Giustizia: i diritti umani ai tempi di internet di Alessandro Longo Nova, 12 ottobre 2014 La dichiarazione della Commissione della presidenza della Camera dei Deputati. Le garanzie si adattano alla rete: neutralità, controllo pieno dei dati e privacy nel testo aperto alla consultazione online. Uscirà domani, sul sito della Camera, la prima bozza pubblica della Dichiarazione dei diritti di internet, frutto di una commissione ad hoc presieduta da Stefano Rodotà. Cosi l’Italia si mette in testa al movimento politico e culturale che, attecchendo in vari Paesi del mondo, apre una nuova stagione dei diritti del cittadino: aggiornandoli ai tempi di internet. Lo scopo ultimo quindi non è tanto fornire nuovi diritti a internet, quanto potenziare gli stessi diritti fondamentali che reggono la democrazia. Il presupposto del documento italiano, come i altre iniziative, è infatti che internet è un nuovo spazio pubblico, privato ed economico dell’esistente. Ha però caratteristiche proprie specifiche e per questo motivo necessita di tutele specifiche. Il primo articolo della bozza italiana ricorda quindi che su internet sono garantiti tutti i diritti già riconosciuti dalle leggi, dalle costituzioni, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tra l’altro, è implicito qui il diritto alla libertà di espressione e di accesso alle informazioni. Non solo: questi diritti vanno anche interpretati per essere adeguati alla natura specifica della rete. E come? Con una gamma aggiuntiva di diritti e principi, che spesso ricorrono nelle varie iniziative (analoghe a quella italiana). Possiamo provare a sintetizzarli in due categorie. Da una parte ci sono i diritti basilari, necessari a garantire un accesso adeguato alla rete (rimuovendo barriere tecnologie, economiche e culturali); può rientrare qui anche il concetto di "network neutrality", che vuole proteggere il meccanismo di base di internet (generatore di innovazione). Nell’altra categoria ci sono i diritti che servono a proteggere le estensioni online della nostra vita dagli abusi di potere, che possono arrivare da soggetti pubblici (governi) o privati. In entrambi i casi è fatto salvo il presupposto di partenza: internet come nuova dimensione del vivere democratico. Per esercitare appieno le proprie facoltà di cittadino, lavoratore e consumatore adesso è necessario anche l’uso efficace della rete. Vuol dire assicurare una copertura a banda larga su tutta la popolazione (con velocità minime crescenti negli anni, in proporzione con lo sviluppo dei servizi internet); ma significa anche mettere tutti nelle condizioni di usare la rete in modo consapevole e sicuro. Un compito che va assolto in primis dalla scuola. Va tutelato non solo il mero accesso alla rete, ma anche che i suoi contenuti e servizi non subiscano discriminazioni, alterazioni, interferenze di qualsiasi tipo, È il principio della neutralità della rete e secondo gli autori della bozza italiana va tutelata anche in mobilità, È una posizione innovativa e d’avanguardia, dato che finora le reti mobili ne sono state esonerate. Altri diritti specifici di internet sono attualizzazioni dei principi della privacy ai tempi di internet. Ci si oppone quindi alla sorveglianza dì massa e indiscriminata, che è possibile solo per via della diffusione delle tecnologie digitali. Questo principio, oltre che nella Carta italiana, ricorre nel Marco Civil (adottato dalla Camera dei deputati brasiliana) e nelle recenti raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Ai nostri dati vengono così estese le tutele democratiche previste per il domicilio fisico. Un punto innovativo della Dichiarazione italiana è quello dell’autodeterminazione informativa: il diritto a mantenere un pieno e costante controllo sui nostri dati personali online. Per trattarli, serve un nostro consenso esplicito e informato e possiamo negarlo in qualsiasi momento. L’idea di fondo è che ci siamo noi anche in quei dati e un loro abuso può avere gravi effetti sulla nostra dignità e libertà personale. Ne discendono altri principi, pure presenti nella bozza italiana: l’interoperabilità delle piattaforme web e il diritto all’oblio. Il primo è un antidoto al rischio che servizi ormai diventati essenziali si trasformino in gabbia per gli utenti, ossia nuove forme di monopolio informativo. Il secondo è, com’è noto, la possibilità di rimuovere dai motori di ricerca i propri dati personali che non sono più rilevanti per il pubblico interesse. Sono punti controversi, dove si contrappongono gli interessi dei colossi del web, che per altro seguono un diritto di privacy molto diverso da quello europeo. Non è un caso che già da quasi tre anni giaccia al Parlamento europeo la riforma della privacy (con il regolamento Data protection), dove sono contemplati alcuni dì questi principi di "autodeterminazione informativa". Ecco perché bisogna dare fondamenta sovranazionali ai diritti di internet (nel rispetto della sua natura universale): secondo la Dichiarazione italiana, solo grazie ad autorità nazionali e sovranazionali è possibile far rispettare i diritti dei cittadini sulla rete. Le autorità avrebbero anche il compito di valutare la conformità di ogni nuova legge con i diritti fondamentali di internet. La sfida ora sarà passare dalle dichiarazioni di principio a leggi efficaci a livello nazionale e non solo. La bozza della Dichiarazione italiana resterà per quattro mesi in consultazione pubblica e poi potrà essere usata per ispirare proposte di legge in Italia e in Europa. Il contesto è propizio: Andrus Ansip, nuovo super commissario al Mercato unico digitale, questa settimana si è detto favorevole alla creazione di una carta dei diritti di internet, che potrebbe far parte della riforma dell’Agenda digitale europea, prevista per il 2015. "Finora tutte le dichiarazioni di principio, come quella italiana, non hanno avuto carattere vincolante. Le leggi hanno riguardato soltanto singoli aspetti dì mercato, connessi a internet", dice Emilio De Capitani, funzionar io del Parlamento europeo e membro della commissione che ha partorito la Dichiarazione. In Francia, Germania e Regno Unito ci sono consultazioni istituzionali per una carta di principi, ma bisognerà aspettare l’anno prossimo per i primi risultati. "In compenso, due sentenze della Corte di giustizia Ue, sulla conservazione dei dati e sul diritto all’oblio, sono arrivate come un campanello d’allarme: segnalano che c’è una grossa lacuna normativa, di diritti, da sanare". I modi e i tempi si sveleranno nei prossimi anni. Per adesso, anche grazie all’Italia, è stato posato il primo mattone. Giustizia: "Una storia semplice". Obbligatorietà dell’azione penale, due pesi e due misure di Maurizio Bolognetti (Segretario Radicali Italiani) Il Garantista, 12 ottobre 2014 La visita dei Radicali al carcere di Potenza produce una denuncia inascoltata, mentre un detenuto, il più disperato, viene accusato per "minacce". Due pesi e due misure dell’obbligatorietà dell’azione penale. Le carceri "consistente e allarmate nucleo di nuova shoah", così Marco Pannella ebbe a definire le nostre patrie galere nel corso di un congresso di Radicali Italiani. Le carceri luogo di tortura senza torturatori, perché ad essere torturata è l’intera comunità penitenziaria, abbandonata da uno Stato incapace di rispettare la sua propria legalità. Nel corso della sua attività parlamentare, Rita Bernardini ha fotografato le condizioni di degrado del pianeta carcere in dettagliati e articolati atti di sindacato ispettivo. Una lunga teoria di interrogazioni che meriterebbe di essere letta, conosciuta e divulgata. Alcuni di questi atti sono il fedele resoconto delle visite che con regolarità abbiamo dedicato alla Casa circondariale di Potenza. Ed è proprio dalle due ultime ispezioni effettuate nel carcere di via Appia che prende corpo la storia che mi accingo a raccontare. L’interrogazione 4-14401 del 10 gennaio 2012 descrive la realtà di una struttura con numerose criticità, del resto denunciate dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria. Leggiamo, infatti, nel corpo del documento che "al momento della visita - effettuata il 28 dicembre 2011 - erano presenti 170 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 110 posti essendo chiusa perché a rischio crollo la sezione penale". Non solo, nel testo si parla anche della cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria, di una insufficiente assistenza psicologica e infermieristica e di carenze anche per ciò che concerne la presenza di educatori. Nell’atto di sindacato ispettivo si riferisce del coro unanime di lamentele per "il cattivo funzionamento della magistratura di sorveglianza" e si chiede, tra l’altro, al ministero "in che modo e in quali tempi, intenda intervenire per rimuovere lo stato di degrado di alcuni luoghi del penitenziario, degrado dovuto essenzialmente allo scarso budget previsto per la manutenzione ordinaria e straordinaria". Non mancano, e non potrebbe essere diversamente, domande sull’operato della magistratura di sorveglianza e una domanda che verrebbe da definire retorica nella quale la deputata radicale chiede "quali iniziative urgenti intenda adottare" il ministero per ricondurre "le condizioni di detenzione vigenti all’interno dell’istituto penitenziario di Potenza alla piena conformità al dettato costituzionale e normativo". Trascorrono 5 mesi e nel maggio del 2012 Bernardini mi comunica che finalmente il ministero ha risposto. Leggo la risposta e penso che per le disastrate carceri di questo Paese non ci sono soldi anche quando cadono letteralmente a pezzi. Testualmente il ministero afferma che "a causa della riduzione degli stanziamenti sui capitoli di spesa per l’edilizia penitenziaria non è stato possibile eseguire gli interventi di manutenzione relativi alla sistemazione della sala colloqui, del muro di cinta, dei reparti detentivi, al ripristino dell’integrità della copertura del fabbricato, degli impianti termici" e - udite, udite - dell’impianto antincendio! Insomma, con tanto di timbro governativo arriva la conferma della totale illegalità della struttura, che si sposa con l’illegalità certificata da tempo dalla Cedu e dalle denunce radicali sulle condizioni di detenzione. Inevitabilmente ripenso alle parole forti pronunciate nel luglio del 2011 dai direttori penitenziari del Si.Di.Pe., che esprimendosi a sostegno dell’iniziativa radicale volta ad ottenere un provvedimento di amnistia, che è innanzitutto di Amnistia per la Repubblica, scrivevano: "Non ci pongono in condizione di svolgere il nostro lavoro con dignità, nell’effettivo rispetto delle leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate". Decido che nella risposta del ministero c’è materiale da sottoporre all’attenzione della Procura della Repubblica. E così, nel giugno del 2012, prendo carta e penna e invio un esposto-denuncia all’attenzione della dott.ssa Laura Triassi, procuratore capo in quel di Potenza. Alla denuncia allego la risposta data dal ministero all’interrogazione 4-14401, non mancando di sottolineare le notizie di reato che emergono dalla stessa. Un esposto in linea con quell’atto di significazione e diffida che Marco Pannella e Giuseppe Rossodivita hanno indirizzato il 18 settembre del 2013 a tutti i procuratori della Repubblica, ai direttori delle case circondariali, a tutti i magistrati di Sorveglianza. Domenica 19 agosto 2012, ore 12.10. Dopo aver tenuto una conferenza stampa all’ingresso della casa circondariale di Potenza, varchiamo il cancello ed entriamo nuovamente nel carcere. Ci viene comunicato che la capienza regolamentare dell’istituto è stata portata da 170 a 202 posti e la cosiddetta capienza tollerabile da 230 a 260. Sorrido per non piangere di fronte ad un evidente gioco da treccartari. Ci guardiamo attorno e nel complesso la struttura è migliorata rispetto all’ultima visita, ma di tutta evidenza permangono alcune delle situazioni di illegalità sottoposte all’attenzione della procura della Repubblica di Potenza. Nel corso della lunga visita, come sempre cella per cella, incontriamo O.G, un detenuto che ci racconta la sua storia e il suo disagio e che ci dice "tra 110 giorni esco". Ecco, appuntatevi queste iniziali: O.G. Luglio 2014, i deputati radicali sono stati opportunamente fatti fuori dal Parlamento e alla porta della mia abitazione bussa l’ufficiale giudiziario. Dalla busta che mi viene consegnata, che non è quella di un gioco a premi, spunta un decreto di citazione. Leggo con non poca sorpresa che sono stato convocato dalla procura della Repubblica di Catanzaro in qualità di teste, per essere ascoltato in un procedimento penale contro tale O.G., accusato di violazione dell’art. 612 del codice penale. Tradotto: minacce. La situazione assume subito delle connotazioni kafkiane. Inizio ad interrogarmi e proprio non riesco a capire chi possa essere O.G. e dopo due notti insonni mi dico che non ho assistito a nessun episodio di minacce. La cosa che più mi inquieta, soprattutto pensando a come funziona la macchina della giustizia in Italia, è il fatto che nemmeno riesco a capire la convocazione da parte della procura di Catanzaro. Perché Catanzaro? Trascorrono tre mesi e finalmente, qualche giorno fa, ho capito, ho saputo, ho ricostruito a ritroso. O.G. era il detenuto che con Bernardini ho incontrato nel corso della visita del 19 agosto del 2012, o per meglio dire uno tra le centinaia di detenuti che ho incontrato nell’agosto 2012. Era quello disperato, che ci ha raccontato lo strazio di vivere lontano dalla famiglia e dai suoi 4 figli. Ho capito di essere stato convocato dalla procura di Catanzaro in qualità di collaboratore dell’onorevole Rita Bernardini. Con me, nella stessa veste, è stata convocata anche mia moglie. Che strano paese l’Italia! Un paese dove l’obbligatorietà dell’azione penale è un oggetto misterioso, un totem di fronte al quale alcuni si genuflettono e che noi radicali vorremmo abolire, scontrandoci regolarmente con chi ritiene che sia un tabù il solo parlarne, ammesso e non concesso che in questo paese si possa seriamente discutere di riforme della giustizia. Sì, proprio strano: per O.G. è immediatamente scattata l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre della denuncia inviata alla procura di Potenza nel giugno 2012, ad oggi non ho notizia alcuna. Leonardo Sciascia in uno dei suoi racconti più riusciti, "Una storia semplice", cita una frase di Durrenmatt, il suo scrittore preferito. È una frase che leggo spesso e che a conclusione di questa lunga esposizione voglio condividere con chi leggerà questo articolo: "Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia". Chissà, forse anche questa è una "Storia semplice" o forse è semplicemente una storia che racconta di un paese dove la legge, il diritto, i diritti, la Costituzione non hanno più corso e dove la Costituzione materiale ha sostituito da tempo la Costituzione reale. Giustizia: diritti e garanzie nel sistema penale, tra riforme e controriforme di Claudio Figini (Presidente Cnca Lombardia) Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014 Il limite più importante delle riforme in Italia non è solo quello evidente: se ne parla sempre e non si fanno mai; ma è anche quello di avere, persino nei rari periodi in cui l’acqua scaturisce, un respiro tattico e mai un orizzonte strategico. Negli anni 70 sono state realizzate tre importanti riforme relative ai diritti sociali, guidate dalle forti tensioni sociali del periodo. La prima era la legge n. 685 del 1975 sulle droghe, che portava con sé il titolo "Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di dipendenza": il cardine teorico stava nella non punibilità del consumatore e il principale obiettivo era il prendersi cura delle persone con problemi di tossicodipendenza e non la loro chiusura in carcere. In altri termini, lo stato di tossicodipendenza era letto come una situazione da curare sul piano terapeutico ed educativo e non da reprimere sul piano penale. La seconda era la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, che all’articolo 1 recitava: "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona". L’esatto contrario di quello che avveniva prima e che è avvenuto in seguito. La terza era la legge n. 180 del 1978 che all’articolo 1 diceva: "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari" e specificava che i trattamenti obbligatori previsti dalle leggi dovevano avvenire nel rispetto della dignità della persona. Sappiamo com’è poi andata: la legge n. 685 è stata vanificata prima dalla Jervolino-Vassalli e poi dalla Fini-Giovanardi, ispirate da principi di carattere repressivo e stigmatizzante; la legge n. 354 prima dall’emergenza dei cosiddetti "anni di piombo" e, in seguito, dal drastico passaggio, avvenuto a partire dagli anni 90, alla criminalizzazione delle povertà; la terza dalla presenza di piccoli manicomi diffusi e dalla reintroduzione di strumenti come la contenzione fisica e gli elettroshock, rivalutati nel loro presunto valore terapeutico. Quelle tre belle leggi non hanno retto l’urto del passaggio, avvenuto in quasi tutti i paesi dell’Occidente, dallo stato sociale allo stato penale. Il loro respiro strategico è stato cancellato dall’incattivimento di società sempre più individualiste. Negli anni 90 il carcere ha iniziato una vera e propria mutazione antropologica. Da una parte i sepolti vivi del 41bis, la riedizione aggiornata dell’articolo 90 della legge n. 354 del 1975, per gli affiliati di peso, veri e presunti, alla criminalità organizzata; poi un gruppo consistente di detenuti sottoposto all’alta sorveglianza per reati come l’associazione a delinquere, l’associazione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e il sequestro di persona. Al centro, si trova un assembramento di poveri disgraziati, ammassati e sovraffollati in celle senza nulla, se non la disperazione. Sono perlopiù tossici che cercavano droga e stranieri che cercavano cibo o rifugio, ma che hanno trovato davanti a loro solo sbarre. In vent’anni, la popolazione carceraria è più che raddoppiata e le carceri sono diventate il luogo, in senso letterale, dei miserabili: coloro che, costretti al di sotto del livello di povertà, non ce la fanno a sopravvivere. Sono le scorie della globalizzazione. Zygmunt Bauman in Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, ha tracciato le linee del legame forte che unisce l’irrompere della globalizzazione con il grande aumento della popolazione carceraria: negli Stati Uniti, dal ‘75 a oggi, i detenuti sono aumentati del 700%; in Francia alcuni anni fa il direttore dei servizi penitenziari di Parigi, nel corso di un’audizione alla Commissione d’inchiesta sulle condizioni negli istituti di pena dell’Assemblea Nazionale, ha detto che le prigioni sono tornate a essere gli ospedali generali di un tempo: l’auberge des pauvres, il ricovero di ogni categoria di emarginati. Una sintesi efficace della situazione in molti paesi dell’Occidente. Le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione e amplificate dalla crisi sono accompagnate da squilibri sociali sempre più forti, che incidono sulle fasce deboli della popolazione, nei movimenti migratori dal Sud del mondo e all’interno degli Stati dell’Occidente. La povertà disseminata è la vera altra faccia della medaglia della globalizzazione: qui abita il nucleo forte del passaggio dallo stato sociale allo stato penale. In carcere oggi ci stanno soprattutto gli occupanti abusivi. Circa un detenuto su quattro, quando termina la pena, non sa dove andare: i cambiamenti veloci e traumatici della società lasciano sul terreno delle vittime incolpevoli, i poveri, e delle vittime colpevoli, i disperati che compiono reati per fame di cibo o di droga. Giustizia: diritti e garanzie nel sistema penale, la situazione e i numeri delle carceri di Claudio Figini (Presidente Cnca Lombardia) Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014 Al 31 dicembre 2013 i detenuti in Italia ammontavano a 62.536, a fronte di una capienza regolamentare, secondo il ministero della Giustizia, di 47.709 posti. Una ricettività smentita da associazioni come Antigone e A buon diritto, che parlano di una capienza non superiore a 40.000 posti. Il sovraffollamento è determinato dal numero elevato di ingressi in carcere, dalla difficoltà per molti a fruire delle misure alternative e dagli insufficienti luoghi di accoglienza una volta terminata la pena. Troppe persone entrano in prigione per la presenza di leggi carcerogene. In particolare, la Bossi-Fini, che condanna al carcere gli immigrati che non rispondono al decreto di espulsione; la Fini-Giovanardi, che unisce tutte le sostanze in un’unica tabella e mette chi le detiene nella condizione di dover dimostrare che si tratta di uso personale; la ex Cirielli, che, negando le attenuanti generiche per i recidivi, in particolare per reati di piccolo conto, contribuisce in maniera drammatica a riempire le prigioni senza dare alcuna possibilità di inserimento sociale a chi ne ha più bisogno. Ora, la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi e il Parlamento ha abolito il reato di clandestinità: gli effetti si sono visti subito con il passaggio da 60.197 detenuti a marzo 2014 a 54.414 al 31 luglio 2014. Entrando nel merito dei reati per cui le persone sono in carcere, 33.965 detenuti (di cui 9.752 stranieri) sono accusati o condannati per reati contro il patrimonio; 24.273 (di cui 9.343 stranieri) per violazione della legge sulle droghe; 23.897 (di cui 7.375 stranieri) per reati contro la persona. I detenuti per violazione della legge sulle droghe sono oltre un terzo del totale, a fronte del 15% della media europea. In Germania, vi sono ottomila detenuti per violazione della legge sulle droghe e ottomila per reati di carattere finanziario e fiscale; in Italia quasi venticinquemila per droga e 156 per reati finanziari e fiscali… Le stime più selettive sostengono che almeno un sesto dei detenuti nelle carceri italiane è tossicodipendente o con problematiche connesse al consumo/abuso di droghe. Utilizzando questo parametro, si arriva a oltre 10.000 detenuti con problemi di tossicodipendenza, buona parte dei quali potrebbe accedere a misure alternative. Sì, perché in teoria, ci sono diverse possibilità per le persone tossicodipendenti e alcoldipendenti che si trovano in carcere, in attesa di giudizio o condannate in via definitiva, per poter beneficiare di opportunità alternative allo stato di detenzione: affidamento terapeutico, affidamento provvisorio in attesa di camera di consiglio, detenzione domiciliare, arresti domiciliari. In pratica, la situazione è molto più complessa. Molti detenuti non escono dal carcere anche se ne avrebbero diritto. I motivi della parziale applicazione del dispositivo legislativo sono molteplici: la scarsa informazione tra i carcerati (in particolare stranieri); la parziale assenza di copertura giuridica da parte degli avvocati difensori; l’esiguità temporale di molte condanne; il debole investimento dei servizi; la scarsa dotazione di risorse umane e finanziarie; la propensione delle Asl a spendere poco in questo tipo di settore; l’esiguità delle rette riconosciute alle comunità terapeutiche in molte Regioni; la fatica di molte comunità ad accogliere persone provenienti dal carcere; l’orientamento della magistratura di merito e di buona parte della magistratura di sorveglianza, teso a privilegiare, oltre alla detenzione in carcere, gli arresti domiciliari e la detenzione domiciliare in comunità terapeutica, all’interno di una logica e di un trend sempre più restrittivi. Questo stato di fatto comporta che migliaia di detenuti tossicodipendenti e alcoldipendenti siano attualmente in carcere, quando potrebbero fruire di percorsi di cura all’esterno. Oggi la riforma del sistema carcerario s’impone per la paura delle sanzioni europee. La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013, conosciuta come sentenza Torreggiani, condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, vale a dire per trattamenti inumani e degradanti. Alla Corte Europea avevano fatto ricorso sette detenuti che disponevano di meno di tre metri quadrati per cella come spazio personale. Una situazione che riguardava migliaia di loro e che avrebbe comportato una sanzione di circa quattro miliardi di euro se non adeguatamente affrontata, come più volte dichiarato dalla ministra Cancellieri a capo del Ministero della Giustizia durante il Governo Letta. Giustizia: mossa dell’Anm contro la riforma, assemblea urgente del sindacato delle toghe di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 12 ottobre 2014 Un’assemblea generale, "straordinaria e urgente", convocata per domenica 9 novembre: è questa la mossa decisa ieri, all’unanimità, dal comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. E al primo punto ci saranno "le iniziative da intraprendere a seguito degli interventi governativi in tema di status dei magistrati". Tradotto: la riforma della giustizia del governo non piace affatto all’Anm ("annunciata e realizzata in diretta televisiva senza interloquire con le categorie, non è per niente rivoluzionaria") e così anche la scelta della data, il 9 novembre, cioè proprio a ridosso dell’appuntamento parlamentare per la conversione in legge del decreto, non è casuale. Durissima la relazione, ieri, del presidente Rodolfo Sabelli, che, polemizzando a distanza con Renzi, ha detto basta "a inutili provocazioni, come il ritornello che l’Anm avrebbe protestato contro il tetto stipendiale massimo e avrebbe considerato la riduzione delle ferie alla stregua di un attentato alla democrazia". Solo "favole", "slogan", "luoghi comuni" e "veri e propri falsi" sulla "nostra presunta inefficienza", "smentiti dai dati statistici". A questo proposito, Sabelli ha voluto sottolineare "la produttività della magistratura italiana ai livelli massimi in Europa, con oltre 2 milioni e 800 mila cause civili e oltre un milione e 200 mila procedimenti penali definiti in un solo anno". Il segretario generale di Anm, Maurizio Carbone, ha rincarato la dose: "Non sono in vacanza i magistrati, è la politica che è in vacanza da tempo perché non mette mano ai problemi veri, come abolire le leggi ad personam in materia di prescrizione e falso in bilancio". Mentre Sabelli ha auspicato modifiche all’emendamento del governo sulla legge per il rientro dei capitali e ha criticato il "semplice ritocco" della disciplina attuale della prescrizione contenuto nella riforma. A stretto giro di posta, comunque, è arrivata la replica del ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Il rimprovero di non aver riformato la prescrizione utilizzando il decreto non me l’aspettavo, perché credo che i primi a sapere che si tratti di una via impercorribile siano proprio i magistrati, che meglio di me conoscono l’ordinamento". "Onestamente - ha aggiunto Orlando - in alcuni casi si tratta di critiche non condivisibili e non condivise perché per esempio oggi gli avvocati hanno dato un giudizio molto diverso sul processo civile: valutazioni, quelle dell’Anm, che tralasciano il fatto che accanto al decreto c’è anche una delega che affronta complessivamente il riordino del processo". "Ad un ping pong di polemiche - questa la chiusura amara del Guardasigilli - preferisco fare e rispondere con i provvedimenti". Giustizia: Anm; falsa nostra inefficienza, piuttosto si investano più risorse nel personale Adnkronos, 12 ottobre 2014 "Sono veri e propri falsi i luoghi comuni sulla nostra presunta inefficienza e irresponsabilità. Sono smentiti da dati statistici: la nostra è la magistratura più produttiva d’Europa. Il vero problema è che c’è carenza di risorse. Siamo consapevoli che chiedere investimenti in questo periodo può sembrare una provocazione, ma è un problema di scelta su come le risorse vanno investite, non su quante". Lo ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, a margine della riunione del comitato direttivo centrale, in corso a Roma. Le valutazioni espresse dai magistrati dell’Associazione ritornano sui punti già evidenziati nei giorni scorsi: "Noi non siamo contrari - ha continuato Sabelli - agli strumenti deflattivi, ma questi rischiano di essere troppi, costosi e male armonizzati fra loro e con le regole del processo. Un progetto della riforma della responsabilità civile, inoltre, mortificherebbe il ruolo del magistrato e ne comprimerebbe l’indipendenza e la libertà di interpretazione". Per quanto riguarda la materia penale, "pochi giorni fa il governo ha presentato un emendamento alla legge sul rientro dei capitali, con cui introduce il reato di auto-riciclaggio; ci siamo già espressi sui limiti di questa misura e confidiamo in modifiche nel corso dell’esame parlamentare". Quanto alla riforma della prescrizione, "il governo sembra avviarsi verso un semplice ritocco della disciplina attuale anziché all’auspicata radicale destrutturazione che includa, fra l’altro, la sospensione almeno dopo la sentenza di primo grado. Le riforme processuali, poi - ha detto ancora Sabelli - non sembrano tali da poter imprimere una svolta decisiva a una giustizia penale in affanno. Va riconosciuta un’attenzione positiva al problema del trattamento penitenziario è la presa d’atto da parte del governo dell’impegno a evitare derive punitive sul tema della responsabilità civile. Confidiamo che ci si possa sedere attorno a un tavolo per trovare soluzioni condivise: vogliamo le riforme ed evitiamo polemiche pretestuose e chiusure corporative. Respingiamo le offese e difendiamo il nostro decoro, in coerenza con il nostro rango costituzionale. Sulla difesa dei valori costituzionali e della funzione giurisdizionale, però, non potremo mai cedere", ha concluso Sabelli. Marino (Oua): 5 richieste al ministro Orlando "Ringrazio il ministro per aver accettato l’invito e per come ha portato avanti il confronto con l’Avvocatura sui temi caldi della riforma del processo civile": così Nicola Marino, presidente dell’Organismo Unitario dell’ Avvocatura, al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che è intervenuto questa mattina all’ultima giornata del XXXII Congresso Nazionale Forense in corso a Venezia. Cinque le richieste che il presidente Oua ha rivolto al ministro: reinvestimento di tutte le risorse del settore Giustizia (e del contributo unificato) nella Giustizia stessa; reclutamento di una task force di avvocati e magistrati per smaltire l’arretrato nel processo civile; la redazione di un testo unico sul processo civile telematico che con poche norme ne chiarisca il regolamento; la possibilità, da parte degli avvocati che fanno parte dei Consigli Giudiziari, di valutare il comportamento dei magistrati togati; mantenere un osservatorio permanente sulla giurisdizione avvocati-ministero. Giustizia: Orlando; servono almeno mille operatori in più per le cancellerie dei tribunali Ansa, 12 ottobre 2014 "È chiaro che non toglieremo un euro dal processo civile telematico, non taglieremo il vitto dei detenuti, né le risorse per il personale di cancelleria". Lo detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Congresso forense di Venezia, aggiungendo che "sul resto vanno fatti sacrifici, prevedendo ad esempio norme per una più rapida allocazione dei magistrati, per la copertura degli uffici e per i loro trasferimenti, con un rapporto da subito costruttivo col nuovo Csm". Orlando si è quindi soffermato sul tema, definito "fondamentale" delle risorse umane del personale di cancelleria. "È l’emergenza delle emergenze - ha detto: nessun tipo di riforma sta in piedi se, nei prossimi anni, non saremo in grado di reclutare almeno mille persone in questo ambito". "Era un tema difficile da mettere all’interno del decreto sulla degiurisdizionalizzazione: il suo ambito naturale è la legge di stabilità e vedremo di inserirvi la questione, che è una battaglia cruciale per dare respiro al sistema". Sul tema delle risorse, il ministro ha spiegato: "abbiamo le carte in regola per chiedere fondi, ma in realtà chiederemo poco, perché vogliamo introdurre il meccanismo che lega la capitalizzazione del fondo non a finanziamenti a fondo perduto, ma ai risparmi derivanti da procedimenti portati avanti attraverso forme alternative". Al riguardo, Orlando ha ricordato come "la prima introduzione del processo telematico, che è partito in tutto il Paese, nonostante molti scommettessero su una catastrofe", ha consentito un risparmio di 55 milioni di euro. "Nel 2012 - ha concluso - questo dato non c’era e, pur sapendo che le performance possono migliorare, è comunque un fatto che ci permette di andare avanti. Senza introdurre nuove forme di giustizia, questo è impossibile: sappiamo che manca tantissimo, ma se non si comincia da qualche parte, non si arriva mai". Sicilia: Sappe; la Regione è terza in Italia per presenza di detenuti, sono oltre 6.000 Ansa, 12 ottobre 2014 "La Sicilia resta la terza regione d’Italia, dopo Lombardia e Campania, per presenze di detenuti. Erano 6.054 il 30 settembre scorso, circa mille in meno rispetto alla stessa data dello scorso anno quando erano 6.987. Per fortuna delle istituzioni, gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio nelle carceri delle Sicilia e dell’intero Paese con professionalità". Così il sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. Il leader del sindacato, Donato Capece, nei prossimi giorni visiterà le carceri di Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Catania, Augusta e presiederà mercoledì, a Piazza Armerina, il Consiglio regionale Sappe. Gli eventi critici che si sono verificati nelle carceri siciliane nel primo semestre dell’anno, secondo i dati del Sappe, sono 268 atti di autolesionismo, 46 tentati suicidi, 3 decessi per cause naturali; più di 2.300 i detenuti coinvolti in manifestazioni per l’indulto e l’amnistia o contro le condizioni di detenzione; 39 ferimenti e 239 colluttazioni. Sardegna: Prap, Uepe e Minorile a Buoncammino; Cspa-Cara in scuola Polepen Monastir Ristretti Orizzonti, 12 ottobre 2014 "Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha già comunicato al Ministro l’intenzione di dismettere la Scuola di formazione del personale penitenziario di Monastir per far posto al Cspa-Cara (Centro di Soccorso e Prima Accoglienza e Centro Soccorso Richiedenti Asilo) mentre gli Uffici e i giovani dell’Istituto Minorile di Quartucciu troveranno posto a Buoncammino. Nell’ottocentesca struttura si aggiungeranno a quelli del Provveditorato e dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", evidenziando che "la determinazione lascia perplessi anche perché sembra escludere il Comune di Cagliari da qualunque possibilità di utilizzo museale dell’edificio ottocentesco ubicato sul panoramico Colle di San Lorenzo". "L’intenzione del Dap, comunicata nei giorni scorsi alla Prefettura cagliaritana impegnata peraltro a individuare una nuova struttura idonea per Cspa-Cara, significa - sottolinea Caligaris - un notevole risparmio sulle spese ma a discapito innanzitutto degli Agenti della Polizia Penitenziaria della Sardegna. La Scuola infatti non ha solo il compito di preparare coloro che intendono diventare agenti, sottufficiali o ufficiali di Polizia Penitenziaria, ma anche il personale civile effettivo dell’Amministrazione. La chiusura della sede alle porte del capoluogo dell’isola comporterà insomma dei disagi. Il Poligono di Tiro invece sarà dislocato altrove, presumibilmente in un’area demaniale". "Ciò che sorprende tuttavia è la necessità di concentrare tutto nella storica Casa Circondariale dove le condizioni logistiche non sono ottimali proprio per la vetustà dell’edificio che necessita di importanti lavori di adeguamento. Tra le problematiche che dovranno essere affrontate anche quelle dell’accessibilità degli Uffici Uepe aperti al pubblico e dei ragazzi del Minorile. Questi ultimi sono sempre molto pochi ma ciò non toglie che questo luogo di permanenza - conclude la presidente di Sdr - non sembra davvero ideale". Sassari: Asinara, commenti negativi all’ipotesi di un penitenziario per i detenuti 41-bis La Nuova Sardegna, 12 ottobre 2014 Le prime reazioni di un ritorno al passato, cioè di ripristinare all’Asinara un penitenziario di massima sicurezza per i detenuti in regime di 41-bis, sono tutte negative. Sia dal mondo politico che da quello forense arrivano infatti solo critiche e preoccupazioni al progetto allo studio del pool di esperti di Palazzo Chigi. "Fuori dalla storia e da ogni logica": l’ha definita così Antonello Peru (Fi), vice presidente del consiglio regionale, la proposta di riaprire il supercarcere dell’Asinara per accogliere - come in passato - i detenuti sottoposti al 41bis. Il ragionamento della commissione tecnica - della quale fanno parte i magistrati Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita - che fa riferimento direttamente alla presidenza del consiglio dei ministri, qualche preoccupazione però la sta creando (e non solo in Sardegna). "Invitiamo il presidente Pigliaru a contestare con il massimo sdegno, prima che venga presa una decisione sopra le nostre teste - ha concluso Peru - è una ipotesi vergognosa". E sulla vicenda è intervenuto ieri l’avvocato Francesco Lai, componente della giunta dell’unione Camere penali italiane. "La notizia riguardante la possibile riapertura del carcere dell’Asinara - ha detto - costituisce l’ultima indiscrezione proveniente dai lavori della commissione istituita dal premier Matteo Renzi e presieduta da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, a cui sarebbe demandata l’elaborazione di riforme in tema di giustizia. Di cosa si occupi in concreto questa commissione non è dato sapere. Certo è che una delle questioni oggetto di intervento in chiave riformatrice parrebbe essere proprio quella dell’edilizia penitenziaria, rispetto alla quale la Sardegna, suo malgrado, recita un ruolo di protagonista". L’avvocato Lai ricorda che "sul carcere di Fornelli, sulla sua possibile nuova apertura e destinazione ai detenuti in regime di 41bis dell’Ordinamento penitenziario, si dibatte pressoché ciclicamente per poi archiviare l’argomento relegandolo alla stregua di un temporale di agosto". Ma non sempre è così. "In questo caso, tuttavia - continua l’avvocato Lai - preoccupa l’idea che la riapertura del carcere dell’Asinara non venga più ipotizzata come atto in sé, ma si innesti in un complessivo disegno di riordino della geografia carceraria che vorrebbe concentrare la presenza dei ristretti in regime di "carcere duro" in alcune zone che, naturalisticamente, meglio di altre si presterebbero ad ospitarli perché difficilmente raggiungibili e dunque meno esposte a possibili contatti con l’esterno". Secondo il rappresentante della Camere penali, "se un simile progetto prendesse corpo, ad essere violato sarebbe, ancora una volta, il principio della territorialità della pena e con esso si assisterebbe ad un’inaccettabile compressione dei diritti di difesa. Si pensi al sacrificio richiesto al difensore di un detenuto calabrese o siciliano che dovrebbe arrivare all’Asinara per sostenere un colloquio con il proprio assistito, nel pieno esercizio di prerogative costituzionalmente date". Anche per Francesco Lai, parlare di riapertura del super carcere, anche solo come esercizio dialettico, "rappresenterebbe, per la civiltà giuridica italiana, un salto all’indietro di parecchi anni di cui, francamente, non si avverte la necessità. Non si dimentichi che in Sardegna si è investito tanto, per la costruzione di nuovi istituti, quando forse sarebbe stato meglio destinare risorse verso altri settori più bisognosi di attenzione da parte della politica. Non è con la realizzazione di nuove carceri che si risolve il problema del sovraffollamento". "Costi esorbitanti per riportare i mafiosi" "Con la stessa frequenza con la quale Eni annuncia l’inizio delle bonifica di Minciaredda, arriva la notizia della possibile riapertura del carcere sull’isola della Asinara: il progetto per i detenuti col 41 bis si riaffaccia con una certa periodicità, ma è una proposta che guarda ad un nostalgico passato e denotano una scarsa conoscenza dell’isola". Questo il primo commento dell’ex sindaco Luciano Mura in merito all’interesse governativo di riproporre un carcere di massima sicurezza all’Asinara, ricordando che l’isola carcere venne chiusa - più che per particolari sensibilità ambientali - per i costi esorbitanti per raggiungerla e per gestirla: mi pare che le condizioni economiche del paese siano solo peggiorate, ma indipendentemente dalle valutazioni economiche oggi l’isola vive una altra storia che nessuno può permettersi di cambiare, ed è fatta di progetti importanti legati al Parco e al rilancio turistico". Il primo presidente del Parco nazionale dell’Asinara, Eugenio Cossu, usa invece metafore storiche: "Se lo Stato, o chi lo rappresenta, decide un’azione di forza, dovrebbe fare come Umberto I quando ha cacciato i "sinnarischi" e ha requisito l’Asinara: l’ex re è morto da tempo, e oggi l’isola è Parco nazionale voluto da tutti i sardi e dai portotorresi i particolare sin dal primo convegno del 1966. Non siamo disponibili a rinunciarci, insomma, pur con tutti i problemi che ancora sussistono". Teramo: il Sinappe; fallimentare la gestione del carcere di Castrogno Il Centro, 12 ottobre 2014 Il Sinappe torna sulle condizioni del carcere di Castrogno. Il coordinatore regionale del sindacato Sinappe degli agenti di polizia penitenziaria Giampiero Cordoni denuncia uno stato che definisce fallimentare della gestione del carcere di Castrogno. Sotto accusa, per il sindacato, l’organizzazione del lavoro e una presunta mancanza di condivisione tra direttore e comandante, che provoca precarietà quotidiana che si riflette sul personale. Cordoni sottolinea "ritardi nella stesura delle "sintesi" che hanno effetto sulla concessione dei benefici ai detenuti", ma parla anche di "un’area sanitaria del penitenziario piena di offerte specialistiche solo sulla carta che hanno l’unica effetto di portare a Castrogno più detenuti". Il coordinatore regionale, annunciando di aver chiesto un incontro all’ispettore regionale, pone l’accento anche alle condizioni strutturali del carcere, che definisce "fatiscente e senza manutenzione, con condizioni igieniche precarie". "Non vediamo altra possibilità di soluzioni", conclude Cordoni, "se non denunciare costantemente e ai massimi livelli i rischi del probabile prossimo collasso di tutta la struttura di Castrogno". Lecco: situazione carceri, domani i Consiglieri regionali in vista a Pescarenico www.lecconotizie.com, 12 ottobre 2014 La Commissione Speciale sulla situazione carceraria in Lombardia", presieduta da Fabio Fanetti (Maroni Presidente), prosegue i sopralluoghi nelle strutture carcerario lombarde e lunedì la delegazione composta dal presidente, dai consiglieri Paola Macchi (M5S) e Raffaele Straniero (Pd) e dall’Assessore allo Sport Antonio Rossi, visiterà la Casa circondariale di Lecco (via Cesare Beccaria 9) a partire dalle 10.30. La visita terminerà, dopo l’incontro con il direttore della struttura, dott. Antonina D’Onofrio, intorno alle 12.30. Nel pomeriggio la Commissione sarà a Vigevano per la visita alla Casa Circondariale (via Gravellona 240) e l’incontro con il direttore dott. Davide Pisapia. La delegazione sarà composta da Fabio Fanetti, Paola Macchi e Giuseppe Villani (Pd). Orvieto: sorpresa mentre porta la droga in carcere al suo compagno, denunciata Corriere dell’Umbria, 12 ottobre 2014 Gli agenti della polizia penitenziaria di Orvieto, guidati dal commissario Enrico Gregori hanno brillantemente rinvenuto e sequestrato hashish ed eroina alla convivente di un detenuto, giunta da Terni al carcere di Orvieto per far visita al proprio congiunto. La signora poco più che quarantenne, aveva abilmente occultato nelle parti intime un involucro rivestito in cellophane contenente sostanza successivamente identificata come eroina e hashish. L’intervento è stato eseguito nel corso di una operazione di polizia volta alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope predisposto all’ingresso dei familiari ammessi ai colloqui con i detenuti. La donna è stata denunciata per "detenzione aggravata ai fini di spaccio di sostanza stupefacente". "Al comandante Gregori - si legge in una nota - e al personale che ha condotto l’operazione, va il ringraziamento, la stima e la gratitudine del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. L’episodio porta di nuovo alla ribalta il tema delle gravi carenze organiche della polizia penitenziaria e la mancanza di risorse economiche volte alla repressione del fenomeno dell’introduzione di droghe all’interno delle carceri; infatti il sequestro di sostanze operato al carcere di Orvieto è il quarto negli ultimi mesi, segno incontrovertibile che il fenomeno dilaga anche in conseguenza dei mancati controlli da parte delle unità cinofile, insufficienti sul territorio per garantire controlli frequenti e mirati. Non solo, il problema della carenza organica, vista la difficoltà di reperire un congruo numero di agenti nelle giornate di colloquio, rende perfino problematico (ad Orvieto ed in tutti gli altri istituti dell’Umbria) organizzare un adeguato servizio di repressione; per questo motivo va ancora più apprezzato il risultato ottenuto". Siena: un convegno sulla formazione universitaria in carcere, nell’Ateneo già 26 iscritti www.gonews.it, 12 ottobre 2014 Un approfondimento sul ruolo della cultura e della formazione universitaria nei percorsi di riabilitazione e recupero dei detenuti è l’obiettivo dell’incontro che il Circolo Anpi di Ateneo "Carlo Rosselli", il Comune e l’Università di Siena, con il patrocinio della Regione Toscana, organizzano per mercoledì prossimo, 15 ottobre, alle ore 15, a Palazzo Patrizi (via di Città, 75). L’assessore alle Politiche sociali del Comune di Siena, Anna Ferretti aprirà i lavori, che saranno coordinati da Fabio Mugnaini, responsabile del Polo per la didattica in carcere dell’Università di Siena. L’intervento centrale è affidato a Franco Corleone, oggi garante dei diritti dei detenuti per la Regione Toscana; seguiranno i commenti di Saverio Migliori, segretario del Polo universitario penitenziario regionale; Antonio Vallini, giurista dell’Università di Firenze e responsabile del Polo fiorentino; Andrea Borghini, sociologo, responsabile del Polo pisano; infine, di Carmelo Cantone, Provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria L’ateneo senese, per l’anno accademico appena iniziato, conta ben 26 iscritti al carcere di Ranza-San Gimignano e uno ad Arezzo, distribuiti su vari corsi di laurea triennali e magistrali, e svolge la sua funzione grazie alla collaborazione del personale universitario, docente e amministrativo, e di studenti tutor, ponendosi come partner di molte altre istituzioni per realizzare l’importante funzione di recupero sociale e di riabilitazione che la Costituzione affida alla pena detentiva. L’appuntamento è aperto al pubblico a ingresso libero e sarà seguito da una cena all’Orto de Pecci: per prenotazioni 0577.222201. Per ulteriori informazioni, contattare Fabio Mugnaini dell’Università di Siena, e-mail mugnaini@unisi.it, o Giovanna Giorgetti del Circolo Anpi di Ateneo all’indirizzo giorgetti65@gmail.com. Immigrazione: "Ci massacrano"… le urla di aiuto dal Cie di isola Capo Rizzuto di Simona Musco Il Garantista, 12 ottobre 2014 Una attivista ha raccolto la denuncia di un gruppo appena arrivato dalla Siria. Siamo a Guantánamo! Non abbiamo mangiato durante la traversata e adesso siamo in sciopero della fame. Si stanno comportando con noi come se fossimo dei cani! Hanno svegliato un ragazzo colpendolo, ora ci stanno prendendo uno ad uno, hanno un atteggiamento mafioso… urlano, i bambini piangono". Sono frasi raccapriccianti raccolte da un video, che non ha immagini ma solo la voce impaurita di un uomo siriano, sbarcato venerdì a Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Quel video è il tentativo disperato di lanciare un allarme, che è arrivato tra le mani di un’attivista per i diritti umani di "Informare per davvero". Lei si chiama Nawal Syriahorra, fa l’interprete ed è la prima a ricevere il messaggio disperato di quell’uomo senza nome e senza volto. "Venerdì pomeriggio sono stata contattata da uno dei familiari dei migranti. La loro imbarcazione si è arenata vicino ad uno scoglio - racconta al Garantista. Ho segnalato la cosa al comando generale di Roma, che ha subito lanciato l’allarme. I migranti sono stati portali in salvo dalla guardia costiera e poi sono stati condotti al Cie di Isola Capo Rizzuto". La disperazione del lungo viaggio dei migranti siriani, però, non finisce così. La tanto sognata accoglienza diventa presto un incubo o almeno questo è il messaggio che dalla Calabria arriva fino a Catania, dove Nawal si trova e da dove cerca di far girare l’allarme. "Dopo ima settimana di traversata senza cibo né acqua il primo pensiero della Polizia è stato quello di prendere le impronte digitali - racconta ancora Nawal. Uno dei ragazzi che stavano lì seduti, da quanto mi è stato raccontato, ha detto di voler continuare il proprio viaggio fino in Germania e a quel punto è stato colpito dalla Polizia. Sono stati presi uno per uno e fatti entrare in una stanza. Mi sono stati inviati dei messaggi audio in cui si sentono i bambini piangere, perché la Polizia continuava a ripetere, con l’aiuto di un interprete, che avrebbero identificato tutti con l’uso della forza". In quel gruppo di migranti, arrivati in 124 su un peschereccio dopo esser partiti dalla Turchia, ci sono anche 32 donne e 21 bambini. Qualcuno ha un cellulare e decide di denunciare quanto sta accadendo: accende la videocamera, registra tutto senza farsi vedere e lo invia a Nawal. Che sente le false promesse della Polizia: "Stamattina (ieri per chi legge) hanno promesso che dopo l’identificazione li avrebbero lasciati continuare il viaggio e che in Germania avrebbero accolto la loro richiesta d’asilo, cosa impossibile. Stanno mentendo ed è gravissimo", sottolinea ancora la donna. Per convincerli i poliziotti avrebbero sottolineato che, contrariamente a quanto accade in Libia, "qui non sparano". E così i migranti hanno cominciato lo sciopero della fame, "mentre la detenzione continua e non verranno rilasciati prima di cinque giorni - insiste Nawal. Ho detto a tutti loro di tenere i telefoni in mano per documentare i pestaggi ma sappiamo benissimo che in questi casi non lo si fa davanti a tutti. È successo in Sicilia l’anno scorso, è successo ancora a Crotone". Ma i migranti denunciano anche una condizione igienico-sanitaria pessima, con i pavimenti e i bagni del centro sudici e al limite della decenza. "Nel video che ho ricevuto si sente dire ad un uomo che vuole essere riportato in Siria, che i poliziotti si comportano da razzisti", conclude l’attivista, che in queste ore sta cercando di comprendere meglio la situazione. Già nel 2012 il centro del crotonese fu teatro di una rivolta drammatica da parte dei migranti e di una risposta durissima degli agenti. Ma poi una sentenza coraggiosissima rovesciò i luoghi comuni: "La rivolta del Cie di Isola del 2012 fu legittima difesa". Non lo disse un discepolo della disobbedienza civile ma un giudice, un giudice dello sperduto Tribunale di Crotone. Una sentenza senza precedenti, quella siglata da Edoardo d’Ambrosio, che non solo assolse tre migranti che si erano barricati nel Cie di Isola capo Rizzuto respingendo a mattonate gli assalti delle forze dell’ordine, ma nello stesso tempo condannò uno Stato torturatore che aveva tolto dignità e sottratto i più elementari diritti umani a tre persone. I tre erano stati arrestati in varie zone d’Italia e portati lì solo perché privi di documenti. Senza nessuna spiegazione o sentenza i tre rimasero segregati lì dentro per più di un mese. A quel punto si ribellarono e la reazione dei secondini fu durissima. Ma il giudice D’Ambrosio, mesi dopo, diede loro ragione. E le motivazioni di quella sentenza sono un inno alla libertà e al diritto alla ribellione: "Le condotte addebitate agli imputati si sono dimostrate orientate esclusivamente a manifestare una protesta contro coloro che, ai loro occhi e nelle circostanze concrete dei luoghi, erano i responsabili di quella loro condizione (il personale di vigilanza del Centro e le forze dell’ordine); la protesta fu posta in essere nell’unico modo che - in tali circostanze - poteva essere efficace: ossia l’impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del Centro. Né può ritenersi che gli imputati avrebbero potuto porre in essere forme di protesta passiva, come, ad esempio, lo sciopero della fame, dato che uno Stato laico di diritto non si può sostituire ad una scelta di valori (quali quelli da porre in conflitto rispetto alla condotta aggressiva subita) che compete esclusivamente all’agente". D’Ambrosio, nella sua sentenza, descrive il centro al pari di un lager: materassi e bagni luridi, pasti consumati a terra e di altre "amenità". Una situazione tanto più grave - scrive - se si considera che "sono state costrette ad abbandonare i loro Paesi di origine per migliorare la propria condizione". Dunque, ribellarsi era un loro diritto. Assolti perché il fatto non sussiste. Medio Oriente: sono 6.200 i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane www.infopal.it, 12 ottobre 2014 L’associazione per il Supporto dei Prigionieri e per i Diritti Umani Addameer ha riferito che fino a settembre 2014 c’erano 6.200 prigionieri politici palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, inclusi 500 prigionieri amministrativi e 29 legislatori. Secondo il rapporto di Addameer, 18 prigioniere sono tenute nei centri di detenzione israeliani. Si stima che i bambini detenuti siano 201, 23 dei quali di età compresa fra i 14 e i 16 anni. Si contano anche 351 prigionieri provenienti dalla Gerusalemme occupata, 100 dalle terre occupate del 1948 e 384 dalla Striscia di Gaza. 476 prigionieri stanno scontando l’ergastolo e 463 una sentenza superiore ai 20 anni. 15 prigionieri hanno attualmente scontato oltre 25 anni, mentre altri 30 ne hanno scontati più di 20. Iran: l’Ayatollah Khamenei decreta l’amnistia per 1.256 detenuti per Festa del Sacrificio Agi, 12 ottobre 2014 In Iran annunciata un’amnistia per l’11 ottobre. A dare la notizia il leader Supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei in occasione dell’Eid al-Adha (Festa del Sacrificio) e le vacanze di Eid al-Ghadeer. La decisione è scaturita da una richiesta del Procuratore generale, Sadeq Larijani Amoli che in una lettera indirizzata all’Ayatollah Khamenei chiedeva, in occasione di queste feste, un’amnistia. La grazia dovrebbe riguardare 1.256 detenuti. Egitto: condannati a 15 anni di prigione tre leader dei Fratelli musulmani Nova, 12 ottobre 2014 Tre leader dei Fratelli musulmani, Mohamed al Beltagy, Safwat Hegazi e Ahmed Mansour, presentatore dell’emittente televisiva "Al Jazeera", sono stati condannati oggi a 15 anni di prigione per aver aggredito e rapito un avvocato in piazza Taharir durante le rivolte del 25 gennaio 2011 contro il regime di Hosni Mubarak. Il tribunale penale di Giza ha anche condannato quattro dirigenti dei Fratelli Musulmani, tra cui l’ex ministro della Gioventù Osama Yassin e il capo della commissione Affari legislativi del parlamento, Mahmud al Khodiry, a tre anni di carcere per il loro coinvolgimento nello stesso caso.