggiare affermando che si è trattato di "una scelta dettata dagli imprescindibili motivi dì salute di Chisso". Le accuse che sono rientrate nell’accordo non riguardano soltanto quelle mosse dai tre pm che indagano sulla corruzione da parte del Consorzio Venezia Nuova, ma anche il reato dì abuso d’ufficio contestato dal pubblico ministero Giorgio Cava nell’ambito dell’indagine sulle discariche abusive nel Veneto che ha fatto scattare le manette ad uno dei collaboratori più stretti dell’ex assessore, il dirigente regionale Fabio Fior. Chisso deve rispondere di aver promosso l’approvazione da parte della giunta regionale di finanziamenti per circa un milione di curo per progetti che riguardavano le discariche abusive. Quei venti giorni aggiunti ai due anni e mezzo riguardano proprio questa indagine, che Chisso è riuscito a chiudere, almeno per quanto riguarda la sua posizione, ancor prima dì qualsiasi richiesta di rinvio a giudizio. Ora, i pubblici ministeri starebbero trattando il patteggiamento del segretario di Chisso, Enzo Casarin. Sardegna: Fns-Cisl; su carceri scelte sciagurate, chiesto incontro a Provveditore De Gesu www.castedduonline.it, 14 ottobre 2014 "Vogliamo avere notizie certe", sollecita il segretario generale aggiunto regionale Giovanni Villa, anche in riferimento all’inaugurazione del nuovo penitenziario di Uta, ipotizzata per novembre, dove dovrebbero essere trasferito i detenuti del carcere di Buoncammino di Cagliari. No alla chiusura degli istituti di Iglesias e Macomer, alla trasformazione della scuola della polizia penitenziaria di Monastir in centro di accoglienza per immigrati e all’eventuale riapertura di un carcere di massima sicurezza all’Asinara: "scelte sciagurate e incoscienti" per la Fns-Cisl sarda, che scrive al provveditore dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu e al vicario Silvio Di Gregorio per chiedere un incontro urgente sulle ipotesi di riorganizzazione del sistema penitenziario della Sardegna che finora il sindacato ha appreso solo da stampa e social network. "Vogliamo avere notizie certe", sollecita il segretario generale aggiunto regionale Giovanni Villa, anche in riferimento all’inaugurazione del nuovo penitenziario di Uta, ipotizzata per novembre, dove dovrebbero essere trasferito i detenuti del carcere di Buoncammino di Cagliari. "Vogliamo sapere dove i colleghi faranno formazione e aggiornamento, visto che si vuole chiudere l’unica scuola della polizia penitenziaria della regione, così come vogliamo capire quanto ci sia di vero sulla riapertura del carcere dell’Asinara", afferma Villa. "Solo chi non conosce la realtà può proporre cose del genere. Ci rammarica l’assenza della politica e dei politici in generale. Dov’è finito l’incontro con il ministro Orlando previsto per settembre? Cos’ha fatto e cosa sta facendo Pigliaru per noi e per la Sardegna e i suoi territori? La chiusura di due istituti penitenziari e della scuola di polizia penitenziaria", avverte il segretario regionale della Federazione nazionale sicurezza della Cisl, "significa ulteriori perdite di posti di lavoro che, immancabilmente, si riversano negativamente su tutto l’indotto, quindi sui sardi". Nella richiesta d’incontro a De Gesu, Villa chiede "rispetto" per i lavoratori "e non continue prese in giro, da chiunque esse arrivino". Parma: abusi dietro le sbarre, una svolta nelle indagini dopo la denuncia de l’Espresso di Giovanni Tizian L’Espresso, 14 ottobre 2014 Il tribunale di Parma acquisisce le carte sui presunti pestaggi denunciati dal detenuto che in carcere aveva registrato le confessioni di alcuni agenti. Ora gli audio, rivelati in esclusiva dalla nostra testata, sono agli atti del processo contro il carcerato accusato di oltraggio da un gruppo di guardie penitenziarie. Il tribunale di Parma ha acquisito le registrazioni audio dei presunti pestaggi subiti in carcere da Rachid Assarag rivelate in esclusiva da "l’Espresso". Il detenuto marocchino, che sta scontando una condanna per violenza sessuale, ha registrato, tra il 2010 e il 2011, le confessioni di alcuni agenti all’interno del penitenziario emiliano. Le sue denunce però sono rimaste ferme in Procura, mentre la querela presentata da un gruppo di agenti contro di lui per oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Così la strategia dell’avvocato Fabio Anselmo (difensore della famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi) è di sfruttare questo giudizio per ribaltare la situazione. E oggi ha incassato un primo risultato. Nell’ultima udienza, il giudice, dopo aver interrogato Assarag, ha deciso far entrare nel processo i documenti della difesa, incluse le conversazioni rubate all’interno del penitenziario emiliano. Non solo. È stata anche disposta la perquisizione urgente della sua cella del carcere di Sollicciano, a Firenze, dove attualmente è recluso. La polizia giudiziaria dovrà recuperare i suoi diari scritti in arabo. Insomma, quello che sembrava un processo dall’esito scontato, si arricchisce di nuovi colpi di scena. La prossima udienza è fissata per il 12 dicembre. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del super carcere - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: "Se ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male", spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: "Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... non credo che lei abbia il potere di cambiare niente". "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Così parlava ai microfoni nascosti del detenuto un poliziotto della penitenziaria. E il medico della stessa struttura è ancora più esplicito: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte". Il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, contattato da "l’Espresso", aveva preferito non rilasciare dichiarazioni. Mentre il rappresentante del Sappe aveva detto di nutrire forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: "Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni. La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare" è stata la replica di Enrico Maiorisi responsabile sindacale della struttura emiliana. Milano: quelle violenze impunite nel carcere di San Vittore di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 ottobre 2014 Testimonianze di abusi sessuali sulle detenute transessuali e di altre vessazioni nel carcere di San Vittore, l’assoluzione degli agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra e poi l’inquietante morte di Erica, la trans che aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze, e la scomparsa di un detenuto che in una lettera aveva scelto di raccontare quanto accadeva tra le mura dell’istituto milanese. È il quadro a tinte fosche descritto dai volontari del gruppo Calamandrana, che hanno contattato il Garantista dopo la pubblicazione del nostro reportage: "L’inferno delle detenute transgender". Nel dicembre del 2008 venne resa pubblica la lettera di un detenuto del raggio dei protetti che raccontava la vergogna degli abusi sessuali praticati da agenti graduati su detenute trans. Tramite questa lettera, i volontari del Gruppo Calamandrana chiedevano che si facesse luce su questi abusi ben conosciuti nell’ambiente ma mai denunciati da nessuno. "In questo piano protetto dove sono rinchiusi stupratori, pedofili, infami e trans - scriveva il detenuto recluso al carcere di San Vittore - avviene ogni tipo di sopruso: regole che cambiano da un giorno all’altro, a discapito sempre del detenuto, ore di aria ridotte, scarafaggi ovunque, ecc.". Poi il detenuto va nello specifico: "Ma la cosa più scandalosa è ciò che subiscono le persone transessuali, cioè dei veri e propri abusi sessuali da parte di alcuni agenti, per lo più graduati, col tacito consenso di tutti gli altri che sanno. La cosa avviene con chiamate serali giustificate da visite mediche, chiamate per ritiro pacchi postali, chiamate di avvocati, chiamate dell’ufficio comando o matricole. Il detenuto di turno si trova poi in una stanza isolata con uno o più agenti, dove l’abuso avviene con ricatto, minacce, negazione dei medicinali, o più semplicemente con la promessa di agevolazioni di vario genere. Questo abuso - conclude il detenuto del carcere di San Vittore - continua da sempre, e da sempre impunito, anche se confidato ad avvocati o operatori civili, medici e parenti. In un modo o nell’altro ciò che avviene dentro queste mura viene insabbiato prima di riuscire ad avere un efficace intervento". Dopo la pubblicazione della lettera, il gruppo Calamandrana subisce una sospensione della sua attività all’interno del carcere milanese. E questo provvedimento ha messo in luce la difficoltà dei volontari operanti all’interno delle carceri di denunciare gli abusi e le inefficienze del sistema penitenziario. "Durante la loro attività in carcere - sottolinea il gruppo Calamandrana - inevitabilmente i volontari possono essere testimoni di fatti gravi compiuti da singoli operatori penitenziari (di cui, tra l’altro, non sono gli unici a sapere): perché non se ne parla? Forse per il timore dì essere segnalati al Giudice di Sorveglianza e di conseguenza non poter più entrare in carcere? O forse perché, per una sorta di fatalismo si è convinti che la comunicazione alla Direzione comunque non porterebbe a nulla? E se anche ne parlano, in genere non vengono neppure a sapere se in seguito siano stati adottati dei provvedimenti; l’unica notizia è un eventuale trasferimento del detenuto/a coinvolto/a perché non lo/la si vede più. Siamo consapevoli che il mondo carcerario ha al suo interno equilibri molto delicati e che deve essere presa in considerazione sia la tutela del detenuto/a che denuncia sia la tutela del denunciato/a. D’altra parte, gli eventuali gravi episodi contrastano nettamente con l’articolo 27 della Costituzione comma terzo ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato") e con l’ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno ("Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona"). L’attuazione pratica di questi due articoli è stata l’istituzione della Magistratura di Sorveglianza che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti ed ha il potere di intervenire. C’è perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell’11.02.1999 che prescrive l’adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al Magistrato di Sorveglianza per violazione dei propri diritti". Conclude poi il gruppo Calamandrana con un quesito: "Quindi, tornando alla domanda iniziale, se ne aggiunge un’altra, con la speranza che si possa arrivare ad un dibattito per avere chiarezza su quanto abbiamo esposto: quali sono i limiti del silenzio del volontariato (e non solo del volontariato) in carcere?". E, di fatto, i volontari del gruppo Calamandrana non si sono imposti limiti nel denunciare ciò che accadeva all’interno del carcere dove operavano, Non solo hanno reso pubblico la testimonianza del detenuto e della trans Erica, ma hanno trascritto e diffuso una parte significativa di un1 intervista radiofonica nei confronti di una trans uscita dal carcere milanese. "Dal mio primo ingresso a San Vittore - spiega la trans nell’intervista - ho dovuto sopportarne di tutti i colori. Se fuori la discriminazione verso i trans è al 100%, dentro il carcere è al 200%, In carcere vieni vista come un animale, E a furia di essere trattati come animali, lo si diventa". La trans durante l’intervista spiega nel dettaglio anche le vessazioni subite e il fatto di non essere creduto dalla dal direttore del carcere. "Ero in una situazione così grave - continua la trans -che ho cominciato a riempirmi di psicofarmaci per dormire e non sentire niente. Ho avuto tante colleghe trans arrivare alla pazzia. Alle richieste di prestazioni sessuali da parte degli agenti io reagivo con odio e a uno di questi un giorno non solo l’ho mandato a fanculo, ma gli ho detto: "Un pompino te lo deve fare la tua mamma, non io". Questo mi è costato 45 giorni di carcere in più, perché lui mi ha fatto rapporto". A quel punto la trans spiega che "per 3 anni ho passato questa vita non di merda, ma sotto la merda. Giorno dopo giorno ho ricevuto violenze dagli agenti, violenze anche verbali. "Puttana di merda, come li facevi i pompini fuori?". E allora io rispondevo; "Bene, molto bene". Perché se li mandavo a fanculo avevo altri 45 giorni di pena in più". Ma la trans durante l’intervista tiene a specificare che "non tutti gli agenti sono così, Ci sono fra loro anche persone bravissime, I veri bravi agenti esistono, ma molti si approfittano della loro posizione, Dagli altri detenuti ho ricevuto molta solidarietà e ho imparato tanto". Le denunce delle vessazioni nei confronti delle trans detenute hanno avuto un effetto concreto: dopo circa due mesi dalla diffusione delle testimonianze, nel 2009 la Procura di Milano ha cominciato ad occuparsi della faccenda. È scattato il rinvio a giudizio nei confronti delle due guardie penitenziarie e avviato il processo. Dopo molti rinvii il processo si è concluso il 18 luglio 2013 con l’assoluzione dei due agenti "perché il fatto non sussiste". Ma la conclusione di questa storia è molto più amara e inquietante. Gabriella Sacchetti, volontaria del gruppo Calamandrana, spiega al Garantista che "due protagonisti importanti di questa brutta storia sono spariti subito dopo il processo o poco prima. Di Erica, una delle trans che aveva denunciato gli abusi, è corsa voce che sia stata uccisa, ma non siamo riusciti a sapere dove, come e quando. Il detenuto della lettera di denuncia che abbiamo pubblicato è sparito dalla circolazione dopo che ha finito di scontare la pena. E questo ci è molto dispiaciuto e ci ha inquietato, anche perché - conclude amaramente Gabriella Sacchetti - li avevamo conosciuti durante il nostro volontariato ed eravamo rimasti in contatto epistolare fino a poco prima della sentenza". Paola (Cs) Radicali; il Viceministro della giustizia Costa ha fornito dati sbagliati ai deputati di Emilio Quinteri www.radicali.it, 14 ottobre 2014 "Per quanto attiene agli specifici quesiti riguardanti la Casa Circondariale di Paola, premetto che l’Istituto è dotato di regolamento interno, approvato con regolare Decreto del Capo del Dipartimento nella data del 16 febbraio 2014, che ogni ristretto fruisce all’interno della camera di pernottamento di 4,5 mq calpestabili, escluso il bagno, che diventano 5 mq nel nuovo padiglione adibito a custodia attenuata". Questo è quanto ha riferito il Vice Ministro della Giustizia On. Enrico Costa in risposta ad uno dei quesiti posti dall’Onorevole Vittorio Ferraresi, Capogruppo del Movimento Cinque Stelle in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, all’Interrogazione Parlamentare n. 5/01535 rivolta ai Ministri della Giustizia e della Salute, presentata lo scorso 21 novembre 2013 e cofirmata da altri undici Deputati pentastellati. Tale circostanza è stata subito contestata dall’esponente radicale calabrese Emilio Quintieri. Nella Casa Circondariale di Paola, infatti, in tutti e cinque i reparti detentivi (escluso quello a custodia attenuata, di recente realizzazione), tutti i detenuti fruiscono di uno spazio calpestabile di 2,88 mq, inferiore al limite dei 3 metri quadrati stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Mi si dovrebbe spiegare, come sia possibile - dice il radicale Quintieri - che ogni detenuto nella Casa Circondariale di Paola, fruisca di 4,5 metri quadrati calpestabili all’interno della cella quando, le camere detentive - che sono occupate da 2 persone - hanno una superficie complessiva di 8,90 metri quadrati (3,97 x 2,24 mq) e quando le stesse contengono un letto a castello a due piani misurante 2,10 mt di lunghezza per 0,90 cm di larghezza (superficie occupata di 1,89 mq), quattro armadietti delle dimensioni di 0,50 cm di larghezza e 0,38 cm di profondità (superficie occupata di 0,76 cmq), un tavolo di 0,60 cm di larghezza per 0,80 cm di lunghezza (superficie occupata di 0,48 cmq). Da un calcolo approssimativo - sottratta dalla superficie totale quella effettivamente occupata dagli arredi della cella - risulta chiaramente che ciascun detenuto fruisce di uno spazio calpestabile inferiore ai 3 mq. Ed infatti, dalla superficie complessiva di 8,90 mq, detratta la superficie occupata dal letto a castello pari a 1,89 mq, degli armadietti pari a 0,76 mq e quella del tavolo pari a 0,48 mq (senza contare altri ingombri quali sgabelli, etc.), si ottiene la superficie realmente calpestabile pari a 5,77 mq che, divisa per i due occupanti della stanza, è pari a 2,88 mq. Misura che, analogamente alla fattispecie esaminata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella causa Torreggiani ed altri contro l’Italia - prosegue Quintieri - non è affatto conforme ai parametri spaziali ritenuti accettabili dalla giurisprudenza europea e costituisce, di per sé, un trattamento contrario all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. Ne deriva che è matematicamente impossibile che ogni detenuto abbia uno spazio calpestabile personale di 4,5 metri quadrati. Facendo la suddivisione lorda dei metri quadrati per ciascun detenuto occupante si ottiene la superficie di 4,45 metri quadrati. Questa, però, non è da intendersi la "superficie calpestabile" ma la "superficie lorda" poiché, non sono stati affatto detratti, i metri quadrati occupati dagli arredi fissi della camera ed ammontanti a 5,77 metri quadrati. Il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sanno bene che l’area occupata dagli arredi deve essere scomputata dalla "superficie lorda" della cella al fine di determinare "lo spazio minimo intramurario, pari o superiore ai 3 metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto". Lo ha chiarito la Corte Suprema di Cassazione (Cass. Pen. Sez. I, nr. 5728/2014 del 05/02/2014, Pres. Chieffi, Rel. Vecchio), dichiarando inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova che aveva impugnato l’Ordinanza del locale Magistrato di Sorveglianza, con la quale era stato accolto il reclamo di un detenuto. In particolare, riguardo alla specifica questione del computo, la Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha ribadito che "il Magistrato di Sorveglianza si è esattamente uniformato al criterio stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella citata sentenza pilota (Torreggiani ed altri c. Italia dell’8 Gennaio 2013 n.d.r.), avendo scomputato dalla superficie lorda della cella del reclamante, lo spazio occupato dall’arredo fisso dell’armadio allocato nel vano. Non è condivisibile l’obiezione del Pubblico Ministero concludente, fondata sulla mancata specificazione della superficie di ingombro da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’arresto in parola; gli è che, avendo quel Giudice accertato, nel caso scrutinato, che la superficie della cella era pari al limite minimo dei 3 metri quadrati, sarebbe stato affatto superflua e irrilevante la determinazione dello spazio occupato dal mobilio, in quanto necessariamente l’ingombro - a prescindere dalla ampiezza della superficie occupata - comportava indefettibilmente l’inosservanza dello standard dei 3 metri quadrati". Mi sembra evidente - conclude l’esponente radicale Emilio Quintieri - che, nel caso specifico, non corrispondano al vero o, comunque siano errate, le informazioni date ai Deputati del Movimento Cinque Stelle dal Ministero della Giustizia e che, viceversa, i detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Paola, all’epoca ed alla data odierna, sono sottoposti ad un trattamento inumano e degradante non beneficiando, personalmente, di almeno 3 mq, limite ritenuto in sede comunitaria al di sotto del quale si determina la violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea. Per tale motivo, solleciterò la presentazione di un altro atto di Sindacato Ispettivo in Parlamento, affinché il Governo faccia la dovuta chiarezza al riguardo. Milano: fobia Ebola in Tribunale, detenuto ghanese sputa sangue e l’aula viene chiusa Corriere della Sera, 14 ottobre 2014 L’uomo, un cittadino ghanese imputato per furto di rame, è stato ricoverato all’ospedale Sacco, uno dei due presidi sanitari i Italia per fronteggiare l’emergenza. di Redazione Milano Online. La fobia per il virus Ebola si diffonde anche nel Tribunale di Milano. Lunedì mattina, prima di un processo per direttissima davanti al giudice della prima sezione penale Bruna Rizzardi, un cittadino ghanese senza fissa dimora, imputato di furto di rame e seduto nella gabbia riservata ai detenuti, si è sentito male e ha iniziato a sputare sangue. Il giudice ha interrotto il processo e ha disposto il ricovero dell’uomo per accertamenti all’ospedale Sacco, insieme al Lazzaro Spallanzani di Roma, individuato come presidio sanitario di riferimento a livello nazionale per fronteggiare l’emergenza Ebola. L’Aula è stata poi chiusa. Sulla porta è stato affisso il cartello con la scritta "Aula inagibile" e presumibilmente resterà chiusa finché non verrà accertata la patologia di cui soffre il cittadino di origine ghanese. In serata è stato escluso il contagio da Ebola per l’imputato ricoverato all’ospedale Sacco. La struttura sanitaria ha immediatamente disposto tutti i test accertando che non si tratta del virus. Il ghanese da anni residente in Italia, a quanto è ancora in ospedale per la diagnosi sul malore che lo ha colpito. Oristano: il ministero fa marcia indietro, stop all’arrivo di detenuti dell’Alta Sicurezza 1 di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2014 È per ora scongiurato l’arrivo nel penitenziario di altri detenuti della categoria dell’Alta Sicurezza. La carenza di personale e la tipologia della struttura avrebbero convinto i vertici della Giustizia. L’invasione è scongiurata. I detenuti dell’Alta Sicurezza 1 (ex 41 bis) non arriveranno a Massama. Almeno per ora il carcere rimarrà diviso in due, con un’ala per i detenuti dell’Alta Sicurezza 3 già presenti da tempo e l’altra riservata ai detenuti comuni che hanno ovviamente uno spazio differente rispetto ai primi per via del diverso e più morbido regime di detenzione loro riservato. Le notizie circolate nei giorni scorsi e rimbalzate sulla stampa, dopo l’allarme lanciato dai consiglieri regionali e a seguire dai parlamentari, vanno quindi smorzate. Nei giorni scorsi c’è stato un incontro chiarificatore tra la deputata oristanese Caterina Pes e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. A questo sono seguite notizie decisamente più tranquillizzanti che il direttore del carcere di Massama, Pier Luigi Farci, ha poi già comunicato agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori e alle altre persone che lavorano nella casa circondariale oristanese. In realtà, al di là della mediazione sempre utile e imprescindibile, il trasferimento in blocco di detenuti che sono usciti dal regime di detenzione del 41 bis e che ora vengono classificati come Alta Sicurezza 1 è impossibile anche per motivi di numeri e strutturali. I personale del carcere non è sufficiente a garantire la gestione di persone che stanno scontando la pena secondo regole rigidissime e del tutto differenti rispetto a quelle degli altri detenuti. Il ministero non avrebbe quindi intenzione di assumere altro personale o di trasferire a Massama agenti ed educatori, perché ci sarebbe un aggravio di costi notevoli col pagamento di indennità di trasferimento e di missione. E i soldi per farlo non ci sono. Quindi, anche se non per motivi di territorialità della pena, grazie a quelli di cassa, la nuova infornata non s’ha da fare. Poi c’è il carcere in sé, ovvero la struttura e il modo in cui è stato progettato che non consentirebbe la presenza di altri detenuti dell’Alta sicurezza, tanto più che nel caso degli ex 41 bis ci sono fondati motivi che questi mantengano ancora legami con l’esterno e che, da dietro le sbarre, siano in grado di gestire affari delle cosche e delle associazioni di stampo mafioso. Per la capienza e il numero delle celle e degli spazi è impensabile, al momento, che il passo venga fatto. La guardia resta comunque alta, ma al ministero sembrano aver rivalutato in maniera più ampia la questione degli ex 41 bis. Che la Sardegna rientri nei piani di riordino carcerario, è ormai più che palese, ma caricare il carcere di Massama sino a rischiare il collasso, al momento non sembra una strada praticabile. Anche a Roma se ne sarebbero finalmente accorti. Aversa (Ce): i Sindacati contrari alla chiusura della Scuola di Polizia penitenziaria di Lidia De Angelis Gazzetta di Caserta, 14 ottobre 2014 Vincenzo Palmieri, Segretario generale Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, scende in campo contro la chiusura della Scuola di Polizia penitenziaria presso il Castello Aragonese. Una chiusura voluta per fare spazio al tribunale normanno. Della vicenda si sono interessati anche gli altri sindacati di categoria per sottolineare come non sia possibile "prendere pacificamente atto die la Scuola di Polizia Penitenziaria fiore all’occhiello dell’Amministrazione, per la cui ristrutturazione erano stati spesi decine dì milioni dì euro, presto non ci sarà più". "L’hanno smantellata a poco a poco, stanza dopo stanza e adesso se la prenderà tutta il Tribunale di Napoli-Nord, benché Aversa non sia Napoli e per converso Napoli non sia Aversa". Queste le amare considerazioni dei rappresentanti sindacali, che vogliono scongiurare, la ormai sicura decisione del Ministero di chiudere la scuola per fare posto alle sezioni del Tribunale di Napoli Nord, con l’arrivo di nuovi magistrati e personale di cancelleria. Il Sud rischia di rimanere privo di valide Scuole di Polizia Penitenziaria, questo il timore dei rappresentanti di categoria. I sindacati segnalano che tra novembre 2014 e febbraio 2015 dovrebbero iniziare il corso di circa mille allievi agenti di Polizia Penitenziaria praticamente senza una sede di corso, considerato che anche la Scuola di Monastir chiusa da tempo, e data la dismissione anche della "Se la scuola andrà via, a perdere, non solo a livello formale, ma anche e soprattutto, a livello socio-economico, sarà Aversa stessa". Continua Palmieri, "la struttura con i suoi olire cento allievi fisi interagisce, orma, con la città e la ricaduta economica non è da trascurare". Luigi Vargas segretario nazionale del sindacato Sinappe, contrario anch’Egli alla chiusura, per scongiurare la quale si batte da tempo, sostiene che "La Scuola di Formazione di Aversa è tra i poli culturali di maggior spessore nell’ambito formativo penitenziario. Insiste su una zona, quella Aversana in provincia di Caserta, ove sono ben conosciuti e rinomati i deficit di occupazione e di formazione per cui gioco forza sono proprio da quelle zone che provengono la maggior parte delle nuove leve e del personale stesso dell’Amministrazione. "Per cui la chiusura della Scuola di Aversa comunicata dal Dap con nota del 9 ottobre scorso, nella quale si legge die, sono in atto le procedure finalizzate alla soppressione della struttura, ciò significherà togliere una ulteriore ricchezza formativa e non solo all’Amministrazione Penitenziaria, ma a tutto il Meridione, con grave pregiudizio non solo delle zone e dell’indotto economico esterno che, la presenza di una scuola di Polizia comporta a favore dell’economia locale. Inutile evidenziare la consistenza della perdita di un sito di foni fazione di tal portata in ordine agli investimenti ingenti sia economici die formativi clic in più di dieci anni hanno interessato l’Amministrazione Penitenziaria ora inverosimilmente solo e soltanto a vantaggio de Tribunale di Napoli". Inoltre in merito alla questione dell’accorpamento della polizia penitenziaria alla polizia di Stato, interviene Roberto Santini, segretario generale del Sinappe, sindacato nazionale autonomo Polizia Penitenziaria che afferma "Per il nostro Corpo esiste una ratio: la polizia die prende in custodia i detenuti deve essere diversa da quella die li arresta e che ha il controllo sul territorio. Per cu i una eventuale riforma che segua le direttive europee dovrebbe per forza tenere conto del fatto che siamo un corpo di giustizia, che fa riferimento al ministero della Giustizia e che potrebbe qu indi occuparsi di giustizia sul territorio. In ogni caso parleremo di accorpamenti quando vedremo un progetto concreto. Finora quindi sono solo chiacchiere". Siena: università in carcere, se ne parla mercoledì a Palazzo Patrizi con Franco Corleone www.gonews.it, 14 ottobre 2014 Un approfondimento sul ruolo della cultura e della formazione universitaria nei percorsi di riabilitazione e recupero dei detenuti è l’obiettivo dell’incontro che il Circolo Anpi di Ateneo "Carlo Rosselli", il Comune e l’Università di Siena, con il patrocinio della Regione Toscana, organizzano per mercoledì prossimo, 15 ottobre, alle ore 15, a Palazzo Patrizi (via di Città, 75). L’assessore alle Politiche sociali del Comune di Siena, Anna Ferretti aprirà i lavori, che saranno coordinati da Fabio Mugnaini, responsabile del Polo per la didattica in carcere dell’Università di Siena. L’intervento centrale è affidato a Franco Corleone, oggi garante dei diritti dei detenuti per la Regione Toscana; seguiranno i commenti di Saverio Migliori, segretario del Polo universitario penitenziario regionale; Antonio Vallini, giurista dell’Università di Firenze e responsabile del Polo fiorentino; Andrea Borghini, sociologo, responsabile del Polo pisano; infine, di Carmelo Cantone, Provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria. L’ateneo senese, per l’anno accademico appena iniziato, conta ben 26 iscritti al carcere di Ranza-San Gimignano e uno ad Arezzo, distribuiti su vari corsi di laurea triennali e magistrali, e svolge la sua funzione grazie alla collaborazione del personale universitario, docente e amministrativo, e di studenti tutor, ponendosi come partner di molte altre istituzioni per realizzare l’importante funzione di recupero sociale e di riabilitazione che la Costituzione affida alla pena detentiva. L’appuntamento è aperto al pubblico a ingresso libero e sarà seguito da una cena all’Orto de Pecci: per prenotazioni 0577.222201. Per ulteriori informazioni, contattare Fabio Mugnaini dell’Università di Siena, e-mail mugnaini@unisi.it, o Giovanna Giorgetti del Circolo Anpi di Ateneo all’indirizzo giorgetti65@gmail.com. Porto Azzurro (Li): Sippe; agenti scoprono 60 gr hashish in pacco destinato a detenuto Comunicato stampa, 14 ottobre 2014 Nell’ambito dell’attività di prevenzione e repressione di fenomeni legati al traffico illecito di sostanze stupefacenti all’interno del carcere di Porto Azzurro, il personale di Polizia Penitenziaria, il 10 ottobre scorso ha trovato, all’interno di un pacco destinato ad un detenuto di nazionalità straniera, circa 60 grammi di hashish. Gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria del corpo di polizia penitenziaria hanno immediatamente sequestrato la sostanza, trasmettendo gli atti alla competente procura della repubblica. Il Segretario Generale del Sippe Alessandro De Pasquale, auspica che il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Firenze possa trasmettere una nota di merito ai poliziotti penitenziari di Porto Azzurro che, negli ultimi mesi, hanno sventato diversi tentativi di introduzione, nel carcere elbano, di sostanze stupefacenti. India: sulla vicenda dei marò contro-processo del "Tribunale Dreyfus" di Diaconale Adnkronos, 14 ottobre 2014 Il "Tribunale Dreyfus", l’associazione presieduta da Arturo Diaconale che "difende i cittadini dagli effetti devastanti della giustizia ingiusta", riprende le udienze dei contro-processi sul caso dei marò e sul caso Storace oggi alle ore 15.30 nella sala del Tempio di Adriano della Camera Commercio di Roma in Piazza di Pietra. La prima udienza, che tornerà ad aprirsi con l’insediamento dell’Alta Corte del Tribunale presieduta dal professor Federico Tedeschini, sarà dedicata "alla vicenda dei due fucilieri di Marina da due anni e mezzo sottoposti a regime detentivo in India e la cui sorte appare sempre più incerta ed oscura anche a causa dei comportamenti contraddittori - sottolinea una nota - tenuti dai diversi governi italiani". La corte ascolterà i testimoni che verranno interrogati dall’avvocato Valter Biscotti oltre che dai componenti del Collegio. Sono stati invitati a testimoniare l’ex ministro degli Esteri del Governo Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata; Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia; il generale Dino Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica; il generale Fernando Termentini e Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale. Esaurito il caso dei marò, la corte affronterà il caso Storace, l’ex Governatore del Lazio "che è stato accusato di vilipendio al Capo dello Stato e che rischia il carcere per un reato di opinione. L’Alta Corte ascolterà le testimonianze del senatore Maurizio Gasparri di Forza Italia, del senatore Enrico Buemi (Gruppo per le Autonomie), di Piero Sansonetti, direttore del quotidiano "Il Garantista", oltre alla deposizione di Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra". India: così Monti rispedì indietro i marò.. il "processo ombra" del Tribunale Dreyfus Di Natalia Poggi Il Tempo, 14 ottobre 2014 E l’ex ministro Terzi sbotta: "Fu Passera a insistere per non turbare i rapporti economici con l’India". Continua il processo "ombra" sul caso Marò presso il Tribunale Dreyfus, l’associazione fondata da Arturo Diaconale e Loris Facchinetti, a difesa dei casi di malagiustizia. Non sono mancati i colpi di scena durante l’udienza di ieri pomeriggio al Tempio di Adriano a Piazza di Pietra. Erano stati invitati a testimoniare l’ex ministro degli Esteri del Governo Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata, il generale Dino Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, il generale Fernando Termentini e Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale. Sul tappeto i punti oscuri dell’affaire Marò e la pericolosa situazione di stallo in cui si trovano ora i due fucilieri di Marina da due anni e mezzo sottoposti a regime detentivo in India (in realtà solo Salvatore Girone perché Massimiliano Latorre è attualmente in Italia per malattia) e la cui sorte è sempre più incerta. Si è partiti dalla inquietante testimonianza che il vicepresidente del parlamento europeo Antonio Tajani rilascio nella prima udienza del 3 ottobre: "Ancora adesso non ho nessuna certezza che il Governo italiano abbia fatto richiesta ufficiale all’Unione Europea di intervenire sulla detenzione in India dei due sottoufficiali, Girone e Latorre. L’unica cosa certa è che solo dopo l’intervento di Barroso e Ashton, in India non si è più parlato di pena capitale". Si è sentito chiamato in causa l’ex ministro degli Esteri del Governo Monti Giulio Terzi Sant’Agata: "Bisogna riportare la verità dei fatti per capire cosa è successo a ridosso del 21 marzo 2013 quando il governo Monti decise, a sorpresa, di rimandarli in India - ha ricordato Terzi - Una scelta collegiale vergognosa alla quale solo io mi opposi chiedendo di proseguire sulla strada dell’arbitrato internazionale obbligatorio. Fino a quel momento il governo era incamminato sulla strada giuridico-politica. Poi tutto è cambiato". Incalzato dalle domande dell’avvocato Valter Biscotti l’ex ministro ha aggiunto: "Sono prevalse questioni esclusivamente economiche rilevate dall’allora ministro dello Sviluppo Corrado Passera". Il governo ha cambiato linea perché temeva che i rapporti economico-commerciali con l’India subissero contraccolpi. Dunque non ha inciso nessuna presunta ritorsione sull’ambasciatore. La voce è sempre girata ma ieri è stata "ufficializzata" da un ministro dell’allora governo Monti. C’è un altro punto oscuro: "Sulla vicenda dei due marò erano stati aperti due fascicoli, uno penale e l’altro ordinario dalla Procura di Roma. Durante la "vacanza" in Italia i due sottufficiali di Marina furono ascoltati dai giudici. Poteva essere l’occasione per trattenere in patria Latorre e Girone. C’erano i presupposti per il divieto di espatrio. Che invece la procura non ha fatto". Terzi ha anche raccontato che l’idea di far tornare in Italia i due con la scusa del Natale l’aveva concordata con il collega indiano "insistendo sulla necessità di smorzare la tensione". Si era impegnato a rimandarli indietro soltanto se non ci fossero stati impedimenti da parte della legislazione italiana. Il divieto di espatrio da parte della procura avrebbe risolto il problema. Il governo Renzi non promette nulla di buono. Tanti annunci e pochissimi fatti. Da registrare, ancora una volta, l’atavico tremore dell’Italia nei confronti dell’arbitrato internazionale: l’unica soluzione valida per i marò, suggerita a Terzi perfino dallo stesso Ban ki Moon, il segretario generale delle Nazioni Unite. Siria: rilasciati cinque cristiani detenuti da jihadisti su disposizione del Tribunale islamico Ansa, 14 ottobre 2014 Sono stati rilasciati i cinque cristiani siriani della Valle dell’Oronte che rimanevano ancora in stato di detenzione su disposizione del Tribunale islamico di Darkush, dopo essere stati rastrellati da una brigata di jihadisti insieme al parroco di Knayeh, padre Hanna Jallouf, e ad altri parrocchiani nella notte tra domenica 5 e lunedì 6 ottobre. Lo riferiscono all’Agenzia Fides fonti locali. Il Tribunale islamico - ricorda Fides - ha stabilito di sottoporre a processo padre Hanna, accusato di "collaborazionismo" con il regime siriano, ma non sono stati forniti dettagli sui tempi di tale procedura giudiziaria. A Knayeh ci sono ancora 300 cristiani e padre Hanna continua il suo servizio pastorale in loro favore, pur nelle condizioni di libertà limitata in cui si trova. Libano: polemica su scambio dei prigionieri con Isis, ma il governo assicura "non ci sarà" di Maddalena Ingroia www.agccommunication.eu, 14 ottobre 2014 In Libano è polemica sullo scambio dei prigionieri con Isis. Numerose famiglie, i cui figli sono in mano alla Stato Islamico si stanno recando presso le autorità per insistere nello scambio dei prigionieri. Isis chiede il rilascio di prigionieri detenuti a Roumieh la prigione centrale ed in altri istituti. Ma le autorità insistono sul fatto che non è possibile barattare certi prigionieri perché rilasciandoli si condannerebbe il Libano a un destino ignoto. Il governo ha portato il messaggio ai genitori e afferma con chiarezza: "Non abbiamo alcun problema sul principio del baratto, ma la differenza tra i detenuti nelle nostre prigioni e i soldati in mano a Isis è troppo elevato". A quanto si apprende dalle testate libiche Isis avrebbe chiesto il rilascio di leader della prima fila del terrorismo, Kanaam Abbas e K. Dfterdar e Omar al-Atrash, oltre a Jumana Hamid Ibn Arsal presi prigionieri durante la esplosione dell’autobomba di Naeem Abbas. Si tratterebbe per lo più di terroristi che hanno pianificato bombardamenti ed esecuzioni a Haret Hreik e Bir al-Abed, Ruwais e Hermel. Impossibile dunque rilasciare questi prigionieri in cambio dei militari. Gli unici scambi che si possono fare è con i militanti o detenuti arrestati durante le retate, fanno sapere dal governo. Il governo è disponibile a trattare su altri fronti: con gruppi dei detenuti tra i combattenti che sono stati cacciati da Arsal dopo il cessate il fuoco e l’avvio dell’iniziativa di deportazione di queste persone all’estero. In secondo luogo - può essere concesso a Isis detenuti arrestati durante le incursioni condotte dall’esercito nei campi per i siriani sfollati dopo. In terzo luogo - si può prevedere un trade-off sull’introduzione dei feriti agli ospedali Neem nel campo di Arsal per il trattamento. In quarto luogo - vi potrebbe essere quella di aprire un corridoio sicuro per i ribelli, a condizione che questo sia lo scopo del corridoio, ovvero uscire dal confine libanese. Gran Bretagna: ex detenuto dona rene a donna in dialisi, trapianto che cambia due vite www.tgcom24.mediaset.it, 14 ottobre 2014 Sally-Ann Grainger aveva scritto del suo male sul Worcester News invocando un donatore. Wesley Joyce, 4 anni di carcere per aggressione, ha risposto all’appello. Salvare una vita per cambiare la propria. Wesley Joyce, ex soldato ed ex detenuto di Worcester, Inghilterra, lo ha pensato quando ha letto la storia di Sally-Ann Grainger, 34enne in dialisi da qualche anno. La donna, madre di 2 figlie, aveva scritto della sua malattia sul Worcester News, invocando un donatore di rene per poter continuare a crescere le sue bambine. Joyce, 4 anni di carcere per aggressione, ha risposto al suo appello. Sally-Ann, malata di fibrosi cistica, aveva già subito nel 2009 un doppio trapianto di polmone. Le cure successive all’operazione avevano colpito i suoi reni, costringendola a sottoporsi costantemente a dialisi. Ultimamente le sue condizioni era peggiorate e si era reso necessario un trapianto di rene. La donna, madre di due ragazzine di 9 e 14 anni, aveva lanciato un appello sul Worcester News, alla ricerca di un donatore. "Voglio veder crescere le mie figlie", aveva scritto la 34enne. Wesley Joyce nel 2004 fu condannato a 4 anni di carcere per aggressione. Dieci anni dopo, cercava un modo per gettarsi alle spalle il suo passato e ricominciare. "La storia di Sally-Ann - racconta Joyce, padre di 4 figli - mi ha toccato nel profondo. Guardando le sue figlie non potevo immaginare che la mamma dei miei bambini non potesse più stare con loro". "Ho pensato - continua l’ex detenuto - che era arrivato il momento di imprimere una svolta alla mia vita. Non sono stato un bravo ragazzo finora. Ho fatto cose buone e cose brutte in passato. Questo gesto è un buon punto di partenza per iniziare a fare del bene. Salviamo una vita!". Sally-Ann, ricoverata al Queen Elizabeth Hospital Birmingham, dove fra qualche giorno riceverà il suo rene nuovo, è sopraffatta dall’emozione. "Non ho parole per descrivere la mia gratitudine. Non me l’aspettavo. Di solito queste cose succedono solo nei film", ha detto alla Bbc. Brasile: ennesima rivolta in prigione, nel Paranà sequestrate 12 guardie Agi, 14 ottobre 2014 Ennesima rivolta in un prigione brasiliana. Alcuni detenuti hanno preso in ostaggio 12 guardie penitenziarie ed altri prigionieri nello stato meridionale di Parana. I colloqui sono stati sospesi e riprenderanno tra qualche ora, ha riferito l’assessore alla Giustizia Elson Faxina. La rivolta è la quinta nel Paranà in appena un mese e la 21esima dall’inizio dell’anno in tutto il Brasile. Le carceri sono tra le più sovraffollate al mondo: ospitano un totale di 548.000 detenuti pari a 274 carcerati ogni 100.000 abitanti.