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Notiziario quotidiano dal carcere

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Edizione di sabato 18 ottobre 2014

Petizione

"Per qualche metro e un po’ di amore in più..."

Aderisci firmando la petizione on-line

Concorso letterario e artistico su "carcere e affetti"

Le opere vanno consegnate entro 10 dicembre 2014

 

PER PROBLEMI AL SITO IL NOTIZIARIO OGGI HA UN FORMATO DIVERSO.

CI SCUSIAMO CON I NOSTRI LETTORI.

 

Notizie

 

Giustizia: libertà dalla paura e dal bisogno… nasce la Coalizione italiana per i diritti civili
di Eleonora Martini. Il Manifesto, 18 ottobre 2014

Giustizia: suicidi e 41-bis, la Commissione Diritti Umani del Senato indaga sulle carceri
di Damiano Aliprandi. Il Garantista, 18 ottobre 2014

Giustizia: amnistia e indulto, il "costo politico" che nessuno vuole assumersi
www.effemeride.it, 18 ottobre 2014

Giustizia: violare i diritti umani costa, l’Italia nel 2013 ha pagato ammende per 61 milioni 
di Raffaele Niri. La Repubblica, 18 ottobre 2014

Giustizia: i dati europei smentiscono la lagna dei magistrati sulla mancanza di risorse
di Luciano Capone. Il Foglio, 18 ottobre 2014

Giustizia: oltre le sbarre c’è di più... o qualcuno lo scrive
di Michele Luppi. La Difesa del Popolo, 18 ottobre 2014

Giustizia: il caso di Simone La Penna, morto di fame a 22 anni in cella dello Stato
di Valter Vecellio. Il Garantista, 18 ottobre 2014

Giustizia: Berlusconi e i magistrati, così la "guerra dei vent’anni" che non finisce mai
di Salvatore Scuto (Presidente Camera penale di Milano). Il Garantista, 18 ottobre 2014

Giustizia: vilipendio al Capo dello Stato, da anni si parla di abrogarlo, ma chi può non lo fa
di Valter Vecellio. Notizie Radicali, 18 ottobre 2014

Bologna: fare impresa in carcere, la sfida dei reclusi della Dozza
di Giuliana Sias. Pagina 99, 18 ottobre 2014

Modena: manca il Magistrato di Sorveglianza fisso? Il risultato: diritti negati ai detenuti
di Laura Solieri. La Gazzetta di Modena, 18 ottobre 2014

Roma: l’Assessore Cutini; recidiva detenuti crolla con percorsi reinserimento lavorativo
Asca, 18 ottobre 2014

Ascoli: vanno in carcere a trovare un parente detenuto, vengono derubati
Il Resto del Carlino, 18 ottobre 2014

Milano: alla Bicocca evento conclusivo del corso "Le forme della mediazione dei conflitti"
Comunicato stampa, 18 ottobre 2014

L’Aquila: "Premio Letterario Bonanni", il 24 ottobre premiazione dei detenuti vincitori
Il Centro, 18 ottobre 2014

Santa Maria Capua Vetere (Ce): lunedì spettacolo di musica popolare campana in carcere
www.casertanews.it, 18 ottobre 2014

Teatro: dalle sbarre a Jean Genet, l’ultimo show dei detenuti in scena a Torino
di Adriana Marmiroli. La Stampa, 18 ottobre 2014

Immigrazione: l’Agenzia Habeshia "più barriere in Europa, più torture e abusi in Libia"
La Repubblica, 18 ottobre 2014

Immigrazione: un "sistema comune di asilo" sarebbe la soluzione più utile
di Liana Vita e Valentina Brinis. Il Manifesto, 18 ottobre 2014

Droghe: cannabis ad uso sanitario made in Italy? vale 1,4 miliardi e 10mila posti di lavoro
di Ernesto Diffidenti. Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2014

India: Tomaso ed Elisabetta detenuti, conclusa la raccolta fondi per il docufilm
www.primocanale.it, 18 ottobre 2014

Sudafrica: caso Pistorius; l’accusa chiede 10 anni, la pena sarà annunciata martedì
Agi, 18 ottobre 2014

Francia: a Parigi 150 opere d’arte dalle carceri di tutto il mondo
di Annalisa Lista. www.west-info.eu, 18 ottobre 2014


Documenti

- Detenuti presenti e capienza delle carceri. La situazione delle Sezioni Femminili al 30 giugno 2014 (pdf)

- Rivista di Psicodinamica Criminale: "Hanno ucciso un uomo in un letto di contenzione: F. Mastrogiovanni" (pdf)

Iniziative

- Spettacolo Progetto "Fare Con (Formare, Accompagnare, Reinserire Condannati)" - pdf (Novate Milanese, 24 ottobre 2014)


Giustizia: libertà dalla paura e dal bisogno… nasce la Coalizione italiana per i diritti civili
di Eleonora Martini

Il Manifesto, 18 ottobre 2014

Primo congresso della Coalizione italiana per i diritti civili. Associazioni e Ong italiane in rete con la European Liberties Platform, per rendere più efficaci le lotte in favore dei diritti umani.
"I diritti non sono a compartimento stagno ma sono interconnessi, interdipendenti e indivisibili". O non lo sono. Ha ragione Patrizio Gonnella, presidente della neonata Coalizione italiana Libertà e diritti civili (Cild) che ieri ha tenuto il suo primo congresso nella sala Caprinichetta di Piazza Montecitorio.
Un soggetto resosi necessario per tentare un salto di qualità nelle campagne di advocacy che decine di associazioni e Ong praticano ormai da decenni ma in modo forse troppo frammentato, e che entra immediatamente a far parte dell’European Liberties Platform (Elp), il network europeo di Ong istituito con il sostegno della Open Society Foundation fondata da George Soros, principale filantropo delle lotte per i diritti umani.
Decine già le associazioni che aderiscono a Cild: da Antigone a LasciateCientrare, da Parsec a 21 Luglio, dall’Arcigay alla Luca Coscioni, dalla Società della Ragione al Forum droghe, dall’Arci a Certi Diritti, e poi ancora Cittadinanzattiva, Lunaria, Associazione nazionale Stampa interculturale, Diritto di sapere e molte altre.
Organizzazioni che hanno sperimentato tutti i limiti e le potenzialità delle campagne nazionali in favore dei diritti civili, in un Paese dove questi sono stati troppo a lungo subordinati, anche nel pensiero politico della sinistra, ai diritti sociali, come ha sottolineato il senatore Pd Luigi Manconi. Eppure, vale la pena ricordarlo, siamo il Paese dei Cie dove i migranti possono rimanere senza limiti di tempo ma non possono entrare i sindaci, dei giovani italiani che sono considerati immigrati perché i loro genitori hanno fatto il viaggio, delle carceri peggiori d’Europa, della legge sulle droghe illegale, degli agenti di polizia non identificabili dai cittadini, della tortura che non è reato, degli sgomberi e dei campi "nomadi" costati al comune di Roma in cinque anni 60 milioni di euro (59.718.107) dove sono confinate 7 mila persone rom e sinti mai state "nomadi".
Il Paese dove non si può scegliere come morire, né quando e come procreare, della ricerca scientifica limitata, della libertà di stampa minore che in Ghana, Romania o Niger. Il Paese dove è ancora possibile essere rinviati a giudizio per un bacio omosessuale con l’accusa di "disturbo alla quiete pubblica", come è successo a Perugia, secondo l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di Sel Alessandro Zan, con un bacio, anzi i baci, volutamente consumati in pubblica piazza tra tre coppie di attivisti per i diritti lgbti, alcune sposate all’estero, che avrebbero a tal punto "disgustato i passanti" da dover far intervenire gli agenti della Digos.
Ecco, in un Paese così, come spiegano i rappresentanti di Human Right Watch e Amnesty International, "senza attivisti locali che lottano, denunciano e tentano di incidere sulle leggi e sulla cultura nazionale, noi organizzazioni internazionali non possiamo fare molto".
Eppure, ricorda Aryeh Neier, ex direttore dell’American Civil Liberties Union e di Hrw, e presidente della Open Society Foundations, in tutto il mondo si sta ancora aspettando quell’"età d’oro per i diritti civili" che ci si aspettava si sarebbe "aperta dopo la caduta del muro". Per esempio, racconta Neier davanti a una sala stracolma perfino di giovanissimi, soprattutto studenti del liceo Virgilio che hanno presentato un lavoro encomiabile, "nel mio Paese, gli Usa, viviamo un’isteria nazionale dovuta a pochissimi e isolati casi di Ebola che ha portato a pratiche discriminatorie delle persone provenienti dall’Africa occidentale.
E in Russia Putin sembra essere intenzionato a chiudere due delle principali Ong per i diritti umani che sono sopravvissute alla fine dell’Urss". Per questo motivo solo lavorando in rete a livello mondiale si può rendere più efficace la tutela dei diritti umani. "Nel creare questa coalizione in Italia - conclude Neier - non solo riuscirete a rafforzare la lotta nazionale ma in sinergia con altre organizzazioni europee porterete questa battaglia a un livello superiore".
D’altronde che i tempi siano maturi, ripetono alcuni dei relatori, lo si capisce dal fatto che pur nella tenaglia della crisi economica l’attenzione pubblica ai diritti individuali non diminuisce. Anzi. Attenti però, ammonisce Eligio Resta, filosofo del diritto dell’università Roma 3, (che interviene dopo il sottosegretario Ivan Scalfarotto, il ministro plenipotenziario Gian Ludovico de Martino, presidente del comitato interministeriale per i diritti umani e il delegato del sindaco di Roma, Silvio Di Francia), a pensare che in questa era di "forte predominanza della sfera pubblica" i diritti civili possano essere slegati dai diritti sociali, "dal dovere degli Stati".
Il lavoro è tanto, soprattutto culturale. Si dovrà riportare l’attenzione sulle parole a cominciare dal concetto di libertà, esorta ancora Resta che suggerisce di prendere a prestito quel "canto della legge" che è il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 in cui si celebra la "libertà dalla paura e dal bisogno". "Vorrei - conclude il professore - che diventasse il grido di battaglia di questa Coalizione".

Giustizia: suicidi e 41-bis, la Commissione Diritti Umani del Senato indaga sulle carceri
di Damiano Aliprandi

Il Garantista, 18 ottobre 2014

Al Senato continuano le audizioni della Commissione straordinaria dei diritti umani, in particolar modo sul regime di detenzione relativo all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il 15 ottobre scorso è stata la volta della segretaria dei radicali Rita Bernardini che ha tracciato un bilancio preoccupante in merito alla situazione del nostro sistema penitenziario.
"Ci sono intere sezioni detentive esclusivamente in mano alla polizia penitenziaria - ha spiegato la Bernardini - anch’essa sotto organico e sofferente, e lo dimostra il numero di suicidi. Anche sull’aspetto lavoro a me non risulta che i numeri siano notevolmente cambiati. Siamo sempre a una percentuale di non più del 20% di detenuti che hanno accesso alla possibilità di lavoro e questo determina la giornata del detenuto, che viene trascorsa nell’ozio".
D’altronde, sempre secondo la Bernardini, "in carcere si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. E molto alta infatti, intorno al 25%, la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza".
Davanti alla commissione, la segretaria dei radicali ha anche affrontato il tema, oramai abbandonato dalla politica, dell’amnistia spiegando che "non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare".
La segretaria dei radicali spiega anche il ruolo decisivo dell’informazione: "Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero e solo perché fa audience. In un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei cittadini - ha concluso la Bernardini - dimostra di essere fuori da ogni criterio di democrazia".
Durante l’audizione ha preso la parola il senatore Peppe De Cristofaro, del gruppo Sinistra ecologia e libertà e membro della commissione, esprimendo sintonia di idee con la Bernardini e ribadendo che "il clima è sfavorevole grazie anche all’informazione, ma il parlamento dovrebbe avviare una riflessione e porre l’argomento della clemenza, accompagnata però dalle riforme che aboliscano leggi che producono carcerazione facile".
Il senatore De Cristofaro ha voluto anche porre una considerazione sulla vicenda del 41 Bis spiegando che "la vera struttura del 41 bis è quella del non detto. Non si dice chiaramente - ha chiosato De Cristofaro - che è un duro strumento per portare al pentimento i mafiosi". Il senatore ha concluso con una domanda: "È un esempio di civiltà il fatto che lo Stato utilizzi uno strumento di tortura per portare i mafiosi a collaborare?". Parole forti, soprattutto dopo l’audizione del 4 Giugno scorso del procuratore Nicola Gratteri, il quale ha confermato la validità del 41 Bis e la proposta di riaprire il carcere dell’Asinara e Pianosa per concentrare tutti i detenuti sottoposti alla carcerazione dura.
Parere che si era andato a scontrare con le parole del dottor Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap, ascoltato dalla Commissione sempre nel mese di Giungo: "Nell’assegnazione della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o ai organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole.
Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri detenuti, in gruppi non superiori a quattro". La Commissione preseduta da Luigi Manconi, continuerà a svolgere l’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani per poi produrre un dossier entro gennaio prossimo. La prospettiva sarebbe quella di portare la discussione in parlamento.

Giustizia: amnistia e indulto, il "costo politico" che nessuno vuole assumersi

www.effemeride.it, 18 ottobre 2014


Mentre i detenuti restano in attesa di possibili novità dalla commissione Giustizia del Senato della Repubblica dove restano al vaglio i ddl per amnistia e indulto 2014 in attesa del testo unificato Falanga-Ginetti che potrebbe essere presentato dopo il nuovo confronto con il ministro della Giustizia Andrea Orlando non accennano a placarsi i problemi legati al sovraffollamento carceri in Italia contro il quale la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa con diverse sentenze che definiscono inumane e degradanti le condizioni di detenzione all’interno degli istituti penitenziari italiani.
Si registra infatti ormai da giorni il nuovo stop dei lavori alla Commissione giustizia in Senato, che si sarebbe dovuta occupare del testo unificato risalente a 4 proposte di legge (Manconi, Compagna, Buemi e Barani); l’accordo evidentemente non si riesce a trovare e allora si è chiesto al Ministro della Giustizia Andrea Orlando di procurare i primi dati sull’impatto dello svuota carceri 2014.
Comunque sia è difficile che il sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani possa essere diminuito sensibilmente in così poco tempo; basti pensare che secondo i dati forniti dal Ministero ad agosto e analizzati dal Partito Radicale, il sovraffollamento medio in Itala era del 119 %, con punte che potevano superare addirittura il 200 % nei casi più gravi.
E a proposito del Partito Radicale, Rita Bernardini in Commissione diritti umani al senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia ha voluto precisare che: "Sull’amnistia non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare".
"Almeno Andrea Orlando - ha aggiunto Bernardini - è stato molto più sincero del premier Matteo Renzi, dicendo che l’amnistia è impopolare, non porta voti, e quindi non se ne parla. Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero, solo perché fa audience, in un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei cittadini, dimostra di essere fuori da ogni criterio di democrazia".

Giustizia: violare i diritti umani costa, l’Italia nel 2013 ha pagato ammende per 61 milioni 
di Raffaele Niri

La Repubblica, 18 ottobre 2014


Prigioni sovraffollate, debiti non pagati, ritardi nei procedimenti. Così Strasburgo ci bacchetta. E per le casse dello stato è un salasso.
E noi paghiamo. Paghiamo perché i detenuti di Busto Arsizio e Piacenza non hanno a disposizione almeno tre metri quadri ciascuno, paghiamo perché i Comuni dichiarano dissesto e quindi non sono in grado di versare ai privati importi previsti dalla legge, paghiamo perché una vedova di Nassirya - a dieci anni dalla morte del suo compagno - abbia diritto, almeno, ad essere riconosciuta come tale, anche se non portava la fede al dito. E non paghiamo spiccioli: è di oltre 61 milioni di euro il conto versato dal governo italiano per l’esecuzione delle multe, comminate nel 2013 dalla Corte di Strasburgo a seguito di violazioni commesse dall’Italia e confermate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tanto per capire l’entità del fenomeno siamo ad una sentenza di condanna alla settimana (48 complessive, nel bilancio de! 2013). Il balzo rispetto al 2012, (allora il totale era 19 milioni) è legato anche all’esecuzione di 28 sentenze relative a due anni fa che si sommano alle 15 sentenze del 2013 e ai 5 regolamenti amichevoli. Ma nella relazione appena arrivata da Strasburgo c’è di peggio: non solo l’Italia è all’ultimo posto in tema di serietà, ma tende ai contenziosi seriali, che poi perde regolarmente: se un Comune vede che il Comune vicino, lungi dell’applicare la legge, si comporta col cittadino in un certo modo, copia la decisione dell’amministrazione vicina. Risultato? Perderanno entrambi, e entrambi dovranno pagare la multa.
Ma cosa ci imputa, Strasburgo? Molte cose. Il caso Torreggiani è una sentenza pilota che ha portato alla proibizione di trattamenti inumani e degradanti all’interno delle carceri italiane, partendo dall’analisi della presenza di una spazio inferiore ai 3 metri quadri per i detenuti nel carcere di Busto Arsizio e Piacenza che hanno presentato il ricorso.
Strasburgo ci ha condannati anche per la mancanza di acqua calda in cella per lunghi periodi, mancanza di ventilazione e addirittura di luce. La multa: centomila euro ad ogni ricorrente per danni morali. Più conosciuto il caso di Adele Parrillo, compagna del regista Stefano Rolla, rimasto ucciso insieme ai militari italiani nell’attentato di Nassiriya del 2003, e già autrice di una causa allo stato italiano per discriminazione (non le erano stati riconosciuti i diritti da vedova, in quanto non legalmente sposata con il regista). Ora la donna ha fatto nuovamente causa chiedendo di poter donare alla ricerca gli embrioni congelati prima della morte del compagno (con cui stava tentando di avere un figlio).
Con il caso Varvara (un costruttore pugliese condannato per abusivismo edilizio) si tocca il tema della confisca dei terreni dopo un reato estinto per prescrizione. Per Strasburgo il sistema della prescrizione dei reati nel sistema italiano è ben lontano dall’essere rigoroso "e non può esercitare alcun effetto dissuasivo e deterrente idoneo ad assicurare ima prevenzione efficace delle condotte illegittime". Infine il caso di Giovanni De Luca e Ciro Pennino, due cittadini beneventani che vantavano 64 mila euro di crediti nei confronti del loro comune in dissesto finanziario. La Corte ha stabilito che lo Stato è tenuto a garantire il pagamento dei debiti. A prescindere dal crack.

Giustizia: i dati europei smentiscono la lagna dei magistrati sulla mancanza di risorse
di Luciano Capone

Il Foglio, 18 ottobre 2014


In Italia, nel capitolo giustizia, sale la voce "stipendio dei magistrati". Il Consiglio d’Europa sulla distanza dai colleghi stranieri. L’Italia è piena di sperperi, caste e privilegi, ma quando a questi sprechi si dà un nome e un cognome, improvvisamente diventano spese indispensabili e servizi essenziali. Va bene la spending review, ma senza toccare la sanità.
Ok la riduzione della spesa, ma senza tagliare pensioni, istruzione e sicurezza. Prendiamo la giustizia. Nei giorni scorsi, intervenendo contro la riforma ipotizzata dal governo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Gabelli, ha ribadito che più che di riforme c’è bisogno di investimenti: "C’è carenza di risorse".
Si tratta del solito lamento che si sente nei racconti di tribunali scalcinati, uffici senza fotocopiatrici, magistrati costretti a portarsi le matite e avvocati la carta igienica da casa. Non che tutto ciò non sia anche vero, il problema è che è falsa la narrazione di uno stato che non spende per la giustizia. È da pochi giorni uscito il rapporto biennale della Commissione per l’efficacia della giustizia (Cepej) sulla qualità e l’efficienza della giustizia, che confronta i dati di oltre 40 paesi del Consiglio d’Europa.
Secondo i dati appena pubblicati, la spesa per il sistema giudiziario in Italia è passata dai circa 4 miliardi di euro dei 2004 ai 4 miliardi e 600 milioni del 2012, portandola ai livelli più alti d’Europa, senza che i tempi e le inefficienze si siano ridotti granché. Il perché lo spiega la Cepej: "In Italia l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio è dovuto all’aumento del costo dei giudici. Gli altri capitoli di spesa non hanno avuto nessun aumento sostanziale".
In pratica "più spesa per la giustizia" è significato "più stipendi per i magistrati", che in questi anni hanno difeso con le unghie e con i denti i loro salari, arrivando a giudicare i tentativi del governo di mettere un freno alla crescita degli stipendi come un attacco all’autonomia e all’indipendenza della magistratura: "È una mortificazione della categoria, tale da dequalificare in prospettiva la magistratura, non più in grado di attrarre le migliori professionalità", aveva scritto l’Anni.
E non c’è ombra di dubbio che, se la professionalità si misurasse col peso della busta paga, le toghe italiane sarebbero le più qualificate d’Europa. Secondo i dati pubblicati dalla Cepej, un magistrato a inizio carriera in Italia percepisce 54 mila euro l’anno, 18 mila più di un collega francese, 13 mila più di un tedesco, 7 mila più di uno spagnolo.
Il divario è ancora più ampio se si prendono in considerazione i magistrati a fine carriera: un giudice italiano percepisce circa 180 mila euro l’anno, 75 mila più di un tedesco, 72 mila più di uno spagnolo, 70 mila più di un francese. Le toghe italiane hanno inoltre un altro paio di record: il divario dello stipendio tra i giudici a fine carriera e quelli a inizio carriera è il più alto d’Europa (330 per cento in più), il rapporto tra lo stipendio dei giudici e il Pil pro-capite è il più alto dell’Eurozona (un giudice arriva a guadagnare 6,3 volte più un italiano medio).
Ma non finisce qui, perché se oltre alla fotografia statica si guarda la dinamica delle retribuzioni, il quadro per i magistrati italiani diventa ancora più roseo. Il meccanismo di adeguamento automatico degli stipendi (che si aggiunge agli scatti di carriera) ha garantito negli ultimi anni aumenti generosissimi.
I dati della Cepej dicono che solo negli ultimi quattro anni gli stipendi dei magistrati italiani sono cresciuti del 20 per cento per i giudici a inizio carriera e del 37 per cento per i giudici a fine carriera, l’aumento più grande d’Europa. Tutto questo mentre in Francia restavano invariati e gli altri paesi alle prese con la crisi facevano vera spending review tagliando le retribuzioni dei magistrati dal meno 46 per cento della Grecia al meno 23 per cento dell’Irlanda, Persino il Lussemburgo ha abbassato lo stipendio ai propri giudici, del 5,5 per cento.

Giustizia: oltre le sbarre c’è di più... o qualcuno lo scrive
di Michele Luppi

La Difesa del Popolo, 18 ottobre 2014


Sono oltre settanta le testate riunite nella "Federazione nazionale dell’informazione dal e sul carcere". A lavorarvi detenuti e volontari che provano, attraverso una corretta informazione, ad abbattere i pregiudizi che troppo spesso avvolgono la realtà carceraria. Laboratori di una nuova cultura da cui è nata la "Carta di Milano". Il nodo ancora da sciogliere del "diritto all’oblio".
Il carcere è per sua natura una realtà difficile da raccontare. Una realtà fatta di muri, protocolli di sicurezza e di una separazione non solo fisica, ma spesso anche sociale, da quanto avviene al di fuori. Lo sanno bene i giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria, ma lo sanno ancora di più i detenuti o le associazioni che operano all’interno delle carceri italiane, chiamate a confrontarsi con una certa incapacità dei media di raccontare quanto avviene dietro le mura delle case circondariali.
È per cercare di correggere queste distorsioni che, all’interno delle carceri, sono nati veri e propri giornali scritti dai detenuti. Sono oltre settanta le testate attive in Italia e riunite nella "Federazione nazionale dell’informazione dal e sul carcere", nata il 24 novembre 2005. Punto di riferimento delle federazione è la redazione di "Ristretti Orizzonti", il giornale della casa circondariale di Padova (www.ristretti.it).

Un ponte con la "società esterna"

"La creazione di una Federazione - spiegano i promotori - rappresenta un passaggio fondamentale per riavvicinare il mondo penitenziario alla società esterna. Il nostro obiettivo è quello di favorire l’integrazione sociale delle persone provenienti da percorsi di devianza (con effetti di prevenzione della recidiva), ma anche di coloro che sono "a rischio" di devianza.
Lo strumento di cui possiamo servirci è solo uno: l’informazione, o meglio la correttezza e la puntualità dell’informazione: per stimolare interessi e sensibilità nella gente comune, troppo spesso vittima di stereotipi, pregiudizi e paure, alimentati da un giornalismo incapace (o impossibilitato) di rischiare prese di posizioni impopolari e, piuttosto, propenso a dare in pasto al pubblico ciò che esso chiede".
Un lavoro, quello giornalistico, che ha anche funzioni rieducative "per far maturare nei detenuti, negli ex detenuti, nelle persone che comunque si sentono messe ai margini, la consapevolezza di poter avere una dignità sociale".

L’esperienza di Carte Bollate

"I giornali non scrivono cose scorrette ma sbagliate, disinformate. Per questo noi cerchiamo di fare cronaca, per informare e contro-informare", racconta Susanna Ripamonti, cronista giudiziaria di lungo corso ora alla direzione di Carte Bollate, testata del carcere di Bollate nei pressi di Milano.
La direttrice spiega come gli errori più comuni riguardino spesso la terminologia non appropriata che viene utilizzata a partire, ad esempio, dal termine "secondino", ancora utilizzato per indicare gli agenti di politica penitenziaria. Alla redazione del bimestrale, che esce in circa duemila copie, lavorano una ventina tra redattori e redattrici a cui si aggiungono 6 o 7 volontari di cui 4 giornalisti professionisti. "È necessario - continua la direttrice - che la stampa lavori per una nuova cultura del carcere e noi cerchiamo di farlo".

La Carta di Milano

Qualche piccolo passo negli ultimi anni sembra essere stato fatto grazie all’impulso dei giornali carcerari e, in particolare, di tre testate - le già citate Carte Bollate e Ristretti Orizzonti, insieme a Sosta Forzata (Piacenza) - che hanno promosso il percorso verso la "Carta di Milano" adottata dall’Ordine nazionale dei giornalisti nel 2013: un protocollo deontologico rivolto ai giornalisti che trattano notizie riguardanti carceri, persone in esecuzione penale, detenuti o ex detenuti.
Molto resta però ancora da fare, soprattutto sul fronte culturale da parte di stampa ed opinione pubblica. Tra i nodi ancora aperti c’è il tema del "diritto all’oblio" ovvero "il riconoscimento del diritto dell’individuo privato della libertà o ex-detenuto tornato in libertà a non restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione".
Un punto inserito e poi eliminato dalla Carta e su cui il dibattito nel mondo del giornalismo è ancora aperto, perché corre lungo il crinale sottile tra il diritto di cronaca e la tutela della dignità delle persone coinvolte, non solo dei colpevoli ma anche delle vittime.

Giustizia: il caso di Simone La Penna, morto di fame a 22 anni in cella dello Stato
di Valter Vecellio

Il Garantista, 18 ottobre 2014


Questa storia si consuma nel carcere romano di Regina Coeli, cinque anni fa. E la storia di Simone La Penna, 22 anni, deve scontare una condanna di due anni e quattro mesi per stupefacenti. In carcere Simone contrae una grave forma di anoressia, perde una quarantina di chili, alla fine muore. Per casi come questo dovrebbe essere "naturale" che sia, d’ufficio, dichiarata l’incompatibilità con il carcere. E invece no.
Pur essendo presente una struttura sanitaria interna al penitenziario, e nonostante Simone sia stato, sia pur occasionalmente, visitato dai sanitari dell’ospedale Perti-ni, nessuno sembra si sia accorto delle sue condizioni; o seppure se n’è accorto, non ha ritenuto che il suo stato di salute fosse incompatibile con il carcere. Così Simone è morto; e dopo cinque anni - cinque anni - tre medici sono accusati di omicidio colposo. Il pubblico ministero di Roma Eugenio Albamonte ne chiede la condanna a 2 anni e 10 mesi.
Ora, a prescindere dal fatto che non può dirsi esattamente giustizia una giustizia che impiega oltre cinque anni per stabilire di chi sia la responsabilità della
La morte di una persona; a prescindere dal fatto che proprio quando ti priva della libertà non importa per quale motivo, lo Stato è il massimo garante e responsabile dell’incolumità fisica e psichica di un cittadino (e la cosa vale anche per Bernardo Provenzano, che viene lasciato morire in carcere e nessuno che dica un "Fiat", a parte i soliti Pannella, Bernardini e i radicali); a parte tutto ciò, quello di Simone è un ennesimo caso che dovrebbe molto inquietare il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Come Stefano Cucchi, Daniele Franceschi, Marcello Lonzi, uniti da un unico tragico destino, diventati l’emblema delle morti in carcere spesso avvolte nel mistero.
Sono tanti, troppi, i detenuti che muoiono in silenzio, perché la loro storia non passa sotto i riflettori e non diventa il caso mediatico da raccontare. Storie di chi si vede negare non solo la libertà, ma anche il diritto alla salute.
Nessuno sa quanti siano i detenuti morti in carcere per malattia e quanti coloro che, usciti dal carcere in sospensione della pena per malattia, siano poi morti in ospedale o nelle proprie abitazioni. E che non esistano dati certi in materia, è anche questo motivo di inquietudine, spia e segnale di un sostanziale disinteresse che è grave ci sia. La salute nelle carceri italiane è a rischio, con il 60-80 per cento dei detenuti che ha qualche malattia a causa del sovraffollamento ma anche per una assistenza sanitaria di scarsa qualità. Lo denuncia tra gli altri la Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria (Simpse).
Secondo le stime degli esperti il 32% dei detenuti è tossicodipendente, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici. Tra le malattie infettive è l’epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%).
La salute dei detenuti presenti nei 206 istituti di pena italiani è messa a rischio da due principali problemi: il disagio psichico e le patologie infettive. Dagli ultimi dati che abbiamo, relativi al 2012, un detenuto su 3 è positivo all’epatite C, l’incidenza dell’Hiv e dell’epatite B è intorno al 5% (circa 1 detenuto su 20). Mentre a soffrire di disturbi psichici, più o meno gravi, è il 25-30% della popolazione carceraria. Fino a quando, presidente Renzi, ministro Orlando? Sono "piccole" questioni che elettoralmente forse non pagano. Ma il livello di civiltà di un Paese si misura anche da queste cose, non solo da un twitter.

Giustizia: Berlusconi e i magistrati, così la "guerra dei vent’anni" che non finisce mai
di Salvatore Scuto (Presidente Camera penale di Milano)

Il Garantista, 18 ottobre 2014

Milano, verrebbe da dire purtroppo, non è Berlino. È questa l’amara considerazione che coglie il lettore alla notizia delle dimissioni dalla magistratura del presidente del collegio della Corte di Appello che a luglio assolse Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile nell’ambito dell’inchiesta denominata Ruby.
All’epoca quella sentenza fu accolta come una ventata di aria fresca in una stanza da troppo tempo chiusa, non perché contenesse l’assoluzione del Cavaliere in sé, ma perché rappresentava - come rappresenta ancora - la fisiologica conclusione del giudizio di secondo grado, l’espressione di un valore di fondamentale importanza come la libertà della giurisdizione. Tutto ciò in un contesto, quello degli ultimi vent’anni dì storia del Paese, in cui il dibattito sulla giustizia, spesso tramutatosi in uno scontro, è stato ostaggio delle vicende giudiziarie dell’ex presidente del Consiglio.
Nel Paese, infatti, i temi e i problemi della giustizia penale costituiscono da troppo tempo il campo in cui quello scontro si consuma tra due fazioni contrapposte: chi ha impugnato la cultura delle garanzie asservendola agli interessi del proprio leader e chi ha risposto - rinunciando alla stessa autonomia della politica - facendosi baluardo dei sacrosanti principi di autonomia e indipendenza della magistratura fino a farli apparire nome i presupposti di un potere assoluto. Da qui l’effetto di conservazione dello status quo con buona pace della vera riforma del sistema Giustizia, rimasta non a caso negletta.
Quella sentenza, pertanto, sembrava costituire un primo ed efficace passo verso il superamento di quella condizione dì stallo. E verosimilmente lo era, atteso il forte attacco che oggi subisce. E Milano?
Milano, con la sua sede giudiziaria, è stata storicamente uno dei motori di questo sistema, uno dei protagonisti di questa lunga stagione, con la conseguenza che ha tratto vantaggi e svantaggi dalla rappresentazione mediatica di quei complessi fenomeni. Il risultato finale, però, è stato un diffuso indebolimento della funzione giurisdizionale non in sé ma quale diretta conseguenza della sua rappresentazione mediatica.
Lo ricordiamo tutti il clamore che via via, tra l’inconsueto appello televisivo di quattro pubblici ministeri, il popolo dei fax, i girotondi e l’intervista dell’ennesimo pubblico ministero che affossò la Bicamerale fino ai numerosi processi al Cavaliere, ha avvolto il Palazzo di Porta Vittoria. Un involucro rilucente sotto i riflettori dei media che ha protetto e rafforzato l’idea di una Giustizia salvifica se non vendicatrice, ma che ha sempre nuociuto allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale dandone una rappresentazione spesso distorta, a volte ostaggio delle due fazioni in contesa.
Una rappresentazione che ha fatto in definitiva ombra al corretto e diffuso esercizio della stessa funzione giurisdizionale, Così, è facile immaginare cosa scatenerà l’improvvisa, se non improvvida, decisione di quel presidente di lasciare la toga proprio un minuto dopo il deposito di quella sentenza. I tempi delle nostre azioni hanno irrimediabilmente un significato e ciò è ancora piò vero quando ci si muove in contesti come quello che si è tratteggiato.
La lettura di quel comportamento, che vuole sottolinearne il suo dissenso verso la decisione, deve tenere conto dell’esistenza di strumenti ben diversi che il sistema appronta proprio per salvaguardare la dissenting opinion. Se si fosse fatto ricorso ad essi, certamente, tutto sarebbe rimasto nell’ambito della fisiologia processuale, perché non deve certo stupire che non vi sia l’unanimità nelle decisioni giudiziarie. La collegialità, bene prezioso della funzione giudicante, ha in sé anche questa eventualità. Dovremo allora pensare che sia stato avvertito come urgente e necessario rendere così pubblico quel dissenso?
Crediamo che non sia così, e sarà bene che sul punto si faccia chiarezza dal momento che l’effetto mediatico innestato da quell’iniziativa si muove in direzione inequivocabilmente contraria. Certo è che da diversi mesi, quasi in coincidenza con il declino dell’astro politico di Berlusconi e con gli effetti che ne dovrebbero conseguire rispetto al contesto che si è descritto piò sopra, il Palazzo di Porta Vittoria è attraversato da tensioni e conflitti che ne stanno sgretolando l’immagine.
La vicenda che vede quotidianamente contrapporsi il procuratore capo Bruti Liberati ed il suo aggi unto Robledo ha ormai raggiunto un livello di conflittualità che si stenta a credere possa essere risolta con la non decisione del Consiglio superiore della magistratura dell’estate scorsa. Ed in ballo ci sono l’organizzazione degli uffici di Procura, il concreto esercizio dell’azione penale, il limite dell’autonomia e dell’indipendenza dei singoli sostituti rispetto al capo della Procura, tutti aspetti che riguardano non la sfera privata dei due contendenti ma la collettività. In un contesto del genere, francamente, non può non chiedersi quanto sia stata utile la decisione del Csm di lasciare ciascuno dei contendenti al loro posto, visti gli effetti di quel conflitto che ricadono sull’intero ufficio.
La stessa vicenda che adesso ci occupa subisce, inevitabilmente, i riflessi negativi di quel conflitto dal momento che uno dei nodi della discordia è proprio costituito dall’assegnazione dell’indagine dalla quale e scaturito il dibattimento conclusosi in appello con la sentenza di assoluzione. Questi effetti, come quelli che derivano dalla vicenda delle dimissioni, costringono quella decisione a subire giudizi tanto impropri da essere indebiti e che si sovrappongono all’unico giudizio cui fisiologicamente essa dovrà sottoporsi, ovvero quello di legittimità.
Il tentativo di indebolire quella pronuncia sembra avere il sapore amaro di chi non vuole rassegnarsi ad una nuova stagione in cui i problemi della giustizia penale siano riconsegnati alla politica riformatrice che, esercitando il suo primato, li affronti, ri disegnandone i caratteri costituzionali nel rispetto della tradizione liberale e democratica ed accogliendo le inevitabili istanze che provengono dalla modernità. Solo per questa via il giudice, sia a Milano che a Berlino, potrà esercitare la delicata funzione giurisdizionale al riparo di un’effettiva autonomia ed indipendenza.

Giustizia: vilipendio al Capo dello Stato, da anni si parla di abrogarlo, ma chi può non lo fa
di Valter Vecellio

Notizie Radicali, 18 ottobre 2014

Si può citare il caso di Carlo Manzoni, che sul "Candido" diretto da Giovannino Guareschi pubblica una serie di vignette, "Al Quirinale", che rappresentano l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che passa in rassegna due schiere di bottiglie del Nebbiolo che produceva nelle sue tenute, quasi fossero corazzieri.
Per i giudici è vilipendio addebitare a Einaudi di usare sulle etichette del suo vino, per interessi commerciali, la qualifica di "senatore". Correva l’anno 1950, Guareschi viene condannato a otto mesi.
Si può citare il caso di Umberto Bossi, l’ex leader della Lega che si scaglia violentemente contro l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro e quando la riceve, butta platealmente nel cestino l’avviso di garanzia, testimone un giornalista del "Financial Times". Correva l’anno 1993, Bossi viene assolto.
Si può citare il caso di Licio Gelli, il capo della Loggia massonica P2, e autore di un articolo sul mensile "Il Piave", intitolato "Ma Scalfaro è davvero cattolico?". Correva l’anno 1996, Gelli viene condannato anche lui a otto mesi.
Si possono citare Silvio Berlusconi, Maurizio Belpietro, Giuseppe Ciarrapico, Antonio Di Pietro, Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Gianfranco Fini, Luca Josi, Romano Misserville, Cesare Previti, Vittorio Sgarbi e, come ha ricordato giorni fa, Rita Bernardini e Marco Pannella… Alcuni casi vengono saggiamente archiviati, per altri scatta l’assoluzione. In teoria, dunque, Francesco Storace dovrebbe affrontare con serenità il processo che lo vede imputato di vilipendio nei confronti di Giorgio Napolitano.
Anche perché lo stesso Napolitano da tempo si è chiarito con Storace e quando un anno e mezzo fa una ventina di blogger che fanno capo a Beppe Grillo erano stati denunciati dalla procura di Nocera per espressioni irriguardose sulla sua figura e il suo operato Napolitano non aveva esitato a dirsi "pronto a cancellare il reato di vilipendio al presidente della Repubblica". Aveva poi aggiunto che doveva essere il Parlamento a provvedere, non poteva certo farlo lui.
Da allora non è stato fatto nulla, per il vilipendio a capo dello Stato come per tante altre cose. E dire che sempre Napolitano, nel 2009 - dunque cinque anni fa - aveva esortato "chiunque abbia titolo per esercitare l’iniziativa legislativa a liberamente proporre l’abrogazione del vilipendio a capo dello Stato".
Poi, certo, come obietta qualcuno, c’è sempre il problema di distinguere tra libertà di opinione e critica da ciò che non lo è, e il rispetto che si deve alle istituzioni, "specialmente quando si scade in grossolane ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni". Ma da qui a trasformare Storace in perseguitato e possibile eroe, ce ne corre.

Bologna: fare impresa in carcere, la sfida dei reclusi della Dozza
di Giuliana Sias

Pagina 99, 18 ottobre 2014

Una fabbrica in prigione. A Bologna i detenuti fanno impresa con i pensionati.
Esiste un’azienda, in Italia, nella quale metà dei dipendenti mette a disposizione la propria esperienza, l’altra metà tutta la volontà di cui è capace, in uno scambio generazionale che per dirla con Gramsci è in grado di produrre immense cattedrali e non semplici soffitte.
Un’azienda nella quale l’unico sciopero delle lancette è quello che si consuma nel fine settimana - improduttivo, alido, lento. "Da quando è iniziata questa esperienza di lavoro", spiega Mirko, "il sabato e la domenica non passano più. Giù in officina fai mille cose, prendi il tuo utensile, te lo monti, qualcosa la fai sempre. Una vite sembra una stupidaggine, ma una vite contiene mille informazioni".
Quest’azienda, fatta di viti e di vite, sorge nella cosiddetta "Packaging Valley", tra l’Emilia e il resto del mondo. Quel gran pezzo d’Italia che ospita circa l’80% delle aziende nostrane che producono macchinari per l’imballaggio (scatole, blister, confezioni) per i più importanti marchi internazionali. Sigarette, alimenti, bibite, cosmetici e farmaci - che siano firmati L’Oréal, Twinings oppure Nestlé - vengono impacchettati da queste parti, nel distretto bolognese che non conosce la crisi e che, anzi, in piena recessione investe contemporaneamente sia nel sociale che in formazione. Quella di alcuni detenuti del carcere della Dozza.
Il FiD (Fare Impresa in Dozza) nasce ufficialmente nel 2012 e rappresenta un’esperienza unica in Italia. L’impresa sorge infatti all’interno delle mura della Casa Circondariale di Bologna dove improvvisamente una palestra si è scoperta officina, tredici detenuti hanno potuto imparare il mestiere grazie all’aiuto di altrettanti tutor (ex operai ormai in pensione) ed essere assunti a tempo indeterminato firmando un contratto da metalmeccanici. Si tratta di una "opportunità di lavoro stabile e duraturo", si legge nell’atto costitutivo dell’azienda, "recuperabile nella vita successiva al compimento del periodo detentivo". E infatti nel progetto non vengono coinvolti ergastolani. "Sentivo i miei nonni, mio padre, che lavoravano anche quindici ore al giorno in fabbrica", racconta Roberto, uno degli operai, "per me la fabbrica era un posto simile all’inferno. Mi son dovuto ricredere con il pensiero che io avevo un tempo che chi andava a lavorare in fabbrica era un cretino perché c’era una vita sola e io magari in un’ora guadagnavo quello che loro prendevamo in una vita normale".
Nella vita normale Roberto e i suoi colleghi lavorano 30 ore la settimana, cinque giorni su sette. Rispetto a qualsiasi altra azienda - spiega Aldo Gori, impiegato nel settore per 38 anni, da tredici in pensione - gli orari sono tassativi e così, che il lavoro sia finito o meno, alle 16 si smonta: "Alle quattro meno cinque arrivano le guardie e dicono "Qui si chiude", e noi dobbiamo uscire". Gori è stato chiamato, come dice lui, "a dare gamba a questo progetto". In un primo momento assieme agli altri tutor ha tenuto un corso di 400 ore durante il quale "abbiamo insegnato a questi ragazzi Tabe della meccanica". Poi è iniziato il lavoro vero e proprio nell’officina.
"Certi mi dicono ma non hai paura? Paura di chi?, rispondo io, ho più paura a girare per strada. Queste sono persone che non hanno alcun interesse a fare cose maldestre, capiscono perfettamente che questa è una chance che non possono perdere".
Gori e gli altri insegnano, danno consigli e suggerimenti, due pomeriggi la settimana, a rotazione. "Quelle con le quali collaboro non sono persone innocenti, un guaio per essere lì lo hanno combinato di sicuro, eppure nonostante siano già due anni che ci conosciamo, ogni volta che arrivo mi stringono la mano e mi chiedono come sto. Tra noi si è creato un legame diverso, di vicinanza, che di solito non si crea nei luoghi di lavoro".
E così, dopo una prima fase di reciproche e umane diffidenze tra sconosciuti, si assemblano in contemporanea macchinari per il packaging e meccaniche divine: "Certe volte nei confronti di un carcerato si è prevenuti ma noi tutor all’inizio ci siamo detti: "Arriviamo lì e gli facciamo sentire che sono come noi, che questo è un modo per riscattare le loro esistenze, senza fargli pesare in nessun modo che hanno combinato un pasticcio"".
I tutor svelano ai ragazzi i trucchi del mestiere, ovvero come si lavora per un settore altamente specializzato in un rapporto fatto di reciprocità e nuovi inizi. "E un’esperienza molto bella e coinvolgente", racconta Valerio Monteventi che nell’ambito del FiD ha il compito di coordinare il lavoro di detenuti e tutor e facilitare i loro rapporti: "In sostanza mi occupo più della parte sociale che di quella produttiva".
Perché scopo del progetto è anche quello del reinserimento e infatti, prosegue Monte-venti, "cerco sempre di favorire la collaborazione, il lavoro collettivo, per squadre, e quasi quotidianamente fissiamo dei momenti di riunione durante i quali ci confrontiamo sui problemi legati alla produzione". Finora cinque operai che avevano aderito al progetto nel 2012 sono usciti dal carcere e sono stati assunti in aziende esterne. Il loro posto è stato preso da altri detenuti in lista d’attesa.
L’idea di creare un’azienda in carcere è dell’avvocato Minguzzi, docente di diritto commerciale dell’Alma Ma-ter di Bologna, che si è poi rivolto alla Fondazione Aldini Valeriani (quella dell’istituto industriale "per arti e mestieri" che nel capoluogo sforna tecnici dal 1878) e a tre giganti della packaging valley emiliana: Marchesini Group, GD e Ima, tre colossi del mondo della meccanica automatizzata che, assieme danno non poco filo da torcere ai principali big player tedeschi. Un’impresa audace di questi tempi?
"La verità è che non c’è mai un buon momento per fare le cose difficili", risponde Maurizio Marchesini, presidente dell’omonimo gruppo bolognese e di Confindustria Emilia-Romagna, "se aspetti il momento più favorevole rischi di non partire". Le aziende che finanziano il FiD non hanno pressoché risentito della crisi che in questi anni ha messo in ginocchio il tessuto produttivo italiano perché - spiega ancora Marchesini - "esportiamo tutte tra l’87 e il 95% del nostro fatturato".
Lungo la via Emilia non esistono segni meno né disoccupazione e la concorrenza mondiale (cinese, ma soprattutto tedesca) viene tenuta a bada a furia di flessibilità e innovazione. Immuni all’inquietudine dei mercati, la scommessa sui detenuti della Bozza deriva dalla volontà di misurarsi in maniera inedita con una situazione "complicatissima" come può essere quella del carcere: "Noi siamo degli innovatori", spiega il numero uno degli industriali emiliano romagnoli, "era giusto innovarsi anche da un punto di vista sociale".
E così i tre gruppi leader del packaging italiano hanno deciso di unire le forze per investire sui carcerati, nell’ambito di una sfida che si spera verrà replicata anche altrove. Una storia di capitani coraggiosi, questa, che però non deve trarre in inganno. Schiacciata tra il terremoto del 2012 e un mercato interno fortemente depresso, infatti, la fotografia scattata da Marchesini è quella di un’Emilia Romagna in bianco e nero: "Ci sono aziende o interi comparti che vanno bene ma chi non può contare sulle nostre percentuali di export oppure opera nel settore dell’edilizia va malissimo". Anche se la regione si conferma locomotiva d’Italia (a trainare sono appunto packaging e ceramiche) con le esportazioni che crescono del 5,8% mentre nel resto del Paese si fermano al 3,% (dati del Servizio studi di Intesa Sanpaolo).
In un contesto europeo in cui a vari livelli regnano le doppie velocità, gli occhi sono puntati soprattutto sulla Germania, che assieme all’Italia è uno dei Paesi a più alto grado di manifattura: "Tutto sommato", commenta Marchesini, "soffrono i nostri stessi problemi, a partire dalla forte preoccupazione per i costi dell’energia, che comunque ammontano al 20-30% in meno rispetto a quelli che dobbiamo sostenere noi". Posto che, certo, tra burocrazia, fisco e logistica, i freni posti alla ricrescita italiana non hanno rivali: "Quando parliamo con i nostri colleghi d’Oltralpe dei tempi che occorrono per ottenere i permessi per la costruzione di stabilimenti rimangono allibiti. Certe volte mi domando: chissà se i tedeschi riuscirebbero a fare impresa in Italia".

Un detenuti su quattro ha un lavoro, pochi in un’azienda

In Italia i detenuti che lavorano sono 14.099, vale a dire il 24,2% delle 54.195 persone oggi recluse. Secondo le ultime statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), aggiornate a giugno di quest’anno, la maggior parte lavora proprio alle dipendenze del Dap (11.735 detenuti, pari all’83,2% dei lavoranti), mentre solo una piccola minoranza (2.364, il 16,7%) è impiegata presso cooperative e aziende esterne che, almeno in linea teorica, possono dare loro una chance di reinserimento.
Di questa minoranza, 728 detenuti che godono della semilibertà lavorano all’esterno del carcere (701 per conto di imprese, gli altri in proprio) mentre altri 760 lavorano in carcere per conto di cooperative e altri 254 per altri tipi di imprese.
Al 30 settembre 2014 nei 203 istituti di pena italiani erano presenti 54.195 reclusi, di cui 17-552 stranieri e 2.335 donne. Il Dap stima una capienza massima regolamentare di 49.347 detenuti. Secondo altre fonti, tra cui i Radicali italiani, il numero effettivo di posti letto è tuttavia di appena 37 mila, perché molte strutture penitenziarie sono ancora inagibili e il piano carceri non è stato completato.
Di recente il Guardasigilli Andrea Orlando ha ricordato che nella riforma della giustizia del governo Renzi "c’è anche una delega sul sistema carcerario". Riforma che il ministro vorrebbe far precedere dalla convocazione di "Stati Generali, che affrontino e studino questo delicato tema non solo con gli operatori del mondo carcerario".
Il titolare del ministero di via Arenula ha spiegato, al riguardo, che gli Stati Generali sulla riforma del sistema penitenziario avranno tra i protagonisti "non solo gli operatori", ma anche il variegato mondo del volontariato carcerario che ha consentito di "tamponare la gravissima situazione legata al sovraffollamento carcerario".

Modena: manca il Magistrato di Sorveglianza fisso? Il risultato: diritti negati ai detenuti
di Laura Solieri

La Gazzetta di Modena, 18 ottobre 2014

Tutti d’accordo sulle gravi conseguenze dovute all’Ufficio di Sorveglianza vuoto. I volontari: permessi e richieste bloccati, un’ingiustizia.
È forte il disagio tra i detenuti e gli internati della provincia, per la mancanza del magistrato di sorveglianza di Modena, il cui ruolo è temporaneamente affidato, in supplenza, ad altri magistrati: i giudici Maria Giovanna Salsi (giudice monocratico e collegiale) e Manuela Mirandola di Reggio (giudice di sorveglianza finora a Reggio ma assegnato a Ferrara) che devono occuparsi nientemeno che di tre province in una volta, ovvero Modena, Reggio e Parma. La mancanza del magistrato infatti, può determinare (e sta già capitando) il blocco dell’attività ordinaria di esame delle istanze presentate dai detenuti e dagli internati, con conseguente interruzione dei percorsi trattamentali esterni.
Nel corso dell’estate, l’Ufficio del Garante regionale aveva già segnalato la questione al ministero di Giustizia, al Consiglio superiore della Magistratura e ai parlamentari eletti in Emilia-Romagna e la Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, si dichiara a riguardo moderatamente ottimista per i segnali che stanno arrivando dal ministero anche se, come non mancano di sottolineare i volontari delle associazioni modenesi che operano quotidianamente in carcere, la situazione non è affatto facile.
"È davvero inaccettabile che per una pura questione burocratica la vita di queste persone si fermi in ogni senso, stiamo parlando di numeri importanti dato che nella nostra provincia ci sono 380 detenuti, di cui 98 internati e 29 donne, all’interno della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco.
Ci tengo a sottolineare questo, pertanto: stiamo parlando di persone, che come tali hanno diritti che in questo modo vengono ignorati e alle quali viene negata l’opportunità di attivare percorsi per il reinserimento sociale", commenta la responsabile di Csi Modena Volontariato, Emanuela Carta. Una tensione in più che in luoghi come questi non ci voleva: "I detenuti sono molto amareggiati, non capiscono la situazione e "se la prendono" con le prime persone che hanno davanti ovvero educatori e volontari, perché trovano bloccati i loro diritti che passano per i permessi all’esterno, gli sconti di pena in base al comportamento interno e i programmi di trattamento e reinserimento - affermano Paola Cigarini del Gruppo "Carcere e Città" e Giulio Marini di "Porta Aperta Carcere" - non è nemmeno giusto che la gestione dei detenuti di altre zone della regione, possa essere compromessa dal fatto che ci sono magistrati che corrono per tutta l’Emilia-Romagna per sopperire alla mancanza di un magistrato di sorveglianza a Modena". L’assessore Giuliana Urbelli afferma che "l’assenza del magistrato tiene bloccate anche le richieste essenziali per i permessi legati al recupero dei detenuti. L’amministrazione - conclude l’assessore - in un recente incontro con la direzione del carcere modenese ha peraltro condiviso l’esigenza di incrementare le opportunità di occupazione, anche volontaria, dei detenuti in ottica "restitutiva" verso la collettività e di reinserimento sociale".

Roma: l’Assessore Cutini; recidiva detenuti crolla con percorsi reinserimento lavorativo

Asca, 18 ottobre 2014

"Roma Capitale tutela e promuove il diritto di ogni cittadino in ogni luogo. Anche in carcere". Lo dichiara in una nota Rita Cutini assessore al Sostegno Sociale e alla Sussidiarietà di Roma Capitale, a margine della partecipazione alla manifestazione di moda promossa, presso la Casa circondariale femminile di Rebibbia, dal brand Nero Luce made in Rebibbia. "Dobbiamo promuovere una reale integrazione delle strutture di detenzione e di risocializzazione dei cittadini detenuti nel tessuto urbano e sociale della città.
Laddove gli uomini e le donne detenute seguono percorsi reali di reinserimento fatti di lavoro, ripresa dei rapporti con il mondo libero, con la famiglia e la società, la recidiva crolla. Vincere questa sfida - conclude Cutini - passa anche per l’ impegno che ci assumiamo a sostenere concretamente i progetti lavorativi di detenuti ed ex detenuti dentro e fuori le carceri, anche grazie al prezioso lavoro che associazioni e cooperative sociali svolgono quotidianamente". 

Ascoli: vanno in carcere a trovare un parente detenuto, vengono derubati

Il Resto del Carlino, 18 ottobre 2014


Colpevole una donna anche lei in visita a un familiare, condannata con pena sospesa. Vanno in carcere a trovare un parente detenuto, ma mentre sono a colloquio con lui vengono derubati. È successo a due persone che nella Casa circondariale di Ascoli sono state derubate di tutto quello che avevano lasciato nell’armadietto in sala d’attesa: oggetti preziosi, carte di credito, chiavi di casa e di auto, telefoni cellulari, I-Pod, documenti.
Autrice del furto sarebbe una donna ascolana che, anche lei in visita a un parente detenuto, ha approfittato del fatto che con la chiave dell’armadietto dove aveva riposto le sue cose è riuscita ad aprire anche l’altro. La donna è stata processata per furto davanti al tribunale di Ascoli e condannata dal giudice a un anno di reclusione (pena sospesa). Le indagini si erano immediatamente indirizzate su di lei, tanto che la maggiore parte della refurtiva nel giro di poche ore era stata recuperata nel palazzo dove vive ad Ascoli. I preziosi li aveva invece impegnati, in cambio di soldi, in un Compro oro.

Milano: alla Bicocca evento conclusivo del corso "Le forme della mediazione dei conflitti"

Comunicato stampa, 18 ottobre 2014

A Milano, presso la sala Rodolfi dell’Università Bicocca di Milano, il 14 ottobre 2014, si è tenuta l’iniziativa denominata "Il carcere in Università". 
Detta iniziativa, realizzata nell’ambito Convenzione quadro stipulata il 28 giugno 2013 tra l’Ateneo Milanese e il Provveditorato della Lombardia, è stata realizzata come momento conclusivo e di restituzione del corso "Le forme della mediazione dei conflitti" tenuto dal Prof. Alberto Giasanti, docente di Sociologia dei processi culturali dell’Università Bicocca.
Il corso, svoltosi presso il teatro dell’istituto penitenziario di Opera nel periodo da febbraio a maggio 2014 , ha visto 33 studentesse dell’Università entrare in carcere e lavorare insieme a 25 detenuti sul tema della mediazione dei conflitti.
Al termine del percorso i partecipanti, divisi in gruppi, hanno consegnato gli elaborati finali, accomunati dalle parole chiave "conflitto, mediazione, perdono" e hanno ottenuto il massimo dei voti: cinque 30/30 e un 30 e lode per il gruppo Giochi di luci e ombre. La presentazione dei lavori è stata accompagnata dalla proiezione di foto di sketch teatrali a cura degli studenti partecipanti al corso (detenuti e non), con lo scopo di rappresentare visivamente i temi trattati.
I titoli delle tesi: Il divenire della coscienza, Giochi di luci e ombre: dalla mediazione di sé alla responsabilità sociale, Leggere l’Amleto attraverso gli occhi della mediazione, Il potere terapeutico e formativo delle fiabe. Tra ombra e mediazione con stessi, L’ombra del potere, I conflitti in Medea: quale sbocco catartico?
Le relazioni verranno raccolte e pubblicate prossimamente nel libro "università@carcere. Conflitto - mediazione - perdono", a cura di Anima Edizioni.
Alla giornata di presentazione in Università sono intervenuti 20 dei 25 detenuti partecipanti al corso di formazione, i quali alla presenza delle autorità dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Università, della Magistratura di Sorveglianza, degli studenti e dei professori hanno ripresentato i loro lavori, molto apprezzati dal pubblico presente, perché la profondità dei contenuti e la proprietà di linguaggio espressi soprattutto dai detenuti stranieri sono stati notevoli.

Maria Siciliano, funzionario giuridico-pedagogico
Unità Organizzativa del Trattamento Ufficio Detenuti e Trattamento
Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia


L’Aquila: "Premio Letterario Bonanni", il 24 ottobre la premiazione dei detenuti vincitori

Il Centro, 18 ottobre 2014


Sono stati comunicati i nomi dei i vincitori dell’ottavo concorso nazionale di Poesia, nell’ambito del Premio Bonanni - Bper, riservato ai detenuti degli istituti di pena italiani, concorso organizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia Primo classificato: Nazareno Caporali, Casa circondariale di "Opera" Milano; Secondi classificati - ex aequo: Giuseppe Medile, casa circondariale di "Rebibbia" Roma e Diego Zuin, casa circondariale di Volterra. La cerimonia di premiazione si terrà, con la partecipazione del poeta Adam Zagajewski, ospite d’onore 2014 del premio, venerdì 24 ottobre alle 15.30 presso il Teatro della Casa Circondariale nella frazione Costarelle di Preturo. L’iniziativa ha come scopo principale quello di migliorare la detenzione nelle carceri italiani dei reclusi che partecipando a determinate iniziative, possono in qualche modo uscire dall’isolamento e crescere culturalmente.

Santa Maria Capua Vetere (Ce): lunedì spettacolo di musica popolare campana in carcere

www.casertanews.it, 18 ottobre 2014


"Tra tradizione canora napoletana e musica popolare campana": è il titolo dello spettacolo che si terrà nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lunedì prossimo, 20 ottobre, a partire dalle ore 15:30. Ancora una volta a promuovere l’evento è l’Associazione Casmu di Carinaro, presieduta da Mario Guida, con la collaborazione della Rassegna Nazionale di Teatro Scuola PulciNellaMente e in sinergia con i vertici della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Carlotta Giaquinto, con il comandante commissario Gaetano Manganelli e il dottor Bruno Baccuni responsabile dei progetti di socializzazione per i detenuti. Solo qualche settimana fa, sempre su iniziativa dell’Associazione Casmu, nel penitenziario casertano si tenne la proiezione del docufilm "Nisida. Storie maledette di ragazzi a rischio" cui seguì un incontro - dibattito con il regista e gli attori del film.
Questa volta invece sono di scena la musica popolare campana e le canzoni tipiche della tradizione napoletana. In particolare saranno interpretati "canti popolari" secolari e componimenti di autori ignoti che si sono arricchiti e modificati nel corso degli anni grazie al contributo spesso casuale del popolo. Pezzi di storia, spaccati di una civiltà ormai lontanissima che sopravvive grazie proprio a queste straordinarie testimonianze trasmesse per via orale da padre in figlio.
Di recente il Gruppo Popolare dei Rarecanova di Pomigliano D’Arco, dopo anni di studio, ha pubblicato un lavoro discografico in cui raccoglie molti di questi "canti popolari", alcuni dei quali inediti e fortemente suggestivi. I Rarecanova presso la casa circondariale di S. Maria C. V. eseguiranno dal vivo questi canti e altri rinomati successi del loro ampio repertorio.
Prima di loro si esibiranno gli artisti Olga Sorriso e Nello Troise che invece interpreteranno canzoni intramontabili della musica classica napoletana. L’evento sarà presentato da Annamaria Esposito. Giovanni Spena coordinerà i service tecnici di audio e luci, gli addobbi floreali saranno invece curati da Nicola Perfetto.
"Con questa iniziativa - dichiara Mario Guida, coordinatore dell’evento - che segue tante altre promosse insieme al direttore di PulciNellaMente, Elpidio Iorio, per offrire un’opportunità di svago ai detenuti ospitati nelle varie strutture della Campania, ci proponiamo di regalare delle emozioni profonde attraverso musiche che da secoli sono fortemente radicate nel tessuto sociale delle nostre terre e di conseguenza sono parte pregnante del nostro vissuto. A queste note si associano ricordi ma anche speranze di poter andare oltre il momento difficile che si ritrovano a vivere i detenuti. In conclusione voglio esprimere un sentito ringraziamento a quanti hanno dato un concreto contributo organizzativo per l’allestimento di questo evento ovvero la direttrice Giaquinto e il personale amministrativo e di polizia penitenziaria del carcere sammaritano".

Teatro: dalle sbarre a Jean Genet, l’ultimo show dei detenuti in scena a Torino
di Adriana Marmiroli

La Stampa, 18 ottobre 2014


Al Teatro Menotti il nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza. Vedere lontana da casa la Compagnia della Fortezza non capita spesso: impedimenti burocratici ed esigenze giudiziarie rendono la cosa molto complessa.
Perché la Compagnia è formata da detenuti: una realtà all’avanguardia, tra le prime al mondo, sia per un discorso di reinserimento e riabilitazione (numerosi gli ex che sono diventati attori: per tutti Aniello Arena, protagonista di "Reality") sia soprattutto - ed è ciò che interessa questa pagina - da un punto di vista teatrale. 
Sono 26 anni che Armando Punzo svolge all’interno della Casa di Reclusione volterrana un’attività teatrale che, partita come semplice laboratorio, si è trasformata nel tempo in quello che può definirsi a tutti gli effetti un teatro stabile, con una stagione, un repertorio e un’attività continuativa di formazione e studio. 
Dopo essere stata al Teatro Menotti nel 2013 con "Mercuzio non vuole morire", ora la Compagnia torna con "Santo Genet": dopo Shakespeare, un’altra rilettura e un autore, il francese Jean Genet, fondamentale per via della sua parabola esistenziale di ladro, recluso, omosessuale, emarginato, riscattato però dall’attività di scrittore. Come spiega Punzo, uno che "ha saputo trasformare la materia più vile in oro". 
Racconta quindi di un lungo e articolato processo intrapreso con la Compagnia per arrivare a mettere in scena uno spettacolo che è riflessione sulla opera di Genet in generale ma ancora di più sulla realtà umana (non solo carceraria), la capacità di creare bellezza dove questa non c’è. "A monte una domanda che a un certo punto ci siamo posti: cosa da così tanti anni ci fa tornare ogni giorno con inesausto entusiasmo in quella cella, in quel piccolo spazio che noi chiamiamo teatro? La risposta è stata che noi in quel luogo viviamo altre esperienze, eliminiamo il nostro vissuto per crearne un altro". In questo caso un "Santo Genet" fastoso, visionario, onirico, smagliante. Secondo la critica il loro spettacolo più bello e trascinante. Teatro Menotti, via Menotti 11, fino al 19 ottobre, ore 20.30 (domenica ore 17), 25 euro, info: www.teatromenotti.org.

Immigrazione: l’Agenzia Habeshia "più barriere in Europa, più torture e abusi in Libia"

La Repubblica, 18 ottobre 201
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In un documento dell’Agenzia Habeshia si denuncia come nella politica europea sull’immigrazione ci sia un giro di vite forte, condiviso, più pesante di quello che si temeva. Il segnale più evidente è Mos Maiorum, l’operazione di polizia promossa dal governo italiano e coordinata dal ministero degli interni: 18 mila agenti per una retata che considera il "migrante irregolare" un "criminale".
Un girone sempre più profondo di torture e abusi - si legge in un documento diffuso dall’Agenzia Habeshia - per le migliaia di profughi intrappolati in Libia. Dimenticate le lacrime dei familiari e dei superstiti che per un momento sono tornate in primo piano, spenta l’eco degli impegni profusi da politici e istituzioni accorsi a Lampedusa, in occasione del primo anniversario della strage, all’indomani di quel "3 ottobre" diventato il simbolo di tutte le tragedie che si consumano nel Mediterraneo e nel Sahara o nei paesi di transito, l’autunno prospetta un futuro ancora più buio per i migranti in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. Nella politica sull’immigrazione c’è in tutta Europa un giro di vite forte, condiviso, più pesante di quello che si temeva.
Nuova gigantesca operazione di polizia. Il segnale più evidente è Mos Maiorum, la gigantesca operazione di polizia che, iniziata il 13 ottobre, si protrarrà per due settimane. Promossa dal governo italiano come presidente di turno del Consiglio Ue e coordinata dal ministero degli interni, vede impegnati in tutta Europa, ma in particolare in Italia, ben 18 mila agenti, incaricati di fermare, controllare, identificare, schedare quanti più migranti irregolari e richiedenti asilo possibile. Una retata di dimensioni continentali, che parte di fatto da una presunzione di colpevolezza, quasi a ridare fiato all’idea che "clandestino" equivale a "criminale".
La giustificazione. La giustificazione ufficiale è che si vogliono combattere, anzi, stroncare le organizzazioni dei trafficanti di uomini. Ma appare almeno singolare che per combattere i carnefici si colpiscano le vittime. Dimenticando che i rifugiati, tutte le migliaia e migliaia di giovani costretti a fuggire dal proprio paese per salvarsi da guerre e persecuzioni, non possono che essere clandestini. Tanto più se, in mancanza di canali di ingresso legali, l’unica chance che hanno, in questa fuga per la vita, è quella di affidarsi appunto ai mercanti di morte che organizzano i viaggi da schiavi attraverso il deserto e le traversate del Mediterraneo sui barconi a perdere. Che fine faranno le migliaia di uomini e donne caduti nella rete non è noto. Ad andare bene, finiranno abbandonati a se stessi, altri "fantasmi" senza diritti destinati ad affollare ancora di più le baraccopoli e i palazzi occupati abusivamente da altre migliaia come loro. Per non dire del timore che per molti possa scattare il respingimento: la deportazione verso le coste dalle quali si sono imbarcati o, peggio, nei paesi d’origine da cui sono scappati.
Sarà una caccia agli "indesiderabili". Più che una operazione di intelligence per "raccogliere informazioni rilevanti per scopi investigativi", insomma, Mos Maiorum appare un modo per ripulire il territorio da una massa di "indesiderabili". Nella solita ottica della "difesa dei confini", sulla quale insiste da anni il ministro Alfano e che trova sempre più sponda in altri governi europei. La scelta di questa mega retata, infatti, non arriva isolata. Quasi tutti gli Stati membri dell’Unione hanno chiuso o stanno chiudendo le proprie frontiere ai disperati che, giunti in Italia, speravano di proseguire verso paesi dove hanno amici e familiari pronti ad aiutarli o dove, più semplicemente, il sistema di accoglienza è migliore. La Francia, negli ultimi mesi, ne ha rimandati indietro oltre tremila; la Svizzera ha cominciato da alcune settimane ad adottare la stessa politica; l’Austria lo sta facendo già da tempo: dai primi giorni di luglio a metà settembre oltre 2.100 migranti "riconsegnati" all’Italia.
Alfano come Maroni? A proposito di confini, continua la pratica della esternalizzazione: lo spostamento della frontiera europea sulla sponda meridionale del Mediterraneo o ancora più a sud. Proprio il 3 ottobre, a consegnare alla Marina tunisina due nuovi pattugliatori d’altura, costruiti dai cantieri Vittoria di Adria, c’è andato il ministro Alfano. Il ministro degli interni. Non quello della difesa, come sarebbe stato più logico, trattandosi di "questioni militari". È solo un caso? Forse. Ma forse no. I pattugliatori sono le navi ideali per il controllo del mare. Incluse le rotte dei migranti. È forte il sospetto, allora, che la consegna di queste navi vada letta come il primo passo di un piano tendente a rinnovare, stringendone le maglie e ampliandone le funzioni, l’accordo bilaterale sull’emigrazione tra Roma e Tunisi firmato nel 2011 dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni. Ad affidare cioè alla Tunisia lo stesso ruolo di "gendarme del Mediterraneo" assegnato fin dal 2009 alla Libia.
Mare Nostrum di fatto cancellato. Sta di fatto che, rientrato in Italia, Alfano ha di nuovo insistito sulla necessità di difendere le frontiere, confermando la fine ormai prossima dell’operazione Mare Nostrum e l’inizio di Triton, il capitolo italiano del programma comunitario Frontex Plus. Ovvero: l’innalzamento di un’altra barriera. Il nuovo progetto di sorveglianza in mare, infatti, si limiterà ad una fascia di poche miglia più larga delle acque territoriali, vanificando così l’unico aspetto positivo di Mare Nostrum che, prevedendo controlli fino ai limiti delle acque libiche, ha consentito almeno di salvare decine di migliaia di vite umane.
Retate ovunque e mare insicuro per i migranti. Così il cerchio si chiude: retate in tutta Europa e mare molto più insicuro per i migranti. Forse in questo modo ci saranno meno arrivi sulle nostre coste. Solo che ci saranno inevitabilmente ancora più vittime delle circa 3.500 registrate finora dall’inizio dell’anno. Si accentua, insomma, l’indifferenza contro cui si spegne il grido di aiuto che arriva dai profughi intrappolati sulla sponda del Nord Africa.
Proprio mentre dalla Libia giungono notizie di soprusi e torture crescenti. È il caso del carcere di Abu Wissa, gestito dal ministero dell’interno e in funzione dal 2009 vicino a Zawya, sulla costa occidentale. Vi sono ammassati, a gruppi di 200 per stanzone, in condizioni che definire degradanti è poco, più di 1.200 detenuti, in maggioranza eritrei ed etiopi, colpevoli solo di essere migranti.
La telefonata. Uno di loro, il 16 ottobre, è riuscito a "rubare" una telefonata, mettendosi in contatto con l’agenzia Habeshia: "Non c’è spazio nemmeno per muoversi - ha raccontato - Si respira a fatica. Per disperazione abbiamo accennato a un gesto di protesta, bussando tutti alla porta. È stato peggio: siamo stati denudati, frustati e costretti a dormire all’aperto. Molti di noi, in queste condizioni, si sono ammalati. Stanno male, ma nessuno si prende cura di loro. Oggi un ragazzo nigeriano è morto. Quando sono venute le guardie glielo abbiamo detto. ‘Meglio così, ci hanno risposto, tanto farete tutti la stessa finè... Siamo disperati. Chiediamo che qualcuno ci aiuti".
Via dalle guerre "tutti contro tutti". Quei profughi sono fuggiti da dittature e persecuzioni. Finiti in mezzo alla guerra di tutti contro tutti che ha gettato la Libia nel caos, molti hanno tentato di rifugiarsi in Tunisia. Al confine si sono presentati stringendo in mano la tessera dell’Unhcr, il Commissariato dell’Onu, che attesta il loro status di rifugiati e richiedenti asilo: "Non è servito a nulla - denunciano. I militari in servizio alla frontiera non ci sono neanche stati a sentire: ci hanno respinto e costretto a tornare indietro. Allora abbiamo pensato di rivolgerci alla Mezzaluna Rossa, ma a Zawya siamo incappati in un gruppo di miliziani, che ci hanno arrestato e gettato nel carcere di Abu Wissa. È un lager, dove i detenuti vengono torturati. Soprusi e maltrattamenti sono diventati il passatempo delle guardie, che ridono e si divertono mentre noi urliamo per il dolore. Va avanti così da mesi...".
L’inferno di Misurata. Il carcere di Misurata, allestito nel 2009 nell’ex scuola di Bilqaria, è un altro girone infernale. I 400 detenuti sono tutti eritrei. Tra loro, 50 donne e 18 bambini. Gli uomini sono stati spesso sequestrati e costretti dai miliziani a trasportare munizioni e rifornimenti, durante i combattimenti tra le varie fazioni, fin sulla linea del fuoco. Sono rimasti feriti a decine, alcuni sono stati uccisi. Di circa 200 non si ha più notizia da quando li hanno portati via come ausiliari schiavi.
Don Mussie Zerai: "Si alzano solo muri". il sacerdote eritreo presidente dell’agenzia Habeshia, trattiene a stento l’indignazione: "È assurdo. L’Europa continua a restare sorda, insensibile alle grida di aiuto che arrivano ogni giorno da questi giovani. Anzi, ora lancia Mos Maiorum per arrestare chi, nonostante tutto, riesce a sbarcare, fuggendo dall’incubo che è diventata oggi la Libia. Pensa solo ad alzare muri per non sentire, lasciare al di là, la disperazione che sale dal Sud del mondo. Ecco perché continua a militarizzare il Mediterraneo: per impedire che gli ‘ultimi della terrà giungano a bussare alle sue porte.
Allora bisogna dar voce a chi oggi non ha voce: gridare noi per loro, all’interno della Fortezza Europa, finché i governi, tutte le istituzioni, non decideranno di ascoltare. Siamo di fronte a una catastrofe umanitaria senza precedenti: l’unico modo per cercare di risolverla è quello di aprire le ambasciate in Africa alle richieste di asilo, istituire corridoi di accesso legali, rilasciare visti per motivi umanitari, ricongiungimento familiare, asilo politico. Lanciamo l’ennesimo appello, in questo senso, a tutte le cancellerie dell’Unione".
La denuncia alle Corti di Giustizia. Analisi e prese di posizioni analoghe sono state pubblicate in questi giorni anche da organismi qualificati come Amnesty International o l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che, partendo dalla triste, terribile "conta dei morti", chiedono all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri una svolta radicale nelle politiche di accoglienza e nei programmi di soccorso. Contestatissima in particolare, da parte di Amnesty, la scelta abbinata di varare le retate di polizia di Mos Maiorum e di chiudere contemporaneamente Mare Nostrum senza alcun valido progetto "salvavita" alternativo. Mentre Fulvio Vassallo Paleologo, docente all’Università di Palermo, annuncia per conto dell’Asgi l’avvio di un programma di controllo, denominato non a caso Ius Maiorum che, in collaborazione con il gruppo Medici per i diritti umani (Medu), presenterà alle corti di giustizia e alle istituzione un rapporto sui soprusi subiti dai migranti al termine di Mos Maiorum.

Immigrazione: un "sistema comune di asilo" sarebbe la soluzione più utile
di Liana Vita e Valentina Brinis

Il Manifesto, 18 ottobre 201
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Mercoledì pomeriggio un gruppo di migranti da poco arrivati in Italia, e trasferiti al centro di accoglienza di Pozzallo, si è rifiutato di sottoporsi alle procedure di fotosegnalamento (rilevamento delle impronte digitali, scatto di una foto e risposta a una breve intervista). Il motivo riguarda l’obbligo di presentare la domanda di protezione internazionale nel paese in cui il profugo rilascia le impronte digitali.
Esse saranno poi trasmesse a una banca dati centrale all’interno del sistema Eurodac, come previsto Regolamento di Dublino III. Questo aspetto è un limite invalicabile al compimento del progetto migratorio da parte di chi fugge da paesi in stato di guerra, e tenta di raggiungere zone del mondo in cui rivendicare un diritto: quello all’asilo.
Nessuna legge è riuscita finora a fermare, ma anche solo limitare, gli sbarchi. Le emergenze umanitarie continuano e le persone sono costrette a fuggire. Ecco perché affrontano il mare in condizioni di pericolosità, senza badare se a bordo delle imbarcazioni si è in dieci, venti o cento, se ci sono i salvagente o acqua da bere a sufficienza. Senza sapere chi guiderà e senza sapere se, e dove, si arriverà. L’importante è tentare di evitare la morte in Siria, Eritrea, Etiopia, Sudan, Libia. E dopo aver rischiato così tanto bisogna provare a tutti i costi a portare a termine il viaggio, come desiderano fare i profughi giunti a Pozzallo che, proprio per questo, dichiarano di essere stati costretti al rilevamento delle impronte digitali.
Ma questa non è una vicenda isolata. La settimana scorsa persone di nazionalità siriana, tra cui 32 donne e 21 minori, sono sbarcate sulle coste calabresi vicino a Isola di Capo Rizzuto. Come prevedono le procedure ministeriali è avvenuto il trasferimento al centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati Sant’Anna, in cui avrebbe dovuto tenersi il foto segnalamento, prassi alla quale dopo un primo rifiuto sono stati obbligati a sottoporsi ma solo dopo essere giunti in Questura.
Il metodo adottato è stato anticipato da un volantino multilingue in cui si avvertivano i migranti che sarebbero stati "identificati mediante l’acquisizione delle generalità ed il foto segnalamento", e che lo stesso sarebbe stato effettuato "anche con l’uso della forza se necessario".
Insomma, nessuno poteva fuggire all’identificazione. A fine settembre, in seguito alle pressioni ricevute dall’Europa, il ministero dell’Interno aveva emanato una circolare rivolta ai prefetti e ai questori sollecitandoli ad "affrontare la situazione emergenziale con rinnovata cura nella attività di identificazione e di foto segnalamento dei migranti".
Il tema dell’identificazione è stato uno dei punti all’ordine del giorno della riunione dei ministri degli affari interni dell’Unione europea lo scorso 10 ottobre, che si è concluso con l’invito rivolto agli Stati membri a rispettare le procedure Eurodac adottando, se necessario, misure restrittive per impedire reazioni di rifiuto da parte del migrante, sempre nel rispetto dei diritti umani fondamentali.
Ed è proprio questo l’aspetto più delicato della questione: come si deve comportare il funzionario di polizia se la persona da riconoscere si oppone a quella pratica? Il regolamento Eurodac prevede che si proceda "tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita … in conformità delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla convenzione Onu sui diritti del fanciullo", escludendo evidentemente l’uso della forza.
Del resto, la prassi prevede l’imposizione dell’identificazione solo in seguito all’autorizzazione da parte di un giudice. Ma qui sorge un’altra domanda: nel caso delle migliaia di profughi sbarcati sulle coste italiane, come può un giudice approvare tutte quelle ordinanze in tempi così stretti?
È chiaro che ci si trova davanti a una situazione complessa, delicata e quasi ingestibile. Ma proprio per questo bisogna focalizzare l’attenzione su un dato imprescindibile: quante delle persone sbarcate una volta poste di fronte alla scelta Italia e resto d’Europa, hanno optato per la seconda possibilità? Finora si tratta della maggior parte.
E ciò dimostra che il nostro, per i migranti, è un paese di transito. Allora non resta che prendere atto di questo e ritornare a insistere su quei dispositivi europei, come il sistema comune di asilo, che renderebbero la vita più facile non solo ai migranti ma anche agli stati che li accolgono.

Droghe: cannabis ad uso sanitario made in Italy? vale 1,4 miliardi e 10mila posti di lavoro
di Ernesto Diffidenti

Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2014


Il via libera alla cannabis per uso terapeutico può portare giovamento ai pazienti con patologie gravi come Sla, sindrome di Tourette, Alzheimer, Parkinson e diversi tipi di sclerosi, per i quali il principio attivo contenuto nella pianta si è dimostrato utile ma anche rappresentare un’opportunità economica per gli agricoltori con la creazione di nuovi posti di lavoro.
A sostenerlo è un’indagine Coldiretti/Ixè presentata a Cernobbio nel corso del Forum internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione, secondo la quale quasi due italiani su tre (64 per cento) sono favorevoli alla coltivazione della cannabis ad uso terapeutico in Italia, per motivi di salute ma anche economici e occupazionali.
La stragrande maggioranza dei cittadini accoglie dunque con favore, secondo Coldiretti, la firma del protocollo per l’avvio della produzione di cannabis terapeutica nello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze da parte del Ministro della difesa Roberta Pinotti e del ministro della Salute Beatrice Lorenzin. I primi prodotti farmaceutici saranno pronti entro il 2015 e saranno valutati da un gruppo di lavoro interministeriale con la presenza di amministrazioni locali e autorità sanitarie: il progetto pilota si pone l’obiettivo di rendere disponibili a farmaci a prezzi più accessibili, ma anche di arginare la diffusione e il ricorso a prodotti non autorizzati, contraffatti o illegali che è in rapida espansione.
"La coltivazione, trasformazione e commercio in Italia della cannabis a scopo terapeutico per soddisfare i bisogni dei pazienti in Italia e all’estero - sottolinea il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo - può generare da subito un business di 1,4 miliardi e garantire almeno 10mila posti di lavoro dai campi al flaconi".
Per la Coldiretti si potrebbero utilizzare gli spazi già disponibili nelle serre abbandonate o dismesse a causa della crisi nell’ortofloricoltura. "Si tratta di ambienti al chiuso - precisa il presidente della Coldiretti - dove più facilmente possono essere effettuate le procedure di controllo da parte dell’autorità preposte per evitare il rischio di abusi". In tutto circa mille ettari che taglierebbero il costo dell’import (15 euro al grammo) e "avvarrebbero un progetto di filiera italiana al 100 per cento unendo l’agricoltura all’industria farmaceutica".
Questa prima sperimentazione, inoltre, secondo Coldiretti, potrebbe aprire potenzialità enormi se si dovesse decidere di estendere la produzione anche in campo aperto nei terreni adatti: negli anni 40 con ben 100mila gli ettari coltivati l’Italia era il secondo produttore mondiale della cannabis sativa, che dal punto di vista botanico è simile alla varietà indica utilizzata a fini terapeutici. "L’agricoltura italiana è oggi pronta a recepire le disposizioni emanate dal Governo e a collaborare per la creazione di una filiera controllata capace di far fronte a una precisa richiesta di prodotti per la cura delle persone affette da malattia - spiega Moncalvo - : si tratta anche di un progetto innovativo che potrebbe vedere il nostro Paese all’avanguardia nel mondo". 

India: Tomaso ed Eli detenuti, conclusa la raccolta fondi per il docufilm

www.primocanale.it, 18 ottobre 2014


Oltre 12mila euro sono stati raccolti dalle case di produzione Ouvert (Torino) e Articolture (Bologna) che ad agosto avevano lanciato una campagna di crowd-funding a sostegno della loro ultima co-produzione. Un film sulla storia di Tomaso Bruno, il giovane albenganese detenuto insieme a Elisabetta Boncompagni, da oltre quattro anni nel carcere di Varanasi, in India, per l’accusa di omicidio del loro allora compagno di viaggio, Francesco Montis.
Il budget è destinato alla copertura dei costi della missione della troupe e del regista, in occasione della sentenza definitiva dalla Corte Suprema di Nuova Delhi sul caso Bruno, in programma il 28 ottobre. La troupe è stata in India, al fianco di Marina ed Euro Bruno, i genitori del ragazzo di Albenga che dal 2010 lottano per la sua scarcerazione, per filmare i giorni di attesa della discussione del caso e incontrare Tomaso.

Sudafrica: caso Pistorius; l’accusa chiede 10 anni, la pena sarà annunciata martedì

Agi, 18 ottobre 2014

La procura sudafricana ha chiesto 10 anni di reclusione per Oscar Pistorius, già riconosciuto colpevole di omicidio colposo per la morte della sua fidanzata, Reeva Steenkamp. Il giudice Thokozile Masipa ha però aggiornato la seduta al 21 ottobre per comunicare la pena. Nel corso della seduta, ha presentato le sue conclusioni anche la difesa, chiedendo invece che all’atleta paraolimpico venga risparmiato il carcere e che Pistorius venga assegnato agli arresti domiciliari. Pistorius sparò a Reeva Steenkmp attraverso una porta chiusa del bagno nella casa dove viveva la coppia, la mattina del 14 febbraio dell’anno scorso.
La giudice ha accettato la versione dell’atleta, secondo cui egli aprì il fuoco scambiando la bellissima modella per un intruso, e ha stabilito che l’atleta non poteva prevedere la morte della persona che si trovava al di là. La decisione ha evitato a Pistorius la condanna per omicidio volontario, ma la giudice ha anche stabilito che l’atleta agì con negligenza, sparando contro una minaccia percepita, invece che cercare alternative come chiedere aiuto. Nel sostenere gli arresti domiciliari, la difesa ha sostanzialmente detto che il giovane ha già sofferto abbastanza e dunque gli va risparmiato il carcere. Il procuratore Gerrie Nel ha invece sottolineato che "la negligenza confina con la colpa. Dieci anni è dunque il minimo". 

Francia: a Parigi 150 opere d’arte dalle carceri di tutto il mondo
di Annalisa Lista

www.west-info.eu, 18 ottobre 2014


Mezzo metro quadrato di libertà. È il titolo della mostra d’arte interamente realizzata da detenuti provenienti da tutto il mondo. Per la prima volta organizzata a Parigi, sarà possibile ammirarla nella Dorothy’s Gallery dal 17 ottobre al 12 dicembre. Disegni, sculture, dipinti che raccontano la vita dei prigionieri dalla disperazione della loro condizione alla speranza del futuro che li anima. La capitale francese ospiterà ben 150 dei 250 capolavori scelti tra più di mille a cura dell’associazione tedesca Art And Prison, che ha indetto un concorso internazionale durato due anni per collezionarli. Un progetto di inclusione e riabilitazione che permette, attraverso la creatività, di sentirsi liberi all’interno di quattro mura.

 

 

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