Ma il sinodo non può occuparsi anche delle famiglie dei detenuti? Il Mattino di Padova, 13 ottobre 2014 Le sofferenze che provoca il carcere alle famiglie delle persone detenute mettono indirettamente sotto accusa tutti noi che viviamo liberi e circondati dai nostri affetti e non facciamo niente perché quelle famiglie possano avere più tempo e più spazio per incontrare i loro cari in carcere. Allora abbiamo deciso di provare a chiedere a Papa Francesco che al sinodo dedicato alle famiglie qualcuno si ricordi anche delle famiglie dei detenuti. E legga testimonianze come quella di Suela, una ragazza che ha saputo affrontare con coraggio la sua condizione di figlia di un detenuto. Appello a Papa Francesco per le famiglie dei detenuti Caro Papa Francesco, in questi giorni abbiamo appreso dai telegiornali che al sinodo dedicato alle famiglie hai rivolto severe critiche ai "cattivi pastori" che "caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito". Hai idea, papa Francesco, dei pesi che portano le nostre famiglie, le famiglie dei detenuti? Il tema della famiglia noi detenuti lo viviamo drammaticamente nella nostra esperienza di carcere e per alcuni, condannati a un ergastolo senza speranza, si tratta di una situazione che troverà soluzione solo con la fine della vita. Ancor di più, con l’aggravio di non aver fatto nulla per meritarlo, soffrono i nostri figli, le nostre compagne o compagni, le nostre madri, i nostri padri, fratelli e sorelle. Di fatto, quando entri in carcere, tutti gli affetti famigliari vengono recisi. Un detenuto, al mese, può usufruire in tutto di sei ore di colloqui visivi, in una sala affollata con sorveglianza a vista, e di una telefonata a settimana di dieci minuti. Questo se sei un detenuto cosiddetto "comune" e sempre che tu abbia la fortuna di essere assegnato ad un carcere vicino alla residenza della tua famiglia. Per i detenuti che sono in carcere per reati associativi con il regime duro del 41bis, le limitazioni sono ancora più strette. Il colloquio è uno al mese della durata di un’ora, fatto attraverso un vetro, gli ultimi minuti se hai un bambino piccolo lo puoi tenere con te, ma senza la presenza di un altro parente. E questo si protrae per anni, disgregando, inevitabilmente, tutti quei legami che si costruiscono nella quotidianità e nell’intimità di un rapporto, sia esso con i figli che con la propria compagna o compagno. La presenza ed il mantenimento di affetti validi può davvero aiutare a recuperare una progettualità di vita "sana", a far riflettere con responsabilità sugli errori commessi. Potrebbe davvero considerarsi la prima linea di prevenzione contro la recidiva e per una società un po’ più sicura. Un obiettivo, questo, alla portata anche di un sistema carcerario profondamente in crisi come il nostro, con costi irrisori, se ci fosse la volontà di tutti per umanizzare davvero le carceri. Noi abbiamo consapevolezza del male che abbiamo fatto e di quanto egoisticamente, nel commetterlo, non abbiamo preso in considerazione che sarebbe ricaduto proprio sulle persone più care, senza che ne abbiano colpa, in modo del tutto gratuito. Ecco, caro Papa, perché abbiamo pensato di rivolgerti un appello proprio per il tema che stai affrontando in questo Sinodo. Abbiamo pensato di farlo perché abbiamo imparato a conoscere la Tua sensibilità verso la fragilità dell’uomo. Perché abbiamo davvero bisogno di aiuto e, più di noi, le nostre famiglie hanno bisogno di aiuto… un figlio ha bisogno anche di guardare negli occhi un papà o una mamma che hanno sbagliato ed essere libero di raccontare il dolore che ha dovuto subire e magari cercare di ricostruire un rapporto. Un compagno o una compagna hanno bisogno di raccontarsi la delusione e la sofferenza, la vergogna e magari riprogettare un percorso di vita, di condivisione. Oggi non c’è nessuno spazio per questo nelle carceri La redazione di Ristretti Orizzonti, dal carcere di Padova, ha lanciato una campagna in difesa degli affetti delle persone detenute dal titolo "Per qualche metro e un po’ di amore in più" che avrà la sua giornata più importante il 24 dicembre, la vigilia di Natale. Noi Ti chiediamo con forza di dare voce, la Tua voce potente, al grido d’aiuto delle nostre famiglie, per cercare di offrire un futuro migliore ai nostri figli. Se Tu aderissi alla petizione che abbiamo promosso (il testo è disponibile online nel sito www.ristretti.org) e magari ne discutessi i contenuti con i padri sinodali, questo ci darebbe davvero coraggio. Caro Papa, grazie anche per un solo istante che riuscirai a dedicarci. La redazione di Ristretti Orizzonti, Casa di reclusione di Padova La sofferenza di nascondermi raccontando "favole" su dove fosse mio padre Io sono Suela, sono figlia di un detenuto ed entro nelle carceri da quando avevo sei anni circa. Sono entrata in tante carceri in quanto mio papà per varie ragioni veniva trasferito, quindi ho visto diverse realtà andando a fare colloqui da Cuneo a Napoli, Larino, Novara, Sulmona, Padova e altri istituti che non ricordo o meglio tendo a rimuovere. Non ho mai raccontato a nessuno la storia della mia vita, non ho mai parlato e raccontato a nessuno quello che provavo, tranne ad una mia amica quando avevo 14 anni, perché pensavo che potevo fidarmi, e forse è stato cosi, non lo so, ma per colpa dei vari dubbi e del timore che gli altri lo venissero a sapere ho smesso di parlarne e non ho più detto niente a nessuno. Mi sono fidanzata e il mio fidanzato non sapeva niente, passano dei mesi e incontro Silvia Giralucci, anche lei con una storia paradossalmente simile alla mia, in quanto anche lei vittima, come vittima lo è stato prima di tutto suo padre, ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse nel 1974. Come era vittima lei ero e sono vittima anche io, ma io mi vergognavo da morire che gli altri lo venissero a sapere, per la paura di essere esclusa dal gruppo o comunque che gli altri avessero dei pregiudizi nei miei confronti. Quando incontrai Silvia parlammo molto, mi sfogai, lei riuscì a capirmi, senza avere pregiudizi, e mi disse che non dovevo farmi tutti questi problemi, non dovevo tenermi tutto dentro, ma ne dovevo parlare con le persone vicine a me, perché conoscessero la mia vita, per avere la possibilità di essere anche sincera e non dovermi nascondere. Passò forse un mese, e decisi di scrivere al mio fidanzato un messaggio raccontandogli in breve di mio padre, aspettai e me lo ritrovai in casa che mi invitava a continuare il discorso con un semplice "dicevi???" , bene pensai che era arrivato il momento di parlarne e gli raccontai tutto da quando sono nata fino a quel momento, e lui mi ha capito e mi ha detto che avrei potuto dirglielo prima perché io non ho colpa, non c’entro niente, anzi era molto dispiaciuto perché ho sofferto abbastanza e si era aggiunta una ulteriore sofferenza, che era quella di nascondermi tutti questi anni, raccontando "favole" su dove fosse mio padre e su cosa facesse, e sul perché andavo spesso su e giù per tutta Italia. Da quel giorno mi sono sentita bene, perché una delle persone più vicine a me sapeva, capiva e mi stava vicino. Per me ora parlare con le persone della mia vita è davvero una cosa meravigliosa, perché oltre a sfogarmi posso essere sincera, posso stare bene perché loro sapranno di mio padre e non mi faranno domande scomode tipiche delle persone che non sanno, ad esempio "tuo papà che lavoro fa ?", questo è il minimo, ma ecco anche una domanda cosi semplice può risultare molto difficile. Qualche mese fa, mi arriva una telefonata dalla mia migliore amica, molto arrabbiata, dispiaciuta e confusa. Mi dice che il padre di sua nipote era finito in carcere, e alla bambina di cinque anni veniva impedito dalla famiglia della mamma di incontrare il padre: secondo loro infatti vedere il papà in carcere sarebbe stato un trauma. Cercai di farle capire che se la bambina voleva bene al padre e aveva desiderio di vederlo, avrebbe sofferto di più a non vederlo che vederlo lì dentro. Tra l’altro era in un carcere in cui non c’era più il muro con un vetro, di circa mezzo metro, che divideva i famigliari dalla persona detenuta, come succedeva a me, ma avrebbe fatto un colloquio un po’ meno crudele di quelli che facevo io. Lei era stupita e mi ha chiesto cosa ne potessi sapere io, che come lei non ho provato queste cose. Quello fu un momento molto difficile per me, perché non avevo tempo di pensare se era meglio parlarne o meno, allora mi feci coraggio e le raccontai di me, le ho detto che io entro nelle carceri da quando ho sei anni e non mi sono traumatizzata nel vedere mio padre in carcere, quanto piuttosto per il dolore che ho provato in tutti questi anni di solitudine, con una madre poco presente perché doveva lavorare per regalarmi una vita dignitosa, un padre in carcere lontano e io figlia unica. Lei si è stupita e mi ha detto che se io pensavo fosse giusto cosi, lei l’avrebbe detto anche a sua sorella. Mi sono sentita bene, fiera, perché forse ho aiutato quella bambina, mi sono impegnata per far sì che potesse vedere suo padre e un giorno, da grande, lei potrà continuare ad avere un rapporto normale con la madre, senza il rancore che proverebbe se lei le avesse proibito di vedere suo padre. E così ho capito che raccontando la mia storia, posso aiutare me stessa, ma anche gli altri. Suela M. Giustizia: piano carceri naufragato, mai messo a punto programma per project financing Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2014 Era stato immaginato a gennaio del 2012. Ma, a oltre due anni e mezzo da quella data., e nonostante mesi di annunci, il piano carceri in project financing può dirsi naufragato. La norma era contenuta nel decreto 1/2012, uno dei provvedimenti strategici del governo Monti. E nasceva "al fine di realizzare gli interventi necessari a fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri". L’idea, in assenza di denaro pubblico, era dare spazio in maniera massiccia alle operazioni in finanza di progetto. L’edilizia carceraria, almeno in teoria, si adatterebbe bene all’utilizzo del project financing. Il provvedimento, allora, prevedeva che al concessionario fosse riconosciuta, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell’infrastruttura, lasciando a suo totale carico l’alea economico-finanziaria della costruzione e gestione dell’opera. Le concessioni avrebbero dovuto avere durata non superiore ai vent’anni. In pratica, però, questo piano è rimasto sulla carta. Un decreto del ministero della Giustizia avrebbe dovuto disciplinare "condizioni, modalità e limiti di attuazione" di questa operazione. Tenendo presente le specificità del settore carcerario. A oggi. però, questo provvedimento non è ancora stato licenziato. E il piano carceri in project financing può dirsi morto. Così come è appena naufragata la gestione commissariale del piano carceri, affidata nel 2011 al prefetto Angelo Sinesio e prorogata a più riprese, fino a giugno del 2014, quando il commissario è stato indagato per falso e abuso d’ufficio. A quel punto lo Sblocca Italia è intervenuto con la revoca, decretando il fallimento di quell’esperienza." Giustizia: Protocollo Farfalla; ex mafioso ammette contatti con gli 007 dopo il pentimento di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 ottobre 2014 "Mi chiedete se da quando ho iniziato la collaborazione esponenti dei Servizi mi abbiano contattato o abbiano tentato di contattarmi. Nel periodo di Natale scorso "Enzo" ha contattato la suocera di mio figlio Pietro, e le ha chiesto di dire a mio figlio che aveva urgente bisogno di parlare con lui. So che effettivamente mio figlio ha avuto un contatto telefonico nel corso del quale "Enzo" gli ha ribadito che avrebbero mantenuto tutti gli impegni presi che, in questo momento, riguardano la promessa di aiuto economico nei confronti dei miei familiari, nonché di aiuto per trovare dei posti di lavoro agli stessi". Così rispose, il 6 febbraio scorso, il pentito di mafia Sergio Rosario Flamia ai pubblici ministeri di Palermo che indagano sulla presunta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra e - adesso - sui rapporti tra detenuti mafiosi e servizi segreti. L’indizio su almeno un contatto ancora esistente tra un ex "uomo d’onore" divenuto collaboratore di giustizia e agenti sotto copertura - non si sa chi, né mandati da chi - è per i magistrati la conferma di ciò che è avvenuto e forse continua ad avvenire nelle carceri italiane. Di questo ha parlato a lungo, con toni allarmati, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato alla commissione parlamentare antimafia, e su questo ha avviato un’indagine il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Per via del "protocollo Farfalla" sui rapporti tra boss detenuti e agenti segreti, che riguarda il passato; e per via delle dichiarazioni di Flamia che potrebbero riguardare il presente. L’ex mafioso è stato arrestato nel 2008 e poi di nuovo nel 2013, mentre il "Protocollo Farfalla" ha cessato di essere operativo nel 2007. Tuttavia ai pm di Palermo Flamia dice: "Ho avuto diversi rapporti con una persona che si è subito qualificata come esponente dei Servizi, instaurati nel luglio del 2008 e proseguiti almeno fino a maggio del 2013". I primi contatti avvennero quando il futuro pentito era ancora in libertà. Flamia racconta che a fine 2008 l’agente presentatosi come Roberto "ma che fin da subito compresi chiamarsi Enzo", ritardò il suo arresto e ottenne un capo d’imputazione meno grave: "Mi tranquillizzò e mi assicurò che presto sarei stato ricompensato in denaro". Centocinquantamila euro in contanti furono consegnati al figlio, con la raccomandazione "di non versare in banca la somma che non avrei potuto in nessun modo giustificare". Dopo Enzo, Flamia incontrò un’altra persona "mandata da Enzo" nel carcere palermitano di Pagliarelli, sotto le mentite spoglie di avvocato: "In una circostanza mi venne chiesta un’interpretazione su alcune frasi captate da un detenuto al 41 bis, credo uno dei fratelli Graviano, che si riferivano al Milan e ad altre squadre di calcio". Siamo alle ipotesi, ma le visite a coincidono con le rivelazioni del neo-pentito Gaspare Spatuzza che coinvolgevano i boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano nella trattativa con lo Stato; e chiamavano in causa Silvio Berlusconi, che in altre occasioni è stato accostato al Milan nel linguaggio cifrato dei boss (almeno secondo gli investigatori). Per verificare questo sospetto e la legittimità di quanto avvenuto, gli inquirenti sono in attesa che il vertice del servizio segreto civile risponda ai quesiti posti per cercare di identificare "Enzo" e il suo emissario. A Flamia i pm hanno chiesto conto di alcune intercettazioni dei colloqui in carcere tra lui e il figlio Pietro, nei quali i due parlano spesso dei contatti avuti con l’uomo dei servizi segreti. E ci sono dei passaggi che sembrano confermare gli ingressi in prigione degli agenti sotto copertura; per esempio quando il 6 luglio 2009 il figlio Pietro dice al padre detenuto: "Lui mi ha chiesto l’ultima volta che l’ho visto "Ma lui con chi è in cella?", e io gli ho risposto "Con mio zio". "Solo con tuo zio?" ... Lui ai tempi ... una volta ... mi ha detto che appena ti portavano qua era più facile pure per lui venire". Quando decise di collaborare coi magistrati, nella seconda metà del 2013, Flamia si premurò di avvisare prima il suo contatto nei servizi segreti: "Tramite mio figlio Pietro ho fatto sapere a Enzo che era mia intenzione collaborare. Per ciò che successivamente mi disse mio figlio, Enzo non obiettò alcunché e anzi mi disse che avrei dovuto dire la verità". Protocollo Farfalla Sei pagine, nessuna firma, solo la dicitura "riservato" stampata in cima al primo foglio: questo il "Protocollo Farfalla", ovvero l’accordo segreto stipulato tra i Servizi e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria per gestire le informazioni provenienti dai penitenziari di massima sicurezza. Documento acquisito dai pm della Procura di Palermo che indagano sulla "trattativa" tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Rapporti regolati da un accordo tra Dap (guidato da Giovanni Tinebra) e Sisde (diretto da Mario Mori), rilevati in quel protocollo del 2004. Como: suicida detenuto cileno di 30 anni, si è impiccato al letto a castello Ansa, 13 ottobre 2014 Ha assistito alla Santa Messa in carcere e poi, tornato in cella, si è tolto la vita impiccandosi, con un laccio rudimentale, al letto a castello. Nulla ha potuto fare il poliziotto penitenziario di servizio, pur tempestivamente intervenuto. Protagonista un detenuto cileno trentenne, ristretto nel carcere di Como per reati di spaccio di sostanza stupefacente e furto. Ne da notizia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: "Non sono passati che pochi giorni dall’allarme lanciato dal Sappe sulle criticità delle carceri lombarde, nelle quali dal 1 gennaio al 30 giugno 2014 si erano già contati il suicidio di un detenuto, 441 atti di autolesionismo, 54 tentati suicidi, 192 colluttazioni e 56 ferimenti. Il suicidio di un altro detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di là del calo delle presenze. Lo conferma anche il dato di 20 suicidi di detenuti nei primi sei mesi dell’anno". Il sindacalista sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Purtroppo oggi a Como il pur tempestivo intervento del poliziotto di servizio non ha potuto impedire il decesso del detenuto". Il Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, sottolinea: "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata! Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Como - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri lombarde e del Paese tutto". Cagliari: Sindaco Zedda; Buoncammino resti alla città, pronti a farci valere contro Renzi Sardegna Oggi, 13 ottobre 2014 Il Ministero della Giustizia vuole spostare il centro di prima accoglienza per migranti alla Scuola di Polizia di Monastir e nel penitenziario minorile di Quartucciu, coi minori trasferiti a Buoncammino. No secco di Massimo Zedda, contrari anche Forza Italia e Riformatori. Simile a un effetto-domino: il Cpa di Elmas chiuso (sono anni che arrivano polemiche bipartisan sulla posizione della struttura che ospita migranti e immigrati, realizzata all’interno dell’aeroporto militare, a un tiro di schioppo dalle piste civili del Mario Mameli) e trasferito nell’attuale Scuola di Polizia di Monastir e nell’istituto penitenziario per minori di Quartucciu. Volontà del Ministero della Giustizia, che le comunica con un documento lungo due pagine alla Prefettura di Cagliari, al dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Ministero dell’Interno, al dipartimento giustizia minorile del Ministero della Giustizia e all’agenzia del demanio di Cagliari. Così stando le cose, addio ai vari progetti di ‘riutilizzo’ della maxi-struttura con vista panoramica mozzafiato - Buoncammino, per l’appunto - che si sono quasi sprecati negli ultimi anni. Con l’apertura del carcere di Uta, infatti, si aprivano "praterie sconfinate" utili a definire una nuova vita per il carcere cagliaritano. Che, invece, resta nella piena disponibilità dello Stato. A più di un giorno dalla notizia della decisione del Ministero della Giustizia, ci sono da registrare le prime prese di posizione da parte della politica. Un "fuoco contrario" bipartisan: no del sindaco di Cagliari Massimo Zedda, stessa lunghezza d’onda per l’ex presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e per il coordinatore sardo dei Riformatori, Michele Cossa. Da Roma arriva anche l’attacco del deputato e leader sardo di Unidos, Mauro Pili, che ha reso noto il documento-annuncio del Ministero della Giustizia. "Si tratta di una decisione irragionevole, lascia allibiti la decisione di non cedere al comune di Cagliari il carcere di Buoncammino e di destinarlo a struttura minorile solo per continuare a mantenere la proprietà dell’immobile che invece dovrebbe passare automaticamente nella disponibilità della Regione. Siamo dinanzi ad un atto politico del governo Renzi contro la Sardegna senza precedenti", afferma Pili, "nelle prossime ore incontrerò le organizzazioni sindacali per concordare una azione utile a contrastare questo piano nefasto". Il primo cittadino cagliaritano affida a una nota la sua posizione: "No al trasferimento del carcere minorile a Buoncammino, è una scusa per trasferire lì uffici pubblici e altri uffici dello Stato. A Quartucciu ci sono meno di dieci detenuti, potrebbero essere ospitati in una comunità di recupero", afferma Zedda, ricordando che Buoncammino "potrebbe ospitare un albergo, spazi per gli studenti e spazi di aggregazione, in accordo con Regione e Università. Abbiamo contatti con privati che prevedevano investimenti per milioni di euro. Il carcere dovrà essere a disposizione della città e delle esigenze dei cittadini e della popolazione studentesca. Come Comune abbiamo già fatto i sopralluoghi per iniziative internazionali che si sarebbero potute svolgere non appena fosse stato libero. Mi auguro che si torni indietro, siamo pronti a coinvolgere su questo argomento direttamente il presidente del Consiglio, Matteo Renzi", conclude il sindaco. Al vetriolo anche le dichiarazioni dell’ex presidente della Regione, il forzista Ugo Cappellacci: "No al trasferimento dei minori a Buoncammino, il colle deve essere restituito alla città e la struttura resa fruibile per la cittadinanza. Lo Stato centrale non può giocare a Monopoli sul nostro territorio senza consultare Comune e Regione. Presenterò un’interpellanza per chiedere a Pigliaru di intervenire con la dovuto determinazione per scongiurare questo scippo". Molto caustico e polemico all’ennesima potenza contro Pigliaru e Zedda è Michele Cossa, coordinatore regionale dei Riformatori: "Uno scandalo che non può restare sotto silenzio", così Cossa, che attacca l’attuale Presidente della Regione: "Pigliaru si sta facendo soffiare da sotto il naso tutti i gioielli della Sardegna. Da parte del Governo nazionale manca la buona volontà di confrontarsi con le istituzioni sarde che, dal canto loro, incredibilmente non hanno nulla da dire". Cagliari: Fp-Cgil e Forza Italia contrari a trasferimento dell’Ipm a Buoncammino Ansa, 13 ottobre 2014 Il sindacato Funzione pubblica Cgil-Polizia penitenziaria è contrario alla dismissione della Scuola di formazione e aggiornamento di Monastir per gli agenti carcerari per far posto al Centro di soccorso e prima accoglienza e per richiedenti asilo (Cspa-Cara). Contrarietà anche per il trasferimento dell’istituto per minori di Quartucciu, dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) e del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria nel carcere di Buoncammino quando entrerà in funzione, si dice a novembre, la nuova casa di reclusione di Uta. Il coordinatore regionale della Fp Cgil-Polizia penitenziaria, Sandro Atzeni, ha espresso parere negativo e contrario al provvedimento annunciato dal vicecapo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, al prefetto di Cagliari e alle autorità del settore penitenziario regionali, "in considerazione della formazione e aggiornamento per migliaia di agenti che si vedrebbero precluso il miglioramento professionale se non attraverso massacranti e costosissimi spostamenti nella penisola". "Se confermata l’intenzione del Dipartimento sulla dismissione della scuola di Monastir - ha sottolineato il sindacato - ci si troverebbe di fronte all’ennesima crisi occupazionale in Sardegna e nel territorio di Cagliari, già duramente colpiti dalla perdita di posti di lavoro, tenendo conto che intorno alla scuola ruotano servizi di pulizia esterna e che sono stati operati considerevoli interventi di manutenzione anche da parte dell’amministrazione comunale di Monastir". Secondo il sindacato "non si abbatterebbero le spese dall’amministrazione penitenziaria, ma si originerebbe un aumento degli oneri di gestione della struttura una volta designata a ospitare i rifugiati". Cappellacci (Fi): interpellanza per consegnare colle al Comune "No al trasferimento del carcere minorile a Buoncammino, il colle deve essere restituito alla città", lo ha dichiarato Ugo Cappellacci, Consigliere regionale di Fi e già presidente della Regione. "La storia di Buoncammino come struttura detentiva - ha aggiunto - si deve considerare conclusa e la struttura deve essere resa fruibile per la cittadinanza. Lo Stato centrale non può giocare a Monopoli sul nostro territorio, pensando di disporne a suo piacimento e senza consultare il Comune e la Regione. Presenteremo un’interpellanza in Consiglio per chiedere al presidente della Regione di intervenire con la dovuta determinazione per scongiurare questo scippo e consegnare il colle al Comune e ai cagliaritani Pisa: cantare la propria voglia di libertà anche in carcere…. torna "Musica dentro" La Prima Pagina, 13 ottobre 2014 "Musica Dentro" è il corso di educazione musicale promosso dall’associazione "Il Mosaico", presieduta da Riccardo Buscemi, rivolto ai detenuti della Casa Circondariale di Pisa, di entrambe le sezioni maschile e femminile, che mira alla costruzione di un coro a voci miste in grado di svolgere piccola attività concertistica dentro, ed eventualmente fuori, dal carcere. Il corso si articola in almeno 120 ore di lezione, circa 60 incontri da 2 ore ciascuno, 2 a settimana. Pur puntando alla "qualità" dell’attività musicale prodotta, questa diventa il mezzo per favorire il principio di "rieducazione" della pena, fornire un’occasione di una sana socializzazione, sviluppare le capacità di relazione e di autocontrollo, agevolare, per quanto possibile, il reinserimento nella società civile al termine del periodo della pena. Accanto all’attività didattica riservata ad elementi selezionati dalla Direzione del Carcere, non mancherà l’ormai tradizionale concerto pasquale, giunto alla quarta edizione, eseguito da musicisti professionisti e aperto a tutti i detenuti che desiderano partecipare. "Sono molto soddisfatto perché il progetto si realizza con continuità all’interno del carcere e i detenuti trovano giovamento dalla loro fruizione" ha commentato il Direttore della Casa Circondariale di Pisa, Dott. Fabio Prestopino, che sin da subito ha compreso le potenzialità dell’iniziativa. Il Progetto è reso possibile dalla Fondazione Pisa, che concede un contributo determinante alla sua realizzazione e non a caso Donato Trenta, Segretario Generale della Fondazione Pisa, lo ha definito "un progetto esemplare". Lo sostengono anche numerosi soggetti istituzionali e privati, tra cui il Consiglio Regionale della Toscana e la Società della Salute Pisana. Bergamo: il carcere di diventa set per le registrazioni di una nuova fiction di Fabiola Lucidi www.blastingnews.com, 13 ottobre 2014 Il carcere di Via Gleno diventa il set per le registrazioni di una fiction tv che vede tra i protagonisti Jerry Calà e Giancarlo Giannini. La storia trova ispirazione dal libro di Franco Bertè dal titolo "I Nuovi Giunti - Racconti dal carcere". Franco Bertè da venticinque anni lavora nelle carceri, oggi è medico e direttore sanitario del carcere di Bergamo. Ogni giorno ha a che fare con detenuti di diversa provenienza, che si portano addosso il peso gravoso di atroci delitti. Se Franco Bertè trova ispirazione da fatti reali per scrivere romanzi, il produttore Domenico Dima per la messa in onda de "Il Commissario Coletti" trova capacità creativa nelle storie raccontate da Franco Bertè nei suoi libri. I due uomini si sono incontrati e insieme hanno steso la sceneggiatura della nuova serie televisiva, ambientata nel carcere di Bergamo e che vede un commissario di polizia prossimo alla pensione, indagare su delitti e vicende emozionanti. Jerry Calà interpreta la parte del commissario Coletti, mentre a Giancarlo Giannini è stato affidato il ruolo di questore. La prima puntata s’intitola "La donna murata". La storia racconta un fatto reale di cronaca, dove un uomo dopo essersi separato dalla moglie perde la testa per una straniera. La donna un giorno gli comunica di essere incinta, ma non di lui. L’uomo perde la ragione, uccide la donna stringendogli un braccio al collo e mura il suo corpo nel cantiere dove lavora. Molte storie contenute nel libro di Franco Bertè, sono state rese pubbliche dai giornali e sono conosciute, altre sono note un po’ meno, ma entrambe vengono raccontate attenendosi il più possibile alle testimonianze raccolte dalla voce di chi l’ha vissute direttamente sulla propria pelle. Nel cast tra le figure femminile ci sono Giovanna Rei nella parte di ispettrice e Katia Ricciarelli che interpreta la sorella del questore. Roma: in campo l’Atletico Diritti, composto da migranti, detenuti, ex detenuti e studenti di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 13 ottobre 2014 La squadra, che nasce a Roma, è composta da migranti, detenuti, ex detenuti e studenti. Giocherà in terza categoria. L’iniziativa nasce da una collaborazione fra l’associazione Antigone, Progetto Diritti e Università Roma Tre. Dietro le sbarre italiane si continua a star male, con una sofferenza che sembra unire i detenuti alle stesse guardie. Lo dicono le cronache delle ultime settimane. In settembre, un poliziotto penitenziario del carcere di Saluzzo si è sparato prima di trascorrere una giornata di permesso al mare con la moglie e i due figli. A Poggioreale (Napoli), un sessantatreenne italiano si è impiccato nel bagno della cella; stessa scena successa al Bancali di Sassari negli stessi giorni. E il mese era iniziato con un trentottenne che a Pisa si era tolto la vita con un laccio rudimentale, a quattro mesi dalla fine della pena. L’elenco purtroppo potrebbe continuare, arrivando a 30 detenuti dall’inizio dell’anno. Spesso si continua a considerare la chiave il simbolo della sicurezza, ma la realtà è diversa: più sono le mandate, più sale la recidiva. Il carcere "chiuso" diventa un "cimitero dei vivi", ma soprattutto è patogeno e criminogeno: produce il 70% dei recidivi in circolazione. Quando invece si fanno scelte diverse, i risultati si vedono: a Bollate (Milano), modello per i progetti di recupero sociale, la recidiva scende al 20%. "Recupero sociale significa istruzione e lavoro", spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, associazione che si occupa di monitorare i diritti e le garanzie nel sistema penale. "Questo è un compito che devono assolvere le istituzioni; dopodiché, il volontariato e la società civile possono essere un aiuto importante". Lo dice commentando l’ultima iniziativa lanciata dall’associazione, insieme a Progetto Diritti, realtà che si occupa di stranieri, e all’Università Roma Tre. "Scendiamo in campo", racconta, "con l’Atletico Diritti, una squadra di calcio composta da migranti, detenuti, ex detenuti e studenti". Nella Capitale, in nome dell’integrazione, dell’antirazzismo e dei diritti per tutti, gli allenamenti sono iniziati e da ottobre l’Atletico parteciperà al campionato di terza categoria. Nel frattempo, la direzione di Rebibbia ha scelto i detenuti che potranno uscire tre volte a settimana per allenamenti e partita, mentre per gli immigrati si stanno cercando tutti i documenti necessari per tesserarli senza intoppi burocratici. "Saremo una squadra a tutti gli effetti. Se il Brasile ha perso 7 a 1 nella semifinale dei mondiali organizzati a casa propria, noi potremo mai far di peggio? Certamente no", scherza Marietti. Le magliette dei giocatori saranno griffate Made in Jail, prodotte a Rebibbia; le partite casalinghe saranno disputate nel campo più suggestivo di Roma, quello della Polisportiva Quadraro Cinecittà, che nasce all’ombra dell’acquedotto romano, e l’ha concesso gratuitamente. "Per tutti i giocatori", spiega Susanna Marietti, "sarà un modo per abbattere il muro che in carcere separa il mondo interno da quello esterno e per recuperare un valore dello sport veramente vincente, quello della coesione sociale". Pare ricordarlo anche il logo, una "D" di diritti sovrastata dalla celebre banana di Andy Warhol, quasi un riferimento ironico alle frasi del neopresidente Figc Tavecchio contro i giocatori stranieri nei nostri campionati (chiamati "mangia banane"). "Se sarà necessario, ci debananizzeremo", ride la coordinatrice di Antigone. Atletico Diritti è una realtà totalmente autofinanziata. Tuttavia i costi sono tanti: l’iscrizione al campionato, il tesseramento dei giocatori, il magazzino, i palloni, le divise, i biglietti dell’autobus per le trasferte. Per questo, è stato lanciato un crowdfunding sul web all’indirizzo http://igg.me/at/atleticodiritti. "Serve l’aiuto di tutti per andare "diritti" alla vittoria", dicono da Antigone. Stati Uniti: l’Oklahoma spende 100 mila dollari per la nuova "stanza delle esecuzioni" L’Huffington Post, 13 ottobre 2014 L’appuntamento con il boia per Charles Warner è il 13 novembre: per il condannato la cui esecuzione fu sospesa in extremis in aprile dopo il fiasco dell’agonia di Clayton Lockett lo Stato dell’Oklahoma ha srotolato il tappeto rosso. Una camera della morte nuova di zecca, dal lettino dell’iniezione letale da 12.500 dollari alla moquette costata poco più di 500 è stata inaugurata in questi giorni e presentata ai giornalisti: una macabra coincidenza mentre gran parte del mondo riflette sull’abolizione delle esecuzioni nella giornata mondiale contro la pena di morte. Dal segretario generale Ban Ki-moon al ministro degli esteri italiano Federica Mogherini, l’appello unanime è allo stop di una pratica che, come ha detto Ban, "non ha posto nel 21esimo secolo". Mobilitate le Ong, dalla Comunità di Sant’Egidio che dedica due convegni all’Asia a Nessuno Tocchi Caino che punta i riflettori sull’Africa dove Ruanda, Burundi, Gabon, Togo e Benin hanno di recente mandato il boia in pensione. Non così in Oklahoma, dove il 29 aprile Lockett ha impiegato 43 minuti a morire inducendo lo Stato a uno stop temporaneo delle esecuzioni: lì, come in 31 altri Stati americani, la pena di morte continua ad aver posto nei codici anche se alcuni di questi stati osservano una moratoria di fatto. Ai reporter condotti in visita nel penitenziario di McAlester, il direttore delle "operazioni sul campo" Scott Crow ha vantato le capacità del nuovo "tavolo operatorio" dotato di un motore elettrico che può alzarsi o abbassarsi per venire incontro "non solo ai bisogni dei testimoni ma alle richieste dei condannati". Le migliorie della camera della morte sono state ordinate dal direttore del carcere Robert Patton dopo il fiasco di aprile a un costo complessivo di 106 mila dollari e qualche spicciolo. Per le stringhe di cuoio che fermeranno braccia e gambe di Warner in attesa dell’ingresso dell’ago in vena, i contribuenti statali hanno pagato quasi 2.000 dollari. Altri 6.000 dollari sono andati nella macchina per le ecografie che aiuterà il boia a trovare le vene. Sono stati ordinati 34 nuovi aghi (quelli in dotazione prima non erano della giusta misura, ha scoperto l’inchiesta seguita al caso Lockett) e nuove siringhe. Ed è stato anche approvato un nuovo protocollo di esecuzione su cui il penitenziario ha diffuso scarsi dettagli se non per rivelare che il numero dei giornalisti ammessi come testimoni è stato dimezzato: da 12 saranno d’ora in poi appena cinque, una misura necessaria - ha spiegato Crow - per far più spazio al boia nella cosiddetta "chemical room" dove i tecnici della morte somministrano le iniezioni letali. Stati Uniti: dall’attesa del patibolo alla libertà, ecco il congresso dei "dead men walking" di Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 13 ottobre 2014 C’erano neri, bianchi ed ispanici, uomini diversi tra loro per classe sociale, età e cultura, tutti uniti da un destino comune: un terribile passato, un futuro indefinibile e un faticoso presente da costruire. Per anni sono stati dead men walking, esseri umani condannati a morte dai loro simili, oggi ancora vivi solo grazie a un Dna, a una botta di fortuna o alla dedizione di uomini della legge più scrupolosi di altri. Erano una trentina quelli che hanno risposto all’appello di Witness To Innocence (l’organizzazione che riunisce i "sopravvissuti alla pena capitale" e i loro familiari) e che si sono radunati a Filadelfia per rendere pubblica la loro esperienza, per scambiarsi consigli pratici, per gridare la loro rabbia e soprattutto per chiedere giustizia per chi, innocente come loro, langue ancora in un oscuro braccio della morte. Sono arrivati da ogni angolo degli States, in una città-simbolo come quella della Pennsylvania dove è nata la Costituzione, tutti con alle spalle lo stesso percorso da incubo. Iniziato con menzogne (di altri), errori giudiziari, false testimonianze, difensori d’ufficio incapaci, incompetenti (e quasi sempre inutili), confessioni estorte con l’inganno o con le minacce. Proseguito con un processo in cui la verità (falsa o almeno incerta) era già stata scritta, con la prigione, l’isolamento, i compagni di sventura del braccio della morte ammazzati da una camera a gas, una sedia elettrica o un ago con il veleno infilato nel braccio. Un incubo che spesso ha visto come vittime i più poveri, i più indifesi (ritardati mentali compresi) e un razzismo più o meno velato. Manuel Velez è l’ultimo, liberato mercoledì scorso dalla prigione di Huntsville (Texas) dopo aver trascorso nove anni nel braccio della morte. Era accusato di un omicidio orribile, quello di un bambino di un anno, figlio della sua (ex) girlfriend, morto per un trauma al cervello. Non poteva che averlo percosso a morte lui, sentenziarono esperti di ogni genere, la condanna fu inevitabile. Ma nessuno aveva letto il rapporto medico che segnalava con precisione quando era avvenuto il trauma: quel giorno Manuel era lontano mille miglia dal Texas. "Siamo passati tutti attraverso le stesse situazioni", racconta Sabrina Butler, la sola donna che fa parte del gruppo dei condannati riabilitati. Era una giovane madre afro-americana del Mississippi quando venne riconosciuta colpevole di avere ucciso il suo bambino ancora in fasce, appena nove mesi di vita. Morto in realtà nel sonno a causa di una malattia ereditaria. "Ho passato 23 ore al giorno chiusa in una celletta, sapendo che il giorno della mia morte era sempre più vicino e non potendo fare nulla". Cinque anni di prigione, 33 mesi nel braccio della morte e gli incubi "che sono presenti di giorno e ritornano ogni notte". Dal 1973 sono 146 i condannati a morte che in 26 diversi Stati sono stati poi riconosciuti come innocenti. Per tutti il vero problema, dicono i volontari di Witness To Innocence (l’organizzazione è stata fondata nel 2003 da Helen Prejean, la suora diventata famosa per il film Dead Man Walking, insieme a Ray Krone, il "riabilitato numero cento"), è quello del cosiddetto stress post-traumatico. Un difficile, a volte impossibile, riadattamento alla vita di ogni giorno, ad una realtà che molti non ricordano o che non hanno mai conosciuto, un po’ come avviene per i soldati americani che stono tornati dagli inferni dell’Iraq o dell’Afghanistan. "Si trovano di fronte una società che non ha più nulla a che vedere con quella che avevano lasciato da uomini liberi, prima del processo e della condanna. Molti non hanno mai usato un cellulare, qualcuno non l’ha mai visto". Randy Steidl è oggi uno dei leader di Witness To Innocence, uno dei più impegnati ad organizzare eventi come quello di Filadelfia. Nelle prigioni dell’Illinois ha trascorso 17 anni di cui 12 passati in isolamento nel braccio della morte. Era stato condannato nel 1986 per il duplice omicidio di una coppia appena sposata, Dyke e Karen Rhoads, a nulla era servito il fatto che fosse stato uno dei primi a collaborare con la polizia per risolvere il caso. Il suo avvocato si disinteressa, la polizia e i politici locali premono per una condanna, compaiono un paio di testimoni fasulli e il misfatto è compiuto. Saranno, molti anni dopo, un paio di testardi detective della polizia statale a riaprire il caso e finalmente nel 2004 un giudice onesto renderà Randy di nuovo un uomo libero. "Quando sono uscito dal carcere non sapevo neanche usare una pompa automatica, non avevo mai usato Internet, non avevo mai visto un computer portatile. Ho dovuto imparare tutto quello che serve a vivere nel mondo di oggi. Molti di noi non trovano un lavoro, sono comunque degli ex carcerati". Lui, come gli altri trenta, è oggi in prima fila per chiedere giustizia: "Il governo federale è personalmente responsabile degli errori giudiziari. Che ci dia almeno dei soldi per permettere di vivere a chi ha attraversato innocente l’inferno". Albania: al via la riforma della giustizia, l’Unione europea chiede un processo "inclusivo" Nova, 13 ottobre 2014 Una conferenza organizzata pochi giorni fa a Tirana, su iniziativa del presidente della Repubblica Bujar Nishani, ha dato il via alla riforma del sistema giudiziario, uno dei settori più criticati sia per la sua mancata indipendenza che per la forte presenza della corruzione tra i magistrati. Anche l’ultimo rapporto della Commissione europea sull’Albania, pubblicato lo scorso 8 ottobre a Bruxelles, ne parla con "grande preoccupazione", mentre preme per una riforma "inclusiva" che coinvolga tutti gli attori, non solo politici", e venga condotta in stretta collaborazione con la Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa. Ma a Tirana sono apparsi già i primi "attriti". Nishani ha parlato di un processo da lui monitorato. Il governo invece intende affidare la guida della riforma ad un’apposita commissione parlamentare. L’iniziativa del capo dello stato ha segnato comunque un piccolo successo. Alla conferenza da lui convocata hanno partecipato i rappresentanti di tutte le forze politiche, sia il premier di centro sinistra Edi Rama ed il presidente del parlamento Ilir Meta, che il leader dell’opposizione di centro destra Lulzim Basha. Tutti e tre sono stati seduti a fianco di Nishani, anche se Rama ha evitato di stringere la mano a Basha. "Quest’incontro non vuole essere un’iniziativa simbolica, ma seria per realizzare una riforma responsabile", ha sottolineato Nishani, aggiungendo che la riforma del sistema giudiziario "dovrà essere totale, inclusiva e orientata verso i principi europei e internazionali per un sistema efficace, indipendente, imparziale e affidabile". Il premier Rama ha apprezzato l’iniziativa di Nishani per "discutere della grave situazione del sistema, riunendo politici ed esperti". Rama ha sottolineato che la maggioranza intende affrontare "la complessità dei problemi e la politica deve creare le condizioni affinchè tutti possano esprimersi e interagire". A parere del premier, la presenza e l’assistenza internazionale "sono una garanzia per portare avanti il processo nella dovuta maniera, con coraggio e volontà". Rama ha aggiunto che "la riforma non potrà essere unilaterale. Una riforma inclusiva implica l’impegno dei rappresentanti del sistema giudiziario e di tutte le forze politiche. Questa riforma va fatta come un obbligo, soprattutto nei confronti degli albanesi che non dovrebbero rimanere fuori dalle porte d’Europa perchè la corporazione dei giudici e dei procuratori corrotti compra e vende la giustizia", ha sottolineato il premier. Per il leader dell’opposizione Basha, "la riforma va realizzata secondo un modello europeo basato su due pilastri: che sia realizzata dal sistema e non dal governo che non deve mettere mano al settore giudiziario e che consolidi e l’indipendenza della magistratura tramite il rafforzamento delle istituzioni che amministrano il sistema". Basha si è detto scettico su una vera e propria riforma "mentre l’attuale maggioranza ha messo in discussione l’autorità delle sentenze della Corte costituzionale, quando l’esecutivo e le sue agenzie violano ogni giorno i diritti fondamentali dei cittadini". Secondo Basha le gravi accuse del governo nei confronti del sistema giudiziario sarebbero "una forma di populismo, che vuole coprire i tentativi di mettere le mani sulle istituzioni della giustizia". La forte diffidenza fra maggioranza ed opposizione potrebbe nuocere al processo. È per questo che la comunità internazionale preme per una collaborazione fra le parti, ritenendo che solo in questo modo si possa arrivare ad un "prodotto" dagli effetti duraturi. "Occorre una maggiore collaborazione fra le forze politiche albanesi sulla riforma del sistema della giustizia per arrivare ad un risultato imparziale e riconosciuto da tutti", ha ribadito Jean Eric Paquet, direttore per i Balcani della direzione generale per l’Allargamento presso la Commissione europea, intervenuto alla conferenza organizzata a Tirana dal presidente della repubblica, aggiungendo che "la riforma non puo’ essere realizzata in un contesto di confronto". Sullo stesso argomento è intervenuto anche l’ambasciatore a Tirana dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), Florian Rauning. "La realizzazione della riforma del sistema della giustizia è come un gioco di squadra, ma non è una gara sportiva. Questa processo non puo’ essere un campo di battaglia", ha precisato Rauning. La riforma del sistema giudiziario è una delle cinque priorità chiave indicate da Bruxelles perchè l’Albania possa progredire verso l’apertura dei negoziati di adesione. "Tutte le parti in Albania hanno come principale obiettivo l’adesione all’Unione europea. Il mio appello è di lasciarci alle spalle gli interessi politici ed interagire insieme, come state facendo oggi con questo processo", ha detto Paquet, riferendosi alla presenza sullo stesso palco sia del premier Edi Rama che del leader dell’opposizione Lulzim Basha. Nel suo ultimo rapporto sui progressi dell’Albania nel percorso di integrazione europea, Bruxelles riconosce che la riforma del sistema giudiziario rappresenta una delle principali sfide. "Il funzionamento della giustizia continua ad essere influenzato dalla classe politica, da una responsabilità limitata, dalla scarsa cooperazione tra le istituzioni, dalle risorse insufficienti e da ritardi", si legge nella relazione. "Il sistema disciplinare per i magistrati deve essere sostanzialmente rafforzato. La corruzione nel sistema giudiziario rimane una preoccupazione". A parere della Commissione europea, "nel corso del prossimo anno, l’Albania dovrà perseguire con vigore la riforma giudiziaria, attraverso una cooperazione costruttiva con tutte le parti interessate, con il costante impegno della Commissione di Venezia, e adottando emendamenti costituzionali e legislativi al fine di garantire l’indipendenza, la responsabilità e l’efficienza del sistema giudiziario". A Tirana tutti dicono di essere d’accordo sugli interventi da realizzare, ma già dall’inizio sembrano però non convergere sulle procedure da seguire. Il presidente della Repubblica ha suggerito al ministro della Giustizia, Nasip Naco, "di convocare entro le prossime due settimane un tavolo rotonda, con la partecipazione di tutti gli attori interessati e gli esperti internazionali per redigere una tabella di marcia. Subito dopo l’approvazione di questo documento chiederò e monitorerò la costituzione di appositi gruppi di lavoro per tradurre questa tabella di marcia in interventi concreti, stabilendo anche i limiti di tempo per la loro realizzazione", ha sottolineato Nishani, secondo il quale "il ministero deve poi tradurre il tutto in atti legislativi, sempre nello stesso spirito di collaborazione. Ogni atto dovrebbe ottenere l’avallo della Commissione di Venezia e delle altre missioni di assistenza internazionale", ha precisato Nishani. Ma secondo il governo il processo dovrebbe essere portato avanti da una commissione parlamentare ad hoc. "Noi non litigheremo sulla bandiera che guiderà il processo. Abbiamo i nostri obblighi, perchè siamo una maggioranza votata principalmente da albanesi che non ne potevano più di una giustizia che non fa giustizia", ha dichiarato Rama. "Questo processo potrebbe estendersi a conferenze e vari forum, che però non possono essere un’alternativa al parlamento, ma complementari ad esso. Noi l’abbiamo già detto dall’inizio - ha proseguito Rama - la riforma sarà portata avanti da una commissione parlamentare per la riforma, dove senza ombra di dubbio sarà ben accolta non solo la presenza di chiunque, ma anche le concrete proposte per la sua composizione. I nostri rappresentanti saranno disponibili a condividere con tutti gli attori e le altre istituzioni ogni atto che la commissione preparerà", ha affermato il premier. Iraq: jihadisti dello Stato islamico (Isis) tengono prigionieri centinaia di yazidi iracheni Ansa, 13 ottobre 2014 I jihadisti dello Stato islamico (Isis) tengono prigionieri centinaia di yazidi iracheni - tra uomini, donne e bambini - e costringono le giovani donne e le adolescenti a sposare i loro combattenti: è quanto emerge da un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) basato sulle testimonianze dei detenuti, sui racconti di 16 yazidi fuggiti e su quelli di due donne detenute intervistate telefonicamente. Secondo le dichiarazioni, il gruppo ha inoltre costretto i detenuti a convertirsi all’Islam.