Una firma per rendere il carcere più umano di Agnese Moro La Stampa, 9 novembre 2014 La redazione di Ristretti Orizzonti - rivista e agenzia culturale impegnata dall’interno della Casa di reclusione di Padova a creare un ponte tra carcere e società - ha lanciato la campagna sui rapporti affettivi in carcere "Carcere: per qualche metro e un po’ di amore in più" alla quale tutti possono aderire firmando la petizione nel sito www.ristretti.org. Ecco il testo. "Per qualche metro e un po’ di amore in più. Carceri più umane significa carceri che non annientino le famiglie. L’Europa non si può "accontentare" dei tre metri di spazio a detenuto per decretare che le nostre carceri non sono più disumane. Lo sono eccome, e lo sono in particolare per come trattano i famigliari dei detenuti: sei ore al mese di colloqui e dieci miserabili minuti a settimana di telefonata, spazi per gli incontri spesso tristi e affollati, attese lunghe, estenuanti, umilianti. E allora chiediamo all’Europa di occuparsi anche delle famiglie dei detenuti, e di invitare l’Italia a introdurre misure nuove per tutelarle. Siamo convinti che unirci in questa battaglia possa essere una forza in più per ottenere il risultato sperato. E noi speriamo che questa battaglia qualche risultato lo dia: una legge per liberalizzare le telefonate, come avviene in moltissimi Paesi al mondo, e per consentire i colloqui riservati. E una legge così, aiutando a salvare l’affetto delle famiglie delle persone detenute, produrrebbe quella "sicurezza sociale", che è cosa molto più nobile e importante della semplice sicurezza. Firmiamo per chiedere finalmente questa legge, coinvolgiamo le famiglie di chi è detenuto, ma anche quelle dei cittadini "liberi", perché in ogni famiglia può capitare che qualcuno finisca in carcere, e nessuno più dovrebbe essere costretto alla vergogna e alla sofferenza dei colloqui, come avvengono ora nelle sale sovraffollate delle nostre galere. Facciamo del 24 dicembre, vigilia di Natale, festa delle famiglie, una scadenza importante per sostenere, con tutte le forme di lotta non violente che riusciamo a immaginare, questa nostra richiesta. 24 dicembre 2014: per quel giorno, raccogliamo migliaia di firme, da tutte le carceri, per un po’ di amore in più". Niente può giustificare il fatto che in carcere si impediscano rapporti affettivi pieni. Una pena ingiusta per i familiari innocenti. E per chi ha sbagliato la privazione di una spinta preziosa a riguadagnare una piena umanità. Giustizia: il pericolo nascosto nella verità negata di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 novembre 2014 La sentenza della Corte d’appello sul caso Cucchi ha un devastante lato oscuro: milioni di italiani potrebbero non credere più al sistema della giustizia e trasformare il volto martoriato di Stefano in icona plausibile per altre indignazioni quotidiane. La chiave sta in due righe e una foto, a galla su Internet come un messaggio in bottiglia. "Più di tre milioni di persone hanno visto questo post, non siamo soli e non lo saremo mai", scrive Ilaria Cucchi accanto all’immagine di suo fratello Stefano, sfigurato dalle botte sul tavolo dell’obitorio. Ecco. Tre milioni di persone ripescano quella bottiglia, rileggono quel messaggio, guardano il volto di quel ragazzo qualunque, un figlio, un fratello, uno di noi. L’effetto è quello di una chiamata generale. Così si spiega la serata delle "mille candele" ieri a Roma, in piazza Indipendenza, lanciata e rilanciata via web, cresciuta nel passaparola dei blogger e diventata infine un sussulto di rabbia reale sotto il Csm al grido di "giu-sti-zia! giu-sti-zia!". Accorrono ragazzi dei collettivi antagonisti, certo. Amici di Stefano anche da Villa Maraini, sì, dove si lotta contro la droga. Ma pure mamme, nonni, adolescenti, bimbi sulle spalle dei papà coi lumini accesi in cerca di una verità che in mattinata ha invocato persino il cardinal Bagnasco. Si può discutere e molto sulla sentenza che manda tutti assolti per la morte di Stefano Cucchi, ma qui il punto non è di diritto. È, banalmente, di sostanza. La decisione della Corte d’appello - il pestaggio ci fu, la vittima è sotto i nostri occhi e tuttavia non ci sono responsabili - ha stappato un sentimento collettivo e popolare: per effetto della tenacia della famiglia Cucchi e del coraggio di Ilaria, di sicuro, ma anche e soprattutto dello spirito dei tempi. "Sappiamo chi è Stato", anticipano i social network nei loro hashtag e strillano poi i cartelli in piazza. Dietro di essi si vede un’onda che monta con il moltiplicatore emotivo di Facebook e Twitter, e con la filosofia degli indignados: il sospetto che non ci sia da credere a nessuna autorità costituita, la voglia di strappare il velo a un potere che si autoassolve, alle caste e alle lobby. Con la forza di un semplice assunto, che chiunque può capire senza essere un giurista o un politologo: Cucchi è entrato in cella vivo e sulle sue gambe, ne è uscito morto e ridotto a larva. Gli attacchi di alcuni esponenti del centrodestra al ragazzo e al suo stile di vita suonano dunque, oltre che crudeli, stonati. Un vano tentativo di buttarla in politica: perché qui non si tratta di mettere sotto accusa o di difendere un paio di carabinieri, tre agenti di custodia, qualche medico, né si discute della libertà di sballo o di spinello. Qui è morto un giovane uomo che andava aiutato. E a essere revocato in dubbio dal popolo italiano, o almeno dalla sua massa critica rappresentata in Rete, è il sistema per intero: un sondaggio di Agorà dice che il 70 per cento vorrebbe rivedere la sentenza (pure prima della Cassazione). È come se il caso Cucchi avesse svegliato con qualche ritardo una specie di grillismo giudiziario. "Cosa è giusto lo decidiamo noi!": questo è il messaggio finale, in sé tutt’altro che rassicurante, prodotto dalla malagiustizia. Il furto di verità fa venire in mente, a chi ha memoria, l’Italia delle stragi. Ma qui è tutto più immediato e comprensibile. La faccia pesta di quel ragazzo ogni volta che apriamo il computer è paradossalmente un memento più assillante persino delle terribili foto di un treno sventrato o di una piazza devastata, perché la nebbia di rinvii e depistaggi allora confondeva tutto, e noi tutti, nel tempo. Nell’eterno presente perpetuato in Rete, invece, la verità denegata appare affilata come il volto di Cucchi nell’ultimo scatto. L’idea che la giustizia sia cosa di cui diffidare ha avuto per vent’anni un tratto tutto politico: Berlusconi l’ha inculcata ai suoi e ne ha fatto la propria cifra. Ma questa storia semplice ne dà un segno pre-politico e trasversale: una cosa che chi attacca la memoria di Cucchi - nel riflesso pavloviano di difendere le divise purchessia - sembra non comprendere. Tutto questo non è però gratuito. Il pericolo che milioni di italiani qualsiasi non credano più ai loro giudici è ben più devastante dell’eversione a bassa intensità proposta per due decenni dal berlusconismo. E sta qui, in definitiva, il lato più oscuro della sentenza Cucchi. Che avrà tecnicamente le migliori ragioni, ma contiene un insulto al senso comune, un nocciolo di non plausibilità: e perciò trasforma il volto martoriato di Stefano in icona plausibile per altre mille indignazioni quotidiane. Giustizia: Orlando; magistrati, fermatevi… scioperare per le ferie sarebbe un errore di Liana Milella La Repubblica, 9 novembre 2014 Il ministro della Giustizia si rivolge ai magistrati nel giorno dell’assemblea di protesta dell’Anm. Sciopero delle toghe? "Sarebbe un errore". Il governo Renzi è contro di loro? "Nessun fatto è andato in questa direzione". Cucchi? "Una ferita da risarcire". L’auto-riciclaggio? "È già legge a metà". Cosa dirà domani al Csm? "Mi aspetto da loro proposte e collaborazione, oltre che i pareri previsti dalla legge". Alla vigilia dell’assemblea dell’Anm il Guardasigilli Andrea Orlando dice: "Non sprechiamo un’occasione storica". Si sarebbe aspettata questa assemblea? "Quando si mette in moto una riforma così ampia si inducono riflessioni e reazioni nei soggetti coinvolti. Mi auguro che la discussione non si fermi solo sui punti di frizione e che l’assemblea sappia guardare al complesso delle misure che si stanno prendendo sia sul piano normativo, sia su quello delle risorse che, per la prima volta dopo anni, vedono il ritorno a investimenti sulla giustizia". Lo sciopero attrae molti. Il taglio delle ferie è un motivo. Che effetto le fa uno sciopero contro un governo di sinistra? "Fatta salva la valutazione dell’Anm e il loro dibattito in cui non mi permetto di entrare, faccio notare che lo sciopero è stato utilizzato quand’erano in pericolo l’autonomia e l’indipendenza, elemento che non mi pare affatto in discussione adesso". Che messaggio dà ai giudici? "Non sprechiamo un’occasione storica. La riforma chiede a tutti di cambiare, ma questo è il primo intervento che ha due requisiti, un’organicità e un supporto in termini finanziari e organizzativi. Basti dire che tra mobilità e concorsi saranno 2mila le persone che entreranno a far parte del comparto giustizia dopo 25 anni del blocco del turn over". Per le toghe sono troppo pochi. "Coprirebbero un quarto delle scoperture e potranno essere ulteriormente incrementati nei prossimi anni". La stretta sulle ferie era proprio necessaria, parlando pure di giudici fannulloni? "Questo aggettivo non l’abbiamo mai usato. I giudici italiani sono tra i più produttivi d’Europa. Uno sforzo è stato chiesto a tutte le categorie, anche a quelle più produttive. Una specificità c’è, tant’è vero che sarà il Csm ad applicare in concreto il cambiamento". A ridosso dell’assemblea, si parla di un decreto sulla responsabilità civile, misura vessatoria per le toghe. Perché insistete per cambiare la Vassalli? "Per due ragioni. La Corte europea ci ha sottoposto a una procedura d’infrazione valutando che il nostro sistema non tutela i cittadini colpiti da errori giudiziari e perché la Vassalli, pur con un impianto condivisibile, in questi anni non ha funzionato. A dircelo sono i numeri". Via libera dal Senato a ricorsi sulle motivazioni di un arresto. Ne verranno a decine. È il guinzaglio alle toghe? "Difenderemo la stesura del nostro ddl, in cui quella norma non c’è, e che fa discendere la responsabilità dello Stato, perché non stiamo parlando di quella diretta, dalla violazione della legge e dal travisamento dei fatti". Può garantire ai giudici la libertà d’interpretare la legge? "Sì, ma non si tratta di garantire la magistratura, ma i cittadini. Una magistratura cui fosse preclusa l’interpretazione della legge, una magistratura conformista, finirebbe per compromettere il sistema di garanzie del nostro ordinamento". Nei giorni del caso Cucchi, quando la credibilità dei giudici si è abbassata per un processo senza colpevoli, la voglia di rivalsa su di loro è cresciuta? "Ecco, bisogna evitare appunto questo, scrivere leggi influenzati da un singolo caso, che oggettivamente costituisce una ferita, rispetto alla quale però sono venuti segnali importanti dalla procura di Roma. Lo sforzo dev’essere quello di guardare al funzionamento del sistema nel suo insieme". Durante il governo Berlusconi lei era responsabile Giustizia del Pd. Ora è ministro con Renzi, e c’è il patto del Nazareno. Non vede una politica che vuole bastonarli? "L’accezione "politica" ricomprende posizioni molto diverse. Il governo non ha nessun obiettivo di rivalsa". Non percepisce neppure un clima avverso? "Che ci sia un cambiamento nel rapporto tra opinione pubblica e magistratura è un dato che credo sia la conseguenza di una difficoltà che, in fasi e modi diversi, tutte le istituzioni scontano. La magistratura mantiene tuttora un prestigio elevato che la riforma può contribuire a rafforzare". Riforma? Dov’è finita? Il 29 agosto il governo ha licenziato falso in bilancio, auto-riciclaggio, prescrizione lunga. Che fine hanno fatto? "Ci si accorge che legiferare per via ordinaria è complesso...". Lo diceva Berlusconi... "No, guardi, lo dico io, perché per far incardinare da ministro dell’Ambiente una legge sul consumo del suolo dovetti attendere diversi mesi. Ora sono alla Giustizia e la legge è ancora ferma lì nonostante sia necessaria. Tuttavia confermo che i testi approvati ad agosto saranno legge al più presto". Ci dà il timing? "L’auto-riciclaggio ha già superato un ramo del Parlamento, il falso in bilancio è nella legge sulla criminalità economica che sarà incardinata la prossima settimana, la prescrizione lo sarà all’inizio del prossimo mese". Giustizia: Migliucci (Ucpi): Anm verso sciopero… governo non più sotto tutela dei giudici di Errico Novi Il Garantista, 9 novembre 2014 Migliucci, Presidente delle Camere Penali: bene Orlando su responsabilità civile e auto-riciclaggio. "Mi pare che la politica riesca finalmente a non farsi più schiacciare dalle pressioni della magistratura associata. La legge sulla responsabilità civile è equilibrata, il ministro della Giustizia Orlando ha dimostrato che si può procedere senza cedimenti a pressioni autoreferenziali che nulla hanno a che vedere con l’indipendenza delle toghe". Il presidente dei penalisti italiani Beniamino Migliucci promuove il testo sugli errori dei giudici e in generale la linea che Orlando ha seguito in quest’ultimo periodo. "Il guardasigilli mostra un vero interesse al confronto, anche con l’Unione delle Camere penali", dice Migliucci al Garantista, Apprezzamenti che arrivano proprio mentre l’Anm si appresta a proclamare "iniziative" contro la riforma della Giustizia. Un’assemblea straordinaria dell’Associazione magistrati si terrà oggi a Roma e non è esclusa la proclamazione di uno sciopero. Fino a pochi giorni fa per molti il ministro della Giustizia ombra era lui, Andrea Orlando. Sembrava messo nell’angolo dall’offensiva ultra-giustizialista della commissione Gratteri, e dai tafferugli scoppiati in Parlamento sulla sua riforma. Il guardasigilli pare ora aver ripreso il timone dei provvedimenti su magistratura, processi e reati, grazie al doppio colpo assestato col primo sì alla responsabilità dei giudici e con il via libera definitivo al decreto sul civile. "È così e siamo convinti che il ministro della Giustizia possa intervenire con efficacia su altre questioni finora accantonate, come i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati", dice il presidente dell’Unione delle Camere penali Beniamino Migliucci. Sarà anche per questo che l’Anm è in allarme, al punto da aver convocato per oggi un’assemblea straordinaria: si deciderà sulle "iniziative da intraprendere" contro la riforma. Tira aria di sciopero. Segno che i passi pur misurati compiuti da Orlando hanno scalfito l’intangibilità delle toghe. Con questo governo secondo lei si attenua l’immagine della magistratura come casta inviolabile, presidente Migliucci? Direi di sì. La politica è riuscita quanto meno a non farsi schiacciare da pressioni a cui siamo stati abituati in passato. Anche sulla responsabilità civile? Sì, il giudizio dell’avvocatura penale su questo provvedimento è di moderata soddisfazione. Sono intervenute alcune modifiche migliorative nell’ultima parte dell’esame in commissione Giustizia al Senato. Mi pare si sia affermata la necessità di procedere senza cedimenti a pressioni autoreferenziali o corporative che nulla hanno a che vedere con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Si riferisce alle critiche del Csm e dell’Associazione magistrati? Certo: le posizioni dell’organo di autogoverno e dell’Anm non sono più l’unica verità possibile. Sulla responsabilità civile si è riusciti a far passare un provvedimento equilibrato. D’altronde c’erano raccomandazioni europee molto chiare, a riguardo: se non le avessimo rispettate la riforma sarebbe stata inutile. Il Csm nel suo parere ha quasi ignorato quelle raccomandazioni. Ha rivolto critiche molto aspre, ma passaggi come la definizione chiara della colpa grave dei magistrati rappresentano passi in avanti. In particolare per l’allargamento ai casi di violazione manifesta della legge italiana e del diritto europeo. Ma più di tutto era importante eliminare il filtro di ammissibilità delle azioni proposte dai cittadini contro i presunti errori della magistratura. Non è passato però l’obbligo di motivazione per i giudici che disattendono sentenze della Cassazione. Ed è un bene. Con quella norma i giudici si sarebbero riferiti automaticamente alla Suprema corte e si sarebbe impedita l’evoluzione della giurisprudenza. Può capitare che la Cassazione a sezioni unite cambi idea, anche in seguito alle diverse pronunce della magistratura ordinaria. Oggi l’Anm si riunisce per decidere le forme di protesta. Non si capisce in che modo possa provocare dei danni alla giurisdizione, come mi pare si affermi nel comunicato dell’Anm, il fatto che lo Stato possa rivalersi sui magistrati nei casi di dolo o colpa grave. Tanto più che noi ci aspetteremmo conseguenze più dirette sulle progressioni di carriera per i giudici e i pm riconosciuti responsabili. Ne abbiamo parlato col ministro. E cosa vi ha risposto? Gli abbiamo chiesto di recuperare l’ipotesi di un’Alta corte di giustizia a cui affidare i procedimenti disciplinari delle toghe. Non ha escluso l’ipotesi, che lui stesso peraltro aveva caldeggiato nei mesi scorsi. Non mi sento di escludere che una novità di questo tipo possa essere proposta con il disegno di legge di riforma del Csm, ancora non presentato. Credo che la parte non autoreferenziale della magistratura sia disponibile a discuterne, come sulla questione ferie. Come giudica il rapporto tra l’avvocatura e il guardasigilli? A questo ministro della Giustizia va riconosciuta una disponibilità al confronto che è mancata ad alcuni suoi predecessori. Lui è intervenuto al nostro congresso e si è sottoposto a un confronto pubblico, in passato i ministri sembravano corpi estranei al nostro dibattito, Orlando vuole un’interlocuzione seria e non fittizia. Il ddl sul processo penale però ancora non si è visto. Nell’incontro che abbiamo avuto con il guardasigilli abbiamo trovato anche la disponibilità a riconsiderare le anticipazioni su quel provvedimento relative alla prescrizione e al sistema delle impugnazioni. Gli abbiamo chiarito che il nostro interlocutore è lui e non altri. Non certo Gratteri, tanto per intenderci. Si allontana dunque l’ombra della commissione ultra giustizialista presieduta dal pm antimafia? Sembra di sì. Lo confermano anche le correzioni intervenute sull’auto-riciclaggio. Con quella norma a un certo punto sembrava si potesse punire due volte anche il ladruncolo che riutilizza i soldi per comprarsi un panino. Qui è stato utile anche il confronto col viceministro Costa, a sua volta disponibile ad ascoltarci, Ripeto, per noi è importante che la base su cui discutere siano le proposte del ministero della Giustizia, e non quelle di MicroMega. Giustizia: Ucpi; responsabilità delle toghe, significativo passo in avanti in iter tormentato www.camerepenali.it, 9 novembre 2014 L’Ucpi esprime soddisfazione per il significativo passo in avanti nel tormentato iter della legge di modifica della responsabilità delle toghe. Sono stati infatti recepiti gli appelli e le istanze, rivolti dall’Ucpi, affinché venissero arginate spinte corporative che avrebbero svuotato di contenuti la riforma stessa. Il tormentato iter della legge di modifica della responsabilità delle toghe segna un significativo passo in avanti e registra la volontà del Governo di razionalizzare il progetto di riforma. Gli emendamenti approvati lo scorso 5 novembre dal Senato paiono recepire alcuni degli appelli e delle istanze, avanzate dall’Ucpi, tesi a respingere spinte corporative che avrebbero di fatto svuotato di contenuti la riforma stessa. La riformulazione dell’art. 2 della legge sulla responsabilità civile del magistrato, nel testo di recentissima approvazione introduce, fra le ipotesi di colpa grave, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero la negazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente dimostrata dagli atti del procedimento o la affermazione di circostanze, al contrario, pacificamente inesistenti; non vi è dubbio che questa previsione obbligherà il giudice a prendere in esame prove schiaccianti introdotte nel processo, la cui mancata valutazione può essere causa di gravi errori giudiziari i quali, nel vigente sistema, rischiano di non essere valutati nelle fasi di merito e di non trovare spazi in sede di legittimità, vuoi per la deducibilità testuale del vizio, vuoi per la restrittiva interpretazione del travisamento delle prova che è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge Pecorella. Con estremo favore l’Unione registra la previsione, contenuta nel testo approvato, della colpa grave nella manifesta violazione del diritto dell’Unione Europea, superando le proposte che tendevano a relegarlo quale indiretta fonte ricompresa nel concetto di violazione di legge in generale. Scompare altresì il requisito della negligenza inescusabile riferito alla condotta di violazione delle norme di legge, che nel testo precedente costituiva un ostacolo evidente ad una pronuncia che riconoscesse la colpa grave del magistrato; invero la negligenza inescusabile nella ultima versione è prevista solo quale limite all’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso, quale presidio della autonomia ed indipendenza del Giudice. In tale ottica si deve leggere l’eliminazione della intenzionalità della condotta, originariamente prevista quale parametro di valutazione della colpa grave, e che oggi risulta costituire un parametro di valutazione dei presupposti della sola rivalsa. È infine condivisibile la eliminazione, fra le ipotesi di colpa, del discostamento del Giudice dalla statuizione delle SS.UU. in punto di interpretazione di norme di diritto, risultando questo un vincolo eccessivo per il giudice che voglia accogliere le prospettazioni difensive, che risultino maggiormente aderenti alla corretta applicazione del diritto, e che successivamente le stesse SS.UU. avallino, mutando il proprio precedente orientamento, come sovente accade. Giustizia: Radicali; inefficaci i rimedi a sovraffollamento, denuncia al Consiglio d’Europa Ansa, 9 novembre 2014 I rimedi introdotti in Italia per risarcire i detenuti vittime del sovraffollamento "non sono efficaci", lo denunciano i Radicali in una lettera inviata al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Nello stesso documento si sottolinea anche come nel frattempo la Corte europea dei diritti umani abbia dichiarato inammissibili 3.500 reclami ricevuti dai carcerati italiani. La missiva non avrà effetto sul rigetto dei ricorsi, ma potrebbe creare problemi al governo italiano sul fronte del Comitato dei ministri. Nella lettera i Radicali sostengono che l’inefficacia dei rimedi risarcitori, che l’Italia ha dovuto introdurre dopo la sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo la condannava per aver tenuto 7 detenuti in celle di tre metri quadrati, dipendono dall’interpretazione che alcuni giudici di sorveglianza stanno dando della legge dell’11 agosto 2014 n.117. Per avvalorare la loro tesi, i Radicali hanno riportato nella lettera l’interrogazione a risposta scritta presentata il 14 ottobre dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (Pd), e diretta al Presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Giustizia: Corte Penale Internazionale, giovedì convegno a Roma con Bonino e Grasso di Domenico Letizia Il Garantista, 9 novembre 2014 La Ong "Non c’è pace senza giustizia", organizzazione internazionale nata nel 1994 da una campagna del partito Radicale, compie vent’anni di attività per la promozione e la tutela dei diritti umani. La grande battaglia è stata l’istituzione e il lavoro svolto nell’avviare la Corte penale internazionale (Cpi). Il 13 novembre, presso il Senato si terrà il dibattito "XX anniversario di Non c’è pace senza giustizia: sfide e opportunità per la Corte penale internazionale". Il dibattito sarà animato da eminenti personalità, tra le quali, Emma Bonino, già ministro degli Esteri, Franco Frattini, presidente della Società italiana per l’Organizzazione internazionale, Benedetto della Vedova, sottosegretario agli Affari Esteri, Mauro Politi, già giudice della Corte penale internazionale, Antony Dworkin, esperto in materia di giustizia penale internazionale e di crimini di guerra. Introdurrà i lavori il Presidente del Senato, Pietro Grasso. Dalla sua fondazione, la Corte penale internazionale ha lavorato strenuamente all’elaborazione e messa in pratica di specifiche politiche legate alla selezione dell’azione penale, alla soluzione dei casi giuridici e alla messa a punto di una politica ad hoc sui bambini e l’infanzia vittime di guerra e di fame. L’attualità del rapporto della Corte penale internazionale con gli stati del continente africano è caratterizzato da due fenomeni: da una parte, un forte sostegno alle iniziative svolte, dall’altra parte, un alone di sospetto e a volte di aperta ostilità. Superare tali contraddizioni, che producono ostacoli nell’azione e nell’esercizio del mandato della Corte penale internazionale, è la sfida internazionale per il futuro della Corte che la conferenza scruterà e analizzerà con approfondita accuratezza. Oggetto di analisi e di confronto saranno le limitazioni che la Corte incontra quando fornisce assistenza a un Paese per aiutarlo a sviluppare proprie capacità nell’indagare e perseguire crimini internazionali; il suo ruolo nel momento stesso in cui i crimini vengono compiuti, come attualmente accade in Siria, e il ruolo delle Ong nel sostenere la Corte in materia di cooperazione, attraverso la giurisdizione internazionale e la promozione del diritto umanitario. Vent’anni di Non c’è pace senza giustizia a cui non può mancare il giusto e dovuto ringraziamento e incoraggiamento nella tutela dei più deboli in tutto il mondo. Giustizia: il Pg della Cassazione: "il G8 a Genova fu come il Cile di Pinochet" di Antonello Micali Il Garantista, 9 novembre 2014 È parsa quantomeno contraddittoria la ricostruzione di uno dei fatti più gravi del G8 come quella fatta ieri dal procuratore generale della Cassazione Enrico Delehaye, durante la sua requisitoria innanzi ai giudici della VI Sezione Penale. Un atto di accusa, pronunciato su quella che è rimasta senz’altro una ferita aperta della storia recente della democrazia italiana, che arriva a 13 anni di distanza dai fatti, ma soprattutto a 4 giorni dalla possibile prescrizione del procedimento a carico dell’ex questore di Genova, Francesco Colucci. Un imputato per il quale il Pg Delehaye ha chiesto che si rifaccia il processo, con rinvio in Appello. Il tutto arricchito da una serie di affondo persino sconcertanti. Il magistrato ha ripercorso quei drammatici episodi di botte e sangue arrivando a paragonare quello stallo della democrazia creatosi in Italia per quei tragici eventi a situazioni come quelle verificatesi "nel Cile di Pinochet o del Burkina Faso di oggi". Salvo poi liquidare il tutto con le seguenti parole: "Sono consapevole che la prescrizione per l’imputato scade tra quattro giorni, ma di fronte a prescrizioni e assoluzioni ben più rilevanti, l’annullamento con rinvio della condanna per l’ex questore Colucci non è così scandalosa". Poi ha aggiunto, "Mentre invece è scandaloso che personaggi come De Gennaro e Mortola siano stati giudicati prima, e separatamente da Colucci: è stato come giudicare mandante e killer in momenti separati: non è un modo brillante di affrontare i processi". E poi il procuratore ne ha avute anche contro il Parlamento, reo di non aver ancora, anche sulla scorta di quanto accaduto a Genova, fatto nulla per introdurre il reato di tortura. Un presidio di civiltà che forse avrebbe arginato quanto verificatosi in quel luglio di 13 anni fa nel capoluogo ligure, ma che sicuramente avrebbe anche determinato, nei percorsi giudiziari seguiti ai quei fatti, sentenze e provvedimenti quantomeno più lineari. Già ieri sera la VI sezione doveva decidere se confermare o meno la condanna a carico del questore oggi in pensione. Come è noto Francesco Colucci, questore di Genova al tempo del G8, arrivava all’appuntamento di ieri in Cassazione dopo una condanna in appello a 2 anni e 8 mesi per il reato di falsa testimonianza resa nell’ambito del processo Diaz. Colucci avrebbe detto il falso in diverse circostanze per favorire, alleggerendone le posizioni, l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e il dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola. "Nonostante la grande emotività dell’intervento del procuratore, col quale non si può che non essere concordi per larga parte degli aspetti effettivamente più deteriori denunciati dallo stesso - ha dichiarato l’avvocato di parte civile Emanuele Tambuscio - in tutte queste vicende giudiziarie legate ai fatti del G8 e al massacro della scuola Diaz quello che alla fine prevale maggiormente è l’aspetto tecnico, dal quale, per la complessità dei procedimenti e delle istituzioni coinvolte, non è facile prescindere. Per noi, comunque vada a Colucci, la vera vittoria è stata quella della condanna di tutti i funzionari imputati al processo Diaz, che ha cristallizzato, o meglio certificato giudiziariamente la portata dell’inquinamento Probatorio che ha caratterizzato moltissimi passaggi in quella storia; insomma dalle molotov farlocche comparse alla Diaz e poi scomparse durante il processo, alle stesse sentenze, discutibili, su De Gennaro e Mortola, ne abbiamo viste di cose…". Del resto anche per il pg era evidente che Colucci avesse ammorbidito la sua precedente dichiarazione su De Gennaro, però… "Però non posso non rilevare anche che la Corte d’appello ha acquisito le prove contro l’imputato in maniera assolutamente irrituale", ha sostenuto con altrettanta forza Delehaye, "violando il principio del contraddittorio e dimenticando che Colucci era il questore della città, è vero, ma che venne esautorato da persone che poi, vista la gravità di quello che era successo alla Diaz, si sono tirate indietro". Giustizia: caso Cucchi, mille candele per far luce sulla verità di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2014 Fiaccolata a Roma, la famiglia: "qualcosa sta cambiando". Settimana decisiva per le indagini, Bagnasco le benedice. Quando le mille candele e i tanti fumogeni illuminano piazza Indipendenza la commozione è forte. Per qualche, interminabile attimo il silenzio copre la lacrime, poi parte il grido liberatorio: "Stefano Cucchi uno di noi". La famiglia chiama, Roma risponde, "perché adesso bisogna dare una spiegazione a tutte queste persone" dichiara Fabio Anselmo, il legale dei Cucchi. Sotto la sede del Consiglio superiore della magistratura, nel luogo diventato simbolo delle botte dei poliziotti ai metalmeccanici dell’Ast di Terni, si ritrovano centinaia di persone, chiamate a raccolta da Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa. Ci sono ragazzi, donne e tantissimi bambini; ognuno di loro ha una candela in mano e le mille candele portate qui neanche bastano. Ci sono Claudia Budroni, la sorella di Dino, Andrea Magherini, il fratello di Riccardo, e Grazia Serra, la nipote di Franco Mastrogiovanni, il maestro morto dopo essere rimasto legato mani e piedi per quattro giorni in un letto di contenzione nell’ospedale di Vallo della Lucania. Un cordone discreto di polizia e carabinieri blinda la piazza, ma gli animi restano pacifici. Il primo a salire sul palco è papà Giovanni, che ricorda la petizione del Fatto Quotidiano e legge le adesioni di Dario Fo e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. Ieri le firme hanno raggiunto quota 74mila ed è arrivato a supporto della nostra campagna anche Ascanio Celestini: "La verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano", ha scritto nel suo blog ricordando la storia di Rodari "Giacomo di cristallo". Mamma Rita non ama le telecamere ed è così minuta nel suo dolore da aver bisogno dell’appoggio del marito per avvicinarsi al microfono: "Non ci siamo mai sentiti soli. Non ci fermeremo fino a quando verità e giustizia non saranno state fatte". L’applauso più forte della piazza è per Ilaria, divenuta in questi cinque anni il simbolo dell’ostinazione e della ricerca di giustizia. "Forse qualcosa sta cambiando" dicono da palco. E forse è vero. Ieri alle richieste e agli appelli degli ultimi giorni si è aggiunta quella del cardinal Bagnasco: "Se chi ha responsabilità ha ritenuto di riaprire il caso, c’è solo da augurarsi che le cose siano portate avanti con ulteriori elementi, così da arrivare a una verità il più possibile completa e aderente ai fatti". E chissà che la prossima non si riveli una settimana decisiva. Giustizia: aaso Gulotta, 22 anni in carcere da innocente per un crimine di Stato di Francesco Lo Dico Il Garantista, 9 novembre 2014 La sporca storia di un segreto di Stato difeso con la stessa omertà che vige in Cosa Nostra. È il ritratto vergognoso di carnefici in divisa che si sono sporcati le mani di sangue innocente, di boia in divisa in combutta con la mafia che non hanno esitato a torturare, istigare alla morte, rubare vita e dignità a dei giovani ragazzi. "Ma il più grave caso di malagiustizia del dopoguerra, è anche la storia di una truffa processuale". Una storia puzzolente di segreti e menzogne che servirono a coprire l’eversione dello stesso Stato. Una storia di finte verità estorte con le botte, con il vomito e il veleno di un imbuto. Non è accaduto a Guantánamo. Tutto questo è accaduto in Italia, ad Alcamo, provincia di Trapani, la notte del 27 gennaio 1976. Tutto cominciò quando un non meglio precisato "commando" fece irruzione nella casermetta di Alcamo Marina e trucidò due carabinieri, il diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, mentre dormivano. Fu quello il giorno maledetto che costrinse Giuseppe Gulotta, allora 18enne, a passare 22 anni in carcere, a ottenere giustizia soltanto il 13 gennaio 2012, dopo 36 anni della sua vita trascorsi tra le aule di un tribunale e la cella di isolamento. Una storia schifosa, che ha costretto un ragazzino innocente, pieno di sogni, a uscire dal carcere ultracinquantenne con una vita ormai fottuta. Sì, perché l’hanno fottuto Giuseppe Gulotta. Lo hanno fottuto gli aguzzini di Stato. Perché Giuseppe Gulotta era innocente. Lo ha stabilito una sentenza. Una sentenza che gli ha restituito dignità, hanno detto molti. Bestemmie. Gulotta, la dignità l’- ha sempre avuta. Semmai quella sentenza dimostra che la dignità non ce l’ha lo Stato, lo Stato incappucciato, a volto coperto, che lo ha usato per coprire una verità indicibile, che giace nella melma fitta della storia di un Paese putrido. Ma la storia di Giuseppe Gulotta, la storia che non avremmo mai dovuto raccontare se lo Stato non l’avesse usato, torturato, incriminato, distrutto, inizia con la storia di un altro uomo torturato. Ufficialmente morì impiccato. Anche se era monco di una mano. "Un uomo che si chiamava Giuseppe Vesco", ci racconta l’avvocato Baldassare Lauria, che ha accompagnato per vent’anni Gulotta nel suo calvario giudiziario. "Fu arrestato a un mese dalla strage. Fu fermato a un posto di blocco nella notte del 12 febbraio 1976. Era alla guida di una macchina rubata, senza targa, con una pistola di marca Beretta ancora fumante. Era dello stesso tipo di quella utilizzata dai carabinieri. O meglio, era più che simile. Era la stessa che era stata rubata all’interno della caserma di Alcamo, detta Alkamar, teatro degli omicidi. "Che cosa c’entra Vesco? C’entra eccome. Girava indisturbato, come a dire "Se volete sono qui, venite a prendermi". Dopo un lungo interrogatorio dell"antiterrorismo di Napoli, confessò di avere avuto un ruolo nell’eccidio, e fece i nomi di Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantello e Giuseppe Gulotta. Gli ultimi tre erano suoi amici, vicini di casa. Furono gli unici nomi che gli venne in mente di fare. Perché trent’anni dopo, Renato Olino, un brigadiere dell’antiterrorismo di Napoli che a quell’interrogatorio c’era, svelò come andarono davvero le cose. Vesco venne incappucciato e trasportato in campagna, in una caserma a 30 chilometri da Alcamo. Lo bendarono e cominciarono a riempirgli la bocca di acqua e sale con un imbuto, mentre era schiacciato da due piani di legno, quella che si chiamava la tecnica della cassetta. C’era anche un medico che lo rianimava ogni volta che perdeva i sensi. Gli davano anche delle scariche elettriche con un telefono da campo". Quelle scene vergognose, spinsero alla fine del 1976 il brigadiere Olino a lasciare l’arma. Molti anni dopo, Olino chiese scusa a quei ragazzi. "Quando li vidi erano quattro ragazzini, Gulotta giovanissimo, aveva 18 anni, sembrava un pulcino bagnato", raccontò. Il brigadiere li aveva visti. Era un branco di torturatori di Stato, quello agli ordini del colonnello Giuseppe Russo. È così che estorsero quei nomi a Vesco. Vesco interruppe la sofferenza con i nomi di quattro conoscenti: Giovanni Mandalà di Partinico, e ancora Gullotta, Ferrantelli e Santangelo". Su quelle torture ha indagato la Procura di Trapani, che contestò il reato a Elio Di Bona, 81 anni, Giuseppe Scibilia, 70, Giovanni Provenzano 83, Fiorino Pignatella 63. "Ma si avvalsero tutti della facoltà di non rispondere". Mica fessi. Il reato era già prescritto. Resteranno impuniti. "Non sarebbe andata così se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura". Erano loro, gli uomini al servizio del capo torturatore Giuseppe Russo. Strana figura quella di Russo, uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Morì male, il colonnello. Si stava occupando del caso Mattei. Era in vacanza nel bosco di Ficuzza. Fu ucciso da sicari di Cosa Nostra il 20 agosto del 1977. Il mandante dell’omicidio, autoaccusatosi, era Brusca. Ma prima di quella verità furono accusati tre pastori. Furono torturati anche loro, naturalmente. Ma vennero scarcerati solo quando Brusca confessò. Altri tre innocenti che marcirono in carcere a causa di questa storia maledetta. Morì male anche Vesco, poco dopo aver annunciato rivelazioni dal carcere. "Disse che avrebbe scritto un memoriale in cui avrebbe rivelato chi erano stati i suoi veri complici nell’eccidio di Alcamo "Ma venne trovato impiccato a un grata della infermeria del carcere di Trapani. "Gli era stata amputata una mano. Ma evidentemente gliene bastò una sola per appendersi a una grata alta tre metri", racconta sardonico Lauria. "Era scomodo Vesco. I colpevoli erano stati trovati. Anche loro, con il metodo Russo. Gulotta, Ferrantelli e Santangelo vennero arrestati nella notte del 12 febbraio e brutalmente torturati e picchiati. Smisero di fare loro del male soltanto quando si autoaccusarono della strage di Alcamo. Tutto accadde in assenza dei loro difensori. C’era anche un allora giovane magistrato della Procura di Trapani, che assistette a quell’orrore senza farne denuncia. Non ebbe il coraggio di firmare i verbali. Lo chiameremo a rispondere di quella condotta". È in quella notte che finisce l’infanzia di Gulotta. È in quella notte che un uomo torturato dallo Stato insieme ai suoi amici, diventa un pericoloso omicida. "Giuseppe Gulotta fu arrestato e riempito di botte per una notte intera. Fu preso a calci, gonfiato di pugni, gli puntarono le pistole alla tempia, gli presero a calci i genitali. Bevve acqua salata. Smisero di farlo a pezzi soltanto quando ebbero ciò che volevano: la confessione di essere stato il responsabile dell’eccidio in caserma. "Otto ore dopo, alla presenza dei loro legali, Vesco, Ferrantelli, Santangelo e Gulotta ritrattarono le loro confessioni. Denunciarono di essere stati torturati dai carabinieri. Dissero che erano stati massacrati affinché si incolpassero di un crimine che non avevano mai commesso. Ma indovini un po’? La sentenza di merito ritenne inattendibile la ritrattazione degli imputati. Dissero che erano più attendibili le confessioni. Più coerenti". Fu così che condannato all’ergastolo, Guiseppe Gulotta entrò in carcere nel 1990 per restarci 22 anni. Ma all’appello manca uno dei quattro ragazzi torturati. "Che fine fece Mandalà? Fu assolto anche lui il 17 febbraio del 2012 dalla Corte d’appello di Catania. Era stato condannato all’ergastolo nel 1981. Ma al momento della sentenza non ha potuto festeggiare. Era morto in carcere nel 1998, per un tumore. Non gli diedero neanche i domiciliari. Era ritenuto troppo pericoloso". "È così orrenda la storia di Mandalà, che viene un pensiero terribile su queste "disgrazie". Almeno, Giuseppe Gulotta è uscito dal carcere a testa alta dopo ventidue anni, di cui sette passati in isolamento. Mandalà ne è uscito orizzontale, morto di cancro, e assolto post-mortem. Sì, è andata molto meglio a Gulotta, non c’è che dire". "Perché questa vergogna? Le dico che grazie a una fonte, nella zona di Alcamo, è stato trovato un arsenale di armi della Nato a disposizione della mafia del posto". Sembra che i due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 alla casermetta ebbero l’unico torto di aver fermato il furgone sbagliato al momento sbagliato. Non dovevano scrivere niente, ma insistevano questi due giovanotti. Volevano andare a fondo. E magari per questo finirono sottoterra, chi lo sa. Leonardo Messina riferì alla Dia nel 99 che ad Alcamo, proprio negli anni dell’eccidio, era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni. Era giunto un contrordine, ma ormai il pasticcio era fatto. Dopo un balletto di udienze, dibattimenti, testimonianze, Giuseppe Gulotta, ha rivisto la luce del giorno due anni fa. "Ma da quando è uscito di galera, è povero in canna. Lo hanno licenziato da un’azienda perla quale aveva iniziato a lavorare. Vallo a spiegare che un ex ergastolano che ha passato 22 anni in carcere, è invece un galantuomo vittima dello Stato. Ha quasi sessant’anni Giuseppe, parliamoci chiaro. È per tutti un perdente, un uomo senza speranza". Che una volta era un ragazzo, e adesso non è niente. "Abbiamo chiesto un risarcimento milionario. Quanto vale la vita di un uomo per lo Stato? Quanto vale una vittima innocente torturata da servitori dello Stato per loschi giochi di contiguità tra Stato, mafia ed eversione?". Eppure Gulotta non prova rancore, non ce l’ha con lo Stato che è stato il suo aguzzino. "Il giorno prima della sentenza, all’Hotel Excelsior di Catania, Giuseppe mi disse grazie. "Grazie comunque vada, avvocato. Se anche dovrò restare in carcere, sono grato a voi per aver fatto conoscere a tutti la mia storia". "Dice che ha un solo rammarico, Giuseppe. Dice che quando finì in carcere aveva un bimbo di un anno e mezzo. Gli sarebbe piaciuto accompagnarlo a scuola. Almeno un giorno. Un giorno solo della sua vita". Basilicata: Osapp, nelle carceri della regione gravissima carenza di organico Ansa, 9 novembre 2014 Tutti i penitenziari della Basilicata "presentano una gravissima carenza negli organici del personale di Polizia penitenziaria" e in particolare "la Casa circondariale di Matera con un organico previsto di 130 unità e con solo 95 addetti presenti, la casa circondariale di Melfi (Potenza) con un organico previsto in 176 unità di cui solo 154 presenti e la casa circondariale di Potenza con un organico previsto di 147 appartenenti al Corpo di cui solo 120 disponibili". È quanto è emerso al termine di un sopralluogo della delegazione dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). "Malgrado la grave delle carenze degli organici - ha detto il vicesegretario generale del sindacato, Gerardo Romano - a cui deve aggiungersi un’età media degli addetti del Corpo che oscilla tra i 45 e i 50 anni per avvicinarsi alla quota per il pensionamento, un sovraffollamento nella popolazione detenuta che, in alcuni casi come a Melfi raggiunge il 157 per cento (126 posti per 195 presenze), la funzionalità degli istituti di pena lucani continua ad essere garantita con strenuo sacrificio". Il rappresentante dell’Osapp ha evidenziato "il forte senso del dovere del personale presente a cui, tra l’altro, difetta da tempo qualsiasi supporto degli organi dell’amministrazione penitenziaria che, ad esempio, e sempre per quanto riguarda Melfi, hanno lasciato l’infrastruttura nel più completo abbandono nonostante l’indifferibile urgenza lavori di ristrutturazione tanto da portesi affermare che Cristo non solo si è fermato solo ad Eboli ma ha anche dimenticato l’esistenza degli istituti di pena lucani. Unitamente alle donne e gli uomini della polizia penitenziaria della Basilicata, auspichiamo che l’amministrazione centrale, anch’essa fin troppo assente e un guardasigilli maggiormente attento ai problemi del personale rispetto all’attuale Ministro Orlando - ha concluso - provvedano alle assegnazioni di unità necessarie di cui i penitenziari lucani necessitano al punto che questi Istituti vanno avanti solo grazie agli immani sacrifici del personale di Polizia penitenziaria". Puglia e Molise: mese denso di appuntamenti per la Pastorale Carceraria dei Frati Minori di Gelsomino Del Guercio www.sanfrancescopatronoditalia.it, 9 novembre 2014 "Tutela della genitorialità in carcere: gli affetti dei detenuti". Al via un mese denso di appuntamenti per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’aspetto emotivo e affettivo di coloro che trascorrono le giornate dietro le sbarre. Si vuol sfatare il tabù secondo cui il detenuto vive isolato dal mondo e distante da sentimenti e stati d’animo. Si muove su questi paesi il "novembre" della Pastorale Carceraria dei Frati Minori di Puglia e Molise. Tre le iniziative in cantiere. La prima è un concorso rivolto agli studenti delle scuole superiori. Il tema è: "Per qualche metro e un po’ d’amore in più nelle carceri: gli affetti dei detenuti". Le sezioni in concorso sono quella relativa alla "scrittura" (un testo scritto, che può essere un racconto, una lettera, un articolo sul tema degli affetti per le persone detenute e le loro famiglie); sezione audiovisiva (video-testimonianze realizzate sugli stessi temi); sezione artistica (un prodotto a scelta tra illustrazioni, vignette, un’opera grafica, un disegno, realizzato anche da bambini, figli di persone detenute). La giuria sarà coordinata da uno scrittore e le opere più interessanti saranno pubblicate all’interno di un libro dedicato al tema del carcere e degli affetti. Nel libro sono previste tre sezioni, con le testimonianze delle persone detenute, quelle dei familiari e i testi scritti dai ragazzi delle scuole e da cittadini interessati a questi temi, Le opere devono essere consegnate alla segreteria del Servizio di Pastorale Carceraria dei Frati Minori Puglia e Molise. Termine ultimo il 10 dicembre. Sempre a novembre la pastorale Carceraria dei frati Minori di Molise e Abruzzo si occuperà di sensibilizzazione nelle piazze e raccolta firme per sostenere la campagna per una nuova legge sugli "Affetti in carcere" e una tavola rotonda sul tema: "Tutela della genitorialità in carcere". Avellino: suicida assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio ad Ariano Irpino Ansa, 9 novembre 2014 L’uomo, di 46 anni, si è ucciso nella sua abitazione di Ariano infilandosi un sacchetto di plastica in testa. La morte è sopraggiunta per asfissia. Era tornato al lavoro nella giornata di ieri, dopo un lungo periodo di ferie, l’assistente capo della Polizia Penitenziaria in servizio presso il carcere di Ariano Irpino che nella tarda mattinata di oggi si è tolto la vita nella sua abitazione infilando la testa in un sacchetto di plastica. La morte è avvenuta per asfissia. L’agente, 46 anni, sposato, tre figli, viveva ad Ariano Irpino con la famiglia in un’abitazione di contrada Cardito, a poche centinaia di metri dal carcere, dove ricopriva la carica di responsabile del settore cucine. Dolore e sconcerto tra i colleghi che riferiscono di una persona per niente turbata che anche ieri, durante il turno di servizio, appariva serena e socievole. Per il direttore del carcere, Gianfranco Marcello, che nel pomeriggio ha fatto visita alla famiglia dell’agente, si tratta di "una tragedia inspiegabile non essendoci allo stato alcun elemento che possa essere collegato all’attività lavorativa di Caruso". Il carcere di Ariano Irpino ospita 260 detenuti e non ha problemi di sovraffollamento, dopo la costruzione di due nuovi padiglioni. Il comunicato del Sappe Ha scelto di togliersi la vita con un sacchetto di plastica, che stretto alla testa gli ha impedito di respirare. Così è morto oggi ad Ariano Irpino un Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano, in servizio nel carcere cittadino. "È una tragedia costante, quella dei suicidi nelle file della Polizia Penitenziaria dall’inizio dell’anno. Siamo nella media di un caso al mese, che quest’anno ha visto morire poliziotti a Vibo Valentia, Padova, Siena, Volterra, Novara, Roma, Saluzzo e ancora Padova. Ed è il secondo caso ad Ariano quest’anno. C.L., 40 anni, sposato e con una figlia, ha scelto di farla finita. Una tragedia, l’ennesima nell’indifferenza dell’Amministrazione Penitenziaria che non è in grado di assumere concrete iniziative contro questo mal di vivere. Alla moglie, alla figlia, ai familiari, agli amici e colleghi del carcere di Ariano Irpino va il nostro pensiero e la nostra vicinanza", comunica un commosso ed affranto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Capece sottolinea che "negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 35 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Lo ripetiamo da tempo: bisogna intervenire con soluzioni concrete, con forme di aiuto e sostegno per quei colleghi che sono in difficoltà. Bisogna comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere. Ma il Dap, senza mesi un Capo Dipartimento e da anni incapace di affrontare e risolvere il disagio lavorativo dei Baschi Azzurri, non fa nulla di concreto per favorire il benessere dei nostri poliziotti: neppure fornisce i dati ufficiali sul numero degli agenti suicidi, che raccogliamo noi attraverso i nostri dirigenti sindacali presenti in tutte le sedi d’Italia". Napoli: detenuto in coma, adesso spunta un’altra pista "sono stati due conoscenti" Roma, 9 novembre 2014 Dopo la denuncia pubblicata su questo quotidiano si va verso la soluzione del caso di Luigi Bartolomeo. Il detenuto, aveva già ferite al volto e al corpo prima del secondo arresto è stato ricoverato in gravissime condizioni nell’ospedale Loreto Mare di Napoli e i familiari temevano che fosse stato picchiato dalle forze dell’ordine. La verità emerge immediatamente dalle indagini avviate dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio e dal sostituto Mario Canale, che ieri hanno sequestrato la cartella clinica. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, lo scorso 21 ottobre Bartolomeo evase dalla sua abitazione del quartiere Ponticelli e fu arrestato dai carabinieri, che lo ricondussero a casa. Alcune ore dopo l’uomo evase nuovamente e fu arrestato dalla polizia: ma aveva già sul corpo i segni delle percosse, tanto che, prima di essere condotto in Questura, fu accompagnato al Loreto Mare per essere medicato. Secondo indiscrezioni riferite da Pietro Ioia, presidente dell’associazione "Ex" detenuti organizzati napoletani, a picchiarlo sarebbero stati due conoscenti dello stesso quartiere mandati dall’ex convivente di Bartolomeo. Trascorsa la notte nelle camere di attesa, l’uomo fu poi accompagnato in Tribunale dove venne condannato a un anno e quattro mesi con rito direttissimo. La notte successiva le sue condizioni si aggravarono e si rese necessario il ricovero in ospedale. I magistrali, anche grazie alla cartella clinica, stanno ora cercando di stabilire a che cosa sia dovuto l’aggravamento delle condizioni del detenuto, che si trova ora in sala di rianimazione, e se vi sia un nesso con il pestaggio subito nella sua abitazione. I pm sequestrano la cartella clinica "Era già ferito" (Il Mattino) Aveva già ferite al volto e al corpo prima del secondo arresto Luigi Bartolomeo, il detenuto quarantacinquenne ricoverato in gravissime condizioni nell’ospedale Loreto Mare di Napoli che i familiari temono sia stato picchiato dalle forze dell’ordine. Emerge dalle indagini avviate dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio e dal sostituto Mario Canale, che ieri hanno sequestrato la cartella clinica. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, lo scorso 21 ottobre Bartolomeo evase dalla sua abitazione del quartiere Ponticelli e fu arrestato dai carabinieri, che lo ricondussero a casa. Alcune ore dopo l’uomo evase nuovamente e fu arrestato dalla polizia: ma aveva già sul corpo i segni delle percosse, tanto che, prima di essere condotto in Questura, fu accompagnato al Loreto Mare per essere medicato. Secondo indiscrezioni riferite da Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex detenuti organizzati napoletani, a picchiarlo sarebbero stati due conoscenti dello stesso quartiere mandati dall’ex convivente di Bartolomeo. Trascorsa la notte nelle camere di attesa, l’uomo fu poi accompagnato in Tribunale dove venne condannato a un anno e quattro mesi con rito direttissimo. La notte successiva le sue condizioni si aggravarono e si rese necessario il ricovero in ospedale. I magistrati, anche grazie alla cartella clinica, stanno ora cercando di stabilire a che cosa sia dovuto l’aggravamento delle condizioni del detenuto, che si trova ora in sala di rianimazione, e se vi sia un nesso con il pestaggio subito nella sua abitazione. Biella: il carcere invaso dai topi… così si vive in cella di Damiano Aliprandi Il Garantista, 9 novembre 2014 A dare l’allarme è l’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria, che denuncia una situazione intollerabile, sia per i reclusi, costretti anche a scontare questa vergognosa pena supplementare, che per il personale. "Quella - generale dell’Osapp - sembra essere la seconda emergenza penitenziaria più rilevante, in ambito nazionale, dopo quella del sovraffollamento. E anche in questo caso, le responsabilità vanno ricercate nell’incuria con cui l’amministrazione penitenziaria, gestisce le infrastrutture e il personale che vi è addetto". L’auspicio dell’Osapp è "che tali condizioni abbiano fine anche attraverso una riforma che concluda definitivamente la storia e le pretese della obsoleta e quanto mai inefficace dirigenza penitenziaria". Il problema dei topi nelle carceri è un fenomeno non marginale, ma una vera e propria perenne emergenza sanitaria. Numerosi sono i casi di infezione, e negli anni passati c’è scappato anche il morto a causa della leptospirosi contratta tramite l’urina dei topi. E può anche accadere che l’emergenza sfoci all’esterno delle mura carceraria e un comune arrivi alla minaccia di sgombero. Come il caso del carcere di Forlì dove la situazione stava esplodendo. L’Asl e il comune avevano emesso due distinti verbali nei quali venivano denunciati i gravi rischi per la salute di chiunque entrasse a vario titolo nel carcere seppur in forma assolutamente temporanea. Il carcere risultava letteralmente infestato da topi - che giravano ovunque compresa la cucina dei detenuti ed il piano terra delle sezioni - così come da scarafaggi e zanzare. Erano presenti anche animali necrofagi che si sviluppano nel nuovo ecosistema creatosi sia nelle cantine che nei solai a causa degli ingenti liquami dei piccioni con relative carcasse in decomposizione. Un allarme sanitario che portò il Comune ad emettere un ultimatum: se non si provvedeva ad una bonifica totale, avrebbe emesso un’ordinanza di sgombero. Nelle carceri il diritto alla salute e all’igiene è ancora un problema irrisolto nonostante la riforma epocale del passaggio al servizio sanitario nazionale. Prima, la salute dei reclusi, era una competenza del ministero della Giustizia, e anche con l’approvazione della riforma sanitaria e l’istituzione del servizio sanitario nazionale del 1978 la problematica della salute dei cittadini detenuti non venne affrontata in quanto si riteneva che sussistesse, a causa delle esigenze di sicurezza, la specialità legittima dell’assistenza sanitaria in carcere, tanto da far affermare la "necessità istituzionale che la medicina penitenziaria collabori all’opera di trattamento dei detenuti". La sanità in carcere venne così esclusa dalla sanità fornita ai cittadini liberi. Ci fu uno sforzo culturale maggiore nel 1999 quando fu ideata la riforma della sanità penitenziaria , ispirata al principio che gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute, Inoltre , e questa fu l’idea innovativa, la riforma del 1999 demandava in toto la competenza dell’intervento sanitario nei confronti dei cittadini detenuti al servizio sanitario nazionale. Però rimaneva ancora il principio della separazione delle competenze tra le Asl e l’amministrazione penitenziaria. Per la piena realizzazione della riforma, si è dovuti arrivare all’emanazione del decreto della presidenza del Consiglio nel 2008 che definitivamente sancisce l’accorpamento della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale. Tale passaggio non ha però comportato la totale perdita di ruolo dell’amministrazione penitenziaria nel campo della salute e della sua tutela, avendole anzi, la riforma attribuito un compito organizzativo e di raccordo, di "garante" della qualità del servizio reso dall’amministrazione sanitaria, che non deve essere di livello inferiore a quello reso al cittadino libero. La riforma non sta dando i frutti sperati. La prima motivazione è il mancato passaggio culturale che i due sistemi devono compiere per avvicinarsi e collaborare: da una parte si richiede all’amministrazione penitenziaria di abbandonare il modello verticistico che l’ha sinora caratterizzata e, dall’altra, si chiede ai servizi sanitari di comprendere un concetto di sicurezza sino ad oggi a loro sconosciuto. Il secondo motivo è ancora il mancato adeguamento di alcune regioni. Secondo l’ultimo rapporto del comitato nazionale di Bioetica "il diritto alla salute in carcere, non si esaurisce nell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate: particolare attenzione deve essere prestata alle componenti ambientali, assicurando alle persone ristrette condizioni di vita e regimi carcerari accettabili, che permettano una vita dignitosa e pienamente umana. Perciò, problemi quali il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle condizioni igieniche, la carenza di attività e di opportunità di lavoro e di studio, la permanenza per la gran parte della giornata in cella, la difficoltà a mantenere relazioni affettive e contatti col mondo esterno, sono da considerarsi ostacoli determinanti all’esercizio del diritto alla salute: il servizio sanitario dovrebbe farsi carico di questi aspetti, al fine di combatterli in un’ottica preventiva". Bologna: "Condizioni inumane e degradanti", detenuto liberato in anticipo dalla Dozza di Gilberto Dondi Il Resto del Carlino, 9 novembre 2014 Uno sconto di pena di quasi tre mesi per essere stato rinchiuso in una mini-cella della Dozza, assieme ad altri due detenuti, in condizioni "inumane e degradanti". L’ha chiesto e ottenuto un quarantenne, finito in carcere per reati contro il patrimonio nel 2008, che si è rivolto al Tribunale di Sorveglianza per ottenere una riduzione di pena a titolo di risarcimento del danno. Il giudice Susanna Napolitano, con uno dei primi provvedimenti in tal senso, ha infatti accolto la domanda, concedendogli uno sconto di 80 giorni perché per 801 (il rapporto fissato dalla legge è di un giorno in meno ogni dieci di detenzione disumana) il detenuto ha subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene inumane o degradanti"). Dunque l’uomo, la cui fine pena era fissata al 10 novembre, è stato liberato, contro il parere di Procura e Avvocatura di Stato. Ma quali erano queste condizioni degradanti? In primis, la cella minuscola. Nel reparto giudiziario (condanne non definitive) le celle sono di 10 metri quadrati, più il bagno di due metri quadrati, e per lunghi periodi il quarantenne ha dovuto condividere il poco spazio con altri due detenuti. Il giudice Napolitano è andata personalmente alla Dozza e ha misurato la cella, sottraendo dai 10 metri l’ingombro dell’armadio fisso (0,36 metri quadrati). Dunque, per ogni detenuto lo spazio vitale era di poco più di tre metri. La giurisprudenza ha stabilito che la violazione della Convenzione europea c’è quando lo spazio vitale è inferiore ai tre metri, ma in questo caso il giudice ha tenuto conto anche di altri fattori. Primo: il fatto che spesso i detenuti devono pranzare in cella senza nemmeno la possibilità di stare tutti seduti al tavolino. Secondo: i generi alimentari vengono conservati in bagno, "in spregio a ogni esigenza igienica". Terzo: il bagno cieco non ha ricircolo d’aria. Quarto: illuminazione insufficiente, anche per via di una grata aggiuntiva alle finestre. Quinto: limitata apertura delle celle per la socialità e ridotta possibilità di fare sport. "Visto l’insieme di tali deprecate condizioni - scrive il giudice - è ravvisabile un grave e ingiustificato pregiudizio". Lo sconto si riferisce solo al periodo nel reparto giudiziario, dal 2008 al 2010, perché con il trasferimento al penale le condizioni sono migliorate. Il giudice parla di "intensa sofferenza" e ha accordato la riduzione anche se il trattamento non era più attuale, perché la legge prevede il risarcimento anche per il passato. Un orientamento non unanime, ma che trova il plauso della Camera penale di Bologna. Venezia: la direttrice Straffi "un teatro in carcere con spettacoli aperti a tutta la città" La Nuova Venezia, 9 novembre 2014 Un teatro dentro il carcere con un calendario di spettacoli aperto alla città. A lanciare la singolare proposta è stata la direttrice del Carcere femminile della Giudecca Gabriella Straffi che dal suo arrivo in laguna - era il 1984 - coglie il grido delle donne carcerate e si batte per rendere più umano quel luogo di disperazione. Ha strappato applausi, ieri, la Straffi nell’Auditorium Santa Margherita in occasione della giornata dedicata al teatro in carcere e all’esperienza degli immigrati, in Italia e a Venezia, promossa dall’Università Cà Foscari. La direttrice ha elencato le principali leggi della riforma carceraria risalenti agli anni 1975, 1986, 2000: "Il carcere delle rivolte non esiste più e le mura si sono abbassate. Ci sono spazi di libertà, non della cella ma mentale, di ricostruzione della persona. È importante lavorare sui loro sentimenti", spiega. Il tempo, dietro le sbarre, sembra infinito. Da qui è nata l’idea di "umanizzare la pena". La Straffi ha ricordato che nelle carceri lagunari si fa esperienza di teatro sin dal 2006. Regista del progetto "Passi sospesi" è Michalis Traitsis che in questi anni con vari allestimenti di spettacoli teatrali tra cui "Le troiane" di Euripide ed "Eldorado" dall’omonimo romanzo di Laurent Gaudè, ha coinvolto centinaia di detenuti degli Istituti penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione femminile, Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale Sat). Il regista greco ha ricevuto l’encomio dal Presidente della Repubblica Italiana e il Premio della Critica Teatrale 2013. Tra i relatori della conferenza Pietro Basso, Paolo Puppa e Maria Ida Biggi, docenti a Cà Foscari. Gli accademici hanno presentato filmati con esempi e testimonianze di detenuti-attori e hanno sottolineato che "fare teatro in carcere significa soprattutto creare le premesse per un buon reinserimento nella società". La probabilità di recidiva, normalmente al 70%, scende all’8% per i detenuti che si sono messi alla prova come attori durante la pena. Vito Minoia, direttore della rivista "Catarsi. Teatri delle diversità" ha offerto una panoramica sulle esperienze teatrali nelle carceri italiane. A conclusione l’intervento di Chiara Ghetti, direttrice che si occupa delle misure alternative alla pena carceraria. Sala Consilina (Sa): progetto artistico-artigianale "Laboratorio delle mani, a mani libere" www.infocilento.it, 9 novembre 2014 Martedì 11 novembre, presso la Casa Circondariale di Sala Consilina, prenderà avvio il laboratorio artistico-artigianale dal titolo il "Laboratorio delle mani: A mani libere" a favore della popolazione detenuta ospitata. Il Laboratorio artigianale si realizzerà grazie alla Casartigiani Federazione Provinciale Artigiani di Salerno con il contributo della Camera di Commercio di Salerno nell’ambito del progetto "Crescita". Lo scorso 16 ottobre è stato, infatti, sottoscritto un Protocollo d’Intesa tra la Casartigiani Federazione Provinciale Artigiani di Salerno, rappresentata dal presidente Mario Andresano, e la Direzione della Casa Circondariale di Sala Consilina, di cui è direttore la dr.ssa Concetta Felaco. L’iniziativa ha come finalità il recupero delle persone ai margini della società e come obiettivo specifico l’ampliamento delle competenze e/o conoscenze dell’individuo, favorendo, così, un’alternativa lavorativa spendibile sul mercato una volta scontata la pena. Il Corso laboratoriale prevede una durata complessiva di 60 ore con incontri bisettimanali ed i detenuti partecipanti, nell’apprendere le tecniche relative alla realizzazione di cesti artigianalmente prodotti, saranno coordinati dalla maestra d’arte Flaminia Giardullo, con il supporto tecnico ed educativo della dr.ssa Monica Innamorato, responsabile dell’area educativa dell’Istituto Penitenziario. Immigrazione: Legnini (Csm); aiutare Catania sui migranti minorenni non accompagnati Italpress, 9 novembre 2014 "Il Paese deve aiutare l’Amministrazione comunale e il Tribunale per i minorenni di Catania ad affrontare il tema serissimo e drammatico dei migranti minorenni non accompagnati, riguardante moltissimi bambini e ragazzi che hanno bisogno di accoglienza, sostegno e garanzia di un percorso di vita". Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, al termine di un incontro con il sindaco di Catania Enzo Bianco, nel Palazzo degli elefanti. Nel corso della riunione sono stati affrontati i temi della Giustizia, della nuova consiliatura del Csm che, ha sottolineato Legnini, dovrà essere caratterizzata da una maggiore apertura della magistratura italiana sul terreno delle riforme, e della situazione degli Uffici giudiziari catanesi, che, pur afflitti da carenze di organico e di copertura dei posti di vertice in taluni uffici, stanno sperimentando buone pratiche per elevare gli standard qualitativi. "Sosterremo - ha detto Legnini - questo sforzo, per fare in modo che gli Uffici di Catania possano costituire un esempio per l’intera Sicilia e per il Mezzogiorno". È stato affrontato anche il problema strutturale e logistico degli Uffici giudiziari, di competenza del ministero della Giustizia. "Insieme al sindaco Bianco - ha detto Legnini - svolgeremo un’attività di sollecitazione per l’importante progetto già avviato". Ossia quello della "cittadella giudiziaria" nell’ex Ascoli Tomaselli. Bianco ha ricordato i trascorsi comuni con Legnini prima come sindaci (il vice presidente del Csm era stato primo cittadino di Roccamontepiano) e poi in Senato. "Oggi - ha detto il Sindaco, Giovanni Legnini ha il compito di guidare la magistratura italiana con quella saggezza e con quella competenza che tutti gli riconoscono. Anche grazie alle sue sollecitazioni affronteremo qui a Catania tutti i problemi per avere una lotta sempre più efficace per quella legalità che è condizione essenziale per lo sviluppo della nostra terra". Nel corso dell’incontro si è discusso anche di carceri e sovraffollamento. Sia Bianco sia Legnini hanno ribadito di sostenere da tempo la necessità della depenalizzazione di taluni reati e dei percorsi alternativi alla detenzione. India: intervista a Eli e Tomaso, due ragazzi italiani da cinque anni in un carcere indiano di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 9 novembre 2014 Intervista ai due ragazzi italiani a Varanasi. Accusati di omicidio, rischiano l’ergastolo. Il cancello della District Jail di Varanasi è presidiato da una manciata di poliziotti. Quello che sembra essere il "capo", corporatura spessa e denti devastati dalle foglie di pan, appena riconosce Marina si distende in un sorriso da orecchio a orecchio. "Oooh, Auntie, sei arrivata!". La madre di Tomaso Bruno, assieme a Elisabetta Boncompagni in carcere da quasi cinque anni, ormai la conoscono tutti: è la mamma dell’"angreji", indianizzazione de "l’inglese", e negli anni ha sviluppato una routine della corruzione messa in atto con una naturalezza ammirevole. Si avvicina al "capo" tenendo piegata nella mano una banconota da 100 rupie (meno di un euro e mezzo). La tariffa per saltare una parte della fila ai controlli è cinquanta rupie a persona, incassate con le stesse movenze con cui le centinaia di spacciatori dei ghat di Varanasi, gli scalini che scendono nel Gange, dispensano droghe di vario genere ai turisti occidentali che a frotte si riversano nella città più sacra del Paese. Le caramelle comprate al negozietto dall’altro lato della strada andranno invece ad oliare i controlli di sicurezza al di là del cancello: dolcetti per evitare, ogni volta, di setacciare a fondo due borse piene di verdura, giornali, libri e sigarette. "So che è sbagliato, ma qui in India si fa così. E se con due euro posso vedere mezz’ora in più mio figlio, allora lo faccio". Maschi e femmine, in code separate, passano i controlli nel giro di quaranta minuti, rimessi in fila a forza di urla e bastonate da forze dell’ordine che ridono, minacciano, impongono un precario concetto di ordine servendosi del medesimo urlo onomatopeico - "Hat! Hat!" - usato dai pastori del subcontinente per ricomporre il gregge. Tomaso ed Elisabetta ci aspettano seduti a terra sotto una veranda affacciata sui curatissimi giardini del carcere. Sono accusati dell’omicidio di Francesco Montis, morto nella camera della guesthouse dove i tre turisti soggiornavano nel febbraio del 2010. Tra post mortem approssimativi e un impianto accusatorio basato esclusivamente sul sospetto di un ménage a trois finito male - due uomini e una donna occidentale in una stanza d’albergo, in India, portano ancora oggi alla formulazione di sillogismi pruriginosi - i due ragazzi aspettano da oltre un anno che la Corte Suprema valuti l’istanza di ricorso avanzata dalla difesa. Dopo decine di rinvii, lunedì 11 novembre i giudici potrebbero finalmente pronunciarsi sull’ultima sentenza datata settembre 2013. Colpevoli, in secondo grado di giudizio, di omicidio volontario. Pena: ergastolo. Tomaso è entrato in carcere a 27 anni e, escluso un servizio realizzato di nascosto dalle Iene qualche anno fa, non esiste una sua foto recente. Ora di anni ne ha 31, i dilatatori ai lobi e il cappellino sono rimasti al loro posto, ma si è fatto crescere i baffi. Sorride, mi offre una sigaretta, e inizia a raccontare. "La prima cosa che dovevo imparare per stare qui è stata la lingua, non potevo sempre rompere i coglioni a tutti perché mi spiegassero cosa succedeva, cosa dicevano. Ora parlo una cosa che non so bene se è hindi o bhojpuri (la lingua locale dell’Uttar Pradesh orientale, ndr), ma mi capiscono e capisco tutto. Guardo anche i film". Nella caserma che condivide con altri 150 detenuti (tutto il carcere ne contiene 1700, il doppio della capienza ufficiale) ci sono due televisori che scandiscono l’intrattenimento collettivo. Gli appuntamenti imprescindibili sono i film del weekend, esclusivamente in hindi, con innesti di apprezzatissimi reality show (in particolare una sorta di "Indian Idol") e dei match di cricket, che Tomaso - milanista - ha imparato ad apprezzare e giocare. La convivenza in una camerata da 150 persone, organizzata a file di giacigli con lenzuola e coperte impilate a far da materasso, non è stata particolarmente difficoltosa. Tomaso ed Eli si erano conosciuti a Londra: "Siamo due persone molto adattabili. A Londra Eli aveva vissuto in uno squat e io li frequentavo. Eravamo abituati a vivere nella confusione" dice Tomaso ridimensionando l’idea terrificante che, chi non ci è mai stato, ha di un carcere in India. Le caserme, dai racconti dei due ragazzi, ospitano una microsocietà basata su un mutuo rispetto efficace ma di facciata. Per la District Jail passano i sentenziati a meno di dieci anni - Tom e Eli sono un’eccezione concordata col direttore del carcere per facilitare le visite di Marina - e, a spanne, si riga dritto e prima o poi si esce. "Sono entrato qui senza niente. Il giorno prima ero un turista, quello dopo un detenuto. Non abbiamo nemmeno avuto il tempo di metabolizzare la morte di Francesco. Ero terrorizzato, arrivo qui e vedo due che si menano per terra. Quello che le prendeva poco dopo mi chiama e io penso cazzo, adesso tocca a me. Invece mi dice che tutti sanno chi sono, avevano letto i giornali, e che non mi devo preoccupare, per loro sarò sempre un ospite. Era il capo della caserma". Col tempo "angreji" Tomaso è diventato per tutti il "boss". Lo chiamano così, sanno che, nonostante la curiosità esotica che suscita, non devono disturbarlo quando ha in mano la Gazzetta o quando legge una delle decine di libri chiesti a Marina in questi anni: Terzani, Corona, Parassinotto, Don Winslow, Ken Follet ed Edward Bunker, fondamentale per i due, un manuale non per sopravvivere, ma per vivere in carcere. Come dice Elisabetta: "Anche in carcere c’è vita". È vita indiana: si mangia con le mani, la carta igienica non esiste, si affrontano i diktat della tradizione, come non lavarsi col sapone o tagliarsi i capelli il giovedì e il sabato. Si aspetta da cinque anni ma non ci si dimentica di vivere e di provare a capire questo Paese, imposto per via legale a Tomaso ed Elisabetta come alle loro famiglie. "Sono passati cinque anni" spiega Marina, 61 anni, indianizzata nei modi e nel vestiario dopo anni di spola tra Albenga e Varanasi "e se mi fossi rifiutata di capire, sarebbero stati cinque anni buttati via". "Oh, ci vediamo presto allora" mi dice Tomaso ridacchiando al momento dei saluti. "Fuori". Stati Uniti: Rikers Island, protesta davanti al carcere di Riccardo Chioni www.americaoggi.info, 9 novembre 2014 Quanto finora emerso tra abusi, corruzione e morte è soltanto la punta dell’iceberg della violenza contro i detenuti che si consuma nel complesso carcerario di Rikers Island, secondo gli organizzatori della dimostrazione di protesta inscenata ieri pomeriggio per chiedere una riforma del sistema. All’ingresso del Rikers Island Bridge che collega il Queens all’isolotto, all’angolo tra Hazen Street e 19th Avenue, si sono trovati attivisti, familiari, conoscenti di detenuti, ex carcerati e residenti per cercare di sollecitare l’amministrazione municipale e penitenziaria ad affrontare seriamente il problema delle carceri. Uno degli organizzatori del "Resist Rikers Rally" lanciato sui social media, Paul Funkhouser, ha sostenuto che il recente scandalo ha portato alla luce soltanto la punta dell’iceberg della violenza che regna nel complesso carcerario contro i detenuti. "La gente sta prendendo coscienza di quanto accade tra le mura di Rikers e credo che la municipalità sia responsabile per quanto sta accadendo e per questo vogliamo continuare a sollecitare riforme" ha dichiarato Funkhouser. Un primo, ma significativo passo la City lo ha fatto nei confronti dei minori dietro le sbarre che non potranno più essere posti in isolamento, o celle di rigore, a seconda delle condizioni. Non basta, sostengono i dimostranti al rally, sottolineando che in primo luogo i minori non dovrebbero ritrovarsi con una popolazione carceraria adulta di Rikers Island e che il cosiddetto "solitary confinement" dovrebbe essere abolito del tutto, anche per gli adulti. Inoltre i dimostranti, tra cui i familiari di carcerati con problemi mentali, chiedono un trattamento più adeguato e che sia un gruppo comunitario a visionare le lagnanze che emergono dentro le mura del penitenziario. "L’isolamento è una pratica disumana, nessuno dovrebbe essere sottoposto a isolamento. Vanno trovate delle soluzioni assieme, come società - ha aggiunto l’organizzatore del rally - dobbiamo affrontare la realtà, studiare soluzioni pratiche a questi problemi, non possiamo credere di cacciare gente in prigione e buttare via la chiave". Questo accade alla luce del preoccupante rapporto reso noto nei giorni scorsi condotto dal Department of Investigation che evidenzia una allegra gestione del sistema di sicurezza a Rikers Island, dove agenti infiltrati hanno potuto introdurre all’interno della cinta carceraria di tutto un po’, da eroina a liquori, oltre alle armi. Il complesso carcerario che comprende 10 padiglioni, ideato per 15 mila detenuti, ne contiene mediamente al giorno 17 mila, un "mercato" redditizio per alcune mele marce della sicurezza che si sono messe al servizio del contrabbando. Vantaggiose le offerte. Secondo quanto appurato dagli investigatori, alcuni dei quali infiltrati nel sistema, a seconda del rischio cui andavano incontro le guardie, le cosiddette "courier fees" potevano variare da 600 dollari, fino a 2.000 per una certa quantità di marijuana recapitata ai committenti. Giovedì, quando è stato reso noto l’infame rapporto che sottolinea come Rikers Island sia permeata della cultura della violenza, il commissioner del Department of Investigation Mark Peters ha dichiarato che necessitano revisioni nello screening, nell’addestramento delle guardie ed è impertativa la presenza di unità cinofile per intercettare narcotici. Dall’inizio dell’anno, dopo una serie di scandali venuti alla luce ed altri coperti, come ha dimostrato il NY Times nel caso di una serie di violenze che non trovano riscontro nella casistica di Rikers Island. Il commissioner del Department of Correction Joseph Ponte ha fatto sapere che alcune riforme raccomandate dal rapporto sono già state applicate, mentre altre richiedono tempo, almeno alcuni mesi, come nel caso delle unità cinofile. Dall’inizio dell’anno a qualche giorno fa, 10 guardie sono cadute in disgrazia, accusate di vari, gravi reati e sul capo di una trentina di reclusi sono cadute ulteriori accuse, mentre in un editoriale il Ny Daily News ha chiesto la cacciata del commissioner Ponte. Il sindaco Bill de Blasio ha promesso di riformare l’antiquato e tormentato sistema carcerario di Rikers Island dove da tempo si assiste ad un insorgere di episodi di violenza a cui segue la repressione violenta delle forze di guardia. Nord Corea: rilasciati Kenneth Bae e Matthew Todd Miller, ultimi cittadini Usa detenuti Adnkronos, 9 novembre 2014 Sono stati rilasciati i due cittadini americani - Kenneth Bae e Matthew Todd Miller - da tempo detenuti in Corea del Nord. Lo ha annunciato l’ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale americana, precisando che i due sono sulla via del ritorno negli Stati Uniti, accompagnati dal direttore dell’intelligence, James Clapper. "Accogliamo con favore la decisione della Corea del Nord di rilasciare Bae e Miller - si legge nella nota - Vogliamo ringraziare i nostri partner internazionali, in particolare la Svezia", che cura gli interessi americani a Pyongyang, "per i loro sforzi instancabili che hanno contribuito al rilascio". Commentato positivamente il rilascio di Bae e Miller, il dipartimento di Stato americano in un comunicato ha ribadito "la forte raccomandazione contro i viaggi di cittadini americani in Corea del Nord". Todd Miller, 24 anno, era stato arrestato il 10 aprile scorso, dopo che, secondo fonti di Pyongyang, aveva distrutto il suo visto turistico e chiesto asilo. A settembre era stato condannato a sei anni di lavori forzati con l’accusa di "atti ostili". Kenneth Bae era stato invece arrestato nel novembre di due anni fa mentre cercava di entrare nel porto di Rason, nel nordest del "regno eremita", all’interno della zona economica speciale al confine con la Cina. Missionario cristiano di origine coreana e guida turistica, era stato accusato dalle autorità di Pyongyang di usare il suo lavoro per formare gruppi per rovesciare il governo. Nel maggio del 2013 era stato condannato a 15 anni di lavori forzati.