Giustizia: sovraffollamento delle carceri, quali regole seguire? di Ines Tabusso Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2014 Il sovraffollamento delle nostre carceri era stato all’origine della decisione del giudice Riddle, della Westminster Magistrates’ Court di Londra, che, nel marzo scorso, aveva negato l’estradizione di Domenico Rancadore, condannato in Italia nel 1999 per associazione mafiosa ed estorsione. Per un grave errore della Procura della Corona, che non ha rispettato i termini previsti per espletare le formalità relative alla proposta d’appello, Rancadore si è ritrovato di nuovo libero e il procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato, ha dovuto formulare una nuova richiesta di estradizione contenente ulteriori garanzie ed assicurazioni. Rancadore è stato quindi riarrestato e liberato dietro cauzione con l’obbligo di indossare il braccialetto elettronico: dovrà ripresentarsi in tribunale il 21 ottobre per un’udienza nel corso della quale verrà ascoltato un esperto, nominato dalla difesa, sulle condizioni delle carceri italiane. Sarà inoltre presentata entro domani una relazione sullo stesso argomento da esaminare prima dell’udienza. L’avvocato di Rancadore, Alun Jones, noto per aver difeso le ragioni della Spagna nella richiesta di estradizione del generale Pinochet, aveva nominato come esperto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che, citato nella sentenza del giudice Riddle, fa riferimento ai parametri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i famosi 3 metri quadri a persona ("for the Echr cell space of less than 3 square metres for any prisoner in any case means a violation of article 3") per poi riportare e confutare un dato ufficiale italiano sulla capacità complessiva delle nostre carceri ("The official accommodation capacity is 47.615, but Antigone believe the true capacity is 37.000"). Vale la pena osservare che il dato ufficiale italiano citato da Gonnella è stato presumibilmente calcolato secondo i parametri italiani, che però sono diversi da quelli europei. Sulla base di quali criteri viene elaborato il dato della capienza complessiva del sistema penitenziario italiano, pubblicato dal ministero della Giustizia? Sentiamo Alessandro Albano e Francesco Picozzi, funzionari dell’Amministrazione penitenziaria che hanno rilevato l’esistenza di "una certa confusione in merito al concetto di sovraffollamento carcerario": "Il problema" spiegano gli autori in un loro contributo "sorge in quanto la nostra normativa nazionale non stabilisce quale sia la superficie regolamentare degli ambienti detentivi né prevede alcuna regola sulla determinazione della capacità ricettiva degli istituti penitenziari". Quindi "nel silenzio del Legislatore, l’Amministrazione penitenziaria calcola la capienza delle camere di pernottamento "secondo un parametro [...] in base al quale le celle "debbono avere una superficie minima di mq 9, se per una persona, e di mq 14, se per due persone". Si tratta, però, di parametri concepiti per le camere da letto delle abitazioni civili e non per le carceri, utilizzati faute de mieux dall’Amministrazione penitenziaria, dunque non giuridicamente vincolanti". Il parametro della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stato invece "elaborato con specifico riferimento alle carceri e, data la peculiare natura delle sentenze della Corte, è da considerarsi giuridicamente cogente, così configurando in capo a ciascuna persona detenuta il "diritto ad uno spazio minimo incomprimibile". I due parametri sono dunque "diversi per valore giuridico, poiché solo quello elaborato dal Giudice della Convenzione può essere fatto valere in giudizio da parte degli interessati; in secondo luogo, differiscono dal punto di vista dimensionale, considerato che mentre per il criterio "italiano" una cella di 14 mq è appena sufficiente per due persone, ai sensi della giurisprudenza Cedu può legittimamente ospitarne quattro". Patrizio Gonnella, ancora citato nella sentenza del giudice Riddle, rifiuta anche "di accogliere la nozione di tollerabilità adottata dal governo in quanto soggettiva e variabile". Di che si tratta? Sempre secondo Albani e Picozzi, in Italia, la capienza "tollerabile" viene "individuata, orientativamente, nel doppio di quella regolamentare" sebbene "Tale prassi, oggetto di ripetute critiche dottrinali, soltanto negli ultimi anni sembra essere stata abbandonata, in favore della pubblicazione nelle statistiche ministeriali della sola capienza regolamentare". Se ne deduce che, per quanto soggettiva e variabile, la capienza "tollerabile" italiana resterebbe sempre più favorevole al recluso rispetto a quella fissata dall’Europa, (cioè basata su 9 mq: 2 = 4,5 mq a persona quella italiana, basata su 3 mq a persona quella europea) e anche a quella raccomandata dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (4 mq a persona) alla quale, per misteriosi motivi, la Corte Edu non si è uniformata. Purtroppo i parametri sono teorici e la realtà è ben diversa. Ma, per quanto orribile e indecente possa essere la situazione di affollamento delle nostre carceri, sorge il triste sospetto che negli altri paesi europei la condizione dei reclusi non sia poi molto più allegra e che l’Italia sia sì una pecora nera, ma in un gregge di pecore nere. Il triste sospetto potrebbe essere confermato se si usasse maggiore cautela nella comparazione dei dati sul sovraffollamento, tenendo conto che le regole per stabilire la capienza degli istituti penitenziari non sono omogenee, ma variano da paese a paese. E, in caso di conferma del sospetto, mal comune non sarà mezzo gaudio, ma una vergogna per tutti. Giustizia: processi lenti, Italia maglia nera. Meno nuove cause, ma lo stock resta alto di Marco Moussanet Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2014 Il rapporto del Consiglio d’Europa: a fine 2012 procedimenti pendenti a quota 4,6 milioni e aperti a 3,3 milioni. Certo, il numero di nuove cause civili diminuisce. E quelle chiuse registrano livelli record. Ma lo stock rimane impressionante e la durata dei processi continua a rimanere tra le più alte in Europa. E questa, in estrema sintesi, la situazione della giustizia italiana che emerge dal quinto rapporto biennale (i dati sono relativi al 2012) che la Cepej, la Commissione ad hoc del Consiglio d’Europa, ha presentato ieri. Frutto dei dati raccolti in 46 Paesi (solo Lichtenstein a San Marino mancano all’appello), cui si aggiunge per la prima volta Israele. Nel corso del 2012 ci sono state in Italia circa 4 milioni di cause in entrata (e sono stati istruiti 1,56 milioni di nuovi processi), rispetto a una media dei 47 Paesi rispettivamente di 1,6 milioni e 535mila (2,18 e 1,7 milioni in Francia e 3,9 e 1,57 milioni in Germania, tanto per avere un confronto con sistemi giudiziari simili al nostro). Nello stesso periodo, i magistrati italiani hanno chiuso 4,35 milioni di cause e 2 milioni di processi. Con un "clearance rate", cioè un rapporto tra procedimenti nuovi e chiusi, rispettivamente del 108,4% e del 131,3% (tra i migliori in Europa, dove la media è del 100,4% e del 104,2%). Un dato che fotografa il buon livello di produttività dei magistrati, sia pure molto aiutati dall’introduzione - nel 2009 - della tassa sull’avvio dell’azione giudiziaria ormai generalizzata in Europa (con la sola eccezione di Francia e Lussemburgo). Ma alla fine dell’anno le cause pendenti erano ancora 4,65 milioni (un primato negativo, secondo alla sola Germania con 4,97 milioni, pur con una flessione di 336mi-la rispetto all’inizio del 2012) e soprattutto i processi aperti erano 3,3 milioni. Un dato che ci vede svettare in una poco invidiabile solitudine: la media è di 311mila, la Germania è a 792mila e la Francia (seconda) a 1,4 milioni. L’altro buco nero è la durata dei processi: 590 giorni, 100 in più rispetto al 2010. Fanno peggio di noi solo la Bosnia Erzegovina (656) e Malta (685). La media è di 246 giorni, la Francia è a 311 e la Germania a 183. "La giustizia civile italiana - commenta il curatore del rapporto Jean-Paul Jean - è in una posizione di ritardo strutturale, con uno stock tale che non potrà mai essere risolto senza una radicale riforma che affronti i temi delle prerogative dei giudici e dei poteri degli avvocati, ovviamente aumentando le prime e riducendo i secondi. Con l’obbligo di fissare durate certe per i processi, aldilà delle quali scattano le penalità". E i riflettori si spostano inevitabilmente sul numero di avvocati, fonte naturale - quasi automatica, questione di sopravvivenza - della moltiplicazione delle cause e della durata dei procedimenti. In Italia sono 226mila (anzi, erano, nel 2012), rispetto ai 50mila della Francia e i 160mila della Germania: 379 ogni 100mila abitanti (86 in Francia e 200 in Germania, ci battono solo Lussemburgo e Grecia); 36 per ogni giudice (8 sia in Francia che in Germania). Un esercito. I cui ranghi si sono infoltiti del 31% tra il 2006 e il 2012. Più in generale, l’Italia ha aumentato nel 2012 (del 3,3%) il budget destinato al sistema giudiziario, le donne continuano a sbattere contro il soffitto di cristallo (la loro presenza si rarefà man mano che si sale la gerarchia) e i magistrati hanno retribuzioni nella media europea (pari a 1,9 del salario medio nazionale sia per giudici che per procuratori). Giustizia: malagiustizia, quanto ci costi… esposto dei Radicali alla Corte dei Conti di Deborah Cianfanelli Il Garantista, 10 ottobre 2014 Ieri una delegazione di Radicali composta da Marco Pannella, Rita Bernardini, Laura Arconti e io, si è recata presso la Corte dei Conti del Lazio per depositare un esposto volto a richiedere un’indagine in merito al danno erariale causato dall’ormai ultradecennale malfunzionamento della giustizia in Italia. Abbiamo inteso renderci ancora una volta strumento di attivazione delle istituzioni, nel tentativo di portare a conoscenza di tutti gli italiani il grave costo che incombe su ognuno di loro a causa della disastrosa situazione del sistema giustizia e carceri, più volte condannato dalla Corte Europea. In questo modo noi Radicali abbiamo voluto celebrare l’anniversario del messaggio alle Camere del presidente della Repubblica nel quale veniva ricordato il principio stabilito dalla Corte Costituzionale, che fa obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino. Siamo stati ricevuti personalmente dal procuratore Angelo Raffaele De Dominicis. Nel corso del lungo e cordiale colloquio abbiamo illustrato il contenuto dell’esposto redatto da me in qualità di avvocato. In tale documento si evidenzia in modo particolareggiato come lo stato di assoluta illegalità del sistema giustizia italiano abbia ormai delle enormi ripercussioni sull’economia nazionale, andando ad incidere fortemente sul debito pubblico. Sul fronte civile l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto di ognuno ad ottenere giustizia in termini ragionevoli. Dalla cronica irragionevole durata dei processi in Italia consegue il diritto, per chi li ha subiti, a chiedere ed ottenere un congruo risarcimento ai sensi della Legge Pinto. Tale rimedio meramente risarcitorio doveva essere temporaneo, in attesa di riforme strutturali in grado di rendere i processi più veloci e quindi conformi alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nei tredici anni di vigenza della legge Pinto non si è avuta però alcuna riforma in grado di evitare il reiterarsi della violazione e lo Stato italiano si rende altresì moroso rispetto a detti risarcimenti. Sul bilancio del ministero della Giustizia gravano quindi pesantemente i costi dei risarcimenti che hanno avuto nel corso degli anni un andamento crescente. Già nel 2007 la commissione tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp) rilevava che tale contenzioso era una delle voci di spesa più significative (ed una delle cause principali di indebitamento) del ministero della Giustizia: era costato negli ultimi cinque anni circa 41,5 milioni di euro, di cui 17,9 nel solo 2006. La commissione evidenziava come l’inefficienza del sistema giustizia non rappresenta soltanto un costo sociale, ma la fonte di costi rilevanti per il sistema produttivo in termini di crescita e produttività, soprattutto in sistemi di mercato aperti e concorrenziali. L’incertezza sui tempi delle decisioni ed il loro procrastinarsi in tempi non ragionevoli, ha ripercussioni distorsive sulle transazioni commerciali e sulle decisioni di investimento. In particolare la commissione stimava il rischio economico dello Stato per le (future e probabili) condanne ex Legge Pinto in circa 500 milioni di euro all’anno. Stesse considerazioni allarmanti in riferimento al danno causato all’economia nazionale sono state espresse nel 2011 dalla Banca d’Italia; secondo quest’ultima, in termini economici, il costo dell’inefficienza della giustizia italiana può essere misurato come pari all’1 % del Pil. Da ultimo si ricorda che lo stesso ministero della Giustizia, nella relazione presentata all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2014, ha ammesso che i ritardi della giustizia ordinaria determinano ricadute anche sul debito pubblico e che l’alto numero di condanne dello Stato ed i limitati stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio, hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito Pinto ancora da pagare che, ad ottobre 2013, ammontava ad oltre 387 milioni di euro. Le somme sopra riportate si riferiscono unicamente alle condanne ai sensi della Legge Pinto, e non tengono conto delle condanne subite dallo Stato in materia di violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riguarda il divieto di trattamenti inumani e degradanti con riferimento ai detenuti delle nostre carceri. Anche in questo caso Governo e Parlamento, lungi dal voler prendere in seria considerazione un provvedimento di amnistia quale unico strumento in grado di abbattere il reiterarsi delle violazioni e le conseguenti condanne, hanno preferito optare per rimedi meramente risarcitori, con ulteriori costi per le casse dello Stato. Di tutti questi costi non è dato rintracciare una stima certa nei bilanci dello Stato ed anche su questo punto l’esposto presentato alla Corte dei Conti chiede di fare chiarezza. Visto l’interesse e la cordialità dimostrati dal procuratore De Dominicis, i Radicali si augurano che oltre al "Giudice a Berlino" vi siano un procuratore ed un Giudice in Italia che abbiano il coraggio di fornire risposte, nell’interesse di ogni italiano cui lo Stato chiede enormi sacrifici, specialmente in questo periodo di crisi economica, senza smettere di violare la sua stessa legalità, e causando con tale comportamento gravi ripercussioni sull’intera economia nazionale. Giustizia: voci su possibile cambio di guardia a Via Arenula, la Boschi al posto di Orlando Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2014 Al ministero della Giustizia lo descrivono "con la valigia in mano". Chi ieri ha avuto modo di chiedergli una conferma, ha ricevuto un laconico "non so" di risposta. Andrea Orlando non conferma e non smentisce le voci che ieri, in modo più insistente dei mesi scorsi, lo davano in imminente uscita da via Arenula, sostituito dalla collega dei Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Ieri Orlando ha partecipato a un convegno dei giovani avvocati e notai e ha parlato "da ministro", con una prospettiva lunga e non breve quale sarebbe quella di un uscente. Ma il tam tam di voci non si è fermato. Non sono chiare, tuttavia, le ragioni di un suo eventuale passo indietro. Da tempo si parla di una sua possibile candidatura alla presidenza della regione Liguria anche se finora l’ipotesi era stata esclusa. Ma i tempi stringono per la chiusura delle Uste per le primarie e questo potrebbe giustificare un’accelerazione. Peraltro, non si esclude che il passo indietro - sempre che sia confermato - sarebbe stato "rafforzato" da una serie di episodi recenti che avrebbero amareggiato il ministro. L’ultimo, la "bocciatura" della sua candidata al Csm, l’avvocato Teresa Bene, perché non in possesso dei titoli per essere eletta. Le polemiche sulla "leggerezza" del Parlamento e di chi non ha tenuto in considerazione i dubbi della vigilia non hanno lasciato indifferente il guardasigilli. Allo stesso modo lo avrebbero amareggiato la vicenda dell’auto-riciclaggio, l’istituzione a palazzo Chigi della commissione sul penitenziario presieduta da Nicola Gratteri (che Renzi avrebbe voluto come ministro) e, più in generale, la gestione del pacchetto sulla giustizia. Le prossime ore saranno decisive per capire se le voci di ieri sono solo "bufale", come le definiva qualche deputato Pd, o sono invece fondate. Magistrati e avvocati ovviamente non commentano e stanno a guardare, non senza qualche battuta, facilmente immaginabile, sull’eventuale ingresso a via Arenula di Maria Elena Boschi. Giustizia: Orlando sotto tiro, Renzi vuole liberarsi del ministro che non piace ai magistrati di Errico Novi Il Garantista, 10 ottobre 2014 Disaccordo con Renzi sulla riforma della giustizia. Il caso di Teresa Bene e l’ombra di Gratteri. Ecco perché il ministro non esclude le dimissioni. Ahi ahi ahi, il ministro Orlando è finito nei guai. Del resto era prevedibile. Orlando è il ministro che da quando si è seduto lì a via Arenula lavora per la riforma della giustizia. Come fece Mastella, come fece Biondi, come pensò - solo pensò, ma basta quello - la Cancellieri. E la riforma della giustizia non piace ai giudici, non è mai piaciuta, perché i giudici sanno che alla fine qualunque riforma della giustizia non può che "limare" almeno un po’ il loro potere. E i giudici questo non lo ammettono. E sanno anche che, in assenza di riforma della giustizia, il loro potere aumenta, aumenta. Così le voci di Palazzo dicono che anche il ministro Orlando è vicino al passo d’addio. Stavolta non sono riusciti a spedirgli un avviso di garanzia, come si fa di solito, e il motivo dell’abbandono saranno i dissidi con Renzi. Pare che questi dissidi siano originati dalla "prudenza" di Orlando, che si contrappone alla volontà di Renzi di avere una riforma più forte, anche a costo dì andare contro i giudici. Pare, pare: però il fatto che resta è quello, Orlando ha toccato i fili dell’alta tensione (leggi Anm) e ora rischia di prendersi una scossa che non finisce più. Ieri ha iniziato il Consiglio Superiore della magistratura a tirare botte in testa al ministro, avanzando molte critiche alla riforma del processo penale. Il resto verrà nei prossimi giorni. Intanto, dietro le quinte, torna Gratteri, il magistrato-sceriffo di Reggio Calabria che in origine era nella lista dei ministri al posto di Orlando, ma poi fu bloccato da Napolitano. Chissà che alla fine non la spunti proprio lui, e che non riesca ad entrare trionfante al ministero proprio mente Napolitano finisce sotto il torchio dei giudici di Palermo. Va bene, le critiche dei magistrati sono messe nel conto. E pure una certa resistenza del Parlamento di fronte ai testi presentati dal governo: Andrea Orlando lo dice da quest’estate che "la discussione sulla riforma della giustizia non potrà essere una passeggiata". Ma una cosa non va, ed è il rapporto con Palazzo Chigi. Non è una questione personale con Matteo Renzi; il Guardasigilli sa che non c’è tempo per accordare i caratteri delle persone, visto che già mandare avanti la macchina è difficile. Ma se le distanze di temperamento mettono a rischio anche l’attività quotidiana, allora sì che i problemi diventano insormontabili. Così le voci che circolano da giorni su un clamoroso addio di Orlando al ministero della Giustizia trovano nelle ultime ore sempre più numerose conferme. Gli episodi di contorno, per esempio la sostanziale bocciatura arrivata dal plenum del Csm sulla riforma del processo civile, sono la musica di sottofondo. Ma per il responsabile di via Arenula il mood delle giornate è dato soprattutto da stonature di metodo: il suo è diverso da quello del premier. Lui, il Guardasigilli, vuole portare a casa la riforma possibile, senza cedimenti ma anche senza strappi. Renzi invece interpreta l’intervento su processi, ordinamento e tribunali anche in chiave di sfida, innanzitutto nei confronti delle toghe. È questo il vero problema, per l’inquilino di via Arenula. Se non ci si intende sugli obiettivi, e soprattutto sulla strada per raggiungerli, tutto diventa complicato. La distanza tra i due si è incarnata poi in due figure. La prima è quella di una donna, l’avvocato Teresa Bene, indicata proprio da Orlando come membro laico del Csm e dichiarata priva dei requisiti di eleggibilità dal nuovo Consiglio superiore. In realtà Orlando c’entra poco con la scelta, imputabile piuttosto dal suo capo di gabinetto Giovanni Melillo. Ma di sicuro le critiche arrivate sulla vicenda persino dal Colle non hanno migliorato l’umore del ministro, e ancora più sgradita gli è suonata l’irritazione di Renzi, che non ha speso mezza parola in sua difesa, L’altro nome è quello del pm di Reggio Calabria Nicola Gratteri, il "ministro ombra" di cui ha parlato su queste pagine Valerio Spigarelli domenica scorsa. Se Orlando lasciasse via Arenula difficilmente sarebbe Gratteri a prenderne il posto. L’identikit del possibile sostituto corrisponde piuttosto a quello di Maria Elena Boschi, come segnalato dal Sole 24 Ore. Ma il fatto che Gratteri presieda una commissione sulla riforma della giustizia a Palazzo Chigi, di cui fanno parte magistrati dalle idee molto lontane da quelle di Orlando come Piercamillo Davigo, rende la tensione quasi insostenibile. Gratteri lavora a proposte su un capitolo della riforma, quello relativo al processo penale, che Orlando non ha ancora incardinato. Le proposte elaborate dal pm antimafia difficilmente passeranno in Parlamento: basti pensare all’idea di limitare ricorsi in Cassazione, cara a Davigo, che farebbe saltare definitivamente ogni possibilità di confronto con l’avvocatura. Ma Gratteri è pur sempre il nome che Renzi avrebbe voluto portare a via Arenula e che solo le perplessità di Napolitano hanno bloccato. Eppure sta lì, stende documenti, produce ipotesi di riforma. Una provocazione, appunto. Orlando potrebbe resistere anche a questo. Poi però ripensa a quella forzatura chiestagli da Renzi nel Consiglio dei ministri del 29 agosto, quando il decreto sul processo civile sembrava definito e il premier pretese di inserirvi il taglio delle ferie dei giudici. Da lì è venuta la rottura con l’Anni, che ha portato il campo della riforma ai limiti dell’impraticabilità. Ed è sempre da lì che trae origine la "bocciatura" pronunciata sul decreto civile dal Csm, Il relatore del parere approvato nel plenum di ieri, Piergiorgio Morosini, magistrato di Md, lo ha detto chiaro e tondo: "Sì, questa riforma la bocciamo". Poi il vicepresidente Giovanni Legnini ha stemperato, ha fatto notare che il plenum ha modificato la parte in cui si rilevavano "profili di incostituzionalità". Adesso nel parere del Csm si parla di "possibili censure di incostituzionalità", che potranno arrivare al limite dalla Consulta. Serviva anche per evitare che il documento di Palazzo dei Marescialli diventasse un attacco a Napolitano, a cui competeva il primo vaglio di compatibilità costituzionale del decreto. Ma la sostanza cambia poco. E anche se non chiederà di essere candidato a governatore della Liguria solo perché il Csm gli ha cerchiato la riforma con la matita blu, Orlando non può fare a meno di tirare giù una riga e fare un bilancio. Che più negativo di così non potrebbe essere. Giustizia: "I criminali devo pagare", dice Renzi.... e cosa deve pagare lo Stato criminale? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 10 ottobre 2014 Cominciamo con una notizia che riguarda la Basilicata, una regione all’apparenza periferica, ma dove succedono molte cose significative e importanti come sanno bene i lettori, e molte sono sollevate e animate con caparbietà dal nostro compagno Maurizio Bolognetti. Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo polizia penitenziaria che ha visitato gli istituti di pena della Basilicata dice dall’inizio del 2014 al 30 giugno nelle carceri della Basilicata, dove sono detenute 428 persone, si sono contati 22 atti di autolesionismo: tre a Matera, uno a Melfi e 18 a Potenza. In Basilicata un detenuto su cinque è tossicodipendente (pari ad una media del 20 per cento dei presenti). Si passa da una percentuale minima del 12,61 per cento a Melfi al 29,19 per cento di Potenza". Ma è così ovunque e spesso anche peggio. Emblematico il caso di Maurizio Ferrara, detenuto nel carcere di Secondigliano. Ferrara vive sulla sedia a rotelle e ha bisogno di un urgente intervento chirurgico per una infezione alla vescica diagnosticato otto mesi fa. Incredibilmente Ferrara è ancora in carcere in una stanza dell’infermeria. Sono state presentate due istanze per il differimento della pena. Il magistrato di sorveglianza, però, ha rigettato l’istanza in quanto non sussisterebbe "un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose". Situazione che fa pensare al famoso paradosso del "Comma 22": il detenuto può essere curato in carcere, ma il carcere non è in grado di curarlo. Quello di Ferrara non è un caso isolato: sono stati contati almeno altri 300 casi in Campania. Per questo, i radicali di Napoli e una settantina di familiari di detenuti hanno dato vita così a uno sciopero della fame in staffetta, "per il diritto alla salute nelle carceri". Il presidente del Consiglio Matteo Renzi l’altro giorno ha detto che "i criminali colpevoli devono pagare fino alla fine. Chi commette un reato e viene condannato deve restare dentro. Se guardo le statistiche vedo che la situazione è un po’ meglio del passato, ma chi subisce le conseguenze non si preoccupa delle statistiche. Noi dobbiamo far sì che quelli che becchiamo quando vengono condannati poi restano dentro". Ignoro quali siano le statistiche che fanno dire al presidente Renzi che e cose vanno un po’ meglio del passato. I criminali colpevoli certamente devono pagare fino alla fine. Uno Stato, come dice Marco Pannella, tecnicamente criminale, che ha una giustizia come quella che ha; che ha delle carceri come quelle che sono; che tratta i detenuti come li tratta, e cioè tecnicamente li tortura; uno Stato così, quanto deve, dovrebbe pagare uno Stato così? E quanto devono, dovrebbero pagare un presidente del Consiglio, un Governo, una classe politica che neppure un momento di attenzione hanno ritenuto di prestare al messaggio del presidente della Repubblica Napolitano, l’impellente urgenza, ricordate?, alle ingiunzioni delle corti di giustizia europee, ai richiami della Corte Costituzionale, e del Pontefice? Buona giornata, e buona fortuna. Giustizia: reclutamento dei terroristi islamici nelle carceri… un pericolo per l’Italia? di Nadia Francalacci Panorama, 10 ottobre 2014 I luoghi di detenzione possono essere ad alto rischio di radicalizzazione. Intanto dalle celle dei detenuti potrebbe diffondersi la propaganda jihadista. Google, Facebook, Twitter, Microsoft contro la radicalizzazione online e il diffondersi della propaganda jihadista. I colossi di Internet hanno dato la disponibilità, durante un incontro avvenuto a Bruxelles, a collaborare ciascuno con le proprie expertise per combattere il terrorismo. "Internet è un veicolo molto importante della chiamata che Isis fa ai suoi potenziali sostenitori ed è un potenziale veicolo della radicalizzazione", ha ricordato, al suo ingresso al consiglio dell’Unione Europea, anche il ministro dell’Interno Angelino. Ma non è solo il web a istruire, preparare e ad impartire ordini agli jihadisti. Talvolta, alcuni "messaggi" possono essere inviati dai terroristi detenuti nelle carceri a simpatizzanti che si trovano, anche solo di passaggio, sul nostro territorio. "In Italia, al momento, non sono detenuti terroristi che ricoprono ruoli di leadership all’interno delle organizzazioni terroristiche internazionali", tranquillizza un esperto. Ma il regime di controllo del flusso delle informazioni dai detenuti verso l’esterno non è certamente quello adottato negli Stati Uniti dove la sorveglianza di questi soggetti è ai livelli massimi ed impossibile comunicare esternamente. E sempre il carcere, assieme al web, è considerato un altro luogo a rischio radicalizzazione. Gianluca Anzalone, esperto di terrorismo internazionale e docente Sioi, Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale, esiste il rischio che i terroristi arrestati sul nostro territorio e attualmente detenuti nelle carceri italiane, continuino a comunicare con l’esterno? Innanzitutto è necessario capire quale tipologia di "leader" sono presenti nelle strutture carcerarie italiane per stabilire una potenziale pericolosità nelle eventuali comunicazioni con l’esterno. Attualmente, che io sappia, nelle carceri italiane non vi sono detenuti soggetti che ricoprono o hanno ricoperto ruoli di spicco nelle organizzazioni terroristiche, quindi, la pericolosità o l’importanza di eventuali messaggi comunicati all’esterno potrebbe essere quasi nulla. Certo è che il sistema di controllo e sicurezza delle carceri italiane non è certamente quello adottato, ad esempio, negli Stati Uniti dove sono detenuti molti dei leader terroristi e di conseguenza esiste un livello massimo di controllo che impedisce una qualsiasi comunicazione con l’esterno. Radicalizzazione all’interno delle carceri. Questo è un altro aspetto che deve essere monitorato costantemente… La radicalizzazione all’interno delle strutture carcerarie è oggetto da anni di un programma di intervento voluto dalle Nazioni Unite proprio per la sua pericolosità. Purtroppo il costante contatto tra la varietà della popolazione carceraria rende particolarmente difficile il monitoraggio delle conversazioni e quindi di una eventuale propaganda di concetti estremisti. Dobbiamo precisare, però, che oggi con l’Isis la propaganda è più rivolta verso l’esterno che non all’interno del carcere come invece è avvenuto con Al Qaeda. Premesso ciò, la radicalizzazione in carcere non è da sottovalutare. Proprio come quella che può avvenire nelle moschee. Giustizia: Migliucci (Ucpi); separare le carriere dei magistrati, è un obbligo costituzionale di Annalisa Chirico Panorama, 10 ottobre 2014 Migliucci, neopresidente delle Camere penali: "Separare le carriere è un obbligo costituzionale, basta con un solo Csm". Bisogna ripartire dalla separazione delle carriere. Separare, separare, separare". A parlare così è Beniamino Migliucci, neopresidente dell’Unione delle camere penali. L’esortazione, ripetuta tre volte, evoca un altro appello, quello a "resistere, resistere, resistere, come sul Piave", pronunciato nel 2002 dall’ex procuratore generale di Milano Saverio Borrelli. Allora, come oggi, la sola ipotesi di separare i percorsi della magistratura inquirente e giudicante era considerata un vulnus "all’indipendenza del giudice penale e alla signoria della legge". E allora come oggi la Procura di Milano è al centro dell’attenzione: questa volta a tenere banco è lo scontro tra il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Uno scontro che, a sentire l’avvocato Migliucci, "danneggia la credibilità delle toghe, con un Consiglio superiore della magistratura in balia delle correnti, costitutivamente incapace dì gestire e disciplinare i conflitti interni". A proposito della separazione tra pm e giudice, Migliucci, altoatesino con padre napoletano, è implacabile: "La magistratura può essere in disaccordo, ma le leggi le fa il Parlamento. Separare le carriere è la conseguenza obbligata della riforma costituzionale del 1999". Il riferimento è all’inserimento nell’articolo del giusto processo fondato sul "contraddittorio tra le partì, in condizioni dì parità, davanti a giudice terzo e imparziale". Perché il dettato costituzionale abbia attuazione, pm e giudici non possono far parte dello stesso Csm. "L’imparzialità è requisito del giudizio, la terzietà riguarda l’ordinamento. Affinché il giudice sia effettivamente terzo, le carriere devono seguire percorsi distinti. Attualmente pm e giudice sono colleghi, siedono nei medesimi organi del Csm, si valutano a vicenda e ciò comporta una debolezza strutturale per la difesa". Secondo Migliucci il diritto alla difesa, garanzia costituzionale, è sempre più svilito. "L’intangibilità dei colloqui tra assistito e difensore, garantita dalla legge, viene puntualmente aggirata. La formazione della prova nel dibattimento è mortificata, come pure l’oralità del processo. Insomma, l’avvocato è guardato con sospetto, come se la difesa fosse un optional". Così il rito accusatorio, introdotto formalmente nel 1989, soffoca sotto il peso d’innumerevoli rigurgiti inquisitori. "Manca un controllo giurisdizionale vero e imparziale su una serie di passaggi che gli inquirenti gestiscono come vogliono, con un potere straripante. Per esempio, sul momento effettivo dell’iscrizione nel registro degli indagati e sulla richiesta di proroga delle indagini. Raramente il giudice nega al pm il ricorso a strumenti di ricerca della prova invasivi come le intercettazioni telefoniche e ambientali. E in molti procedimenti, soprattutto di criminalità organizzata, vengono frequentemente depositati i soli interrogatori che discrezionalmente gli inquirenti ritengono di poter far conoscere, a loro insindacabile giudizio. Ma che giustizia è quella in cui il cittadino è nelle mani del pm?". Il potere prevaricante delle toghe fa da contraltare alla debolezza della politica: "Va riaffermato il primato della politica. I politici li scelgono i cittadini che possono licenziarli a ogni elezione. I magistrati no". Il processo penale deve tornare a essere "la verifica della pretesa punitiva dello Stato nei confronti del cittadino", un momento laico di accertamento delle responsabilità individuali e non il luogo della crociata contro il nemico di turno. In Italia, secondo Migliucci esiste una questione democratica: le leggi le fa il Parlamento oppure i cento magistrati collocati negli uffici legislativi dei ministeri? "L’Unione ha partecipato a molte commissioni. La storia è sempre la stessa: si producono documenti destinati a rimanere lettera morta, mentre a decidere sono i soliti burocrati togati. Nella Corte costituzionale tutti gli assistenti sono magistrati. Perché non si può ricorrere ad altre figure, come accademici e avvocati?". Il governo Renzi ha messo in cantiere alcuni progetti di riforma penale che non convincono Migliucci. "Se i testi rimarranno quelli che abbiamo letto in bozza, i magistrati possono dormire sonni tranquilli. Siamo totalmente contrari alla riforma della prescrizione così come alla limitazione dell’appello. Se si vuole la ragionevole durata del processo bisogna agire a monte, non ridurre i diritti degli imputati. Senza l’appello, Enzo Tortora sarebbe stato condannato. Il doppio giudizio è una garanzia irrinunciabile". Però i processi in Italia spesso sono senza fine. "Nel 70 per cento dei casi la prescrizione scatta nelle indagini preliminari. Sono i pm a decidere arbitrariamente quali fascicoli portare avanti e quali no. Nei tribunali ci sono enormi disfunzioni organizzative, sanarle farebbe risparmiare molto tempo". Per il presidente del Senato, Pietro Grasso, già magistrato, sarebbe meglio limitare appello e ricorsi in Cassazione, "Gli appelli sono limitati nei sistemi anglosassoni in cui le carriere sono separate e le assoluzioni di primo grado non possono essere appellate dal pm. È un altro pianeta" dice Migliucci. E il caso de Magistris? "Per noi è innocente fino a sentenza di condanna definitiva. Non ci è mai piaciuto il garantismo a corrente alternata. Ciò detto, chi di Severino ferisce di Severino perisce. Restiamo convinti che, come per Silvio Berlusconi, anche per l’ex sindaco di Napoli questa normativa, avendo carattere sanzionatorio, non abbia efficacia retroattiva". C’è anche la questione de! capo dello Stato: deporrà davanti ai magistrati di Palermo e due boss mafiosi hanno espresso la volontà di assistere in videoconferenza. "È un’evidente prova di forza. Il tribunale non ha voluto prendere atto della sentenza della Consulta che ha definito inequivocabilmente il perimetro delle prerogative costituzionali. Ma la richiesta dei boss non è paradossale perché il contraddittorio va garantito. Così il presidente Napolitano, rimasto inascoltato su amnistia, Csm e correnti, questa volta sarà inevitabilmente ascoltato". Giustizia: "Protocollo Farfalla", il Copasir indaga sugli agenti segreti inviati nelle carceri La Repubblica, 10 ottobre 2014 Sul "Protocollo Farfalla", l’operazione dei servizi segreti nei bracci del 41 bis, indagherà anche il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza. L’annuncio è arrivato dopo le polemiche dei giorni scorsi e le indagini della magistratura palermitana, che hanno fatto emergere un patto fra il vecchio Sisde e il dipartimento delle carceri per gestire alcuni confidenti d’eccezione nel gotha di Cosa nostra. Nei prossimi giorni il Copasir avvierà alcune audizioni fra i responsabili dei servizi segreti che hanno gestito l’operazione a partire dal 2004, verranno ascoltati anche i ministri dell’epoca, Pisanu e Castelli. Intanto, il boss Cristoforo Cannella ha ribadito al processo bis per la strage Falcone di "non avere mai avuto alcun contatto con i servizi segreti". Stessa dichiarazione, tramite il suo legale, ha fatto il capomafia di Trabia Salvatore Rinella. I nomi dei due padrini siciliani figurano nel protocollo Farfalla, in un elenco di otto detenuti che avrebbero offerto la loro "disponibilità" a fornire informazioni in cambio di denaro. Esposito (Copasir): indagine per fugare dubbi su 007 "In un momento così delicato per il Paese non devono esserci incertezze sull’operato dei nostri servizi; perciò puntiamo a fare in breve tempo chiarezza sulle operazioni Farfalla e Rientro". Lo dice il vicepresidente del Copasir, Giuseppe Esposito, relatore dell’indagine che il Comitato ha deliberato di svolgere sull’accordo tra Sisde e Tap che prevedeva l’accesso degli 007 ad alcuni boss detenuti in regime di 41-bis. "Contiamo - spiega Esposito - di chiudere l’indagine entro la fine del mese e consegnarne i risultati in Parlamento. Sentiremo, tra gli altri, il sottosegretario con delega ai Servizi, Marco Minniti, e gli ex ministri dell’Interno e della Giustizia, Giuseppe Pisanu e Roberto Castelli". Il compito istituzionale del Copasir, ricorda il senatore, "è quello di vigilare sulla correttezza dell’operato della nostra intelligence. C’è qualcuno che sta adombrando distorsioni, deviazioni, pericoli per la democrazia. E noi verificheremo se ciò che è accaduto si è svolto in modo legittimo". Il dubbio avanzato dalla Procura di Palermo, ma anche dal vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, è che gli agenti del Sisde abbiano acquisito informazioni dai boss senza condividerle con l’Autorità giudiziaria. Le due operazioni risalgono agli anni 2004-2005, ma è emerso anche che in anni più recenti alcuni agenti dell’Aisi avrebbero contattato in carcere il capomafia Sergio Flamia, spacciandosi per avvocati. "Se ciò è avvenuto - osserva il vicepresidente del Copasir - chi ha sbagliato deve pagare e quegli agenti vanno licenziati. A noi è stato detto che nessun appartenente ai servizi è entrato nelle carceri". M5S: andremo a fondo su operazioni Farfalla e Rientro "Non è solo un atto dovuto, ma necessario per la tenuta democratica del nostro Paese indagare a fondo sulle operazioni "Farfalla" e "Rientro", che avevano come obiettivo l’accesso ai detenuti sottoposti al 41-bis. Il fine è elaborare, dopo un ampio ciclo di audizioni, una relazione pubblica finale da presentare al Parlamento". Così in una nota i parlamentari M5S del Copasir, che assicurano: "il nostro ruolo sarà preminente affinché nessuna verità venga tenuta nascosta. Troppe volte si sono istituite inchieste parlamentari che sono rimaste o lettera morta o peggio ancora hanno coperto maggiormente operazioni al di fuori della legalità. Non permetteremo una relazione vaga e inconcludente, ma vogliamo nomi e cognomi". I senatori Vito Crimi e Bruno Marton e il deputato Angelo Tofalo del Copasir aggiungono che: "una volta conclusa questa inchiesta, si passerà subito ad un secondo importante lavoro: l’attenta analisi dell’organizzazione delle agenzie per l’informazione per la sicurezza Dis, Aisi e Aise. Lavoro già iniziato con numerose audizioni delle più alte cariche dirigenziali e che proseguirà con l’audizione del personale di ogni livello delle agenzie e terminerà con una concreta relazione conclusiva". Ex ministro Castelli: operazioni Farfalla e Rientro? mai saputo nulla "Da Guardasigilli non ho avuto sospetti, se Copasir deciderà mia audizione sarà mio dovere riferire. Ne ero totalmente all’oscuro, non ne sapevo nulla e all’epoca in cui ero ministro non ne avevo il minimo sospetto. Il mio referente è sempre stata la magistratura. Avevo rapporti con Giovanni Tinebra (l’ex capo del Dap, ndr), non so se lui fosse al corrente o meno di questa cosa". Lo dice l’ex Guardasigilli, Roberto Castelli, in merito all’indagine del Copasir - di cui è relatore il vice presidente, Giuseppe Esposito - sulle cosiddette operazioni Farfalla e Rientro, che in passato hanno portato agenti del Sisde, in accordo col Dap, ad avere accesso ad alcuni detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ministro della Giustizia dal 2001 al 2006 nel secondo, e poi nel terzo governo Berlusconi, Castelli assicura: "Se il Copasir mi convocherà in audizione, è mio dovere riferire. Non mi sottrarrò al confronto, e alcune cose le dirò. Perché forse - spiega l’ex ministro leghista - determinati episodi che ho vissuto, alla luce di quanto emerso adesso, potrebbero assumere un altro aspetto". Giustizia: trattativa Stato-mafia; presenza boss imputati esclusa per immunità Quirinale Tm News, 10 ottobre 2014 "Si rileva un profilo di carattere generale e di natura costituzionale connesso all’immunità riconosciuta" al Quirinale, "che impedisce ad esempio anche l’accesso alle forze dell’ordine e quindi al giudice di disporre, con la conseguenza che non sarebbe possibile né coordinare l’accompagnamento di un detenuto con la scorta, né assicurare l’ordine come avviene durante le udienze nelle aule a ciò preposte". Lo si legge nell’ordinanza con cui la Corte d’Assise di Palermo ha respinto la richiesta degli imputati Totò Riina, Leoluca Bagarella, e dell’ex presidente del Senato Nicola Mancino, di assistere alla deposizione come teste del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. "Ma ad ulteriore conferma dell’esclusione degli imputati - continua l’ordinanza del collegio presieduto dal giudice Alfredo Montalto - deve considerarsi il fatto che, per gli imputati per i quali è già esclusa la presenza fisica in udienza anche nelle aule di giustizia ordinaria, quali Riina e Bagarella, la previsione rende ancora più evidentemente incompatibile la presenza degli stessi nella sede del Quirinale. Né in assenza di norme specifiche, potrebbe farsi ricorso alla partecipazione a distanza, poiché questa è prevista solo per le attività svolte nelle aule d’udienza". Giustizia: Capece (Sappe); contro sovraffollamento delle carceri urge riforma strutturale di Ubaldo Cricchi www.usignolonews.com, 10 ottobre 2014 Continuano senza sosta le denunce per i problemi legati al sovraffollamento carceri: la carenza di strutture carcerarie adeguate costringe sia i carcerati che i lavoratori impiegati al loro interno a vivere circostanze di disagio, un disagio che a volte tocca dei livelli estremi. Ad esempio nello scorso fine settimana alcuni esponenti del partito Radicale hanno fatto una visita a sorpresa al carcere di Arienzo (in provincia di Caserta), riferendo che il numero dei reclusi era 89, quando la capienza massima è di 52 persone. In questo tipo di situazioni è inevitabile che i detenuti si trovino in condizioni incivili e ingiuste. I numeri sono confermati anche dai dati che proprio i Radicali hanno richiesto al Ministero della Giustizia: dalle stime risulta che il sovraffollamento delle carceri ha una media su tutti gli istituti di sicurezza italiani del 119% , ma ci sono strutture in cui si supera anche il 200%. Il Segretario Genrale del Sappe Capece continua a denunciare gli episodi negativi causati dal sovraffollamento carceri e prendendo ad esempio gli istituti della Basilicata segnala che ogni quattro giorni si verifica un incidente (dalle risse ai tentati suicidi). Per i poliziotti il lavovo all’interno delle carceri è diventato stressante, pericoloso e insostenibile. Ieri i vertici del sindacato hanno incontrato il premier Renzi che ha promesso il suo impegno per permettere lo sblocco degli stipendi delle forze di polizia, ma Capece continua a sottolineare la necessità di una profonda rivoluzione strutturale dell’intero sistema carcerario e che se la situazione con è ancora completamente degenerato il merito è solo del corpo della Polizia Penitenziaria. Intanto la Commissione Giustizia al Senato attende che il ministro Andrea Orlando comunichi i dati dell’impatto che lo svuota carceri 2014 ha avuto sul problema del sovraffollamento carceri. Il Ministro ha comunque espresso soddisfazione per la ripresa dell’esame dei quattro disegni di legge su amnistia e indulto, rimarcando il buon lavoro svolto dal Parlamento su questo argomento nonostante un clima di populismo e giustizialismo politico che alcuni soggetti hanno sfruttato per condizionare l’opinione pubblica. Toscana: meno detenuti, ma ancora critiche le condizioni di molte carceri regionali www.toscanatv.com, 10 ottobre 2014 Un anno fa il presidente Napolitano con un messaggio alle Camere richiamava l'attenzione sulle condizioni delle carceri. Alcuni consiglieri regionali hanno accolto l'invito dell'associazione radicale "Andrea Tamburi" e hanno visitato gli istituti della Toscana. Se sul sovraffollamento ha inciso in positivo il decreto svuotacarceri, che ha alleggerito il problema, restano però delle criticità insostenibili. Nel carcere di Prato, ad esempio, mancano personale e mezzi per trasportare i detenuti. "Si registrano gravi e frequenti rinvii delle udienze presso il tribunale, vista l’impossibilità di scortare l’imputato in aula, o di ripetuti annullamenti delle visite specialistiche prenotate presso l’ospedale. Una situazione che rischia seriamente di contribuire a ledere il diritto del detenuto «non definitivo» ad una ragionevole durata del processo e dell’intera popolazione carceraria a ricevere un’adeguata assistenza socio-sanitaria" riporta il consigliere Rudi Russo. A Firenze, sono le condizioni della struttura a essere problematiche. "Abbiamo potuto constatare la presenza di diverse infiltrazioni d’acqua nei padiglioni e addirittura qualche cedimento strutturale nella sezione femminile, nei locali della chiesa e del teatro." testimonia Severino Saccardi. Stesso problema strutturale a Pisa, dove mancano docce nelle celle, ma non solo. A preoccupare sono anche le carenze di organico, fa notare Mauro Romanelli, carenze che incidono sulle condizioni di vita dell'istituto. Veneto: inchiesta Mose; il Gip firma scarcerazione per l’ex governatore Giancarlo Galan Ansa, 10 ottobre 2014 Il Gip di Venezia Giuliana Galasso ha firmato il provvedimento per gli arresti domiciliari a Giancarlo Galan, l’ex governatore del Veneto finito in carcere per la vicenda Mose. A renderlo noto l’avvocato Antonio Franchini del collegio di difesa. Ad attendere Galan all’uscita dal carcere di Opera la moglie Alessandra Persegato. L’ex governatore sconterà gli arresti domiciliari a villa Rodella, a Cinto Euganeo, in provincia di Padova. Gli arresti domiciliari rientrano nella procedura di patteggiamento avviata mercoledì da Galan, attraverso i suoi legali, con la Procura veneziana. Ipotesi di accordo, definita congrua dall’accusa, che prevede 2 anni e 10 mesi di reclusione e una multa da 2,6 milioni di euro. Galan dovrebbe essere nella sua abitazione già nel primo pomeriggio. Il gip nel suo provvedimento fa riferimento al via libera della procura al patteggiamento (pur non entrando nel merito della congruità visto che sarà lei stessa a valutarlo nell’udienza del 16 ottobre) e anche al tempo già trascorso nel carcere di Opera a Milano dove Galan è detenuto dalla sera del 22 luglio. In poche ore, da quando si è sparsa la notizia, Galan è protagonista anche dei dibattiti sui social network ed è entrato nella classifica dei trend topic, gli argomenti più usati su Twitter. Roma: la passerella del ministro Orlando a Regina Coeli, che poteva essere evitata di Riccardo Arena www.ilpost.it, 10 ottobre 2014 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, quello di Regina Coeli. Un evento che si attendeva da otto mesi, da quando è stato nominato Guardasigilli. Ora però attenzione. Il ministro Orlando non ha visitato il vecchio e degradato carcere romano per capire le condizioni di vita di chi lì è detenuto. No. Il prode Orlando, si è recato a Regina Coeli per festeggiare la fine dei lavori di ristrutturazione del centro clinico. In altre parole il ministro della Giustizia è andato per la prima volta a visitare un carcere solo quando c’è stata l’occasione di una passerella. Una passerella creata ad hoc grazie agli ennesimi soldi pubblici buttati per ristrutturare una struttura vecchia e ormai inadeguata. Che si tratti di soldi pubblici buttati e di ristrutturazioni che servono solo al politico di turno, emerge chiaramente dalle spese pazze e inutili fatte fino a ora per il carcere di Regina Coeli. Carcere che appunto resta degradato. Infatti, il vecchio carcere romano, situato nel quartiere Trastevere e costruito nel 1600, costa ogni anno 11 milioni di euro. Un budget impressionante, speso unicamente per l’ordinaria manutenzione. 11 milioni di euro all’anno, tra cui solo 4 euro al giorno vengono spesi per far mangiare i detenuti. Detenuti che a Regina Coeli non hanno né uno straccio per lavare la cella né un pezzo di carta igienica. 11 milioni di euro all’anno che sommati per dieci anni significano 110 milioni di euro! Una cifra enorme utilizzata solo per mantenere il degrado al centro della capitale. Ma non basta. A questi 11 milioni all’anno vanno aggiunti i soldi spesi per gli interventi straordinari, come le ristrutturazioni. Ristrutturazioni che stranamente a Regina Coeli non finiscono mai. Ebbene, negli ultimi anni, questi lavori di ristrutturazione sono costati oltre 21 milioni e 450 mila euro. Ma qualcuno dirà: bè questi milioni di euro saranno serviti a qualcosa! Ora a Regina Coeli verrà rispettata la legge, sarà assicurato un minimo di decoro a chi è detenuto. E invece è proprio questo il punto. Questa valanga di soldi pubblici spesi per il vecchio carcere di Regina Coeli non serve per ripristinare la legalità, né serve per assicurare un minimo di decoro a chi è detenuto. Tutt’altro. Questa valanga di soldi pubblici serve solo a mantenere il degrado e l’illegalità. Sono milioni di euro spesi per continuare a infliggere ai detenuti di Regia Coeli trattamenti degradanti e disumani. Trattamenti che sono vietati dalla legge. E infatti a Regina Colei, nonostante i soldi spesi, le persone detenute sono costrette a vivere in ambienti fatiscenti e in condizioni igieniche vergognose. Non solo quindi la mancanza di spazio, ma la mancanza di spazio in luoghi osceni. Questo è il carcere di Regina Coeli. Ma veniamo al centro clinico inaugurato dal Ministro Orlando. In verità a Regina Coeli un centro clinico già era stato realizzato. Qualche anno fa addirittura inaugurarono anche due costose sale operatorie. Sale operatorie che però, dopo i soliti annunci, sono rimaste chiuse e inutilizzate. Ora l’ennesima ristrutturazione del centro clinico inaugurata dal ministro Orlando. Ristrutturazione che è costata, da un primo conteggio, circa 400 mila euro. In sintesi: gli ennesimi soldi pubblici buttati, l’ennesima passerella. Come spiegare a un pensionato, a un lavoratore sfruttato o a un disoccupato tutto questo spreco? La vedo dura. Più sensato, e anche più economico, sarebbe, non solo evitare passerelle, ma smettere di buttare soldi pubblici in un vecchio carcere che è ormai inadeguato alla detenzione. Se si avesse buon senso e volontà di affrontare un problema, si capirebbe che la galera di Regina Colei va chiusa. Ma si capirebbe anche che quel vecchio monastero di trentamila metri quadri ha un valore enorme sul mercato immobiliare. Ovvero oltre 100 milioni di euro. Una cifra più che sufficiente per realizzare due nuove carceri per la capitale e per rivalutare un quartiere così importante come Trastevere. È dunque possibile trovare una soluzione economica e giusta per Regina Colei. Basta volerlo ed evitare le passerelle. Napoli: "Antigone" conferma i miglioramenti a Poggioreale e prepara una visita ispettiva Il Velino, 10 ottobre 2014 Mario Barone, dirigente campano, non conferma pestaggi ai danni dei detenuti. Il dirigente campano di Antigone ha detto la sua su alcuni elementi al centro del dibattito pubblico sulle carceri napoletane. Segnatamente, Barone non ha confermato quanto denunciato dai detenuti del padiglione Livorno di Poggioreale che, in una missiva inviata al quotidiano "Roma" hanno parlato di maltrattamenti e pestaggi che sarebbero ancora posti in essere dagli agenti ai danni dei detenuti: "Non posso confermare, non ho riscontri. Sono voci e lo apprendo per la prima volta", ha dichiarato Barone. Il presidente di Antigone Campania si è poi soffermato sulla nuova direzione di Poggioreale, da parte di Antonio Fullone: "Il trend sembra essere migliorato ma noi come Antigone manchiamo da Poggioreale da un annetto, quando c’era ancora la vecchia gestione che tutti conosciamo. Sto preparando bene una visita che faremo presumibilmente a novembre ma, attraverso fonti interne, posso dirti che è vero che ci sono dei miglioramenti, però voglio anche verificare direttamente". Quindi Barone ha posto degli interrogativi a cui proverà di dare risposta nel giro di poche settimane: "Ad esempio, abbiamo un direttore ben disposto a migliorare le condizioni e i trattamenti verso i detenuti, ma chi li fa e quali sono questi trattamenti? Tutte cose da verificare. Inoltre, possiamo anche avere il migliore dei direttori possibili ma i soldi ci sono? I progetti sono stati avviati? È chiaro che la responsabilità è in capo al direttore però, come dicevo, sono tutte cose su cui sarà necessario avere dei riscontri e contiamo di farlo quanto prima". L’associazione, che da anni si occupa del rispetto dei diritti dietro le sbarre, non potrà effettuare una visita ispettiva a sorpresa, metodologia particolarmente efficace in questo ambito: "Purtroppo come Antigone dobbiamo fornire un preavviso di quando faremo la visita ispettiva, non potendo farla a sorpresa", come è invece nelle facoltà di un parlamentare o di un consigliere regionale. Su Fabio Ferrara, detenuto ammalato e su una sedia a rotelle a Secondigliano, Barone non ha potuto però fornire aggiornamenti o indicazioni: "Non ci siamo fatti carico della vicenda di Fabio Ferrara, per cui quelle notizie in più che avremmo voluto avere su di lui al momento non le abbiamo". Padova: nel carcere comandava la "cupola"… tra droga, violenze, cellulari e filmini hard di Giovanni Tizian L’Espresso, 10 ottobre 2014 Una spietata gang di guardie e detenuti della città veneta usava la Casa di reclusione per ogni tipo di traffico. E dopo due suicidi misteriosi, è scattata l’inchiesta che ha portato fino ad ora a quindici arresti e cinquanta indagati tra poliziotti e reclusi. Quattro torri grigie, di cemento e di sbarre, con un piano profondamente nero. Dove non comandava più lo Stato ma una gang incredibile di guardie e detenuti, pronta a tutto. Il "Due Palazzi" di Padova è sempre stato un carcere modello, ma con una crepa profonda. Non più quella che venti anni fa permise a Felice Maniero, il re della mafia del Brenta, di uscire dal portone principale distribuendo mazzette e minacce. La trama che ha trasformato le celle di massima sicurezza in un supermarket di droga e privilegi è storia recentissima, smascherata nello scorso luglio grazie alla caparbietà di altri funzionari onesti. Che si sono trovati a fare i conti con una banda tanto organizzata quanto spietata. Finora tra guardie penitenziarie e reclusi sono state arrestate quindici persone mentre altre cinquanta sono indagate. Ma l’indagine del pm Sergio Dini potrebbe allargarsi, a partire dal suicidio di un agente alla vigilia dell’interrogatorio e di un detenuto che aveva cominciato a collaborare. Quella dei Due Palazzi è una struttura costruita negli anni Sessanta, tutto sommato in buone condizioni. Trecento tra agenti e impiegati custodiscono 870 condannati, tra cui una settantina di ergastolani. Negli ultimi anni è diventato un laboratorio per offrire una prospettiva diversa ai reclusi: dalla cooperativa Giotto alla squadra di calcio Pallalpiede che partecipa ai campionati regolari fuori dalle mura. Insomma, qualcosa di molto diverso dalla pessima fama di quel sistema carcerario che ha fatto condannare l’Italia più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma la luce di queste iniziative non arrivava al quinto piano. Lì a dettare legge erano "il Grande Capo", "il Condor", "Bambolo", "‘u Cafone", "il Pittore", soprannomi finiti nelle intercettazioni e poi identificati dalla Squadra Mobile. Agenti che potevano far entrare in cella ogni genere di droga, ma anche cellulari e computer perfetti per continuare a dirigere le attività criminali anche dal carcere. E gli abbonati al servizio non erano figure di secondo piano: da Gaetano Bocchetti, uno dei padrini dell’Alleanza di Secondigliano che ha dominato lo spaccio nelle piazze di Napoli, a Cristian Pepe e Ivan Firenze, boss di rilievo della mafia salentina. Persino un criminale di guerra serbo era riuscito a farsi consegnare un telefonino mentre Sigismondo Strisciuglio, il viceré di Bari Vecchia, si consolava con l’hashish, mai meno di un etto per volta. A gestire la rete, stando all’accusa, Pietro Rega: assistente capo della polizia penitenziaria, anzi "il Grande Capo" come lo chiamavano i suoi affiliati. Il graduato era già finito sotto processo a Napoli nel 2001, con un’incriminazione dei magistrati antimafia per i favori concessi ai camorristi detenuti. Con l’assoluzione in appello era arrivato il reintegro in servizio e il trasferimento a Padova. In breve nell’istituto veneto ha trovato compari in uniforme, che consumavano e vendevano droga. "Si vedeva benissimo che erano fatti", ha messo a verbale uno dei testimoni. Sniffavano persino durante i turni di vigilanza. Già, ma nessuno li ha fermati. Nonostante "il generale atteggiamento di spregiudicata complicità tra i vari agenti indagati", scoperto dall’inchiesta. La figura più surreale è quella di Pietro Giordano, "il Pittore": una guardia che aveva ambizioni da pornodivo. Con amiche compiacenti girava filmini erotici casalinghi. Un diversivo prezioso per chi è obbligato a vivere tra le sbarre: i video dell’agente hard core sarebbero stati venduti ai reclusi, assieme a ecstasy, eroina, cocaina. Lo scorso agosto, poche settimane dopo la retata, la procura l’ha convocato per un interrogatorio. Ma la sera prima della deposizione i suoi colleghi l’hanno trovato sul pavimento dell’alloggio, vicino al Due Palazzi, con la gola tagliata: si sarebbe suicidato con una lametta. Invece Giovanni Pucci era un detenuto con un compito speciale: poteva muoversi nella prigione per servire i pasti o consegnare i viveri acquistati nel negozio interno. La gang lo aveva ingaggiato per distribuire i suoi prodotti, che poteva smerciare senza provocare sospetti. Poi a luglio quando sono cominciati gli arresti ha deciso di parlare con i pm. C’è stato un pestaggio: pugni e calci per convincerlo a tacere. Un avvertimento che non lo ha intimidito: il 24 luglio davanti al pm Dini ha messo a verbale nomi e cognomi. Il giorno dopo è stato trovato morto in cella, impiccato con una cintura. "All’inizio è stata un’istruttoria difficile", spiega a "l’Espresso" un investigatore: "Una diffusa omertà rendeva impermeabile l’ambiente". Poi, una volta scattate le manette, sul tavolo della procura sono arrivate decine di lettere firmate da reclusi che chiedevano di essere ascoltati. Ma in tanti continuano a trincerarsi nel silenzio: "Non siamo infami, non parliamo" hanno replicato agli inquirenti. Vendette e minacce sono frequenti. Neppure il trasferimento in un altro penitenziario è servito a proteggere uno dei detenuti che ha accettato di deporre: "Nelle carceri italiane le voci corrono veloci e anche nella nuova sede è stato subito etichettato con il marchio di spia". Per scardinare la cupola del Due Palazzi è stato necessario l’intreccio di due istruttorie. Una nata in città da un giro di piccoli spacciatori, l’altra della procura antimafia di Lecce su alcuni boss pugliesi che continuavano a dirigere i clan anche dalla prigione veneta. Le perquisizioni hanno permesso di sequestrare una manciata di telefonini nascosti nelle celle. Il primo passo per ricostruire il catalogo hi-tech offerto dai secondini corrotti: smart-phone, dispositivi usb, hard disk. L’evoluzione telematica dei pizzini. Ad esempio, i due capi salentini Pepe e Firenze sfruttavano i computer - messi a disposizione dei detenuti nelle aule didattiche - per mantenere il controllo della famiglia criminale. Con una delle chiavette fornite dalla gang riuscivano a entrare su Internet: su Facebook avevano creato alcuni gruppi chiusi, riservati agli altri boss ancora sul territorio. Così con pochi click venivano informati sugli affari del clan e potevano trasmettere ordini. Un sistema quasi perfetto per mantenere lo scettro, senza dovere ricorrere alle complesse gestualità durante i colloqui con i parenti e senza neppure rischiare intercettazioni telefoniche. Pure il camorrista Bocchetti si era accaparrato un cellulare e un hard disk, per uso personale. Un servizio riservato ai vip, che costava parecchio caro. Per gli altri, la gang aveva inventato un call center in subappalto: gli agenti consegnavano gli apparecchi a detenuti romeni e albanesi, che li prestavano in cambio di soldi o altre regalie. In pratica, tutti potevano telefonare. La droga però era il business più lucroso. "Oggi facciamo festa", era l’annuncio che apriva l’asta degli stupefacenti. Con una variante: se era disponibile soltanto il metadone allora lo slogan diventava "Il metano ti dà una mano". La banda poteva procurare di tutto. "Una volta Rega aveva un sasso di eroina. Mi disse che erano 90 grammi", ha raccontato Fabio Zanni, uno dei pentiti: "Quando aveva la droga lo faceva sapere agli altri anche tramite me, poi quando ne faceva uso perdeva un po’ il controllo e diceva tutto a tutti". C’era un marketing molto efficace per incentivare i consumi: "La prima volta ti veniva regalata una riga di eroina o una canna e ti veniva detto: "Tieni fai festa". Così da quel momento capivano che eri diventato loro cliente". Il pagamento avveniva in contanti o attraverso vaglia postali inviati alla moglie di Rega. In altri casi, invece, i pusher del quinto piano si facevano saldare in natura, cioè con pillole e altri narcotici consegnati sia all’esterno dai complici dei detenuti sia dai reclusi stessi. Anche Zanni dopo l’avvio delle indagini è finito nel mirino della banda, che si è data da fare per spingerlo a tacere. Ha detto di essere stato picchiato più volte, in un caso personalmente dal "Grande Capo" in uniforme: una mossa preventiva, nel tentativo di garantire l’impunità della squadra deviata. Le provviste avvenivano in città. C’era un fornitore principale, chiamato "l’Uomo Nero", a cui si rivolgeva la gang penitenziaria. Spesso gli agenti andavano da lui a fare compere in uniforme, riempiendo le tasche di cocaina, eroina, allucinogeni o metadone. In alcuni casi, si fingevano malati e si assentavano dal servizio per rimpinguare le scorte. E questo è il nuovo fronte dell’inchiesta, meno inquietante dello spaccio e della corruzione, ma comunque pesante: l’assenteismo dal reparto, con l’ipotesi di truffa allo Stato. Che non riguarderebbe soltanto i membri della pattuglia deviata. "Fatti gravi", scrive il giudice negli ordini d’arresto, "soprattutto perché vanificano la finalità rieducativa della pena sancita dalla Carta costituzionale: i detenuti sono addirittura sollecitati a commettere ulteriori crimini dopo essere stati agganciati con offerte di dosi di stupefacenti, proprio da quei soggetti che dovrebbero controllarli e rappresentare lo Stato italiano all’interno della struttura". "È una brutta pagina da archiviare al più presto", osserva il direttore della Casa di reclusione Salvatore Pirruccio, che chiosa: "Il Due Palazzi non è quello descritto negli atti della magistratura. È altro. È lavoro, è opportunità di reinserimento, è la squadra di calcio Pallalpiede che milita in un campionato della Figc. Un episodio non può cancellare il grandissimo lavoro fatto in questi anni. Per questo abbiamo dato il nostro contributo alle attività della Squadra mobile". Insomma, per il direttore si tratta solo di un pugno di mele marce. Quelli che il giudice ha definito "soggetti privi di qualsiasi senso del dovere come dimostrano le false malattie inventate, l’uso personalistico dei mezzi di servizio e il fatto di recarsi a comprare la droga addirittura in divisa". Il responsabile del penitenziario non è preoccupato nemmeno per i possibili sviluppi delle indagini sul filone dell’assenteismo. "Per noi è tutto formalmente in regola", spiega: "abbiamo sempre inviato le visite mediche ispettive, e credo che non ci sia una situazione molto diversa da quelle delle altre amministrazioni pubbliche, qui da noi i permessi per malattia sono nella media, non superano la soglia del 4,5 per cento". Avellino: Progetto O.L.TRE - orientamento al lavoro, un’attività costruttiva e stimolante di Flavia Squarcio www.cittadiariano.it, 10 ottobre 2014 Progetto O.L.TRE, si tirano le somme dell’iniziativa di orientamento al lavoro tramite il reinserimento promosso e sviluppato dall’Isfol, programma Pro.P., presso il carcere di Ariano Irpino. Il 14 ottobre, a partire dalle 10.15, presso l’università Giustino Fortunato di Benevento, il convegno di chiusura del progetto. Attraverso seminari sulle varie tipologie di lavoro, focus su autoimprenditorialità e sicurezza sul lavoro, i detenuti hanno avuto la concreta possibilità di costruire una vita nuova una volta fuori dal carcere. Soddisfazione da parte del direttore della struttura penitenziaria, Gianfranco Marcello, che ha sottolineato la valenza educativa e sociale dell’iniziativa dell’Isfol: "Si tratta di un’attività costruttiva perché ha permesso ai detenuti di confrontarsi con il mondo del lavoro esterno; qui in carcere hanno incontrato formatori, esperti di varie discipline, psicologi. Il primo risultato tangibile del progetto O.L.TRE è sicuramente l’effetto positivo sui detenuti, fortemente motivati, interessati e consapevoli di far parte di un percorso finalizzato al loro reinserimento nella società dopo la scarcerazione. Il progetto O.L.TRE si è articolato in una ricerca preventiva sulle attitudini lavorative e sulle capacità dei detenuti e poi su riunioni organizzate per spiegare i vari passaggi legati alla normativa su autoimprenditorialità e lavoro dipendente, nonché su corsi specifici per far acquisire ai partecipanti attestati di qualifica sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, spendibili per possibili assunzioni una volta fuori dal carcere. L’iniziativa si è conclusa con la pubblicazione di un volumetto, che sarà consegnato ai detenuti nel momento della scarcerazione, contenente indirizzi utili di patronati e centri per l’impiego. Questa iniziativa, insieme alle altre che da tempo si svolgono in carcere, come ad esempio i corsi regionali per cuochi, giardinieri, liceo artistico ecc. sono utili anche per ottenere una buona risposta in termini di condotta dei detenuti. Nella casa circondariale di Ariano Irpino abbiamo aperto un nuovo padiglione, ci sono 270 detenuti, molti provenienti da Poggioreale e con situazioni difficili, tuttavia, ad eccezione di pochi episodi turbolenti la situazione è tranquilla". Così invece Antonietta Maiorano, ricercatrice Isfol e referente del progetto: "La ricerca ha l’obiettivo di migliorare l’inserimento socio lavorativo dei detenuti prossimi alla scarcerazione, in un momento di grave sovraffollamento degli Istituti Penitenziari, attraverso la sperimentazione di percorsi di orientamento al lavoro innovativi e lo sviluppo di reti territoriali dei servizi dedicati. I risultati fin qui raccolti dimostrano che il lavoro e la creazione di network risultano essere gli elementi cruciali in un progetto di intervento volto a creare le condizioni più favorevoli all’integrazione sociale del detenuto. La ricollocazione nella società e il consequenziale recupero dei soggetti si concretizzano soprattutto per mezzo del lavoro, eletto strumento massimo del processo di inclusione sociale e rieducativo. Ecco perché, la sperimentazione portata avanti dall’Isfol, effettuata in prima battuta presso la Casa di Reclusione di Larino e la Casa di Reclusione di Ariano Irpino, intervenuta in un momento di crisi del sistema penitenziario italiano, è stata colta con molto interesse da parte delle Istituzioni, al fine di massimizzare le poche risorse a disposizione ed ottenere il miglior risultato possibile". Ferrara: calano i reclusi ma resta critica la distribuzione dei pasti alla domenica www.telestense.it, 10 ottobre 2014 La Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, insieme al Garante del Comune di Ferrara, Marcello Marighelli, si è recata in visita alla Casa circondariale del capoluogo estense; nel corso della visita, sono stati accompagnati dal direttore Paolo Malato e da personale della Polizia penitenziaria. Intanto, i numeri: a fronte di una capienza regolamentare di 228 unità (e di una capienza massima tollerabile di 446), 294 sono i detenuti presenti alla data dell’8 ottobre; 134 gli stranieri, 209 i condannati e 35 in attesa di giudizio, 3 ammessi al regime della semilibertà; 82 i detenuti tossicodipendenti; 12 gli ergastolani e 25 i "collaboratori di giustizia". In linea con il complessivo dato regionale, sottolinea l’Ufficio del Garante regionale, emerge la conferma dell’abbattimento dei numeri dei reclusi e non si ravvisano gravi profili di sovraffollamento, con il miglioramento generale delle condizioni di vita dei detenuti e delle condizioni di lavoro del personale. Fra l’altro, è tornato agibile lo spazio del laboratorio teatrale, chiuso per effetto degli eventi sismici del maggio 2012. Si effettuano colloqui 6 giorni su 7, anche nel pomeriggio, con un servizio di prenotazione telefonica attivo. Appare particolarmente curata l’area verde, dedicata ai colloqui dei detenuti con prole minore di dodici anni, con un apposito spazio per il divertimento dei bambini; inoltre, è prevista, un sabato al mese, la presenza di animatori professionali e mediatori familiari nell’ambito di un’iniziativa promossa dal Centro per le famiglie del Comune di Ferrara. È alla valutazione del Comune una lista di detenuti che, nell’ambito di un progetto di pubblica utilità, dovrebbe prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito al di fuori del carcere, catalogando materiale nei musei e biblioteche cittadine. Continua la positiva esperienza dell’emporio interno: uno spazio gestito dai volontari, con il controllo e l’ausilio del personale penitenziario, dove viene distribuito il materiale raccolto tramite donazioni (prodotti per l’igiene personale, per la pulizia delle celle, abbigliamento, eccetera). Risulta poi pienamente applicata la disposizione dipartimentale che prevede il regime "a celle aperte", con i detenuti che possono stare fuori dalla camera di pernottamento per almeno per otto ore giornaliere, potendo utilizzare gli spazi comuni, fra cui la palestra attrezzata. I Garanti registrano che la stessa popolazione detenuta, incontrata nel corso della visita, ha dato riscontro positivo alla possibilità di permanere al di fuori delle camere di pernottamento per più ore al giorno. I detenuti risultano per lo più impegnati nelle attività ordinarie di lavoro domestico alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, a cui si accede sulla base di una turnazione mensile. Nel registrare i vari miglioramenti intervenuti, i Garanti auspicano che possano essere riempite di contenuto le ore che i detenuti possono trascorrere al di fuori della cella con il potenziamento dell’offerta trattamentale. Allo stato, con la sospensione del cosiddetto "Piano carceri", risulta tramontata l’ipotesi di un nuovo padiglione. Come in altre realtà penitenziarie regionali, resta la criticità nella distribuzione dei pasti alla domenica: al momento del pranzo, viene consegnata anche la cena, che il detenuto dovrà conservare, in ragione del turno di riposo previsto da chi lavora in cucina. Oristano: il Sindaco Tendas si accorge dei mafiosi inviati nel carcere di Massama La Nuova Sardegna, 10 ottobre 2014 Il sindaco Guido Tendas contesta la trasformazione del carcere di Massama in struttura di massima sicurezza: "Mette a repentaglio - dice - gli accordi istituzionali assunti e i progetti d’integrazione già avviati alla base della decennale battaglia di Oristano per una nuova struttura detentiva". tendas annuncia di aver chiesto un incontro al ministro della Giustizia, Andrea Orlando per invitarlo almeno a sospendere il provvedimento. La decisione, peraltro, era già prevista a fine gennaio in una circolare firmata dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, secondo quanto ricorda Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. In quel provvedimento era prevista anche la chiusura degli istituti penitenziari di Macomer (Nuoro) e Iglesias (Sulcis-Iglesiente) a conferma, obietta Caligaris, del fatto che "il ministero persegue una logica che non tiene in alcun conto le problematiche territoriali e familiari, nonché la gestione delle strutture". Dal 3 novembre Massama sarà riservato solo ai detenuti in regime ex 41 bis. "La decisione è stata assunta senza che il Comune sia stato minimamente informato", protesta il sindaco Guido Tendas, ricordando la necessità di garantire il rispetto del principio della territorialità della pena e la possibilità di percorsi di reinserimento sociale dei detenuti. "È nostro dovere istituzionale difendere le esperienze positive che si stanno compiendo nel territorio. I detenuti che escono per dare il loro contributo negli scavi del cantiere archeologico di Mont’e Prama o per la sistemazione della chiesa di San Nicola a Massama sono un esempio di come una pena possa diventare un’occasione di recupero sociale. La decisione del ministero mette a repentaglio questi sforzi e questi risultati". "Riconfermo la fiducia nelle forze dell’ordine e delle autorità carcerarie che devono garantire la sicurezza delle struttura e dei territori nei quali è inserita, ma che non è certo nata per essere un carcere di massima sicurezza - conclude il sindaco -. Questo però non mi esime dall’esprimere forte disappunto per una decisione che, sotto il profilo formale e sostanziale, ci delude e ci preoccupa. Per questi motivi ho chiesto un incontro al Ministro Orlando per sollecitare una sospensione del provvedimento". "Il trasferimento dei ristretti da Massama conferma indirettamente che è avviata a conclusione la storia infinita del nuovo carcere di Cagliari a Uta e che il trasloco di uffici, personale, detenuti possa avvenire tra il 27 ottobre e il 15 novembre", ipotizza Caligaris, ricordando come i tempi di attuazione della circolare del Dap dellos corso gennaio fossero condizionati all’attivazione dei nuovi istituti di Sassari a Bancali e di Cagliari a Uta. "L’auspicio è che la nuova interrogazione dell’onorevole Caterina Pes possa indurre il ministro Orlando a una riflessione". Arienzo (Ce): Radicali: il Tribunale di Sorveglianza? anche qui non funziona... di Domenico Letizia Il Garantista, 10 ottobre 2014 Con l’associazione radicale "Legalità e Trasparenza" di Caserta la mattinata del 4 ottobre, insieme con l’attivista radicale e studente Giuseppe Ferraro e accompagnati dal senatore Vincenzo D’Anna, abbiamo svolto una visita a sorpresa presso la struttura penitenziaria di Arienzo. La casa circondariale risulta essere la terza più sovraffollata d’Italia: ha mia capienza regolamentare di 52 persone mentre i detenuti risultano essere 89. I poliziotti penitenziari presenti sono tra i 60 e i 65 che si alternano in varie turnazioni dinante la giornata. La situazione edilizia della struttura ci è parsa in buone condizioni con una capienza media di due detenuti a cella con doccia in stanza e abbiamo riscontrato la presenza di due salette d’intrattenimento con due televisori. Il personale medico della struttura penitenziaria, composto da tre infermieri e un medico, ha lamentato gli orari dei turni e hanno avanzato una richiesta di allargamento della stanza infermieristica. Sono presentì un defibrillatore semiautomatico e un carrello per le emergenze. Nella struttura è presente anche un ecografo ma manca il personale adatto per il suo utilizzo. Nella struttura sono presenti ima psicologa e due educatori. Abbiamo dialogato con ventunenni, venticinquenni e trentenni, una fascia di età giovanile che ha colpito anche il senatore D’Anna. I reati contestati sono legati per lo più al piccolo spaccio, al fiuto e all’aggressione. Molti dei quali potrebbero facilmente rientrare in quelle che sono le pene alternative. La maggior parte arriva dal napoletano, il che rende problematiche le visite dei familiari. Molti, soprattutto i più giovani, ci hanno riferito di star studiando all’interno della struttura per ottenere qualifiche professionali, mentre, altri hanno intrapreso e concluso anche più di due specializzazioni lavorative. Tutti auspicano e sperano che finita la detenzione siano utili per riuscir ad entrare nel mondo lavorativo. I reclusi lamentano però mia grave situazione riguardante le funzioni del Tribunale di Sorveglianza che può decidere sulle richieste di pene alternative alla detenzione. Risulta invece istaurato un ottimo rapporto tra la popolazione detenuta e gli ufficiali di polizia penitenziaria. Ma la non attuazione dei provvedimenti e il non rispetto dei diritti garantiti ai detenuti per incompetenze e ritardi del Tribunale di Sorveglianza dimostrano per l’ennesima volta il gigantesco problema che vive la giustizia in questo paese. Bologna: Sappe; detenuto con problemi psichiatrici aggredisce un infermiere e un agente Adnkronos, 10 ottobre 2014 "Questa mattina, nel carcere bolognese della Dozza, un detenuto con problemi psichiatrici, già internato presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, ha aggredito un infermiere, mentre stava predisponendo la strumentazione per sottoporre lo stesso detenuto ad elettrocardiogramma. Successivamente ha aggredito anche l’agente della polizia penitenziaria intervenuto per cercare di calmarlo. L’agente ha dovuto fare ricorso alle cure mediche". A riferirlo sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale dello stesso sindacato di baschi azzurri. "Questo episodio -spiegano i sindacalisti del Sappe - ripropone il problema della custodia dei detenuti con problemi psichiatrici, non solo internati negli ospedali giudiziari, ma presenti anche nelle carceri, quelli, cioè, la cui condizione non è tale da consentirne il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario. Si tratta di soggetti di difficile gestione per la polizia penitenziaria e per tutti gli operatori". "Una riflessione -conclude il Sappe- s’impone anche sugli ospedali psichiatrici che qualcuno vorrebbe chiudere, senza, però, aver indicato una valida soluzione alternativa alle strutture detentive". Firenze: il detenuto Fernando inventa a Sollicciano il cestello-pesa rifiuti di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 10 ottobre 2014 L’intuizione del detenuto brasiliano diventa realtà grazie all’aiuto dei volontari di Pantagruel che hanno coinvolto l’ateneo Federico II di Napoli Bilance, codici a barre, sconti sulla Tari in base a quanto si differenzia: la nuova pattumiera domestica sarà sperimentata a Pistoia. Si chiama Fernando Gomez da Silva, è nato 35 anni fa nelle favelas di San Paolo e ha addosso una condanna di secondo grado a 18 anni, di cui 4 già trascorsi nel carcere di Sollicciano, in attesa della sentenza della Cassazione, che chissà quando arriverà. È vissuto fra le discariche, tipico sfondo delle vite dei poveri. Miseria e prigione. Due handicap da non risollevarsi, ma per Fernando è andata in un altro modo. Tutto è cominciato tre anni fa, quando il detenuto brasiliano incontra Francesco Pomicino e Carlotta Carbonai, volontari dell’associazione Pantagruel che opera dentro Sollicciano, ingegnere lui, architetto lei. Due chiacchiere, due domande, "ed ecco che salta fuori quell’idea" racconta Francesco. "Fernando raccoglie dal cestino qualche stuzzicadenti, una carta delle merendine, un pezzo di plastica, ed ecco che sul tavolo della cella prende forma un modellino che assomiglia a una piccola lavatrice ". Di quelle che si caricano dall’altro, ma con dentro più di un cestello, "uno per ogni genere di rifiuto" spiega il detenuto brasiliano. "Rifiuto?", chiedono, increduli, Francesco e Carlotta. Sì, rifiuto. Fernando ha sempre avuto questo in testa, è tanto che pensa a qualcosa che salvi la gente dalla spazzatura. Chiede ai due volontari di aiutarlo a metterla in pratica. Loro aguzzano le orecchie, lui parla. Gli inceneritori? Inquinano. La vera soluzione è la raccolta differenziata. La gente, però, è pigra, non ha voglia di star lì a separare la carta dal vetro e dall’umido, senza nulla in cambio, a parte la coscienza a posto. Dunque, perché non trovare qualcosa per invogliarla? Qualcosa come una pattumiera intelligente, che incentivi l’operazione giocando su una leva irresistibile: il risparmio. I soldi. Lo sconto sulla Tari, per esempio: io differenzio tot, tu ente pubblico mi fai lo sconto di tot sulla tassa sui rifiuti urbani. Tutto automatico, tutto preciso al millesimo. Fernando ha tutto chiaro in testa: sotto ogni cestello - dice, come se li avesse davanti agli occhi - c’è una piccola bilancia elettronica, che in tempo reale invia i dati a un software collegato col database dell’ente pubblico gestore della raccolta dei rifiuti, il quale identifica l’utente tramite un codice a barre. Lo stesso stampigliato anche sui sacchetti in dotazione, e che corrisponde a una card personale. Ogni sacchetto, un peso, ogni peso uno sconto, calcolato in base al prezzo che pagano i consorzi di filiera per acquistare sul mercato i vari generi di rifiuti. Una volta l’anno, l’utente va con la sua card dall’ente pubblico, e si fa calcolare lo sconto cumulato, da ritirare cash o da farsi scalare dalla tassa. Fernando ha calcolato perfino il possibile risparmio medio di una famiglia di 2-3 persone: 250 euro al- l’anno. "Tutto chiaro?". Tutto è ancora allo stadio di modellino con gli stuzzicadenti, ma Fernando ha già in mente anche il nome, per la sua creatura: Riselda, il nome di sua madre. Vorrebbe un aiuto per fare un disegno, ci si mette Carlotta, che una volta alla settimana, per due anni, entra ed esce da Sollicciano con tutto l’occorrente per un progetto grafico. Oggi, tre anni dopo il primo incontro, il sogno del brasiliano condannato a 18 anni sta per diventare un prototipo, in uno stanzone adibito a laboratorio per l’assemblaggio delle varie parti (realizzate da ditte esterne) messo a disposizione dalla direzione del carcere. Non solo: Riselda è diventata oggetto di una tesi di laurea, che a breve sarà discussa all’Università Federico II di Napoli, Dipartidi mento di Meccanica ed Energetica, in collaborazione con il dipartimento di Elettronica (per il software). "Quando ho capito le potenzialità dell’idea " racconta Francesco, "ne ho subito parlato ad alcuni amici di Napoli, che hanno coinvolto un ricercatore dell’Ateneo, l’ingegnere Flavio Farroni, consulente della Ferrari, subito entusiasta. Al punto da assegnare a un suo studente, Marco De Michele, una tesi sulla realizzazione del prototipo". Per mesi (grazie al contributo dell’associazione promozione sociale Zone) De Michele è andato avanti e indietro fra Napoli-Sollicciano, per elaborare il progetto insieme a Fernando, che - collegato via Skype - sarà presente anche lui alla discussione della tesi. E intanto le cose sono precipitate: il designer Giovanni Tallini ha ridefinito in modo accattivante le linee del nuovo elettrodomestico, un imprenditore toscano si è fatto avanti per realizzarlo in serie, Publiambiente, che gestisce la raccolta dei rifiuti di Pistoia ed Empoli, ha proposto di calibrarlo in versione condominiale e potrebbe sperimentarlo. Mentre sono già arrivati premi e menzioni speciali a concorsi nazionali, di Legambiente, dell’Università di Camerino, e dell’Ordine nazionale degli ingegneri. Roma: cantare De André a Rebibbia, nel nome di Princesa che fu prigioniera di Osvaldo Scorrano La Repubblica, 10 ottobre 2014 Le canzoni di De André nel concerto a Rebibbia dei genovesi Boggero, Manfredi e Spiccio. Il carcere di Rebibbia si "apre" per Fabrizio De Andrè. Oggi, 10 ottobre, il Teatro del carcere romano ospiterà un "Omaggio a Fabrizio De Andrè e alla canzone d’autore della scuola genovese", organizzato col patrocinio morale della Fondazione Fabrizio De Andrè Onlus e al quale parteciperanno Max Manfredi, Franco Boggero e Marco Spiccio. La direzione organizzativa è di Fabio Cavalli e al concerto, prenderà parte anche Dori Ghezzi. Si tratta di un nuovo e singolare esperimento di contaminazione tra artisti liberi e reclusi nel nome del più anarchico dei cantautori italiani, perché all’evento si assocerà un’orchestra costituita da detenuti-musicisti diretta da Franco Moretti e accompagnata dal coro delle trans di Rebibbia. Una "reunion" che sicuramente lo stesso De Andrè avrebbe approvato. Perché lui, cantore degli ultimi e di borderline, avrebbe accordato le corde della sua chitarra sulle vite di questi uomini ai margini della società. Cosi, la "band" di Rebibbia sfiderà artisticamente sul palco del Teatro del carcere esponenti della "scuola genovese" dei cantautori come Max Manfredi, trasversale, imprendibile sotto una specifica etichetta, vagabondo dalla musica al teatro, dalla letteratura alla didattica, lo storico dell’arte Franco Boggero, che dal 1997 si esibisce accompagnandosi al piano di Marco Spiccio, noto "agitatore culturale" della ribalta genovese, anch’egli presente al concerto. Alla fine, si troveranno insieme, uniti, nella performance del coro delle trans di Rebibbia a memoria di quella "Princesa", il transgender brasiliano che venne rinchiuso nella prigione romana. La sua storia drammatica fu raccontata da Fabrizio De Andre in una delle sue più struggenti e ispirate canzoni che impreziosiscono l’album "Anime salve". E lei "Princesa", Fernanda Farias Albuquerque (nata Fernandinho), musa transessuale, si materializzerà sui primi accordi vocali dietro le sbarre, tra l’atmosfera cupa e gli spazi di dolore di Rebibbia, la sua "casa" di tante volte, nella quale ha cercato di imporre la sua dignità svenduta, sofferta, passata attraverso la droga, la prostituzione, i marciapiedi. Ci ha pensato proprio De Andrè a riscattare la memoria di questa vita fatta di allegria e disperazione scrivendo una canzone imperitura assieme a Ivano Fossati, che si accorda a quella di altre figure femminili, scaturite dalla sua fantasia. Come Marinella, la famosa "Bocca di rosa" e le protagoniste di "Via del Campo", autentiche eroina della sua poetica. Per "Princesa", il viado brasiliano alla ricerca di una propria identità sessuale, detenuto nel carcere romano per tentato omicidio e morto suicida nel 2007, De Andrè si è ispirato all’omonimo romanzo di Fernanda Farias Albuquerque, che lo scrisse a quattro mani assieme a Maurizio Jannelli, anch’egli in carcere a Rebibbia dove scontava la sua pena per il delitto Moro. E anche in questa occasione il cantautore, dimostrò la sua sensibilità nei confronti di quelle "anime salve", che troppo spesso sono state umiliate da una società ottusa e intollerante. Droghe: con la marijuana libera si fuma di meno… e lo Stato risparmia pure di Luigi Zingales L’Espresso, 10 ottobre 2014 Negli Stati americani che hanno legalizzato l’uso delle droghe leggere si scopre che i consunti degli adolescenti non sono aumentati. Un altro colpo alle politiche proibizioniste che favoriscono solo la criminalità. "Marijuana libera". Nei primi anni Settanta a sostenerlo, oltre ai Radicali - da sempre a favore della legalizzazione - erano solo i gruppi di estrema sinistra e... Milton Friedman. Il suo era un semplice ragionamento economico. Il costo del proibizionismo (in termini di uso della polizia, corruzione, e imposte mancate) era troppo elevato rispetto ai benefici. A quell’epoca, però, solo il 15 per cento degli americani era a favore della legalizzazione, e quindi il presidente Nixon decise di lanciare la "guerra alle droghe". Fu un altro Vietnam. Più di quaranta anni dopo possiamo dire che anche questa guerra è stata persa. Non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello ideologico. Il 54 per cento dei cittadini americani oggi si dice a favore di una legalizzazione della marijuana. Due Stati (Colorado e Washington) l’hanno già legalizzata ed altri tre potrebbero farlo il prossimo mese con un referendum. Nel frattempo 23 Stati hanno legalizzato la marijuana per uso medico, una proposta che incontra il sostegno del 70 per cento degli americani. Perfino il "New York Times" a luglio si è dichiarato a favore della legalizzazione. Proprio dalle pagine de "l’Espresso" Umberto Veronesi ha ripreso in Italia la campagna anti-proibizionista, ricevendo moltissime critiche. Al di là delle opposizioni di principio, molti si preoccupano giustamente che la legalizzazione aumenti il consumo di cannabis da parte degli adolescenti. La legalizzazione toglie una sanzione anche sociale al consumo di marijuana e tende ad abbassarne i prezzi, rendendo più accessibile la droga anche agli strati della popolazione con meno soldi (come gli adolescenti). Se effettivamente la legalizzazione portasse a un’esplosione dei consumi tra gli adolescenti, i proibizionisti avrebbero dei buoni motivi. Come è possibile dirimere questa controversia? Fortunatamente uno studio recente ("Medicai Marijuana Laws and Teen Marijuana Use", di Anderson e altri) analizza l’effetto della legalizzazione della marijuana per uso medico in 11 Stati americani. Grazie al Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie, che conduce un sondaggio biennale sulle abitudini dei giovani, questo studio ha a disposizione informazioni sul consumo di stupefacenti di un ampio campione di adolescenti. Confrontando il consumo di marijuana prima e dopo la legalizzazione, gli autori non trovano alcuna evidenza di un aumento. La stima puntuale è addirittura negativa, ma statisticamente l’impatto è nullo. Come tutti gli studi basati su questionari, anche questo rischia di sottostimare l’uso effettivo di droga. Ma non c’è motivo per pensare che l’entità dell’errore di stima aumenti con la legalizzazione. Anzi, con la legalizzazione più giovani dovrebbero sentirsi autorizzati ad ammettere che fanno uso di marijuana. Se così fosse il vero effetto della legalizzazione sarebbe inferiore a quello stimato (che è pari a zero). Quindi l’effetto sarebbe addirittura negativo. Come è possibile che una legalizzazione che riduce i prezzi, non faccia aumentare il consumo dei giovani? La risposta è molto semplice. Se la marijuana è proibita, ci sarà un fiorente mercato nero. Questo mercato nero non discrimina in base all’età. Quindi fintantoché la marijuana è illegale, gli adolescenti vi avranno facile accesso sul mercato nero. Quando la marijuana viene legalizzata, il mercato nero sparisce. E quindi diventa più difficile per un adolescente procurarsi questa droga. Dimostrata l’inesistenza di un rischio per gli adolescenti, il ragionamento di Milton Friedman a favore della legalizzazione diventa irresistibile. Secondo alcune stime il costo fiscale per l’Italia della mancata legalizzazione della marijuana è pari a più di sei miliardi l’anno. Per non dire che la legalizzazione ridurrebbe la popolazione carceraria del 40 per cento e il numero di processi del 25 per cento. Con il maggiore tempo a disposizione, i nostri giudici potrebbero occuparsi dei reati più gravi e raggiungere le condanne definitive prima dei termini di prescrizione. Ma forse è proprio questo che alcuni oppositori della legalizzazione temono: che comincino ad andare in galera i criminali veri. Corea Nord: sono l’unico prigioniero fuggito dai gulag, vi racconto gli orrori del regime di Roberto Brunelli La Repubblica, 10 ottobre 2014 Il giornalista e scrittore americano Blaine Harden, per tanti anni firma di punta del Washington Post e poi del New York Times, ha raccontato la sua storia in un libro, "Fuga dal campo 14", che è diventato una specie di caso internazionale, uscito ora anche in Italia grazie a Codice edizioni. All’improvviso Shin chiude gli occhi. Forse si è addormentato. Davanti a lui c’è una tavola imbandita: riso con verdure, calamari, noccioline glassate, patate. Ha mangiato tanto. Perché il cibo è tutto. "Quando hai fame non pensi. A stomaco vuoto non esiste pensiero, non esiste libertà". Così ci aveva detto un’ora prima. Ma ora è stanco. Sulle braccia ci sono ancora le cicatrici di quando, da adolescente, fu torturato dalle guardie del Campo 14. Il più feroce, il più celebre, il più grande, il peggiore dei campi di lavoro e reclusione della Corea del Nord, una specie di abisso di ferocia in mezzo alla dittatura più misteriosa e reclusa della Terra. Le sue gambe sono lievemente arcuate, per colpa delle catene a cui venne appeso. Mani da una parte, piedi dall’altra. Sotto, una tinozza di carboni ardenti. Shin sentì l’odore della sua stessa carne bruciata. Alcuni giorni fa Shin Donghyuk ha parlato alle Nazioni Unite, su invito del segretario di Stato Usa John Kerry. Il giornalista e scrittore americano Blaine Harden, per tanti anni firma di punta del Washington Post e poi del New York Times, ha raccontato la sua storia in un libro, "Fuga dal campo 14", che è diventato una specie di caso internazionale, uscito ora anche in Italia grazie a Codice edizioni. Nascosto tra le montagne e il fiume Taedong, il Campo 14 è un immenso gulag nel quale vivono, lavorano e prevalentemente muoiono oltre 50 mila detenuti. L’unico paragone calzante è quello dei lager nazisti. Solo che questo si trova a circa 80 chilometri da Pyongyang, dove oggi governa - o dovrebbe governare - il "supremo leader" Kim Jong-un, coetaneo di Shin: le due facce della Corea del Nord, dicono in molti. Parla veloce, Shin. È l’unico prigioniero nato e cresciuto in un campo nordcoreano che sia riuscito a fuggire. Parlare, oggi, è lo scopo della sua vita. Shin, lei è nato nel Campo 14. Fino al giorno in cui è fuggito, a 23 anni, non sapeva niente di quel che c’era "fuori". Come se l’immaginava il mondo? "Non sapevo che ci fosse un mondo, fuori dai recinti. Nessuno mi raccontava niente, e io comunque non ci pensavo mai. Non avevo il tempo di pensarci. Si lavorava sempre, tutto il giorno. Lavori pesanti. Non avevo il permesso di pensare". Parlando con Blaine Harden, all’inizio lei non ha voluto rivelare che aveva denunciato il tentativo di fuga di sua madre insieme a suo fratello. Perché? "Spiare è la prima delle regole dentro il campo. Fa parte della lotta per la sopravvivenza. Chi non denuncia un tentativo di fuga viene fucilato. Chi compie atti sessuali non autorizzati viene fucilato. Chi ruba viene fucilato. Spesso, quando ti danno la scelta di prendere botte o perdere la propria razione di cibo si sceglie di prendere le botte. Mia madre rubava un chicco di riso al giorno". Lei era prigioniero del campo per una "colpa" commessa dai suoi genitori, vero? "Io non ho mai saputo perché i miei genitori stessero nel campo. Dopo alcuni anni di prigionia erano stati selezionati per essere sposati: una specie di premio di produttività. Per questo sono nato io. Però non ho ricordi speciali. Qualche volta sogno mia madre. So che l’ho sognata, ma sono sogni che poi non ricordo". Forse perché quando Shin ven-ne fatto uscire dalla cella in cui era stato tenuto per settimane, più morto che vivo, fu subito por-tato in un luogo che conosceva bene: il piazzale delle esecuzioni. La prima volta che c’era stato aveva quattro anni. Ma stavolta quelli sul patibolo erano sua madre e suo fratello. Prima che l’impiccassero, la madre cercò il suo sguardo. Lui lo distolse. A suo fratello spararono in testa. Lei ora crede in una qualche religione, ha trovato da qualche parte un Dio da pregare? "Frequento una chiesa cristiana. Però sto ancora studiando. Sto approfondendo il pensiero religioso di Gesù. In Corea del Sud per un po’ sono andato in un tempio buddista. Ma mi sono reso conto che non basta la fede. La gente segue il cristianesimo, ma nessuno è riuscito ad impedire l’Olocausto". Cosa intende dire, Shin? "Intendo dire che per esempio durante la seconda guerra mondiale si era venuti a sapere dei campi di concentramento, ma in pochi ci credevano. Non si è passati all’azione. Questo vale anche per i massacri in Cambogia, in Sudan o in Kosovo. Dopo, il mondo ha punito i responsabili, ma le vittime non sono tornate in vita. Furono milioni. La gente cattiva agisce subito, la gente buona non agisce. Non subito, almeno. Confrontate il numero dei morti, è sempre la stessa cosa". Ha un’idea di quello che sarà il suo futuro? "Sto facendo tutti questi viaggi... non so. Non so immaginare il futuro. Ma voglio dire ancora una cosa". Prego. "È importante. Poco tempo fa alcuni politici italiani sono andati a Pyongyang, su invito del regime. Gli hanno fatto vedere solo cose positive. Questi politici (tra cui Razzi e Salvini, ndr) sono tornati dicendo che il mio paese è come la Svizzera. È sbagliato. Per capire cosa succede davvero in Corea del Nord dovete andare alle stazioni ferroviarie, dove lungo i binari si trascinano fiumi di bambini, orfani, che muoiono di fame. Dove ci sono le donne che, per cifre ridicole, vengono vendute ai cinesi". Stati Uniti: è innocente, condannato a morte torna in libertà dopo nove anni di prigione Asca, 10 ottobre 2014 Un uomo condannato a morte per omicidio è stato rimesso in libertà dopo aver trascorso nove anni nel carcere di Huntsville, in Texas, di cui quattro nel braccio della morte. Manuel Velez era stato arrestato nel 2005 e condannato nel 2008 per l’omicidio del figlio di un anno della fidanzata. Tuttavia, i suoi legali sono riusciti a dimostrare che al momento della morte del bimbo Velez si trovava al lavoro, in un cantiere edile del Tennessee, a 1.600 chilometri di distanza. In un comunicato, l’American Civil Liberties Union (Aclu) ha ricordato che Velez, immigrato ispanico analfabeta, con un quoziente intellettivo di 65, firmò una confessione scritta in lingua inglese che non comprese, mentre il suo avvocato non portò davanti alla corte le testimonianze di quanti conoscevano la storia di abusi sui figli della fidanzata dell’uomo. "Manuel non avrebbe mai dovuto essere imprigionato, abbandonato nel braccio della morte in attesa di essere giustiziato. È senza alcun dubbio innocente - ha detto il suo avvocato Brian Stull - la mia gioia per lui e la sua famiglia è velata di tristezza per gli anni che il nostro sistema giudiziario gli ha rubato, solo perchè era troppo povero per pagarsi un avvocato migliore di quello che lo Stato gli assegnò". "Dovremmo vergognarci degli errori che hanno portato Manuel prossimo all’esecuzione", ha aggiunto il legale, ricordando uno studio recente secondo cui un condannato a morte su 25 è innocente negli Stati Uniti.