Giustizia: una riforma timidissima, Renzi ha solo scherzato di Giuseppe Di Federico Il Garantista, 8 novembre 2014 Non un privilegio della casta togata viene intaccato dai provvedimenti del governo: i magistrati non pagano se sbagliano, non vengono valutati, non vengono controllati, e continuano a vantare record di produttività inesistenti. Diverse settimane fa Renzi, ospite di Porta a Porta, in risposta ad una domanda di Vespa che gli chiedeva se nel fare le riforme della giustizia non temesse le reazioni dei magistrati disse "Brrr che paura". L’Anm si indignò per questa mancanza di rispetto e molti pensarono che qualcosa fosse cambiato nel tradizionale forte sostegno da sempre fornito dal maggiore partito della sinistra alle posizioni conservatrici e corporative del sindacato della magistratura in materia di giustizia. Oggi si può valutare se la ruvida dichiarazione di indipendenza di Renzi si sia trasformata in una effettiva, incisiva, azione riformatrice della nostra claudicante giustizia. Nel mio intervento, di necessità breve, mi limiterò a considerare e commentare sinteticamente alcuni aspetti ordinamentali delle riforme che sono state proposte, tralasciando le critiche alle proposte di riforma del governo già da me formulate nel comitato nazionale radicale dell’11 luglio scorso con riferimento alle indicazioni del Governo per la riforma del Csm. Non potrei aggiungere nulla a quanto dissi allora perché nessuna proposta riformatrice in materia è stata avanzata dopo di allora. Considero per prima la proposta governativa di ridurre di 15 giorni le ferie dei magistrati (ora sono di un mese e mezzo). Conoscendo le modalità di svolgimento del lavoro dei magistrati e le modalità, a dir poco carenti, con cui viene esercitato il controllo su di esso, mi sembra si possa dire che questa iniziativa non contribuirà certo a rendere più efficiente la nostra giustizia. È però interessante esprimere alcune valutazioni sulle reazioni della magistratura organizzata a questa proposta. Una reazione "indignata" perché con essa, secondo lo stesso presidente dell’Anm, si pone in dubbio l’impegno lavorativo ed il rendimento dei magistrati italiani. A riguardo il presidente dell’Anm ha ricordato quanto i magistrati vanno ripetendo da anni. E cioè che i giudici italiani sono i più produttivi d’Europa, e vengono di poco superati solo dai russi. In tal modo si suggerisce, ed è certamente curioso, che i magistrati più produttivi, cioè italiani e russi, siano proprio quelli dei due paesi che vengono più degli altri condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i ritardi della giustizia. Curiosità a parte, occorre ricordare che i magistrati ritengono di poter provare di essere tra i più produttivi sulla base delle statistiche fornite nei rapporti dalla Cepej (European Commission for the Efficiency of Justice) e che riguardano i 47 paesi del Consiglio d’Europa. Dimenticano di dire che in quei rapporti si avverte sempre che le statistiche fornite non possono essere usate per stabilire graduatorie tra i magistrati dei diversi paesi a causa delle diversità nella raccolta dei dati, nelle procedure, negli istituti giuridici dei diversi stati, e altre ancora. L’Anm dimentica anche di dire che nel calcolo della produttività dei giudici italiani rispetto al totale dei provvedimenti giudiziari vengono considerati solo i magistrati di ruolo (8.417 attualmente in servizio presso gli uffici giudiziari) e non anche quelli onorari, come se i circa 6.000 giudici di pace, giudici onorari di tribunale, vice procuratori onorari attualmente in servizio non facessero assolutamente nulla. In quelle statistiche cioè il loro lavoro viene inglobato in quello svolto dai magistrati ordinari con la conseguenza che i livelli lavorativi di questi appaiono molto più elevati di quanto non siano in realtà. Più volte nel corso di vari convegni sulla giustizia ho contestato queste cose ai magistrati che vantavano il primato di produttività in Europa. Non mi hanno mai risposto. Hanno sempre fatto finta che non avessi parlato e hanno successivamente continuato a ripetere le stesse vanterie. Questa strategia di alterazione della realtà funziona, è vincente, tanto che ormai la favoletta della maggiore produttività dei giudici italiani viene data per buona ed è citata anche dai Vice presidenti del Csm, dal Ministro della giustizia, da parlamentari e molti altri ancora, professori universitari inclusi. Vengo ora ad alcune riflessioni sulle modifiche proposte in materia di responsabilità civile, proposte che vengono fatte, occorre ricordarlo in premessa, non certo per porre rimedio al tradimento del volere dell’84% dei cittadini italiani (oltre 22 milioni di votanti) che l’avevano richiesta col referendum radicale del 1987. Vengono invece fatte perché sono imposte dall’Ue. Nel progetto governativo, la responsabilità rimane indiretta. A rispondere economicamente sarà comunque lo Stato e solo successivamente, dopo l’eventuale risarcimento da parte dello Stato, si attiverà il giudizio di rivalsa sul magistrato in misura non superiore alla metà del suo stipendio. A mio avviso le modifiche più rilevati della proposta governativa sono tre: -quella che elimina il giudizio di ammissibilità della richiesta di risarcimento, che finora ha escluso il 90% circa delle richieste di risarcimento prima ancora di essere considerate nei merito. - quella che amplia il concetto di dolo e colpa grave (violazione manifesta della legge, il travisamento del fatto e delle prove, inescusabilità e gravità dell’inosservanza) - quella che prevede che il tribunale adito per l’azione di rivalsa debba trasmettere gli atti ai titolari dell’azione disciplinare (anche se non vengono definite le conseguenze di questa trasmissione ad esempio se ed in che misura inciderà sulle valutazioni di professionalità). La reazione dei magistrati di fronte a queste moderate innovazioni è sempre la solita. Secondo l’Anm e lo stesso Csm, cioè, esse pregiudicano o violano l’autonomia e indipendenza della magistratura, in particolare la eliminazione del filtro. Secondo quanto riferisce ai giornali il senatore Buemi, è stato già predisposto un emendamento del Governo che restringe l’ampiezza delle fattispecie che denotano la colpa grave. Da quello che si sa si dice solo che costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge. Altri emendamenti che tengono conto delle obbiezioni dei magistrati sarebbero già stati presentati in Parlamento (es. la rivalsa limitata ad un terzo dello stipendio dei magistrati). È troppo presto per dire quanto rimarrà dell’originario progetto governativo in materia di responsabilità civile. Comunque anche se, come è da credere, dovesse essere approvato solo l’emendamento del governo che restringe il concetto di colpa grave, allora anche gli altri aspetti innovativi della riforma perderanno buona parte della la loro efficacia, come peraltro avverte lo stesso senatore Buemi. Comunque il problema della responsabilità dei magistrati nel nostro paese, è bene ricordarlo, ne abbiamo parlato altre volte, non può certo risolversi solo con l’introduzione di una adeguata ed efficace regolamentazione della responsabilità civile. Sarebbe anche e soprattutto necessario reintrodurre quelle forme di responsabilizzazione, molto più efficaci, che sono presenti negli altri paesi democratici che hanno una magistratura a reclutamento burocratico simile al nostro, che reclutano cioè i magistrati tra giovani che di regola rimangono in servizio per 40/45 anni. Tra queste forme di responsabilizzazione ci limitiamo ad indicarne tre. In primo luogo la reintroduzione di effettive valutazioni della professionalità. Ed a riguardo ricordo come le nostre ricerche mostrino chiaramente come il Csm di regola promuova tutti i magistrati in base all’anzianità, in violazione dell’articolo 105 della Costituzione che esplicitamente gli assegna il compito di effettuare le promozioni. In secondo luogo la reintroduzione anche da noi di efficaci poteri di coordinamento e controllo a livello degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti, come è negli altri paesi democratici. Da noi il Csm ha da tempo affermato il suo ruolo di vertice organizzativo della magistratura riducendo i poteri dei capi degli uffici giudiziari. È un compito che il Csm non è in grado di svolgere anche perché organizzativamente impraticabile rispetto all’alto numero di uffici giudiziari sparsi sul territorio nazionale. Gli esempi di disfunzioni che si potrebbero fare a riguardo sono tanti. Tra i pochi che di recente sono pervenuti all’attenzione della pubblica opinione mi basti qui ricordarne uno, e cioè il dirompente conflitto che da cinque mesi dilania la procura della Repubblica di Milano che in ben 5 mesi il Csm non è stato in grado di risolvere. In nessun altro paese democratico ciò sarebbe potuto accadere. E questo ci porta all’ultimo aspetto del nostro assetto giudiziario che intendo per ora segnalare. La creazione di una struttura gerarchica unitaria della magistratura inquirente che sia posta, come in tutti gli altri paesi democratici, alle dipendenze di un soggetto che risponda politicamente del suo operato. Ciò avrebbe una pluralità di ricadute positive, come posto in evidenza in un convegno sulla obbligatorietà dell’azione penale organizzato in un’aula parlamentare da Rita Bernardini nel 2008. Non solo darebbe maggiore efficacia ed efficienza al coordinamento dell’azione repressiva dello Stato, non solo consentirebbe di gestire con più efficacia e tempestività i numerosi conflitti che si verificano nelle procure e tra le procure e che spesso si trascinano senza soluzione per molti mesi (di cui ho avuto personale, prolungata esperienza nei tre anni in cui sono stato componente della settima commissione del Csm). Consentirebbe anche un recupero di democraticità nel nostro paese. Consentirebbe cioè di ricondurre nell’alveo del processo democratico le scelte di politica criminale che ora sono di fatte in modo spesso difforme e irresponsabile dalle diverse procure e anche, al loro interno, dai singoli sostituti (ricordo che riferendosi a questo fenomeno Falcone ne parlava come di "una variabile impazzita del sistema"). Per quanto concerne il processo penale non vi sono proposte innovative di rilievo sotto il profilo ordinamentale. Lo status quo da sempre difeso dai magistrati rimane intatto. Niente divisione delle carriere, niente regolazione e responsabilizzazione delle attività del Pm che sono tipiche degli altri paesi democratici. L’ultima ricerca da noi fatta l’anno scorso intervistando 1265 avvocati delle camere penali ha confermato le disfunzioni già emerse nelle precedenti ricerche del 1992, del 1995, del 2000. Ha tra l’altro confermato la capacità dei nostri Pm di autodeterminarsi con ampia discrezionalità in tutte le fasi delle indagini, nelle scelte dei casi da perseguire e dei mezzi di indagine da utilizzare, nella ricerca delle prove a discarico e nella loro utilizzazione, nella utilizzazione delle intercettazioni telefoniche, nelle scelte sulla custodia cautelare, nella discrezionalità con cui gestire i tempi di durata delle indagini e loro proroga. Il tutto senza un efficace sistematico controllo da parte dei suoi colleghi giudici preposti ad esercitare il controllo su tali attività, e cioè il giudice delle indagini preliminari e il giudice dell’udienza preliminare. Le disfunzioni di un tale assetto sono molteplici, ed alcune le abbiamo dianzi segnalate. Ne ricordo solo un’altra che riguarda la carenza di protezione dei diritti civili nell’ambito del nostro processo penale. Mi riferisco al fatto che in nessun modo il cittadino italiano viene protetto da indagini e iniziative penali non giustificate che di regola gli provocano danni irreparabili sotto il profilo sociale, politico, economico, familiare e anche della salute. Danni che non possono essere riparati da sentenze di assoluzione che giungono di regola molti anni dopo. A differenza di altri paesi democratici in Italia il Pm non può mai essere chiamato a rispondere delle sue scelte discrezionali, neppure sotto il profilo delle valutazioni di professionalità. Egli può indagare su ciascuno di noi ed usare a tal fine ed a sua discrezione la polizia, svolgere anche direttamente le indagini, senza limiti di competenza territoriale: è di fatto un poliziotto indipendente. Se poi risulta che ha agito senza sufficienti indizi può sempre affermare, con immancabile successo, che non poteva non fare quanto ha fatto perchè vi era obbligato dal principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Una obbligatorietà che cioè trasforma qualsiasi atto discrezionale del Pm in un atto dovuto. Sulle anomalie e le disfunzioni del processo penale, e sulle gravi carenze di protezione dei diritti del cittadino nel nostro processo penale moltissimo vi sarebbe ancora da dire. Mi fermo qui. Cosa intendesse Matteo Renzi dicendo "Brrr che paura" non lo so. Considerando le riforme finora proposte forse ha ragione a non avere paura. Ma con i nostri magistrati non si può mai dire. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati? lo chiede la Costituzione di Francesco Petrelli (Presidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 8 novembre 2014 L’affermazione di un corretto equilibrio fra i diversi (non contrapposti) principi costituzionali della indipendenza della magistratura e della responsabilità civile degli stessi, non solo è oggi inevitabile (a causa dell’incalzante azione dell’Europa) ma risponde ad un ovvio criterio di giustizia che dovrebbe essere percepito con immediatezza da chiunque non si lasci condizionare da ideologie e da spirito di parte. Chiunque provi infatti a spogliarsi della propria condizione personale, professionale, ordinamentale e sociale, e si ponga in una posizione di neutralità intellettuale, non potrà non vedere come un equilibrato principio di giustizia debba inevitabilmente governare i rapporti fra indipendenza del giudice e diritto dei cittadini, vittime di mala-giustizia ad ottenere un risarcimento. Ed una simile condizione di neutralità non consentirà a tutti di valutare come evidente risultato di un "filtro" davvero troppo stretto, e non alla effettiva efficienza e qualità della magistratura italiana, la circostanza che dalla data di entrata in vigore della attuale legge siano stati solo sei i casi l’accertamento di responsabilità civile e di condanna di magistrati. Non è pertanto comprensibile, se non nella luce di una ostinata contrapposizione corporativa, radicata nell’humus ambientale maturato nel corso di più lustri di sostanziale immunità, il rifiuto di ogni possibile mediazione e la dichiarata percezione della riforma come un bieco tentativo da parte della politica intera di minare alla autorevolezza ed alla indipendenza della intera magistratura. Al contrario, sebbene con il fiato sul collo della procedura d’infrazione e delle conseguenti pesantissime sanzioni, il Governo ha sostenuto un disegno di legge coerente con le indicazioni europee e con la stessa giurisprudenza costituzionale, equilibrata ed a nostro parere sin troppo attenta a non ingenerare possibili equivoci sulla esclusiva destinazione della norma a ristabilire un indeclinabile principio di giustizia in favore di tutti i cittadini. Non è neppure dato comprendere, alla luce delle affermazioni all’unisono formulate da Csm e Associazione nazionale magistrati, per quale ragione la responsabilità civile del magistrato non potrebbe essere, non solo giusta affermazione di altrettanto evidenti principi costituzionali, ma anche un efficace strumento di incremento qualitativo della intera giurisdizione. Non si vede infatti per quale ragione il principio politico-sociale di responsabilità (in virtù del quale chi sbaglia paga) non dovrebbe agire anche sull’operato della magistratura, così come avviene per ogni diversa categoria professionale che maneggi interessi sensibili e degni di massima tutela (quale ad esempio la libertà personale), operando come un efficace dispositivo suscettibile di sorvegliare sulla indipendenza della magistratura. La stessa sentenza 118/1989 della Corte costituzionale ricorda come "il magistrato deve essere indipendente da poteri e da interessi estranei alla giurisdizione", sottolineando altresì come il magistrato sia al tempo stesso soprattutto "soggetto alla legge" ed "alla Costituzione innanzi tutto", ricordandoci così che l’indipendenza è solo un attributo della giurisdizione che deve necessariamente coniugarsi con altre esigenze e con altre aspettative politico-sociali. Se la Costituzione sancisce, ad un tempo, - come ricorda ancora lo stesso giudice delle leggi - tanto "il principio di indipendenza (artt. 101, 104 e 108)" quanto "quello di responsabilità (art, 28)", ciò significa che entrambi i principi devono concorrere in concreto "al fine di assicurare che la posizione super partes del magistrato non sia mai disgiunta dal corretto esercizio della sua alta funzione". La "inescusabile negligenza", atta ad integrare in ogni caso la colpa grave del magistrato, appare formula sufficientemente calibrata e sedimentata per poter fornire un canone adeguato a garantire un giudizio di responsabilità perimetrato intorno a casi di peculiare gravità. Al tempo stesso il mantenimento del sistema della "responsabilità indiretta" (azione diretta nei confronti dello Stato e successiva azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, con adeguati limiti quantitativi), la prudente rimodulazione della clausola di salvaguardia, la stessa "oggettivizzazione" del concetto di "colpa grave", sembrano porre al riparo l’autonomia del magistrato da possibili incursioni strumentali. Giustizia: i Civilisti; bene impianto generale riforma ma criticità da superare Adnkronos, 8 novembre 2014 Un "giudizio favorevole" sull’impianto generale della riforma della giustizia civile, "frutto di un ripetuto e positivo confronto del Ministro della giustizia con Uncc, Cnf, Oua ed Anm", nella quale però, anche con le modifiche apportate in sede di conversione, "permangono rilevanti criticità". A sottolinearlo, all’indomani del voto finale alla Camera sulla legge di conversione del decreto sul processo civile, è l’Unione Nazionale delle Camere Civili. In primo luogo, sottolinea il presidente Renzo Menoni, la possibilità di trasferimento in sede arbitrale di procedimenti già pendenti innanzi all’autorità giudiziaria, prevista dall’art. 1, "viene, nei fatti, pressoché completamente vanificata dalla mancanza di incentivi fiscali, pur ripetutamente richiesti dall’Unione Camere Civili e peraltro promessi dal Ministro della giustizia, anche all’Assemblea Nazionale dell’Uncc di Padova". Alle parti che hanno già sostenuto per intero le rilevanti spese del giudizio avanti all’autorità giudiziaria ordinaria, "non può essere richiesto - spiega Menoni - di sobbarcarsi anche gli ulteriori costi dell’arbitrato, senza almeno concedere, come contropartita, sgravi di natura fiscale. Si aggiunga che la scelta degli arbitri non è ancora totalmente rimessa alle parti, ma soffre vincoli tali che possono difficilmente indurre le parti stesse al passaggio ad una procedura arbitrale. Se si voleva realmente far decollare tale istituto, la norma avrebbe dovuto essere più chiara e coraggiosa". E ancora, per quanto riguarda i procedimenti di conciliazione assistita "non sono previsti incentivi fiscali e ciò crea altresì un’ingiustificata disparità di trattamento con i procedimenti di mediazione, per i quali tali incentivi sono stati invece previsti". "Assoluta contrarietà" manifestano gli avvocati civilisti per il contenuto dell’art. 12, il quale prevede che i coniugi - fa notare il leader dell’Uncc - "possano concludere avanti al Sindaco, quale ufficiale dello Stato Civile, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, un accordo di separazione personale, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Si tratta di diritti personalissimi per i quali la legislazione previgente prevedeva non solo la necessità del giudice e l’assistenza obbligatoria degli avvocati, ma anche l’intervento del pubblico ministero, a conferma dell’assoluta rilevanza di tali diritti". "Ora le parti vengono letteralmente abbandonate a se stesse, avanti a un organo amministrativo (il sindaco) che non ha alcuna competenza in materia né, peraltro, ha o può esercitare potere alcuno - denuncia Mennoni. Ne deriva che vi è il serio e rilevante rischio che i coniugi possano concludere accordi pregiudizievoli, soprattutto per la parte più debole, sia economicamente che psicologicamente (e spesso anche meno informata)". Mentre il precedente art. 6 prevede una forma di degiurisdizionalizzazione "attenuata", in quanto i coniugi raggiungono un accordo di convenzione assistita dai rispettivi difensori e poi l’accordo deve essere trasmesso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente, per un controllo di legittimità, "nel caso di specie vi è un abbandono completo delle parti a loro stesse da parte della giurisdizione". "È quindi assolutamente necessario - conclude la nota - un immediato intervento correttivo sul punto, parendo la disposizione in esame anche di dubbia legittimità costituzionale. Altre minori criticità sono contenute nel provvedimento, criticità però, queste ultime, che potranno essere successivamente facilmente corrette". Giustizia: caro Grasso, io so e parlo… lo Stato tortura di Valerio Spigarelli (Componente Giunta dell’Unione Camere Penali) Il Garantista, 8 novembre 2014 "Chi sa parli" dice il presidente del Senato sul caso Cucchi. Sembra un invito alla delazione, più che una invocazione a rompere i muri di omertà. E invece no, io parlo. Parlo e dico al maresciallo, e a tutti i sepolcri imbiancati che hanno detto la loro sul caso Cucchi, che io so. So che non è vero che in Italia non si tortura, intanto e per prima cosa. So, come lo sa lo Stato, che torturò i sequestratori di Dozier, durante gli anni del terrorismo e non solo non ha mai accertato le responsabilità, ma non ha neppure chiesto scusa. So che c’era un funzionario dello Stato talmente bravo a torturare che era stato soprannominato De Tormentis. So che lo Stato non smise di torturare dagli anni settanta, perché lo fece a Genova nel 2001, a Bolzaneto in particolare, e lo dicono tutti, ma pure a Napoli, un anno prima, e questo non lo dice nessuno. Io so che i giuristi in questo Paese di fronte al caso Cucchi dovrebbero strepitare perché il reato di tortura, quello vero, rischia di non essere mai introdotto. Chi sa parli", dice il presidente del Senato sul caso Cucchi. Sembra un invito alla delazione, più che una invocazione a rompere i muri di omertà che i servitori dello Stato erigono quando è proprio lo Stato, come nel caso Cucchi, ad essere il principale indiziato di un crimine. Un monito da maresciallo burbero a capo di una stazione di confine che entra nel bar del paese e le canta chiare a tutti i concittadini, tanto lo sa che non servirà a niente, che nessuno dirà nulla, che i figli non accuseranno i padri, che è solo tutta scena ma almeno così l’onore è salvo. E invece no, io parlo. Parlo e dico al maresciallo, e a tutti i sepolcri imbiancati che hanno detto la loro sul caso Cucchi, che io so. So che non è vero che in Italia non si tortura, intanto e per prima cosa. So, come lo sa lo Stato, che torturò i sequestratori di Dozier, durante gli anni del terrorismo e non solo non ha mai accertato le responsabilità, ma non ha neppure chiesto scusa. So, che torturò Triaca, altro terrorista, e per sovrappiù lo condannò per calunnia quando quello denunciò le torture subite. So che se ne torturarono molti di terroristi in quel tempo. So che c’era un funzionario dello Stato talmente bravo a torturare che era stato soprannominato De Tormentis. So che quel funzionario agiva con altri appartenenti allo Stato che, ben prima degli americani ad Abu Ghraib, perfezionarono la tecnica del water-boarding. So che quei funzionari adattarono ai terroristi quello che si faceva nei confronti dei sequestratori, o dei rapinatori. E lo so perché lo Stato torturò Giuseppe Gullotta, che terrorista non era, nella identica maniera, e poi lo condannò all’ergastolo per un delitto mai commesso confessato sotto tortura. So che lo Stato non smise di torturare dagli anni settanta, perché lo fece a Genova nel 2001, a Bolzaneto in particolare, e lo dicono tutti, ma pure a Napoli, un anno prima, e questo non lo dice nessuno. So che lo Stato aveva la sua Caienna, all’Asinara, e oggi la mostra come se fosse archeologia carceraria ai turisti in gita senza dire che lì si imponeva, tra le tante altre vessazioni, la regola del silenzio ai detenuti, terroristi, mafiosi, sequestratori. Senza dire, ai turisti raccapricciati dalle grate che oscurano il cielo nei cortili del passeggio, che sono le stesse grate dei cortili dei Cie di oggi, ove sottopone ad un trattamento degradante persone che non hanno commesso reati. So che lo Stato ha torturato a Sassari i detenuti, e non era il secolo scorso, in maniera brutale, scientifica, animale e anche a Novara. So che lo ha fatto nella civilissima Ferrara, e non era neppure il primo decennio del terzo millennio. Io so, anche, che chi ha responsabilità istituzionali invece di commentare sentenze che ancora non si conoscono dovrebbe rammentare ai parlamentari italiani che devono impedire che si torturi di nuovo facendo il loro mestiere di legislatori, cioè introducendo il reato di tortura. Ciò che servirebbe a prevenire condotte come quelle che hanno fatto crepare Cucchi e Aldrovandi, che hanno umiliato i ragazzi a Bolzaneto e a Napoli. Io so anche che il giorno dopo una assoluzione, o il giorno dopo una condanna, i magistrati che sono coinvolti nel caso non possono comportarsi come i personaggi dei romanzi di Tom Wolfe: devono mantenere rispetto per le forme del sistema giudiziario, non fare passerelle inutili sui media; non preannunciare iniziative improbabili che poi devono ridimensionare, fino a smentirle, il giorno dopo; non cercare il consenso di fronte alla indignazione; non andare in pensione ostentatamente per dimostrare un dissenso rispetto all’atto collegiale che hanno appena sottoscritto. Facessero il loro mestiere, i magistrati, che prescinde dal consenso per definizione, che si chiami caso Cucchi oppure caso Berlusconi non cambia. Se la procura di Roma voleva indagare su altre persone rispetto agli imputati, e persino su quelli fare indagini integrative, non era il caso di farlo a mezzo stampa, lo so io, lo sanno tutti. Io so, infine, e tutti i giuristi degni di questo nome lo sanno, che è tortura "qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche... per qualunque motivo basato su di una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale", questo secondo la Convenzione che l’Italia ha sottoscritto ventitré anni fa, e che dunque quello che viene attualmente discusso in Parlamento è cosa diversa. Io so che i giuristi in questo Paese di fronte al caso Cucchi dovrebbero strepitare perché il reato di tortura, quello vero, rischia di non essere mai introdotto, non stare lì a strologare sulle intercettazioni che si potevano comunque fare, o le indagini fatte male, o le assoluzioni che non piacciono. Io so che dovrebbero indignarsi per una legge che non c’è, prima di tutto, perché senza di quella in Italia si continuerà a torturare. Io so che fino ad oggi la tortura non è reato perché ci sono apparati dello Stato che non vogliono che questo avvenga, perché lo temono il reato di tortura, quello vero, poiché sanno perfettamente che anche in Italia si tortura. Io lo so, ma non è una maniera pasoliniana di dire, io lo so perché su ognuno dei fatti che ho citato ci sono prove, perché ognuna delle opinioni che ho espresso è fondata sul diritta positivo; io non chiedo delazioni, non ce ne è bisogno, è tutto chiaro. Giustizia: caso Cucchi; pm Pignatone apre un’indagine dopo la denuncia contro il perito Corriere della Sera, 8 novembre 2014 Il Procuratore della Repubblica indaga a partire dall’esposto presentato nei giorni scorsi da Ilaria Cucchi contro il perito Paolo Arbarello. La famiglia lo accusa: ha detto il falso. Un fascicolo intestato "Atti relativi" secondo quanto prevede il modello 45, è stato aperto oggi sul caso di Stefano Cucchi dal procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone. Nel dossier, sul quale non compaiono né indicazioni di reato né il nome di indagati, è inserito per il momento l’esposto presentato nei giorni scorsi da Ilaria Cucchi contro il perito Paolo Arbarello. A presentare l’esposto contro Paolo Arbarello era stata Ilaria Cucchi, anche a nome dei suoi genitori, per contestare allo stesso Arbarello (consulente del pm nel corso dell’indagine sulla morte di Cucchi) accusandolo in sostanza d’aver anticipato il suo giudizio sull’esito della consulenza fatta per conto dell’ufficio del pubblico ministero prima ancora che il documento venisse depositato. A seguire l’indagine, che come si è detto riguarda per il momento l’esposto della Cucchi, sarà lo stesso procuratore Giuseppe Pignatone. La fiaccolata "per accendere una luce sul buio" "Iniziamo ad accendere una luce su quel buio". Il manifesto è firmato dal fumettista Zerocalcare, l’appuntamento invece è, sabato 8 novembre (alle 18) a piazza Indipendenza, davanti alla sede del Consiglio superiore della magistratura, a Roma, e l’appello è chiaro: una fiaccolata per fare luce sul caso Cucchi, a pochi giorni dalla sentenza della Corte d’Appello che ha assolto tutti gli imputati per la morte del giovane geometra romano. Accendere una candela per Stefano, questo è l’obiettivo: per non dimenticare. Disegni e parole Il tratto inconfondibile di Zerocalcare si declina nel tentativo di portare a galla la verità nel buio che ancora avvolge la morte di Stefano Cucchi. Sulla locandina della manifestazione compaiono personaggi, disegnati con il suo inconfondibile stile, che portano in mano un cartello, con lo slogan che in questi giorni è rimbalzato su tutti i social network "Sappiamo chi è Stato". "Ci sono banchi di buio e di omertà intorno a certi abusi, un’oscurità stratificata che li rende impenetrabili come una corazza" si legge sulla vignetta. E ancora "tutti assolti perché il fatto non sussiste". Al centro della locandina alcune citazioni di chi, a vario titolo, si è espresso sulla morte di Cucchi. "Il reato di tortura? Potrebbe demotivare le forze dell’ordine (A. Pansa)"; "Stefano Cucchi? Solo un denutrito (C. Giovanardi)"; "Non so cosa sia successo, ma di una cosa sono certo: del comportamento corretto dei carabinieri (I. La Russa)". Giustizia: caso Chucchi; la cella, le manette e i jeans… i Carabinieri si contraddicono di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2014 Ricordi contrastanti tra i Carabinieri che portarono Stefano in tribunale dopo l’esposto della famiglia, aperta l’indagine sul medico della procura. Abbiamo consegnato i due albanesi a una guardia penitenziaria e insieme, lui e noi tre, ci siamo recati a portarli ognuno nella sua cella. Contemporaneamente i due colleghi delle pattuglie di zona hanno accompagnato il Cucchi, con un’altra o la stessa guardia penitenziaria, presso un’altra cella. Io ho visto entrare Cucchi in questa cella che era situata più o meno a metà del corridoio". Questo dichiara ai pm il 7 novembre 2009, circa 15 giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco, in servizio all’epoca presso la stazione di Roma Appia. È uno dei militari che lo hanno arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre, mentre il ragazzo spacciava hashish e cocaina nel Parco degli Acquedotti. Insieme con lui, quella notte e poi nei sotterranei di piazzale Clodio la mattina dopo, c’è anche il collega Gabriele Aristodemo. Eppure la versione di quest’ultimo della "consegna" dell’arrestato è molto differente. Sentito anch’egli come persona informata sui fatti, ai pm dichiara: "Intorno alle 9.40 io e il carabiniere Tedesco abbiamo consegnato alla polizia penitenziaria i due arrestati albanesi e immediatamente dopo i due colleghi della pattuglia Casilina hanno fatto lo stesso con Cucchi. Più precisamente davamo i nominativi degli arrestati allo sportello dove era presente un appartenente alla penitenziaria. Nell’ufficio c’era anche un altro appartenente alla P.P. mentre altre due guardie provvedevano materialmente a prendere gli arrestati e a portarli nelle rispettive celle. Non so se ognuno dei tre arrestati sia andato in una cella singola perchè dal punto dove mi trovavo non si riescono a vedere le celle". Chi ha accompagnato Stefano Cucchi in cella, i carabinieri o la penitenziaria? E perché uno dei due militari vede la cella e l’altro no? Non è l’unica contraddizione che emerge dai verbali di assunzione di informazioni, su cui adesso la famiglia Cucchi si augura che il procuratore Pignatone possa far luce. Tedesco preleva Cucchi per portarlo dalla cella dei sotterranei all’aula 17 "senza le manette"; Aristodemo sostiene invece di averlo preso, insieme a Tedesco, "con le manette". C’è poi un elemento sul quale non solo hanno ricordi differenti, ma sono stati entrambi smentiti dai reperti. Tedesco parla dei pantaloni che indossava Stefano come di jeans "molto trasandati, piuttosto sporchi e forse avevano qualche taglio". Aristodemo conferma il "taglio all’altezza della coscia destra", ma non ricorda "di aver visto né particolari macchie né particolari rotture". La foto dei jeans di Stefano, che questo giornale ha già pubblicato, evidenzia come sul tavolo dell’obitorio le uniche macchie presenti fossero quelle di sangue e che non era presente alcun taglio, a eccezione dei buchi eseguiti dai periti per le analisi. Entrambi i carabinieri sostengono che il ragazzo camminava normalmente, ma l’agente penitenziario Nicola Minichini che lo prende in consegna subito dopo l’udienza di convalida ha detto invece al Fatto di averlo visto camminare con fatica. C’è poi un particolare, nel racconto di Tedesco, che stride con la registrazione di quel giorno e con la testimonianza del padre Giovanni: il militare afferma che Cucchi "ha parlato tranquillamente al giudice" e ha "salutato tranquillamente il padre". Nell’audio dell’udienza si sente chiaramente il ragazzo affermare: "Mi scusi, signor giudice, ma non riesco a parlare bene". E sappiamo quanto teso fu l’abbraccio tra Giovanni e Stefano: "Papà, ma lo vuoi capire che m’hanno incastrato?". Incongruenze, però, che evidentemente la Procura di Roma non ha ritenuto determinanti ai fini delle indagini. Ieri il procuratore capo, Giuseppe Pignatone, ha aperto un fascicolo "atti relativi", cioè senza indagati e senza ipotesi di reato, dopo la denuncia presentata dalla famiglia Cucchi contro il perito Paolo Arbarello, consulente dei pm accusato di aver redatto una falsa perizia sulla morte di Stefano. Il professore sta valutando in queste ore se querelare Ilaria Cucchi. E la stessa sorella del ragazzo ha nuovamente incontrato Pignatone, che terrà per sé il fascicolo: "Non è stato tempo perso", ha detto stavolta Ilaria. Intanto la storia di Cucchi continua a mobilitare le coscienze. Questo pomeriggio, alle 18, è prevista a Roma una grande fiaccolata "Mille candele per Stefano", promossa dai familiari e da Acad (Associazione contro gli abusi in divisa). Decine le adesioni tra comitati, associazioni, municipi, centri sociali e singoli cittadini. Giustizia: intervista a Manconi "Mastrogiovanni è la prova che c’è la tortura in Italia" di Lorenzo Misuraca Il Garantista, 8 novembre 2014 Manconi sulla morte nel reparto psichiatrico di Vallo della Lucania "il letto di contenzione dove è stato legato per 87 ore, è uno strumento medievale che sopravvive nell’Italia contemporanea". E iniziato il processo di secondo grado per la morte di Franco Mastrogiovanni, un altro uomo consegnato nelle mani dello Stato, come Stefano Cucchi, e riconsegnato morto alla famiglia. Mastrogiovanni, maestro elementare, di 58enne, il 31 luglio 2009 viene internato con un Tso nel reparto di psichiatria dell’ospedale pubblico "San Luca" di Vallo della Lucania. Muore dopo essere rimasto per ben 82 ore legato ad un letto e abbandonato alle sue sofferenze. Al primo appello, per la sua morte, vengono condannati sei medici e assorti tutti gli infermieri. Ne parliamo con Luigi Manconi, senatore Pd e presidente della Commissione diritti umani. Manconi, perché è importante tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su questo caso? È un caso esemplare di tortura, che con Mastrogiovanni raggiunge vertici di ferocia. Anche perché è stato internato senza particolari ragioni... Non è qualcuno che ha commesso un reato. Quello che ha fatto è essere passato la notte precedente con la macchina in una zona pedonale. Cosa per altro non verificata, in quanto non c’è un verbale a tale riguardo, per cui si aggiunge illegalità a illegalità. La procedura del Tso non è stata eseguita correttamente? Un trattamento sanitario deve essere effettuato con l’autorizzazione del sindaco, previo il parere di due medici e la successiva verifica. Ciò non è avvenuto con Mastrogiovanni. Le immagini delle telecamere fisse, diffuse dai media, mostrano una lenta agonia. In quelle 82 ore in cui è stato imprigionato in vita, a Franco Mastrogiovanni non è stato dato da bere e da mangiare, e addirittura un infermiere ha lasciato il vassoio con il cibo vicino al suo letto, cibo che le sue mani non potevano raggiungere, e se l’è ripreso dopo alcune ore. E in quei tre giorni e mezzo, nessuno lo ha aiutato. Ci sono state dodici persone almeno che hanno permesso che Mastrogiovanni morisse in quel modo. L’assoluzione degli infermieri perché avrebbero obbedito agli ordini getta una luce inquietante sull’accaduto. Come se quel particolare del vassoio fosse un atto normale. Come può essere accaduto? C’è l’idea dell’essere umano che al momento che viene internato, possa essere privato dei suoi diritti. Se noi riteniamo che Mastrogiovanni o chiunque entri in un ospedale psichiatrico, non abbia gli stessi diritti dei dottori o degli infermieri, o di chiunque altro, allora si crea questo tipo di situazione. Quanto c’entra il caso Mastrogiovanni con le normative italiane? Nel silenzio generale e nell’inconsapevolezza di quasi tutta la classe politica centrale e locale e dell’opinione pubblica, in Italia nel 2014 il letto di contenzione è sicuramente utilizzato con una certa frequenza in diverse strutture. Perché è un dato centrale? Il letto di contenzione è dove è morto Mastrogiovanni. È uno strumento medievale che sopravvive nell’Italia contemporanea e viene utilizzato negli ospedali psichiatrici giudiziari, nei reparti psichiatrici degli ospedali pubblici e nelle residenze per anziani. È perfettamente legale? Ritengo che si tratti di uno strumento di tortura, oltretutto sottratto a qualunque regolamentazione, dal momento che per Franco Mastrogiovanni ha funzionato per 87 ore di seguito, 82 mentre era in vita e altre cinque mentre era già cadavere. Qualche tempo prima, all’ospedale di Cagliari, vi è stato crocifisso l’ambulante Casu, che è morto dopo 5 giorni nel letto contenitivo. Nessuna norma per regolarne l’utilizzo? Dovrebbe essere soggetto a linee guida nei regolamenti, ma solo poche strutture ne parlano. Ma anche quando ci sono i regolamenti, non essendo vere e proprie normative, sono facili da violare. Nel caso di Vallo della Lucania è stato fondamentale l’utilizzo delle telecamere interne. Andrebbe esteso a tutte le strutture del genere? Sì, e in questo caso, è stato determinante. In altri casi, come quello di Aldo Bianzino, morto nel carcere di Perugia, le immagini non funzionavano bene e non sono state determinanti. Giustizia: la storia di Bellavista Caltagirone, arrestato e assolto dopo nove mesi di carcere di Erika Dellacasa Corriere della Sera, 8 novembre 2014 Assolto perché il fatto non sussiste. Francesco Caltagirone Bellavista è stato assolto insieme con altri nove imputati dal Tribunale di Torino dall’accusa di truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio, intimidazione di soggetti istituzionali, l’accusa di associazione per delinquere era già stata archiviata dal gip torinese un anno fa: si è così clamorosamente sgonfiata l’indagine della Procura di Imperia che si era abbattuta come un ciclone sul porto ligure, sull’imprenditore romano e sul dominus politico Claudio Scajola. L’ex ministro aveva visto poi archiviate tutte le accuse nei suoi confronti. "Quattro anni dopo - dice Bellavista Caltagirone - mi trovo massacrato fisicamente, economicamente, sentimentalmente. Ho perso tutto per ingiuste accuse ma non chiedo danni e non cerco vendette. Sono orgoglioso, sono onorato di essere stato giudicato da tre donne giudice di grande onestà e equilibrio intellettuale che hanno guardato solo ai fatti senza pregiudizi. L’Italia ha ancora di questi magistrati". Caltagirone è stato arrestato il 5 marzo del 2012, in carcere c’è rimasto nove mesi. "Il carcere - dice - non è solo ovvia sofferenza fisica e mentale, e io ho perso dodici chili, ma è terribile soprattutto l’impossibilità di difendersi, accusa e difesa non hanno pari diritti, solo in Italia c’è una custodia cautelare come quella che ho patito io". Parla di "accanimento" l’imprenditore romano e va oltre: "Quel pm di Imperia mi voleva tenere in galera ad ogni costo forse con la speranza che io crollassi e accusassi qualcuno. Ma io non potevo certo accusare chi non aveva fatto niente". Il riferimento è evidentemente all’ex ministro Claudio Scajola, finito nel mirino della Procura. La vicenda del porto d’Imperia è iniziata nel 2010 ma è esplosa due anni fa con l’arresto dell’imprenditore, la tesi della Procura era che l’incarico alla Acquamare di Caltagirone per la costruzione del porto fosse illegale, frutto appunto di una truffa ai danni dello Stato. Le conseguenze sul piano pratico sono state pesanti. La Porto di Imperia è fallita, Acquamare e la casa madre Acquamarcia sono in concordato preventivo. "Io ho fiducia e rispetto nei magistrati - dice Caltagirone - e in questa vicenda ne ho dovuti conoscere tanti ma quell’unico pm di Imperia ha distrutto un’azienda con duemila dipendenti diretti e ottomila indiretti, Acquamarcia ha subito la chiusura di credito delle banche, i cantieri bloccati, i sequestri. Mi chiedo se il Consiglio Superiore della Magistratura non possa riflettere su tutto ciò". Adesso il Tribunale di Torino ha novanta giorni per depositare le motivazioni della sentenza (tutti assolti per le accuse principali, sono state poi emesse due condanne a otto mesi per due imputati per fatti marginali). È probabile che il pm di Torino che aveva chiesto otto anni di reclusione per Caltagirone Bellavista e aveva parlato in aula di "truffa colossale" faccia appello. Giustizia: "Il governo delle carceri", martedì 11 novembre assemblea pubblica a Roma Ristretti Orizzonti, 8 novembre 2014 L’Associazione Antigone ha organizzato, per il prossimo 11 novembre, un’assemblea pubblica per discutere con gli operatori penitenziari e della giustizia, i garanti dei detenuti, gli addetti ai lavoro, i parlamentari le proposte in campo sulla riforma dell’organizzazione penitenziaria, presentando le proprie. L’assemblea si terrà a partire dalle ore 15.00, presso la sala della Mercede (via della Mercede 55, Roma). Ad oggi hanno confermato la propria partecipazione: Patrizio Gonnella (presidente Associazione Antigone), Franco Corleone (Garante dei Detenuti della Toscana), Bruno Mellano (Garante dei Detenuti del Piemonte), Alessandra Naldi (Garante dei Detenuti del Comune di Milano), Luigi Manconi (Presidente Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani), Walter Verini (deputato Pd), Daniele Farina (Deputato Sel), Francesco Cascini (Vice Capo Dap), Massimo De Pascalis (Direttore Issp), Rosario Tortorella (Segretario Nazionale Sidipe), Alessandro De Federicis (Ucpi), Marcello Bortolato (Magistrato di Sorveglianza Tribunale di Padova, Magistratura Democratica), Carlo Renoldi (Magistrato, Magistratura Democratica), don Virgilio Balducchi (ispettore generale cappellani delle carceri italiane), Salvatore Chiaramonte (Segreteria nazionale Fp-Cgil), Sandro Favi (Partito Democratico), Rita Bernardini (Segretaria nazionale Radicali Italiani). Per partecipare è necessario accreditarsi inviando un fax allo 06.6783082 oppure una e-mail all’indirizzo: sg_portavoce@camera.it. Vi ricordiamo che per gli uomini è richiesta la giacca. Giustizia: Legge Stabilità; emendamento Anci "no rifugiati e detenuti in tetto assunzioni" Public Policy, 8 novembre 2014 Escludere dal tetto delle assunzioni a tempo determinato, imposto agli enti locali, "le prestazioni di lavoro accessorio fornite" da immigrati con permesso di soggiorno, rifugiati e detenuti impegnati in progetti di pubblica utilità. È questa una delle proposte dell’Anci, contenuta in un emendamento, che probabilmente sarà presentato alla legge di Stabilità 2015. La proposta incide sul decreto legge 78 del 2010 e in particolare sulla norma che fissa un limite (del 50% delle spese per il personale sostenute nell’anno precedente) per le assunzioni a tempo determinato e con contratti flessibili. Giustizia: cinema italiano, addio alle armi…. Alfano vieta le sparatorie nei film di Michele Anselmi Il Secolo XIX, 8 novembre 2014 Il Viminale mette al bando pistole e fucili di scena, registi in rivolta. Poteva capitare solo in Italia, dove regna ancora una burocrazia fatta di regole astruse, proroghe insensate, scelte autolesioniste. La sapete l’ultima? Da ieri, anzi da mercoledì 5 per l’esattezza, le armi di scena sono bandite dai set cinematografici e televisivi. L’ha deciso una direttiva del ministero degli Interni, in assenza di nuovi regolamenti. Ergo: non si possono girare sparatorie, neanche impugnare pistole o fucili, che siano Beretta o Glock, Kalashnikov o M-16, Winchester o moschetti della Prima guerra mondiale. A farne le spese, subito, le fiction d’azione che si stanno girando in questi giorni e utilizzano, appunto, armi di scena, cioè "inertizzate", a salve: da "Suburra" a "Squadra antimafia Catturandi", da "Il commissario Rex 8" a "Un passo dal cielo 3" e "Montalbano" . A febbraio, se non si risolve la questione, anche il nuovo 007 con Daniel Craig, da girare in parte in Italia, potrebbe subire intoppi. Uno dice: possibile? Possibile. Da anni i ministri ai Beni culturali invitano i produttori a puntare di nuovo sui cosiddetti generi, si rimpiangono le stagioni, più o meno gloriose, dei western spaghetti e dei "poliziotteschi". Il successo di serie come "Romanzo criminale" o "Gomorra" sembrava aver riportato in auge alcuni mestieri del cinema, tra i quali il reparto tecnico armi & effetti speciali; invece adesso tutto si blocca, vai a sapere per quanto. Impensabile una roba del genere negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna. Avverte un preoccupato comunicato di Anica e Apt, insomma la Confindustria del settore audiovisivo: "Le perdite economico-produttive che ne deriveranno al settore si annunciano ingenti. Tutto ciò a causa della legge che regolamenta la detenzione e l’uso delle armi a uso scenico, ne stabilisce i requisiti tecnici e indica le procedure per il relativo riconoscimento, ma con norme tecnicamente opinabili, oggettivamente inapplicabili e per di più con termini di attuazione perentori giunti oggi a scadenza". Esiste, allo stato attuale, un testo contenente la proroga dei termini, ma fermo da un mese nel suo iter promulgativo. Luca Ricci è uno dei cine-armieri che forniscono pistole, fucili e mitra a chi ne ha bisogno per fare spettacolo. Sono in pochi a fare questo lavoro: Ricci, appunto, insieme a Giovanni Corridori, Paolo Galliano e Corrado Ermagora. Il 17 febbraio 2011, nell’assenza di regole chiare, finirono in carcere, per due giorni, e la cosa ebbe un certo clamore, pure Le Iene si interessarono al caso. Ricci, raggiunto dal Secolo XIX sul set di "Suburra", conferma: "Dovevamo girare una sparatoria proprio oggi, qui alla Magliana. Non è stato possibile, altrimenti mi arrestano un’altra volta". Il giovanotto, figlio d’arte, parla di "regolamenti allucinanti che ci impediranno, se confermati, di lavorare con produzioni americane ed europee". Sarebbero circa 6.000, su circa 1 milione in Italia, le armi custodite da Ricci e colleghi. Armi un tempo capaci di sparare, con regolare matricola, poi rese inefficienti da armaioli specializzati attraverso piccoli accorgimenti irreversibili e tutte portate alla Questura di Roma in modo da poter ottenere la licenza "di scena". "Non capisco che cosa tema lo Stato. È più facile trovare una pistola di contrabbando che rubarla a uno di noi" assicura Ricci. E spiega che la pratica più comune consiste nell’applicare una "spina passante" nella canna, insomma una specie di chiodo, in modo da rendere credibile la fiammata senza espulsione del proiettile. Del resto, se non vogliamo farci prendere in giro ricorrendo a tappi rossi sulla canna, le armi di scena devono consentire effetti realistici: espulsione di bossoli, corretta vampa di bocca, movimento manuale o automatico del meccanismo di ricaricamento e sparo. Attraverso l’uso, s’intende, di munizioni a salve. Infatti la nozione di arma per uso scenico è stata data per acquisita dal legislatore, tanto che la legge 110/1975 ne consentiva la locazione e il comodato. Solo nel 1977, probabilmente per via del terrorismo omicida, il ministero degli Interni si fece venire qualche dubbio sulla natura di quelle armi e sottopose il problema al Consiglio di Stato. L’ultima circolare esplicativa del Dipartimento pubblica sicurezza risale al 7 luglio 2011. Oggi non è più valida, a quanto pare. Lettere: caso Cucchi; indagare partendo dai momenti successivi all’arresto di Cecilia Sechi (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Sassari) Ristretti Orizzonti, 8 novembre 2014 La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi. Ci sarà il ricorso in Cassazione e nuovi sviluppi. Per adesso la Corte d’assise d’Appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie, tre infermieri (per la seconda volta), sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Bisogna partire da una ricostruzione dettagliata a partire dal momento dell’arresto di quel giovane entrato vivo in caserma e uscito cadavere dalla prigione. Eventi che risalgono a comportamenti precedenti a quelli sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate: la sera dell’arresto, Cucchi, sorpreso con qualche dose di erba e cocaina, fu accompagnato in una caserma dei carabinieri, prima stazione della sua via crucis. "nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora"; tale atto è stato spesso indicato come una "sciatteria", in un momento in cui si discute anche a livello politico per esigere serietà, perizia e competenza nello svolgimento del proprio lavoro negli apparati dello Stato. Tale incredibile fatto è un elemento processuale di indescrivibile gravità anche a tutela di quei servitori dell’Arma che per uno stipendio da fame, svolgono con correttezza e serietà il loro lavoro. Stefano era nato a Roma dove viveva con regolare residenza; al momento dell’arresto il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modulo riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza modificarli: una gravissima circostanza che avrà le sue incredibili conseguenze la mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la "mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti": Stefano non è quindi potuto tornare nella sua residenza, sia pure da detenuto. Il padre chiese se dovesse avvisare l’avvocato, gli risposero in caserma che avevano già provveduto. La mattina dopo, Stefano non trovò il difensore di fiducia, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del Tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalla sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare prove per condannare i responsabili. La morte di Cucchi, però, non dipende solo dalle botte, ma dal viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove non poté restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini. E poi l’assurdo divieto per i genitori di incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice e, poiché c’era di mezzo il fine settimana, il via libera per loro arrivò solo il giorno della morte; a loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute, avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma non quella delle cause dello stesso. A loro fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto inutilizzato perché nessuno si preoccupò di aiutarlo, visto che non si poteva muovere dal letto. Cucchi chiese invano di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dall’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, e visto che per quel motivo Stefano rifiutava cibo e cure. Con la grafia ormai malferma, aveva scritto all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Cinque anni dopo questa tristissima e incredibile vicenda è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo, o non solo, l’ultima sentenza, ma l’attesa del coraggio di indagare tutti i passaggi, senza più remore. Lettere: seguo da sempre con simpatia ed attenzione le iniziative del carcere di Maurizio Marello (Sindaco di Alba) www.targatocn.it, 8 novembre 2014 Il Sindaco di Alba rimarca la propria vicinanza alle iniziative organizzate dalla Casa Circondariale. "Nei miei primi cinque anni di mandato ho sempre seguito con simpatia ed attenzione le iniziative messe in campo dalla direzione dell’allora Casa circondariale, in primo luogo quella riguardante il vino "Valelapena". Più e più volte vi sono stato in visita. Quando non mi è stato possibile andare a motivo di altri impegni istituzionali, ogni volta, comunque, l’Amministrazione è stata presente. Ad esempio, per stare al caso citato nel comunicato del personale, quando è stato presentato il volume "Valelapena. Storie di riscatto dal carcere di Alba", ero nel medesimo orario impegnato in Comune a ricevere gli ospiti provenienti da Arlon per celebrare il decennale del gemellaggio tra le nostre due città. Ma l’Amministrazione era rappresentata in carcere da ben tre assessori: Fabio Tripaldi, Rosanna Martini e Alberto Gatto. Faccio ammenda se, per cause indipendenti dalla mia volontà, negli ultimi mesi non ho presenziato personalmente alle manifestazioni e mi impegno a incontrare al più presto il personale. Per quanto riguarda gli altri temi sollevati ripeto quanto già spiegato al personale del carcere durante i nostri incontri e cioè che la viabilità in quel punto è di competenza provinciale. Come Amministrazione comunale, invece, ci stiamo adoperando per risolvere un’altra esigenza emersa nei nostri colloqui, ovvero reperire alloggi a prezzi accessibili per gli agenti della Polizia penitenziaria. Su questo riteniamo anche di aver trovato la giusta soluzione e vorremmo al più presto sottoporla alla loro attenzione. Friuli Venezia Giulia: la Regione approva le linee guida sull’assistenza sanitaria in carcere Asca, 8 novembre 2014 Le linee di indirizzo sull'organizzazione dell'assistenza sanitaria negli istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia, sono state approvate oggi dalla Giunta regionale su proposta dell'assessore alla Salute e alla Protezione sociale, Maria Sandra Telesca. Il documento contenente le linee di indirizzo, che segue il trasferimento delle competenze dal ministero della Giustizia alla Regione, si basa sul principio di uguaglianza, nella sfera del diritto alla salute, tra la popolazione delle carceri e quella libera, in un rapporto di leale collaborazione con l'Amministrazione penitenziaria. Saranno in particolare le Aziende sanitarie competenti per territorio ad assicurare l'assistenza dentro gli istituti di pena. La Aziende dovranno mettere in campo la loro organizzazione attraverso i dipartimenti di prevenzione e i servizi distrettuali, di salute mentale e per le dipendenze. Ciascuna Azienda dovrà dotarsi, nell'ambito dell'assistenza distrettuale, di un servizio di Sanità penitenziaria. Nel documento si individuano puntualmente gli aspetti organizzativi e gestionali per garantire l'assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, comprese le indicazioni in materia di personale. Napoli: detenuto ricoverato in gravi condizioni. La famiglia: vittima di pestaggi in cella di Claudia Procentese Il Mattino, 8 novembre 2014 Per i familiari è stato vittima di pestaggi avvenuti durante e dopo l’arresto. Un detenuto di 45 anni, Luigi Bartolomeo, si trova ricoverato in prognosi riservata da oltre due settimane nell’ospedale Loreto Mare. A denunciare il caso, sul quale la magistratura sarà chiamata a fare chiarezza, stato Pietro loia, presidente dell’associazione Ex detenuti organizzati. Il 45enne era stato arrestato il 21 ottobre scorso per una doppia evasione dagli arresti domiciliari nel giro di poche ore e condannato a un anno e quattro mesi di reclusione. Dubbi da chiarire e versioni contrastanti sul caso di Luigi Bartolomeo, un detenuto ricoverato in prognosi riservata all’ospedale Loreto Mare. Secondo la sorella Paola e Pietro Ioia, presidente dell’associazione "Ex detenuti organizzati napoletani", avrebbe subito pestaggi durante e dopo l’arresto. "Ischemia cerebrale, un polmone fuori uso a causa di un rigurgito dei succhi gastrici ed ecchimosi agli occhi, ci ha detto il medico della sala di rianimazione. A lui Luigi ha dichiarato di essere caduto dalle scale, la vicenda non ci convince per nulla. In più non permettono alla sorella di vederlo" denuncia Ioia. Il 45enne è stato arrestato il 21 ottobre scorso dopo essere stato fermato due volte per evasione nel giro di 12 ore, prima dai carabinieri di Ponticelli poi dalla poliziotti dell’Ufficio prevenzione generale. L’uomo, agli arresti domiciliari per reati contro la persona, reagì in entrambi i casi ai controlli. Violando l’obbligo di dimora, in via Fratelli Grimm aggredì violentemente i militari dell’Arma procurandogli contusioni multiple, in via Esopo, invece, la sera stessa, sempre nei pressi della sua abitazione a Ponticelli, dopo essere fuggito alla vista degli agenti, rifugiandosi in un edificio, si oppose al fermo colpendoli con calci e pugni, nonostante avesse il volto insanguinato. Solo l’arrivo di altri poliziotti permise di bloccarlo e condurlo presso gli uffici della Questura. Nelle colluttazioni due militari dell’Arma ricorsero alle cure mediche, due poliziotti vennero medicati al Loreto Mare e andò in frantumi il finestrino di una volante, mentre lui stesso ri-portò ferite e contusioni. Alla fine, dopo aver trascorso una notte nelle camere d’attesa di via Medina, Bartolomeo, condotto in tribunale, è stato processato con rito direttissimo e condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione. "A Poggioreale - racconta Ioia - è stato subito portato al centro clinico San Paolo ed il giorno dopo trasferito d’urgenza al Loreto Mare. Presenteremo una denuncia alla Procura della Repubblica, vogliamo la verità su quello che è successo. Chi è solo, non ha mezzi economici, è soggetto dedito all’alcol e ha una denuncia per maltrattamento, viene trattato come l’ultimo degli esseri umani in carcere, senza la possibilità di difendersi. Preghiamo che si riprenda, solo lui può dirci come sono andate le cose". Dal carcere di Poggioreale, intanto, trapela serenità sulla vicenda. L’uomo è stato solo una notte nel penitenziario e sarebbe giunto "in condizioni già compromesse, con tumefazioni visibili al volto ed escoriazioni; nessun buco nero sulla sua permanenza in istituto: tutto è chiaramente refertato già al Loreto Mare". Contenute le dichiarazioni da parte dell’Asl, a cui dal 2008 sono affidate le competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria, prima di allora in capo al Ministero della Giustizia. "Dal direttore sanitario di Poggioreale ho avuto rassicurazioni che in carcere non è successo nulla - fa sapere Antonella Guida, direttore sanitario Asl Napoli 1 Centro, che non si sbilancia a parlare in attesa dei relativi permessi - ulteriori accertamenti competono ad altri organi. Il paziente ha fatto due accessi intermedi al Loreto Mare, dove ha rifiutato anche gli esami. Sta di fatto che il 23 mattina è stato ricoverato presso questo nosocomio per una complicazione del suo stato di salute manifestata nel carcere. Ora è in prognosi riservata, aspettiamo l’autorizzazione del magistrato per rendere pubblici i bollettini medici, già noti in privato alla sorella, visto che in questi casi vige il vincolo dello stato di arresto, oltre a quello della privacy". Sarà presentato esposto a pm Una denuncia sarà presentata nei prossimi giorni alla procura della Repubblica di Napoli sul caso di Luigi Bartolomeo, il detenuto napoletano ricoverato in prognosi riservata dopo un pestaggio - secondo quanto affermano i familiari e l’Associazione ex detenuti organizzati - che sarebbe avvenuto prima e dopo l’arresto. Lo ha reso noto Pietro Ioia, presidente dell’associazione. Si attende - ha sottolineato - che venga nominato un avvocato di fiducia, su suggerimento di esponenti dei Radicali che stanno seguendo il caso. Venezia: via le "bocche di lupo", per l’Asl rendono insufficiente l’illuminazione delle celle di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 8 novembre 2014 Prima udienza dopo che i tecnici del Servizio prevenzione dell’Asl veneziana hanno depositato la loro relazione sulle celle visitate nel carcere di Santa Maria Maggiore in cui si legge che "La valutazione delle condizioni di illuminazione, con riferimento agli standard tecnici e normativi degli ambienti di vita e di lavoro, non è soddisfacente in tutti i locali esaminati... l’illuminazione artificiale in uso non è sufficiente a colmare la carenza di illuminazione naturale diretto". Ieri, davanti ai giudici del Tribunale di Sorveglianza il procuratore della Repubblica Luigi Delpino ha proposto che venga data disposizione alla direzione del carcere in modo da rimuovere le bocche di lupo alle finestre delle celle, le strutture in ferro che limiterebbero grandemente l’illuminazione da parte della luce naturale. In pratica si tratterebbe di vere e proprio schermature esterne. A Santa Maria Maggiore, oltre agli spazi ristretti a causa del sovraffollamento - anche se negli ultimi mesi la situazione da questo punto di vista è migliorata - i detenuti non possono contare neppure su un illuminazione sufficiente. Eppure l’illuminazione dei locali in cui si vive è importante e a spiegare perché è la stessa relazione. "L’illuminazione di un ambiente è elemento molto importante in quanto agisce sullo stato di benessere dell’individuo. Condizioni di illuminazione ottimali consentono che la funzione visiva si esplichi senza affaticamento e conseguenze dannose" si legge. E ancora: "Nel caso di ambienti confinati, in linea generale, deve essere garantita sufficiente luce naturale; le aperture verso l’esterno permettono all’individuo di cogliere le modulazioni del ciclo della luce a cui sono legate importanti funzioni fisiologiche e di mantenere un legame visivo col mondo circostante, che è un bisogno psicologico elementare per l’uomo". Oltre alla libertà, anche questo è negato ai detenuti rinchiusi nel carcere lagunare. I tecnici dello Spisal veneziano erano entrati nel carcere di Santa Maria Maggiore il 9 giugno scorso, accompagnati dal presidente del Tribunale di sorveglianza, dal procuratore della Repubblica, dal comandante della Polizia penitenziaria e dai legali dei sette detenuti che avevano segnalato con i loro esposti le condizioni di vita all’interno delle celle, gli avvocati Annamaria Marin, Barbara De Biasi e Federico Cappelletti, esponenti della Camera penale veneziana che da anni si batte per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Bologna: Ikea porta la produzione in carcere, polemiche su contratti lavoro "a domicilio" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 8 novembre 2014 Il carcere bolognese della Dozza diventa la sartoria dell’Ikea. La multinazionale svedese ha deciso di affidare alla cooperativa sociale "Siamo Qua", dalla quale dipendono l’atelier del carcere e le specialiste del taglia e cuci, le personalizzazioni e gli adattamenti richiesti dai clienti della sede bolognese, Le ragazze dell’istituto orleranno tende, confezioneranno grembiuli, tovaglie e fodere, produrranno borse e astucci, garantiranno modifiche e rifiniture. Le tre dipendenti con contratti di lavoro a domicilio saranno operative quattro ore al giorno e verranno stipendiate a pezzo, le altre due svolgeranno un tirocinio formativo di tre mesi e riceveranno l’indennità prevista. L’iniziativa è importante visto, come sanno gli educatori e altri operatori all’interno del carcere, l’utilità di far intraprendere un percorso lavorativo ai detenuti. Ma c’è chi ci maligna in questa operazione voluta dal colosso svedese. Il rapporto Ikea-detenuti ha un precedente, e ovviamente del tutto imparagonabile con l’iniziativa odierna. Negli anni 70 aveva utilizzato la mano d’opera forzata dei detenuti reclusi nelle carceri della ex Germania comunista. Ad ammetterlo è stato l’attuale presidente dell’Ikea tedesca che, dopo le inchieste giornalistiche le quali fecero uscire lo scandalo, decise di fare un’indagine per verificare la fondatezza dell’accaduto. Il direttore aveva incaricato il consulente "Ernst & Young" di approfondire la vicenda che risale agli anni del muro di Berlino. E da ciò è scaturita una relazione che conferma tutto: i prigionieri politici e detenuti comuni venivano effettivamente obbligati a lavorare, senza essere nemmeno pagati, per i fornitori di Ikea. I rappresentanti del colosso dell’arredamento fai-da-te, inoltre, erano a conoscenza che i prigionieri politici potevano essere usati. Le inchieste giornalistiche avevano raccolto la testimonianza degli ex detenuti arrestati della Stasi, la temuta polizia segreta comunista, i quali avevano affermato di avere lavorato per l’azienda svedese; affermazioni che hanno poi spinto Ikea a commissionare la ricerca a maggio. È probabile ora che gli ex prigionieri ricevano degli indennizzi. "Siamo profondamente dispiaciuti che ciò sia potuto accadere, usare i prigionieri politici per la produzione non è mai stata un’idea accettata dal Gruppo Ikea", aveva dichiarato Jeanette Skjelmose, nel Memoriate "Berlin-Hohen-Schoenhausen", l’ex prigione della Stasi diventata museo, prima che la relazione venisse pubblicata. "Non chiedevano - aveva aggiunto sempre Knabe - chi produceva i loro mobili e sotto quali tipi di condizioni". Già un anno fa, un’inchiesta del primo canale tedesco pubblico Wdr, aveva rivelato che la collaborazione tra Ikea e la Repubblica democratica tedesca, era stata particolarmente proficua negli anni Settanta, quando nel paese comunista vennero aperti diversi stabilimenti di produzione. Uno di questi, quello di Waldheim - secondo gli archivi della Stasi consultati dai giornalisti tedeschi - era situato nei pressi di una prigione, dove erano rinchiusi numerosi prigionieri politici, costretti a lavorare senza remunerazione e in condizioni durissime. Da un file della Stasi era emerso anche che, Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea, aveva detto di non essere a conoscenza del ricorso al lavoro di detenuti nelle sue fabbriche, ma che "se anche fosse", sarebbe stato "nell’interesse della società". Secondo un’inchiesta della Frankfurter Allgmeine Zeitung, del maggio 2005, l’Ikea era stata accusata di essersi servita anche di detenuti nelle carceri cubane per realizzare alcuni dei suoi prodotti negli anni Ottanta. Ma oggi, il rischio si potrebbe ancora verificare? Ovviamente no perché Ikea, secondo il presidente, ha un proprio codice etico interno e il rispetto di chi ci lavora. Ma non la pensano così i loro stessi dipendenti. Ad esempio, proprio i lavoratori dell’Ikea che fa lavorare le detenute del carcere bolognese, hanno denunciato da tempo l’introduzione di nuovi contratti che riducono i diritti sulla malattia. Sono organizzati con un Sindacato di base (il SI Cobas) e hanno iniziato una vertenza su alcuni obiettivi importanti. Per tutta risposta la direzione Ikea non ha saputo far altro che licenziare 24 facchini del deposito di Piacenza, i più attivi in questa vertenza. Ma la solidarietà attiva si è fatta sentire. Tutte queste vicende potrebbero portare a pensare a male sull’iniziativa dell’Ikea di far lavorare le detenute. Dentro il carcere, chi lavora, ha una paga inferiore a chi lavora da "libero", non può organizzarsi in sindacato, né tenere assemblee, e tantomeno fare sciopero come può fare un lavoratore "libero". Trapani: concluso il corso di formazione per restauratori, ieri l’esame per sette detenuti di Ornella Fulco www.trapanioggi.it, 8 novembre 2014 Si sono svolti ieri, nel laboratorio di falegnameria della Casa circondariale di Trapani, gli esami finali del corso di formazione in "Aiuto restauratore del legno" a cui hanno partecipato sette detenuti, alla presenza dei docenti formatori Fabio Bongiovanni e Roberto Tartamella e del presidente, Girolamo Di Vita, dell’Istreff. I sette neo restauratori del legno sono Giorgio Beninati, Alessandro Genna, Paolo Giattino, Marco Borja, Giovanni Cirlincione, Giovanni Schifano e Gerlando Spampinato. "I corsi di formazione professionale - sottolineano dalla Casa circondariale - sono di vitale importanza per l’attuazione del dettato costituzionale, ovvero la rieducazione e il reinserimento del detenuto nella società, in quanto forniscono ai detenuti professionalità e un attestato spendibile nel mondo del lavoro". Imperia: la Uil-Pa Penitenziari lancia allarme "di notte ci sono più detenuti che poliziotti" www.imperiapost.it, 8 novembre 2014 Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari, lancia nuovamente l’allarme e presenta la drammaticità e la realtà del carcere di Imperia. "Continuano oramai a non interessare più a nessuno le condizioni dell’Istituto Imperiese , soprattutto durante le ore notturne, proprio alle 3 di ieri sono entrati nel carcere di Imperia 4 arrestati e pensare che a vigilare l’intero istituto erano appena quattro poliziotti penitenziari". Racconta Pagani: "L’Istituto continua a vivere la piena emergenza, ora basta il sindacalista della Uil-Pa Penitenziari dopo aver ottenuto impegno da parte del Provveditore Regione Liguria, in merito al Sovraffollamento dell’Istituto, Imperia non conterà più di 80 detenuti al massimo, soglia fissata dallo stesso Provveditore - rilancia l’obiettivo della Uil-Pa, cioè impedire ingresso dei detenuti nelle ore notturne di notte il Carcere dovrà restare chiuso se non sarà così sarà protesta - non è possibile che il personale di Polizia Penitenziaria di Imperia resti abbandonato dalla sua stessa Amministrazione - si spera che Comandante e Direttore dell’Istituto, che non sembrano preoccuparsi minimamente del problema, abbiamo compreso chiaramente la pericolosità e i forti rischi che l’istituto corre in quelle ore , soprattutto in termini di sicurezza, perché a rischio è la sicurezza sociale è giunto il momento che le Istituzioni, in Primis l’Amministrazione Penitenziaria si assuma le responsabilità , prima che sia troppo tardi - afferma Pagani-non si comprende per quale motivo l’Amministrazione si ostini a non voler decidere e comunicare alle altre Forze di Polizia e chi di dovere che la Casa Circondariale di Imperia è chiusa nelle ore notturne , perché a rischio la sicurezza dell’istituto e sociale". Salerno: intervento Croce Bianca salva un detenuto del carcere Fuorni colto da malore www.salernonotizie.it, 8 novembre 2014 Intervento salva vita nel carcere di Fuorni a Salerno nel pomeriggio di oggi. Un detenuto A. E. di 40anni, queste le iniziali, colto da malore, è stato prontamente soccorso dal personale di una ambulanza di Tipo A della Croce Bianca di Salerno. La tenacia dell’equipe medica guidata dal medico rianimatore dottor Giovanni Cammarano ha permesso di salvare la vita al 40enne in arresto cardiorespiratorio. Dopo numerose manovre è ripresa, infatti, l’attività cardiaca ed il detenuto è stato trasferito al Ruggi in rianimazione. Trani: chiede pizzo a compagno cella, arrestate moglie e figlia incaricate della riscossione Ansa, 8 novembre 2014 La moglie e la sorella di un boss di San Severo (Foggia), Giuseppe Iacobazzi, di 35 anni, detenuto nel carcere di Trani, sono state arrestate con l’accusa di estorsione: erano state incaricate di riscuotere una somma di 2.500 euro dalla figlia del compagno di cella del boss, un uomo di 60 anni che era stato minacciato di morte se non avesse pagato. Gli accordi tra i due uomini e le rispettive famiglie per il pagamento, sono stati presi durante i colloqui settimanali in carcere. È stata la figlia del sessantenne a denunciare l’accaduto. Le due donne sono state arrestate dai carabinieri all’appuntamento fissato al casello autostradale di Molfetta per la consegna del denaro. Sono Daniela Seccia, di 33 anni, moglie del boss, e la sorella Natalina Iacobazzi, di 31. Anche loro hanno precedenti penali e sono sottoposte all’obbligo di firma. La vittima dell’estorsione sta scontando una condanna per atti persecutori contro la moglie e ha piccoli precedenti. Teatro: detenuti ed ex-detenuti minorenni attori a Bologna con "Chiamatemi Ismaele" Ansa, 8 novembre 2014 Dopo 15 anni di spettacoli all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Bologna, per la prima volta la compagnia del Pratello presenta un suo lavoro in un teatro cittadino: dal 4 dicembre prossimo, infatti, l’Arena del Sole ospiterà "Chiamatemi Ismaele", un testo che Paolo Billi (fondatore e regista della compagnia) ha tratto dal "Moby Dick" di Hermann Melville. Un’occasione per l’Arena di confermarsi sempre più teatro di servizio, dopo la recente produzione di "Marat-Sade" con gli attori psichiatrici di Arte & Salute. L’operazione è resa possibile - ha spiegato Billi - dall’avere scisso la compagnia in due gruppi: Pratello In, della quale fanno parte i ragazzi detenuti, e Pratello Out, formata invece dai giovani che, pur se affidati ai Servizi di Giustizia minorile, non necessitano di detenzione in carcere. "Chiamatemi Ismaele" coinvolgerà tuttavia entrambe le formazioni: infatti, dal 25 al 30 novembre i ragazzi di Pratello In saranno impegnati nello stesso progetto all’interno della struttura carceraria e lo spettacolo sarà aperto a studenti delle Scuole Superiori e a gruppi giovanili organizzati. Non solo, Paolo Billi è riuscito ad ottenere il permesso di far recitare un ragazzo detenuto in teatro e un ex-detenuto in carcere. "Si tratta di un progetto - ha spiegato Teresa Marzocchi, assessore alle Politiche sociali della Regione Emilia Romagna - che, nella sua unicità, ha segnato la vita cittadina. Un segno di speranza". Per il presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna, Giuseppe Spadaro, "i ragazzi del Pratello, che pure devono essere perseguiti per i reati a volte gravissimi che hanno commesso, devono considerarsi ragazzi fortunati proprio per essere finiti al Pratello. Un modello a livello nazionale. Il mio sogno - ha proseguito Spadaro - è quello di allargare questa esperienza con la creazione di una scuola di teatro del Pratello, un modo per cercare di trasformare la sofferenza in un momento di crescita". "Chiamatemi Ismaele", oltre alla compagnia Pratello Out, coinvolge anche un gruppo di attori senior dell’Università Primo Levi e un altro, Botteghe Molière, al cui interno milita anche Chanel Tatangmo, un giovane attore che ha iniziato la sua avventura teatrale nel 2009 proprio al carcere minorile bolognese e che, successivamente, dopo avere concluso l’iter penale, si è laureato in Giurisprudenza. Ma Paolo Billi e Giuseppe Spadaro hanno anche denunciato alcuni aspetti non positivi di questo progetto. Il presidente del Tribunale Minorile vorrebbe portare più ragazzi al Pratello, "almeno 40, ma non è possibile a causa di un tetto da rifare e di mancanza di spazi aperti". "L’attività è sempre più precaria - ha spiegato invece il regista - e il Comune di Bologna è latitante: a fronte di un’attività annuale, che ha sempre coinvolto migliaia di cittadini, ci elargisce l’ironica cifra di 8.000 euro complessivi! Come si può giudicare il mio lavoro se non lo si è mai visto?". Televisione: oggi pomeriggio a "Tv Talk" (Rai 3) il caso di Stefano Cucchi Adnkronos, 8 novembre 2014 La vicenda di Stefano Cucchi torna alla ribalta. Se ne occupa "Tv Talk" - il programma di Rai Cultura presentato da Massimo Bernardini con Sebastiano Pucciarelli e Cinzia Bancone - in onda oggi alle 15.00 su Rai3. Dopo l’assoluzione in appello dei presunti responsabili della sua morte, avvenuta all’ospedale Pertini di Roma una settimana dopo l’arresto, l’informazione televisiva ha ripreso il caso, mostrando ancora una volta le fotografie del volto tumefatto del giovane. Uso cinico e strumentale della morte ha scritto Giuliano Ferrara, direttore de "Il Foglio", mentre Bianca Berlinguer, direttore del Tg3, non ha esitato a invitare nello studio del suo telegiornale Ilaria Cucchi che, da sempre, ha fatto delle immagini del fratello morto le armi della sua battaglia per la giustizia. Mondo: #FightImpunity, in rete contro i crimini verso i giornalisti di Arturo Di Corinto La Repubblica, 8 novembre 2014 Reporters senza frontiere lancia la campagna per combattere le torture e gli omicidi nei confronti di chi cerca di fare informazione a tutte le latitudini. Nazeeha Saeed, corrispondente di France 24 e Radio Monte Carlo Doualiya, il 22 maggio 2011 è stata picchiata, torturata e umiliata da cinque agenti di polizia a Rifaa per aver partecipato due mesi prima alle marce per la democrazia in Bahrein. Rilasciata dopo essere stata bendata, costretta a bere urina e picchiata con un tubo di gomma sulla pianta dei piedi, e non prima di aver firmato un documento che non ha potuto leggere, ha denunciato il fatto alla magistratura del Bahrein e pochi giorni fa si è trovato indagata lei stessa per aver denunciato i maltrattamenti subiti. È solo l’ultimo esempio in ordine di tempo di quanto costi fare informazione in un mondo dove solo in questi 10 mesi del 2014 sono stati uccisi 56 giornalisti mentre quasi 400 operatori dell’informazione, blogger e attivisti, sono stati imprigionati, in gran parte senza accuse precise e senza un processo. Per questo motivo l’assemblea generale dell’Onu ha indicato il 2 novembre come la Giornata mondiale per la fine dell’impunità dei crimini commessi contro i giornalisti. Un tributo questo a due giornalisti francesi di Radio France Internationale, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, uccisi in Mali proprio il 2 Novembre 2012. L’iniziativa, sponsorizzata da Reporter senza frontiere è stata accompagnata dal lancio di un sito web che ha come obiettivo la divulgazione delle mille storie di abusi, censure e rappresaglie che negli ultimi dieci anni si sono concluse con l’omicidio di circa 800 giornalisti, dalla Russia al Pakistan, dall’Eritrea al Messico. Per difendere il fondamentale diritto all’informazione, l’associazione indipendente di giornalisti ha deciso di promuovere la campagna in inglese, francese e spagnolo sotto l’hashtag #FightImpunity, lamentando che la quasi totalità dei crimini commessi, circa il 90%, non è mai stata portata in tribunale o punita dalla legge, alimentando il senso di impunità dei regimi e delle gang criminali che ne sono stati autori. Sul sito di rsf.org campeggiano 10 casi esemplari di torture, sparizioni e assassinii di cui sono stati oggetto dei giornalisti. María Esther Aguilar Cansimbe, messicana, è una di queste. Sparita all’età di 33 anni l’11 novembre 2009 dopo essere uscita di casa in seguito a una telefonata. Aveva indagato sugli abusi della polizia di Zamora ed era già stata minacciata dal cartello criminale La Familia. Dawit Isaak, detenuto in Eritrea non ha potuto vedere la sua famiglia per 13 anni e nonostante l’ntervento dell’Unione Europea e dello Stato svedese di cui è cittadino, non ha ancora avuto un processo. Il giornalista franco libanese Samir Kassir è stato fatto saltare in aria insieme alla sua auto nel 2005. Il pakistano Syed Saleem Shahzad, è invece stato trovato morto nel 2011: reporter dell’agenzia italiana Adn Kronos, studiava i legami tra Al-Qaeda e l’esercito pakistano. Il francese Guy-André Kieffer, disperso in Costa D’Avorio nel 2004 mentre indagava su dubbie pratiche commerciali del paese produttore di cacao, è un altro giornalista che ha pagato così la dedizione alla professione. In tutti questi casi la polizia non ha indagato adeguatamente e talvolta si è resa corresponsabile dell’insabbiamento delle indagini. Il sito web della campagna, presentando all’opinione pubblica queste storie - dettagliatamente documentate - offre la possibilità di inviare tweet e lettere preimpostate ai capi di stato e di governo dei paesi dove i crimini contro i giornalisti sono stati commessi. Per i promotori della campagna che invitano i cittadini a difendere il loro diritto a essere informati "bisogna usare ogni mezzo necessario affinché temini la violenza contro giornalisti e media workers, e affinché gli stati siano indotti a condurre indagini veloci ed efficaci nei casi di violenza che coinvolgono chi ha come unico obiettivo raccontare a tutti il mondo in cui viviamo". Stati Uniti: in Florida un 90enne finisce in carcere perché serviva cibo ai senzatetto La Stampa, 8 novembre 2014 Un uomo di 90 anni, Arnold Abbott, è stato arrestato la scorsa domenica per aver offerto del cibo ai senzatetto di Fort Lauderdale in Florida. La polizia è intervenuta mentre Abbott stava riscaldando del cibo in occasione di un evento di beneficenza, chiamato Love Thy Neighbor, organizzato insieme alla comunità locale. L’uomo è stato arrestato perché secondo una nuova ordinanza del comune non è possibile condividere prodotti alimentari in spazi pubblici. Per Abbott si tratta del secondo arresto per la stessa motivazione, ma nonostante ciò - secondo quanto ha dichiarato alla stampa locale - non ha intenzione di smettere di servire i pasti con l’organizzazione che ha fondato oltre 20 anni fa. "È nostro diritto nutrire le persone, lo dice il Primo Emendamento. Credo in Dio e nella fratellanza degli uomini, ci dovrebbe essere consentito di nutrire il nostro prossimo. Per questo mi batterò fino a quando ci sarà vita nel mio corpo". Anche se la storia di Abbott ha avuto grande risalto sui media statunitensi, il sindaco della città continuerà a punire chi infrange la legge. L’infrazione per il momento è costata all’uomo 500 dollari. In aggiunta Abbott potrebbe scontare anche fino a quattro mesi di carcere. Iran: il reporter del Washington Post Jason Rezaian può essere liberato entro un mese Aki, 8 novembre 2014 Potrebbe essere liberato o perdonato "entro un mese" il giornalista del Washington Post, Jason Rezaian, da oltre tre mesi rinchiuso in un carcere iraniano senza un’accusa precisa. Lo ha assicurato il segretario generale del Consiglio iraniano per i Diritti Umani, Mohammed Javad Larijani, in un’intervista rilasciata a Euronews a Ginevra. Come già reso noto da altri esponenti della Repubblica islamica, Larijani ha ribadito che Rezaian si trova in prigione perché "coinvolto in attività che vanno oltre quelle di un giornalista" e che "violano la sicurezza dello Stato", senza aggiungere altri dettagli. "La mia speranza - ha precisato Larijani - è che prima che inizi il processo, il procuratore decida di abbandonare il caso, vedendo forse che le accuse non sono così significative". Larijani ha quindi evidenziato che è anche possibile che il tribunale possa perdonare Rezaian e "faccia cadere tutte le accuse". Alla domanda sui tempi previsti per la conclusione del caso, Larijani ha replicato: "Mi aspetto in meno di un mese". Rezaian, 38 anni, è il corrispondente del Washington Post da Teheran. Ha doppia cittadinanza, iraniana e statunitense. Nelle scorse settimane il dipartimento di Stato ne ha invocato il rilascio, chiedendo al corpo diplomatico della Svizzera, paese che cura gli interessi degli Usa nella Repubblica islamica, di accertare le sue condizioni di salute. Ma l’Iran non ha riconosciuto la cittadinanza americana del giornalista e ha respinto ogni intervento di Washington sul caso. Il reporter è stato arrestato insieme alla moglie, Yeganeh Salehi, anch’essa giornalista, il 22 luglio, insieme ad un’altra coppia. Tutti, ad eccezione di Rezaian, che ha bisogno di sottoporsi quotidianamente a cure mediche, sono stati rilasciati. La moglie è uscita dal carcere il mese scorso dietro pagamento di una cauzione. Il reporter finora non ha potuto avvalersi di un avvocato perché contro di lui non è stata mossa alcuna accusa formale.