Giustizia: nuova riforma, idee fisse e passi falsi di Giuseppe Anzani Avvenire, 7 novembre 2014 "Non ci sarebbe bisogno ch’io mi mettessi a provare la lunghezza, per non dire l’eternità delle liti, praticata né nostri tempi". Rileggo questa osservazione, ovvia e banale e scontata, e la trovo più amara e sconsolata al pensiero che "i nostri tempi" di cui parla l’autore, Ludovico Antonio Muratori, erano per lui quelli della prima metà del Settecento. Quasi tre secoli dopo, con tante rivoluzioni progressive (culturali, politiche, giuridiche, tecnologiche, informatiche) la riascolto dentro l’ingorgo di una giustizia che non si fa perché è un groviglio infinito e una interminabile avventura. Cinque milioni di processi civili da decidere sono una palla di piombo più preoccupante del debito pubblico, perché il "debito di giustizia" è la sventura di Stato. Malanno antico, e non solo italiano. Ma nel confronto col resto del mondo, restiamo nettamente perdenti, e con vergogna: qualche anno fa il presidente della Cassazione citava la graduatoria che ci vede al 151° posto nel mondo, dietro l’Angola, il Gabon e la Guinea. Ma adesso il pacchetto giustizia appena approvato annuncia che risaliremo la china. Risaliremo? Primo gradino l’arretrato, una montagna. In passato le abbiamo provate tutte, le soluzioni d’emergenza, persino convogliando tonnellate di carte processuali alle "sezioni stralcio" dei tribunali, e reclutando una specie di bracciantato giudiziario, per smaltirle. Una sconfitta addomesticata, non una rimonta. Oggi la nuova medicina che si propone è l’arbitrato: si trasloca la contesa dai tribunali a una sede "privata", negli studi degli avvocati, che la decideranno come arbitri. Una buona idea, di per sé, per una politica deflattiva, che scolma il traffico di un’autostrada ingorgata sul reticolo fitto delle strade di campagna. Sempreché il dibattito e la fatica decisionale conservi per intero il suo impegno, per tutti gli arbitri che fanno da giudici, di giustizia secondo verità. Buona idea è la "negoziazione assistita", che persino evita la lite in anticipo e si affida all’onesta trattativa degli avvocati contrapposti e collaboranti. Secondo gradino: cambiare il processo. Anche questo è un "già visto", già fatto e già rifatto. Un’altra delle idee fisse che cercano di risolvere il problema della casa cambiando la posizione degli arredi. A volte l’intento di accorciare i tempi ha inasprito le decadenze e le nullità, ha messo argini ma anche seminato ostacoli e angustie; ora i termini da stringere sono anche quelli degli adempimenti dei giudici; e la riduzione dei "tempi morti" estivi, assurdamente lunghi, è giusta cosa. Perplessità, invece, sul vezzo semplificatorio di alcune misure: il rito sommario per tutte le cause "semplici" non dovrà contagiare di sommarietà la giustizia della decisione. E c’è infine una semplificazione per le cause di famiglia (separazioni e divorzi) che sembra copiare la "delocalizzazione" dell’impresa: non si andrà più davanti al presidente del tribunale, ma davanti al sindaco del proprio Comune, quando non ci sono figli minori o disabili; sostanzialmente a dire "ci separiamo", o a dire "divorziamo" e finisce lì. Ma anche se ci sono figli minori o disabili, separazione e il divorzio si potranno fare "a casa", cioè nello studio degli avvocati e basterà che un pubblico ministero ci metta un visto, restando una mera possibilità che un giudice ci metta gli occhi sopra. Quest’ultimo capitolo sembra dare una connotazione bagatellare alle vicende delle fratture familiari (che coinvolgono ogni anno qualcosa come 80mila bambini) che la legge affidava all’attenzione di un giudice presidente di tribunale primariamente in ragione della delicatezza e della importanza delle stesse scelte dei coniugi, sul piano personale e sociale. Forse la prassi italiana ha reso questo passaggio (e la sua finalità conciliativa, espressa a tutte lettere nel codice) un rito vuoto, burocratico, formale; la delocalizzazione in Comune o in studi forensi sembra dunque l’epilogo amaro di una dimissione. Non toglierà ai giudici una gran fatica (le consensuali si facevano già con lo stampone), ma retrocede al volontarismo privato una vicenda di indubbia rilevanza sociale. La giustizia non se ne giova, il costume banalizza le svolte della vita e la famiglia già svalutata e impacciata da cento ostilità e indifferenze diventa ancor più precaria. Giustizia: la "responsabilità civile" per decreto? i magistrati minacciano lo sciopero di Liana Milella La Repubblica, 7 novembre 2014 Caos per l’emendamento approvato al Senato che prevede il ricorso contro i giudici anche per la custodia cautelare. La mossa di Orlando per azzerare le modifiche. Sarà decreto sulla responsabilità civile dei giudici. Proprio così. La legge Vassalli dell’88 non sarà cambiata con un semplice disegno di legge, quello pur approvato il 29 agosto dal governo Renzi, ma addirittura con una misura d’urgenza identica al ddl. Lo ha deciso il Guardasigilli Andrea Orlando dopo essere rimasto fino alle 2 e 30 di notte in commissione Giustizia al Senato per difendere le sue idee sulla responsabilità. Un confronto a tratti drammatico, in cui si è sfiorata la crisi di governo con Ncd, per via di modifiche che passavano con l’accordo tra Pd, M5S e Forza Italia. Una modifica in particolare pare destinata ad arroventare il clima con le toghe, pronte domenica, nell’assemblea di piazza Cavour a Roma, a proclamare uno sciopero contro il governo, anche perché non hanno mai digerito l’intervento sulla responsabilità. L’ulteriore modifica peggiorativa stabilisce che può dare origine a ricorsi per responsabilità civile anche "l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale (un sequestro, ndr) fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza specifica e adeguata motivazione". Una previsione capestro, del tutto eliminata col decreto, che rischia di scatenare un ricorso per ogni ordinanza di custodia. Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli, quando gliene parlano, commenta: "Mi sembra uno strumento messo in mano agli imputati per far fuori i giudici scomodi". E ancora: "Trovo anomalo che a questo punto sia il giudice civile a valutare la congruità delle motivazioni di un arresto". Orlando, in commissione, ha mediato fin dove ha potuto, per limitare eventuali danni. Poi, dopo un ulteriore colloquio con la commissaria europea per la Giustizia Vera Jourova, cui ha garantito che l’Italia adeguerà la legge italiana sulla responsabilità alle richieste dell’Europa entro fine dicembre, la decisione di ripresentare il suo testo come decreto. L’unica via non solo per garantire la futura legge da ulteriori stravolgimenti parlamentari, ma per accelerare i tempi. La decisione di Orlando non dovrebbe trovare ostacoli al Quirinale perché le ragioni dell’urgenza sono nella pressione della Ue che, altrimenti, potrebbe multare l’Italia per 37mila euro al giorno, come ha documentato il vice ministro della Giustizia Enrico Costa. È facile prevedere fin d’ora che il governo, a quel punto, potrebbe anche mettere la fiducia tra Camera e Senato. Va detto subito che proprio Costa potrebbe non essere affatto d’accordo con un decreto che ripristina integralmente il testo del governo e di Orlando, e cassa completamente le modifiche approvate in commissione, in particolare quella sulla motivazione degli arresti. Costa parla invece di un testo "che ha un suo equilibrio e una sua dignità, dopo un dibattito intenso, franco, denso di contenuti". In una parola, Costa condivide la modifica sugli arresti e con il suo partito potrebbe non essere d’accordo a sopprimerla. Andiamo per ordine, perché la materia è complessa e l’intreccio politico pure. In commissione al Senato, relatore il Psi Enrico Buemi, c’è un testo dello stesso Buemi, aggiornato dal governo con il suo ddl. Molti emendamenti, alcuni sensibili come quello sugli arresti, proposto dal forzista Giacomo Caliendo, subemendato dal grillino Maurizio Buccarella, che però alla fine si astiene, mentre Orlando si rimette alla commissione e il Pd vota a favore. Ncd è pronto alla rissa, perché con una maggioranza che il capogruppo Maurizio Sacconi definisce "impropria e anomala" non passa la proposta di Carlo Giovanardi e dello stesso Buemi di obbligare i giudici ad attenersi alle sentenze della sezioni unite della Cassazione. Sarebbe un modo per togliere libertà d’interpretazione alle toghe, sulla quale Orlando dà piene garanzie: "L’elemento che caratterizza il ddl del governo è tenere fuori dalla responsabilità l’interpretazione". Ncd ribalta il tavolo. Sacconi presenta le dimissioni da capogruppo. Ci vuole un colloquio con Renzi e Orlando per farle rientrare. Ma la responsabilità civile traballa. Orlando decide di mettere il paletto del decreto. "Radio Arenula" dice che il testo sarà esattamente quello del ddl originario del governo. Senza il passaggio sulle motivazioni degli arresti. Ma sarà dura farlo ingoiare a Ncd. Giustizia: Morosini (Csm); cattiva riforma e modifiche peggiori, così vogliono intimorirci di Liana Milella La Repubblica, 7 novembre 2014 Un decreto? "Davvero? Non ci credo". È proprio così: "Forse è per evitare che il testo subisca altri assalti". Pm e giudici col bavaglio? "Con il rischio di perdere la serenità". Piergiorgio Morosini, presidente della commissione Riforme del Csm, commenta così le novità sulla responsabilità civile. Modifiche che era meglio evitare? "Mi sembra siano aggiunte molto pericolose. Che incidono sul principio fondamentale per cui non può dar luogo a responsabilità del magistrato l’attività di interpretazione di norme, né la valutazione dei fatti e delle prove". Stare attenti a motivare un arresto viola il principio? "Quando si ipotizza una responsabilità civile del magistrato per un arresto o un sequestro "fuori dai casi consentiti dalla legge", con una formula ambigua si vuole condizionare la serena interpretazione delle norme da parte nostra. Peraltro si smentisce il principio contenuto nello stesso articolo che esclude la responsabilità per l’attività interpretativa. Un principio adottato in tutte le democrazie occidentali avanzate e consacrato in un documento dell’Onu che risale al 1985". Quando si ipotizzano ricorsi in caso di misure cautelari "senza adeguata motivazione" la toga è meno libera? "La clausola o è inutile, perché il magistrato già risponde per negligenza inescusabile, o si vuole abbassare l’asticella della responsabilità per intimorire ogni giudice chiamato a decidere su una richiesta di sequestro o di arresto, magari nei confronti di soggetti forti economicamente o istituzionalmente". Con garbo sta dicendo che è una formula per intimidire pm e gip? "Sarebbe senza dubbio uno mezzo per depotenziare gli strumenti cautelari che in questi anni sono stati decisivi nella lotta alla mafia e alla corruzione. Così ogni arresto e ogni sequestro rischia di trasformarsi in un processo parallelo al magistrato che li ha disposti". Il Csm ha già criticato la riforma. Queste modifiche la peggiorano? "Vanno ben oltre il testo del ddl del Guardasigilli. Che sulla clausola di salvaguardia relativa all’interpretazione delle norme si era dimostrata in sintonia con i principi fondamentali condivisi anche in altri Paesi". Che impressione le fa la responsabilità civile addirittura per decreto? "La formula mi colpisce, perché questa è una materia tradizionalmente non da decretazione di urgenza". L’Europa preme perché l’Italia adegui la legge. Il testo lo fa? "Va ben oltre le richieste che riguardano solo ed esclusivamente la responsabilità dello Stato e non dei magistrati, nei confronti del cittadino danneggiato da un atto giudiziario". Pensa che i suoi colleghi, dopo questo decreto, avranno più timori a lavorare? "La sensazione è proprio questa. D’altronde, è indicativo che nella relazione di accompagnamento al ddl ministeriale vi siano impropri riferimenti all’esigenza di sanzionare in qualche modo i magistrati. Non sono le condizioni migliori per garantire giustizia ai cittadini" Giustizia: magistrati e stampa… quei giudici così refrattari all’esercizio della critica di Piero Ostellino Corriere della Sera, 7 novembre 2014 Che l’uomo-magistrato sia perfetto è solo una presunzione. Bisogna invece prendere atto che questo mestiere è perfettibile, come ogni altra manifestazione umana, e quindi in quanto tale, può essere oggetto di osservazioni. Forse, è venuto il momento di chiedersi realisticamente attraverso quali canali passano, nell’Italia d’oggi, repubblicana, laica, democratica, antifascista, il rifiuto dello spirito critico - che è, poi, il tentativo, neppure tanto indiretto, di imbavagliare il sistema informativo - e la negazione degli stessi sviluppi della deriva totalitaria in corso. Non passano attraverso i canali del Parlamento e, in generale della politica; partiti e uomini politici - che pur in proposito non si fanno mancare niente e tendono a nascondere la mano dopo aver tirato il sasso - sono, evidentemente, anche troppo compromessi per affrontare, per via giudiziaria, eventuali critiche serie. Passano, piuttosto, attraverso i canali di un sistema giudiziario che - al riparo della propria indipendenza politica, ma non ideologica - si ritiene al di sopra, non solo di ogni sospetto, ma anche di giudizio, cioè "in speciale missione, da parte di Dio, per redimere gli uomini". Una sorta di moralismo questa, che è, poi, l’anticamera di ogni totalitarismo. È infatti sufficiente esprimere un qualche giudizio critico su una sentenza e rivelarne - ancorché entro gli ambiti concettuali di un’opinione politicamente argomentata - l’oggettiva natura di supplenza politica, perché scatti, da parte di qualche procura o di singoli giudici, la denuncia, spesso assiomatica e poco argomentata, di "diffamazione per mezzo stampa", con relativa richiesta di spropositati indennizzi finanziari. Dopo che un’altra sentenza ha contraddetto e annullato quella in questione, la denuncia, se reiterata, finisce, inoltre, con assumere una ambigua, arbitraria, doppia funzione. Prima: di sanzionarlo e, allo stesso tempo, di mandare un messaggio intimidatorio al giornalista, colpevole solo di aver fatto il proprio mestiere e di aver rilevato, entro limiti politicamente argomentati, l’oggettiva natura di "supplenza politica" assunta dalla sentenza stessa. Seconda: di sanzionare e, allo stesso tempo, di mandare un altro "avvertimento", questa volta agli editori del giornale oggetto di denuncia: badate che, se non mettete a tacere quel giornalista, e chiunque altro lo voglia imitare, le richieste di indennizzo saranno, d’ora in poi, più pesanti. La dura realtà è che quel "legno storto", che è l’uomo per sua stessa natura, non diventa automaticamente dritto solo perché ha vinto un concorso e le sue sentenze non hanno una natura politica solo perché formulate "in nome della legge". Che l’uomo-magistrato non sia "il legno storto dell’umanità" ma sia, per definizione, dritto, è, diciamola tutta, solo una presunzione, ben coltivata e propagandata, dal marketing razionalistico settecentesco e dagli interessi corporativi novecenteschi degli stessi interessati. Tutto sta, allora, nel prendere atto che, per dirla con Montesquieu, quel terribile mestiere che consiste nel giudicare il prossimo non è esente da imperfezioni, ma è perfettibile come ogni altra manifestazione umana e, in quanto tale, inevitabilmente esposto a giudizio critico. È sufficiente sapere, allora, che, in un Paese civile e in un ben organizzato sistema giudiziario, agli (eventuali) errori può ovviare lo stesso sistema, sia attraverso i suoi vari gradi di giudizio, come già accade, anche se da noi con colpevoli tempi biblici, sia, in caso di malizia accertata, attraverso l’organo di autogoverno degli stessi magistrati, il Consiglio superiore (Csm). Sempre che esso non si riduca, come tende a fare, a rappresentare un’altra istanza corporativa fra, e contro, le tante in cui è frazionato il Paese. Giustizia: gruppo "Solidali con i detenuti", una sfida in Europa contro le carceri italiane di Damiano Aliprandi Il Garantista, 7 novembre 2014 Il gruppo, guidato da Yvonne Graf e dall’attivista Radicale Alessandra Terragni, ha lanciato nel 2013 una raccolta firme che ha ottenuto oltre 4.000 adesioni. Presto il Parlamento Europeo potrebbe pronunciarsi sulla violazione dei diritti dei detenuti e in particolare delle pene non conformi alla norma europea. Il gruppo "Solidali con i detenuti", guidato da Yvonne Graf e dall’attivista radicale Alessandra Terragni, ha lanciato nel 2013 una grande raccolta firme per presentare una petizione direttamente al Pe. L’iniziativa ha incassato oltre 4000 adesioni, con allegate numerose testimonianze di chi è stato vittima di casi di malagiustizia e abusi all’interno degli istituti penitenziari. Ieri la Commissione ha fatto sapere che le questioni sollevate nella petizione sono state giudicate ricevibili, poiché rientrano nell’ambito delle attività dell’Unione Europea, e ha quindi avviato l’esame della petizione chiedendo un parere al ministero della Giustizia italiana. Una risposta che rincuora i promotori dell’iniziativa, specialmente dopo la delusione per la sospensione della sentenza Torreggiani da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. "L’Italia nasconde la verità e i veri dati e i suicidi e i morti si susseguono in una condizione criminale legalizzata dallo stato", ha commentato Alessandra Terragni. Di seguito riportiamo un estratto della lunga lettera-petizione rivolta al presidente del Parlamento Europeo: Siamo un gruppo di cittadini, parenti di detenuti e detenuti solidali in lotta pacifica con i detenuti. Stiamo sostenendo da tempo Marco Pannella che è in continuo sciopero della fame e sete perché è l’unico che si stia mobilitando per fare approvare l’amnistia e indulto per le condizione disumane in cui si trovano i nostri detenuti nei penitenziari italiani, e per delle riforme della giustizia più che urgenti. Marco Pannella e l’avv. Giuseppe Rossodivita diffidano la magistratura italiana al rispetto dell’art. 3 Cedu e hanno inviato 675 diffide indirizzate ai presidenti dei tribunali italiani, ai procuratori capo di tutte le procure italiane, ai presidenti degli uffici gip di tutti i tribunali italiani, ai direttori delle carceri italiane, e a tutti gli uffici di sorveglianza della repubblica. La diffida, prende le mosse dal contenuto della nota sentenza pilota, sul caso Torreggiani ed altri, della corte europea dei diritti dell’uomo e spiega perché attualmente decine di migliaia di detenuti siano in esecuzione pena, in custodia cautelare e sottoposti ad una pena o ad una misura, tecnicamente, illegali. Ci rivolgiamo all’illustrissimo Parlamento europeo, a voi euro-parlamentari perché vogliamo come cittadini italiani e ormai pure cittadini europei che l’Italia si adegui alle leggi dell’Europa e che non continui ad essere uno stato criminale in flagranza di reato, e che interveniate al più presto con duri e concreti provvedimenti verso lo stato italiano. Il 14 ottobre abbiamo spedito una lettera con testimonianze di detenuti e parenti dei detenuti con quasi 4.000 mila firme affinché intervenga Strasburgo per le condizioni disumane in cui si trovano i detenuti nelle carceri lager italiane con copia pure alla corte costituzionale. Abbiamo scritto pure a Papa Francesco e oggi ci rivolgiamo a voi. Le carceri sono piene di detenuti che vivono in condizioni disumane. Lo dicono tutte le organizzazioni internazionali, e la corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia concedendole un anno per porre rimedio ad una situazione ritenuta insostenibile. In queste condizioni la pena non solo non è rieducativa, ma ha una carica afflittiva spaventosa. Un conto sono le civili carceri svizzere o tedesche, un altro il mattatoio delle celle italiane, dove ogni giorno si consuma un’interminabile umiliazione. Un Paese ha il dovere di punire chi sbaglia, ma non può distruggere la dignità dei detenuti che gli sono affidati. Poi in Italia persiste una forma di tortura con il regime del 41bis, il 14bis e l’ergastolo incostituzionale specialmente nella sua forma come il 4 bis del codice penitenziario che viene chiamato "ergastolo ostativo", meglio ancora definito come fine pena mai o morte vivente. Il 9 luglio 2013, è stata depositata una sentenza (Caso Vinter) profondamente rilevante: per la prima volta nella storia della Ue, la grande camera della corte europea dei diritti dell’uomo ha emanato un’ordinanza altamente rivoluzionaria in materia detentiva. La corte, infatti, ha stabilito che la condanna all’ergastolo rappresenta, di per sé, una pena disumana che ha ripercussioni gravemente degradanti e che arriva a violare i diritti umani fondamentali riconosciuti e garantiti dalla stessa Cedu. L’accoglienza che la grande camera della corte di Strasburgo ha riservato alla storica sentenza è stata pressoché unanime, essendo stata approvata con 16 voti a favore e solo 1 contrario. La valenza innovativa della recente pronuncia viene anche a dipendere dall’inversione di rotta decisa dalla corte proprio in merito ad un precedente orientamento dalla stessa decretato. Quest’ultimo atteneva, infatti, alla denuncia presentata da tre detenuti che, completamente prostrati dalle rispettive condanne a vita e privati di qualsiasi prospettiva di scarcerazione, sostenevano l’equiparabilità delle stesse ad un trattamento inumano ed umiliante. Il valore reintegrativo, oltre che rieducativo, della punizione in effetti arriva a perdere tutta la propria applicabilità nel caso del fine pena mai. Ci sono persone che sono davvero innocenti o dei condannati con dei processi indiziari e su libero convincimento dei giudici, poi ci sono migliaia di persone in custodia cautelare in attesa di processo spesso rinchiusi per anni prima che vengono assolte o condannate a volte pure a delle pene inferiori degli anni fatti in carcere in attesa di processo. Ci sono anche colpevoli, ma pure questi devono avere il diritto di scontare la pena in modo umano: ci sono molti suicidi nei carceri, molti detenuti si strozzano con le lenzuola perchè non reggono più questa situazione disumana che lo stato italiano applica nei confronti dei detenuti. La pena è solo punizione e afflizione, bisognerebbe trasformarla in responsabilità e reinserimento con il lavoro e la cultura. Nessuno nasce delinquente, lo si diventa quando intorno a te c’è il deserto, né si può esserlo per sempre, sarebbe da criminali pensarlo. E non parliamo dei diritti che gli spettano a un detenuto, non è accettabile che un detenuto quando telefona ai propri cari famigliari gli viene concesso solo 10 minuti di colloquio ogni settimana o per fare la doccia 5 minuti perché l’acqua poi si spegne da sola. E poi quasi di prassi esiste solo acqua fredda o per chi non ha la possibilità di comprarsi un pacco di caffè l’amministrazione non fa niente per aiutarli, cosa che il regolamento penitenziario dice diversamente. Denunciamo anche il regime del 41 bis dove i reclusi usufruiscono di una telefonata al mese o di un colloquio visivo di un ora al mese. Quando si svolgono i colloqui nel 41 bis, il detenuto non può abbracciare i suoi cari perchè li divide un vetro e parlano tramite i citofoni. Fino a quando nel meridione l’unica industria che si sviluppa è quella della repressione, non cambierà mai niente e, di generazione in generazione, migliaia di ragazzi meridionali alimenteranno il tritacarne dell’apparato industriale della repressione. D’altronde le leggi repressive sono state emanate per il meridione e applicate per i meridionali. Questo si evince dai numeri: nel regime di tortura del 41 bis sono al 100% meridionali; il 90% dei reclusi italiani sono meridionali; gli ergastolani ostativi sono al 100% meridionali. Pertanto, questo mastodontico apparato della repressione è usato al 90% contro il meridione e per i meridionali. Giustizia: 10 eurodeputati; serve azione Ue per aiutare Paesi su sovraffollamento carceri Ansa, 7 novembre 2014 La Commissione europea dovrebbe individuare "tutti gli strumenti disponibili per aiutare gli Stati membri a migliorare le condizioni detentive", garantendo il pieno rispetto dei diritti fondamentali. È quanto chiede l’eurodeputata del Pd Caterina Chinnici in una dichiarazione trasmessa alla Commissione e al Consiglio Ue e firmata insieme ad altri nove parlamentari di tre gruppi politici: Socialisti e Democratici, Popolari e Sinistra unitaria. "La dichiarazione vuole evidenziare l’urgenza di evitare le conseguenze del grave sovraffollamento carcerario riscontrato nella gran parte dei Paesi Ue, sottolineando i drammatici risvolti di questa situazione tra cui il rischio di suicidi, di trasmissione di malattie infettive e anche l’impossibilità per le amministrazioni penitenziarie di garantire adeguate condizioni di assistenza medica e psicologica ai carcerati", spiega Chinnici. La dichiarazione è stata firmata anche da Aldo Patriciello, Michela Giuffrida, Nicola Danti, Isabella De Monte, Eleonora Forenza, Barbara Spinelli, Cecile Kyenge, Paolo De Castro e Miriam Dalli. Giustizia: le Camere Penali in linea con il Santo Padre… contro l’ergastolo e il 41bis Cronache di Napoli, 7 novembre 2014 "Il regime di carcere duro deve essere riformato per garantire la dignità dell’uomo". "L’ergastolo deve essere abolito, le carceri devono garantire il rispetto della dignità dell’uomo, il regime carcerario del 41bis deve essere radicalmente riformato, la custodia cautelare deve essere l’extrema ratio e non l’anticipazione della pena". È questa la posizione dell’unione camere penali italiane a commento le parole del Papa che condannano ergastolo. carcerazione preventiva e invitano al rispetto dì chi subisce "a volte forme di tortura" nella privazione della dignità. Il discorso di Papa Francesco "tocca i temi fondamentali del sistema penale e lo fa come sempre in modo coraggioso e schietto, senza alcuna possibilità di fraintendimento " hanno commentato qualche giorno fa i penalisti. "Le parole del Santo Padre esprimono principi da sempre sostenuti dall’unione camere penali, e nei quali essa crede fermamente, che mettono l’uomo, la sua individualità e la sua dignità personale al centro come valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale" sottolineano gli appartenenti all’unione camere penali. Su tutti questi temi, concludono ì penalisti, "non c’è più tempo da perdere, troppo né è già stato speso inutilmente e le sofferenze che sono ingiustamente procurate a chi subisce gli effetti e le modalità di pene inique, di carcerazioni inutili, obbligano tutti e ciascuno a rispondere con solerzia e coscienza alle parole illuminate e cariche di umanità del Papa". Ma la "non vita" nei penitenziari non è solo legata a sovraffollamento e carcere duro. Ci sono nemici silenziosi e occulti, le malattie. Secondo alcuni dati "diffusi recentemente dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria - spiega Donato Capece del sindacato Sappe - ci dicono che il 60-80% dei detenuti è affetto da una patologia. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% è tossicodipendente. Solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv. Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate dalla Simspe vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le patologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi co/pisce il 22% dei detenuti, l’Hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%". Giustizia: Legge Stabilità; più soldi all’esecuzione penale esterna e al comparto minorile Dire, 7 novembre 2014 Più risorse al sistema dell’esecuzione penale esterna e alla giustizia minorile. È quanto chiede la commissione Giustizia della Camera nel parere favorevole sulla legge di stabilità approvato oggi a larga maggioranza. Nel parere, in particolare, si dà atto al governo di aver incrementato lo stato di previsione del ministero della Giustizia (+ 3,5% rispetto alla legge di bilancio 2014), e tuttavia si chiede uno sforzo ulteriore per garantire la piena funzionalità degli uffici più sotto pressione anche tenuto conto del potenziamento delle misure alternative al carcere attuato con le recenti riforme (tra cui la messa alla prova) e dell’imminente riorganizzazione del dicastero di via Arenula. Al riguardo, la commissione Giustizia ha approvato due emendamenti presentati dalla relatrice Donatella Ferranti e sottoscritti da tutti i gruppi (tranne la Lega): con il primo si propone di stanziare nel prossimo triennio 5 milioni di euro all’anno per l’Uepe, con il secondo 10 milioni all’anno al dipartimento per la giustizia minorile. Gli emendamenti saranno ora esaminati dalla commissione Bilancio. Ma non solo. Sempre a firma Ferranti (e sottoscritti dalle altre forze politiche ad eccezione dei 5 Stelle), alla Bilancio saranno trasmessi anche gli emendamenti approvati dalla commissione relativi all’Ufficio del processo e ai precari della giustizia. "Pur comprendendo come la grave crisi economica in cui versa il paese costituisca la causa prima della progressiva riduzione dei finanziamenti destinati alla pubblica amministrazione, ritengo che le risorse disponibili - spiega Ferranti, presidente della commissione Giustizia - possano e debbano essere distribuite in modo da non penalizzare oltre misura settori strettamente connessi al buon funzionamento della giustizia e del sistema penitenziario che presidia la tutela dei diritti fondamentali". Giustizia: emergenza carceri; a confronto con Patrizio Gonnella, presidente di Antigone di Giancarlo Capozzoli www.huffingtonpost.it, 7 novembre 2014 Soltanto ieri il presidente del Senato, Grasso, ha chiesto, a proposito del caso e della sentenza relativa al caso Cucchi, che vengano fuori i responsabili della morte del giovane romano. Volevo chiederLe se vuole aggiungere qualcosa a quanto dichiarato da Grasso. Volevo solo aggiungere che il fatto sorprendente è che dopo cinque anni ancora non si è giunti ad appurare la verità. Questo perché c’è uno spirito di corpo che tende a nascondere la verità stessa. Che può e deve essere scoperta dai vertici. Le polizie, come qualunque altro organo dello Stato, sono un corpo sociale e come tale deve essere controllato dalla società stessa. Nonostante tutto, voglio registrare il positivo passaggio alla Camera di un decreto contro la tortura. È un primo passo in avanti, intanto. Che cosa intende con "nascondere la verità"? Le faccio un esempio recente. A Teramo, un procuratore dopo un caso accertato di maltrattamento subito da un detenuto da parte della polizia, ha stabilito l’archiviazione del caso in seguito, secondo le parole del procuratore stesso, al clima di omertà presente. Omertà, capisce? È questa omertà che impedisce, ostacola la verità e la giustizia. Ed è questo che va sconfitto. È questo che va contrastato. Lei è il presidente dell’associazione Antigone. Possiamo dire che il vostro scopo è quello di rendere il carcere "trasparente"? Un carcere trasparente è un carcere che può essere controllato dall’esterno. Temi come la legalità, la dignità della persona umana sono questioni fondamentali per uno stato di diritto. La trasparenza è una garanzia. Il conoscere è una garanzia, per tutti. Anche per chi ci lavora. Trasparenza è far sì che il carcere non sia più un luogo buio e opaco. È una garanzia, dicevo, soprattutto per le tante persone per bene che ci lavorano, e non vogliono essere confuse con le poche persone per "male". Un sistema di trasparenza, per così dire, garantisce i diritti fondamentali di tutti. La trasparenza intesa in questo senso è un valore democratico imprescindibile. Osservare il sistema penitenziario è già "agire in esso", leggevo in uno degli ultimi rapporti che avete prodotto... Osservare, come giustamente dice, ha la capacità di modificare l’oggetto osservato. Noi rivendichiamo il diritto a modificare questo sistema, in senso umanista, progressista. Abbiamo una tesi di fondo che ci accompagna: non ci deve essere una differenza nel trattamento della dignità umana. A partire da uno dei diritti fondamentali, quello alla salute. Pertanto possiamo dire che è importante osservare gli istituti penitenziari e di conseguenza comunicarlo.... Guardi: la comunicazione è determinante. Ad esempio, nel momento in cui dovesse verificarsi una violazione dei diritti della persona, se ne dà notizia. Le carceri non sono alberghi a cinque stelle come ebbe a dire qualche anno fa un ministro di Giustizia. Il carcere è un luogo di pena, non c’è bisogno di aggiungere pena a pena. Noi, come Antigone, entriamo nelle carceri anche con le videocamere ad indagare, registrare e comunicare quanto insalubre buio umido sporco, sia un carcere. Rendere visibile, l’invisibile... Esattamente. Essere consapevoli della verità. Da parte di tutti. Di chi sconta la pena. Di chi ci lavora. E da parte di tutti i cittadini. Certo. Senta volevo sapere qualcosa in più rispetto alla questione delle "celle aperte", dell’apertura delle celle. Lei comprende bene che restare chiusi in cella per 22 ore al giorno è disumano. Non considerando poi lo spazio angusto e il sovraffollamento che i detenuti stessi sono costretti a subire come ulteriore condanna. Pertanto si è giunti alla decisione che il tempo da trascorrere "fuori" dalla cella sia di almeno 8 ore. Tempo da trascorrere in spazi meno angusti e in attività che in qualche modo tutelino la dignità delle persone stesse. Sì certo. Lei si riferisce a quelle attività trattamentali, come il teatro di cui io stesso sto facendo esperienza. Mi rendo conto di quanto sia importante per loro. Passare tre ore al giorno assieme agli altri, "giocando" al teatro, è un’attività che mi sembra necessaria. Davvero Sono attività fondamentali. Sono attività che non devono sovrapporsi le une con le altre e che devono coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti. Questo tipo di attività fa in modo che il tempo speso tra le mura del carcere, sia un tempo ben usato. Il teatro, poi, a mio avviso, ha una doppia valenza. Artistica, nel senso più alto del termine. E terapeutica, trattamentale. Sì certo. Concordo. La mia esperienza mi dice proprio questo. Senta, ancora una domanda. C’è secondo Lei la possibilità di un altro modo di intendere la carcerazione? La pena carceraria non è e non può essere l’unica soluzione. Le pene non devono essere scontate solo in carcere, a mio avviso. Piuttosto bisogna prevedere il carcere soltanto per i reati più gravi, come i delitti mafiosi, o per reati particolarmente efferati. Per gli altri tipi di reati le pene possono essere di tipo interdettivo, pecuniario, prescrittivo. In concreto quindi, è possibile un altro mondo? Guardi, semplicemente: la pena deve essere rivista. E per farlo, basterebbe prendere le regole europee ed applicarle. Dalla prima all’ultima. Giustizia: davanti allo specchio del caso Cucchi di Roberto Saviano L’Espresso, 7 novembre 2014 La vicenda del giovane romano fa paura, Perché mette le istituzioni a confronto con i propri limiti. E anche noi stessi. Come quando ci disinteressiamo del destino di una persona solo perché è un "tossico spacciatore". La morte fa paura, sempre. Ma ci sono circostanze in cui fa più paura. Questo accade quando non è possibile comprenderne le cause, quando abbiamo la sensazione di essere vicini alla verità dei fatti, ma alla fine quella verità ci fugge. Fa più paura quando abbiamo la sensazione che al posto del morto potevamo esserci noi, nostro fratello, nostra sorella, nostro padre o nostra madre. Nostro figlio, il nostro migliore amico. Sul caso Cucchi il circo mediatico urla e si divide tra chi ritiene che le sentenze vadano accettate, punto. Qualunque sentenza. Tra chi ritiene che si possano demolire quando non si è d’accordo. E chi crede che si debbano accettare - perché vivere all’interno del diritto è compito di chi fa parte di una comunità - ma si possano commentare. Perché commentare una sentenza significa anche mettere se stessi di fronte ai propri limiti. Significa anche fare i conti con i propri spettri. La morte di Stefano Cucchi, e gli esiti del processo in primo e secondo grado, per la comunità sono stati questo: uno specchio davanti al quale è stata costretta per anni a soffermarsi senza poter distogliere lo sguardo. Senza potersi distrarre o trovare consolazione. Stefano era un geometra di trentun anni, tossicodipendente e spacciatore. Viene fermato in strada a Roma il 15 ottobre del 2009 dopo essere stato visto cedere delle bustine a un uomo in cambio di una banconota. In caserma gli trovano addosso 21 grammi di hashish e tre dosi di cocaina. Al momento del fermo Stefano pesava 43 chili per 176 cm di altezza, non aveva segni di percosse sul corpo ma era in un evidente stato di denutrizione. Il giorno dopo, al processo, avrà difficoltà a parlare e a camminare e gli occhi gonfi per degli ematomi. Le sue condizioni peggiorano e al Fatebenefratelli lo visitano: lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace. La mascella fratturata, emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale. Stefano rifiuta il ricovero e viene portato al Regina Coeli. Morirà il 22 ottobre 2009 al Sandro Pertini, al momento della morte pesava 37 chili. Tredici le persone coinvolte nelle indagini, tra agenti della penitenziaria, medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. I capi d’accusa sono cambiati fino a decadere completamente il 31 ottobre 2014, quando la corte d’Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove. I processi si fanno nelle aule dei tribunali, non sui giornali, nei salotti o al bar. Eppure le foto di Stefano Cucchi le abbiamo viste tutti e tutti sappiamo che Stefano è entrato nelle maglie della giustizia denutrito ma nulla avrebbe fatto supporre una morte tanto improvvisa. E invece dopo una settimana, con il corpo pieno di contusioni e con sei chili in meno, Stefano muore. Una settimana lunghissima durante la quale non ha potuto incontrare la sua famiglia, anche questo rimarrà un mistero: perché negargli quell’unica possibile consolazione? In assenza di prove nessun colpevole e quindi nessuna verità, a parte la verità processuale, e questo lascia atterriti. In assenza di prove restano le parole del capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che con le sue dichiarazioni ha salvato l’autorevolezza delle Istituzioni: "Non è accettabile dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che ima persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato". Sono parole importanti perché stabiliscono quanto non è superfluo ricordare, ovvero che tutte le parti dello Stato coinvolte in questa vicenda hanno porzioni di responsabilità. E ce le abbiamo anche noi che alla notizia dell’ennesimo spacciatore arrestato tiriamo un sospiro di sollievo senza riflettere sull’iniquità della legge Fini-Giovanardi, finalmente riconosciuta incostituzionale, che ha riempito le carceri di tossicodipendenti e piccoli spacciatori ma non ha mai sfiorato i vertici delle organizzazioni criminali. Salvo poi leggere che dopo una settimana quel ragazzo, che ora tutti chiamiamo geometra e non più tossico e spacciatore, mentre era affidato allo Stato, è morto. Il caso Cucchi fa paura perché mette la Democrazia allo specchio, di fronte alla sua incompiutezza. Giustizia: caso Cucchi, Renzi non faccia come Ponzio Pilato di Vincenzo Vitale Il Garantista, 7 novembre 2014 Nel corso dell’ultima puntata di Ballarò era inevitabile che Massimo Giannini durante una lunga intervista al premier Matteo Renzi ponesse una domanda sul caso del giorno, vale a dire l’incredibile morte di Stefano Cucchi e la sentenza che ha mandato assolti tutti gli imputati. Renzi se ne è uscito affermando che se fosse stato un cittadino qualunque avrebbe ben saputo come commentare quella sentenza fra gli amici al bar, ma che, essendo a capo del governo, ciò non è possibile e che perciò deve astenersi da qualunque commento. Cerchiamo allora di chiarire alcuni punti. Innanzitutto occorre sfatare il falso mito, da molti vanitosamente sbandierato, secondo cui le sentenze non si commentano ma si rispettano soltanto. Occorre dire invece in modo deciso che le sentenze sono scritte proprio per essere commentate, criticate, condivise, osteggiate, impugnate, difese, sostituite, annullate, perfino revocate. Infatti, nello Stato di diritto, a differenza di quanto accade nello Stato totalitario, le sentenze non vengono emesse e proposte come dogmi indiscutibili, ma quali decisioni suscettibili di essere considerate erronee, prova ne sia che son previste le impugnazioni allo scopo di annullarle: e come si potrebbero annullare se non dopo averle previamente discusse, censurandole? Non solo. Tutto il lavoro plurisecolare di dottrina e giurisprudenza è tessuto con i sottili fili della critica e del commento, senza i quali entrambe cesserebbero di esistere. A ciò si aggiunga che in un sistema liberale quale il nostro dovrebbe essere e probabilmente non è la critica delle sentenze rappresenta uno dei momenti qualificativi del dibattito pubblico, al pari di quanto accade per la riforma del mercato del lavoro o per il problema della deflazione, e non si vede perché dovrebbe altrimenti. E allora, perché temerla ? Perché tacere? Anzi, è proprio il presidente del Consiglio che deve ritenersi impegnato in prima persona a fornire una valutazione esauriente e completa di quanto deciso, soprattutto in un caso delicato come senza dubbio è la tragica scomparsa di Stefano Cucchi. La risposta da Renzi fornita evoca in realtà scenari di sapore machiavellico, facendo ricorso alla teoria della doppia verità: una privata, da confidare soltanto agli amici al bar; l’altra pubblica, ostensibile sui giornali e nelle televisioni. Non credo sia questo il modo di fondare una nuova politica e un nuovo rapporto con gli elettori italiani, da sempre avvezzi alle mezze verità, al si dice-non si dice, al qui lo dico e qui lo nego; essi invece avrebbero davvero bisogno della pura e semplice verità, della necessaria trasparenza, delle cose come sono e non come si vorrebbe che fossero: della piena verità insomma, la quale, come ripeteva Parmenide, è addirittura "rotonda", che vale priva di spigoli, coerente con se stessa, uniforme e soprattutto una e riconoscibile. Ora, non potendo pretendere che Renzi si ricordi di Parmenide, mi limito a chiedere si rammenti di se stesso, in veste di terminale ultimo e determinante della responsabilità politica complessiva di tutte le istituzioni, non esclusa quella giudiziaria. Non si chiede qui che Renzi si scagli pubblicamente contro la sentenza assolutoria degli imputati per la morte di Cucchi anche perché già si è notato che, con certe prove disponibili (o indisponibili), probabilmente i giudici non potevano decidere in modo diverso ma che almeno decida di disporre gli accertamenti del caso, che appaiono davvero indispensabili: e che lo dica chiaro e forte. Egli infatti, quale capo del governo, ha la piena responsabilità anche del mondo carcerario e del resto gode dei poteri necessari allo scopo di verificare attraverso il ministero competente in tutte le sue articolazioni ispettive e deliberative cosa sia effettivamente accaduto a Cucchi e chi sia il vero colpevole della sua morte. Questo ci si aspetta che Renzi dica: e non agli amici al bar, ma davanti a milioni di spettatori che in realtà null’altro attendono, se non che il capo del governo si assuma pubblicamente le sue responsabilità, le quali si estendono anche alle pronunce dei giudici. Lo stesso presidente del Senato Pietro Grasso, pur non avendo responsabilità di governo, ha ritenuto di non potersi tirare fuori, invitando chi sappia a parlare: e per questo va apprezzato. Insomma, né Renzi né altri al suo posto possono far finta di non vedere né nascondersi dietro un dito, quello del ruolo esercitato, il quale è invece proprio esso a richiedere che si cerchi e si dica la verità . Non abbiamo bisogno di gente che si lava la mani dei problemi: non ci occorre, a Palazzo Chigi, un altro Pilato, di cui purtroppo la scena pubblica abbonda. Abbiamo sete di verità. Semplicemente. Giustizia: caso Cucchi, le due verità dell’agente Nicola Minichini sul pestaggio di Errico Novi Il Garantista, 7 novembre 2014 Difficile dar torto al presidente del Senato Pietro Grasso. Difficile dissentire da quel suo appello sul caso Cucchi, "chi sa, parli". Anche perché finora chi sa, in qualche caso, ha parlato senza dire tutto quello che poteva. È il caso dell’agente di polizia penitenziaria Nicola Minichini, imputato e assolto al processo sulla morte di Stefano. In un’intervista pubblicata l’altro ieri dal "Fatto Quotidiano" Minichini ricorda "quei segni sotto agli occhi" della vittima, e un "livido sullo zigomo". Poi fa una dichiarazione che in sé gli rende onore. Si espone e suggerisce di indagare anche su altri corpi dello Stato: "Sarebbe ora di allargare gli orizzonti", dice. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi", dice Minichini. Lascia intendere che nella notte trascorsa da Cucchi in due diverse caserme dell’Arma qualcosa potrebbe essere successo. "Quello che so per certo è che da noi non è successo niente". Da noi, cioè nelle celle di sicurezza della Città giudiziaria di Roma, dove Stefano transitò il 16 ottobre 2009 al termine dell’udienza di convalida. Se qualcosa c’è stato è successo prima, è l’ipotesi che Minichini avanza nella conversazione con il Fatto. Peccato che al processo l’agente non abbia fatto nulla perché un simile dubbio si insinuasse nella mente di giudici. Peccato davvero. Nella sua deposizione davanti alla prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, Minichini dice testualmente: "Io riesco a riconoscere i segni di percosse, dopo trent’anni di servizio. Quelli che vidi sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano l’impressione di essere il sintomo di qualche particolare malattia, ma di sicuro non erano segni di percosse". Gli stessi dubbi che finalmente, a cinque anni dalla tragedia, Minichini rivela nell’intervista al Fatto avrebbero potuto utilmente essere riferiti alla Corte. Qualcosa comunque si muove, come riconosce in un timido sussulto di speranza anche Ilaria Cucchi. Insieme con i genitori la sorella di Stefano ha incontrato ieri a Palazzo Madama proprio il presidente del Senato Pietro Grasso. Da parte della seconda carica dello Stato è stato ribadito l’impegno a "sensibilizzare tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce, andare verso la verità". Ilaria Cucchi ha parlato di "momento emozionante". Ha poi però presentato un esposto contro il professor Paolo Albarello, il consulente della Procura di Roma che nelle sue perizie avrebbe "minimizzato le lesioni di Stefano" e escluso "qualsiasi legame tra queste e la sua morte". La ricerca della verità dovrà fare i conti anche con posizioni come quella di Carlo Giovanardi, secondo il quale il presidente del Senato sarebbe "l’ultimo nell’ordine a prestarsi a questo gioco al massacro delle istituzioni". Esplosioni di tifo a parte, paiono esserci solo due possibilità: o Minichini mente, è colpevole, è stato lui a riempire di botte Stefano Cucchi insieme con le altre due guardie carcerarie assolte, e questa però è un’ipotesi negata da due gradi di giudizio; oppure il pestaggio, che secondo i giudici c’è comunque stato, è avvenuto prima, ad opera dei carabinieri che lo hanno arrestato. A questo punto persino il sindacato della polizia penitenziaria Sappe non esita a dichiarare che "la verità su Cucchi deve emergere, se viene fuori non può che andare a nostro favore". Parole del segretario generale aggiunto Gianni De Blasis, che al Garantista chiarisce anche la questione della querela sporta nei confronti di Ilaria Cucchi: "Non ha a che vedere con il caso di Stefano ma con un episodio che si è verificato nello scorso mese di agosto, quando la signora Cucchi convocò una conferenza stampa e innescò un’incredibile campagna mediatica sulla presunta aggressione a un passante compiuta da un nostro agente a Roma, nei pressi del Verano. Coincidenza ha voluto che il deposito materiale della querela avvenisse in coincidenza della sentenza d’appello sulla morte di suo fratello Stefano, ma si tratta di due questioni distinte". Ma il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria sarebbe pronto a compiere un gesto di pacificazione nei confronti della famiglia Cucchi? "Assolutamente sì", risponde De Blasis, "non abbiamo nulla contro la famiglia, a cui esprimiamo tutta la solidarietà di questo mondo, hanno perso una persona cara, è un fatto gravissimo. Difendiamo semplicemente i nostri tre colleghi che sono stati accusati di averlo picchiato. Siamo sicuri che non hanno fatto niente". Viceversa De Blasis ricorda come Stefano Cucchi sia stato "tutta la notte in custodia dai carabinieri. Trasferito peraltro da una caserma all’altra intorno alle 3 del mattino". E quindi le perplessità rivelate da Minichini nell’intervista al Fatto quotidiano, con l’invito a indagare anche sull’Arma, corrispondono a un dubbio legittimo? "Sì, si tratta di un dubbio legittimo ed è l’unica cosa che ci sentiamo di dire. Oltre a ricordare la pena per uno dei nostri tre colleghi finiti sotto processo, scoppiato in lacrime nel protestare la propria innocenza e nel raccontare gli insulti subiti a scuola dai suoi figli, additati per un padre assassino che in realtà non aveva fatto nulla". Giustizia: Mastrogiovanni; il processo d’appello per la morte di un maestro elementare di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 7 novembre 2014 Salerno. Si apre oggi il processo d’appello per l’incredibile morte di un maestro elementare sottoposto a Tso. Torturato e lasciato morire senza motivo nell’ospedale pubblico che avrebbe dovuto curarlo. Alla sbarra sei medici e dodici infermieri. E stavolta ci sono le immagini. Mentre non accennano a placarsi le aspre polemiche per la sentenza del caso Cucchi, stamane alle ore 9,30 in un’aula della Corte d’Appello di Salerno (Presidente Michelangelo Russo) - su ricorso della Procura del Tribunale di Vallo della Lucania - inizia la prima udienza del processo di secondo grado ai sei medici e ai dodici infermieri responsabili dell’agghiacciante morte di Francesco Mastrogiovanni, il "maestro più alto del mondo" - come lo avevano affettuosamente definito i suoi alunni - torturato senza motivo e senza ragione in un ospedale pubblico che lo avrebbe dovuto curare. La lieve condanna dei medici a pene tra i due e i quattro anni di reclusione e l’assoluzione degli infermieri, pronunziata il 30 ottobre 2012, venne impugnata dalla Procura di Vallo della Lucania. Mastrogiovanni è rimasto legato ininterrottamente e incredibilmente ai polsi e alle caviglie per 88 ore in un letto del reparto di psichiatria dell’ospedale pubblico di Vallo della Lucania senza ricevere né da mangiare né da bere e - pur non essendo recluso - senza poter ricevere la visita dei familiari. Completamente abbandonato, i medici ne hanno scoperto la morte sei ore dopo che era avvenuta. Anche Mastrogiovanni era stato "affidato nelle mani dello Stato", che nell’estate del 2009 lo ha prima torturato e poi consegnato cadavere ai familiari e agli amici, facendolo passare da una calda spiaggia di Acciaroli al freddo marmo dell’obitorio dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove il cadavere presenta ferite sanguinanti e profonde ai quattro arti. La tragica vicenda, accaduta in periferia e in un piccolo paese, è un terribile racconto. Mastrogiovanni trascorre le vacanze ad Acciaroli quando la notte del 30 luglio 2009 il sindaco di Pollica (dove ha insegnato, ben voluto dagli alunni), Angelo Vassallo, telefona al tenente dei vigili urbani ordinandogli di fermare l’insegnante - "colpevole" di uscire dall’isola pedonale con la macchina - per sottoporlo a Trattamento Sanitario Obbligatorio, che non è stato richiesto da nessun medico. Quella notte Graziano Lamanna lo insegue ma non riesce a fermarlo. La mattina del 31 riconosce la macchina, e, chiesto l’intervento dei carabinieri per eseguire un TSO, insegue senza motivo il povero e tranquillo maestro elementare, che non ha commesso nessun reato, non ha spacciato, non ha rubato, non ha violentato, non ha fatto uso di droga. Lo inseguono passando dal territorio del Comune di Pollica a quello di San Mauro Cilento e di Montecorice. Poi Mastrogiovanni si ferma al villaggio nel quale trascorre le vacanze che si trova nel comune di San Mauro Cilento ed entra in mare. Dopo qualche ora arriva il dott. Carmelo Pellegrino che, senza visitarlo, certifica che è affetto da disturbo schizo-affettivo e dispone il TSO. La guardia costiera allontana i bagnanti dalla spiaggia. La dott.ssa Di Matteo (specializzata in medicina dello sport) convalida il Tso. Dal villaggio di un altro comune (San Mauro Cilento) il tenente dei vigili telefona al sindaco di Pollica Angelo Vassallo che, senza visionare i certificati medici, dispone il ricovero all’ospedale di Vallo della Lucania, al quale Mastrogiovanni tenta di sottrarsi con parole profetiche: "Non mi fate portare all’ospedale di Vallo, perché là mi ammazzano!", ma nessuno gli dà retta. Angelo Vassallo commette un illecito perché non ha nessuna competenza nel territorio di San Mauro La Bruca e pertanto non può disporre il Tso, del quale ha parlato la sera prima in assenza di qualsiasi documentazione medica, che solo la mattina del 31 i medici producono, probabilmente solo per ubbidire ai voleri del sindaco. I familiari e il Comitato Verità e Giustizia denunziano il sindaco, ma il tribunale di Vallo della Lucania, per l’avvenuto e ancora misterioso assassinio del primo cittadino di Pollica, respinge il ricorso e l’illegittima e illegale condotta del sindaco e dei medici non viene affatto indagata. Arrivato in ospedale, Mastrogiovanni passeggia tranquillamente per il corridoio, dopo mezz’ora si addormenta e gli infermieri lo legano - senza alcun motivo - ai quattro arti con delle fascette di plastica al letto di contenzione e lo scioglieranno solo sei ore dopo il decesso. Giustificano la contenzione sostenendo che Mastrogiovanni - conosciuto anche come pericoloso "noto anarchico", quando era una persona assolutamente mite, pacifica e buona - in ospedale è violento e aggressivo. Ma le ferite presenti sul cadavere sono inspiegabili, fino a quando non si scopre che il ricovero è stato filmato dalla videosorveglianza interna dell’ospedale. È un video che registra per quattro lunghi interminabili giorni, minuto per minuto, secondo per secondo quello che è avvenuto, con Mastrogiovanni che, amante della libertà, si dimena e implora aiuto nella totale indifferenza dei medici e degli infermieri. È l’unico caso al mondo ad avere questa straordinaria e inoppugnabile documentazione (che è interamente visibile su internet) che inchioda i medici alle loro gravissime responsabilità. Al processo di primo grado il primario Michele Di Genio è condannato alla pena complessiva di 3 anni e 6 mesi di reclusione; Rocco Barone, che dispose senza annotarla in cartella la contenzione, a 4 anni, stessa pena a Raffaele Basso; 3 anni a Amerigo Mazza e a Anna Angela Ruberto, di turno la notte del 3 agosto 2009 durante la quale il cuore di Mastrogiovanni cessò di battere, i quali si accorsero del decesso sei ore dopo. Michele Della Pepa è condannato a 2 anni, con sospensione della pena. Per tutti l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. I dodici infermieri vengono invece assolti. Ora la sentenza di Vallo sarà esaminata dalla Corte d’Appello di Salerno, alla quale - dopo il caso Cucchi - guarda con trepidazione l’Italia civile, chiedendo, insieme ai familiari, agli amici e agli ex alunni, ai giudici salernitani verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni e per quanti - con pratiche crudeli e medievaleggianti - sono stati torturati, legati e contenuti nei reparti di psichiatria degli ospedali italiani. Giustizia: caso Mastrogiovanni, la tortura esiste di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 7 novembre 2014 Nelle mani dello Stato. Mentre la vicenda di Stefano Cucchi viene presa a paradigma di un sistema che tende ad autoassolversi, sembra che a Vallo della Lucania si sia compiuto un piccolo miracolo. Oggi torna in aula il processo per la morte di Francesco Mastrogiovanni (nella foto), il maestro elementare di Vallo della Lucania morto in un reparto psichiatrico dopo 87 ore ininterrotte di contenzione. Sì, perché succede anche questo nei civilissimi ospedali del nostro civilissimo paese: un uomo viene ricoverato e anziché essere curato, accudito, protetto, viene abbandonato per tre giorni - senza cibo né acqua - legato mani e piedi ai quattro angoli del letto e lasciato morire. Il processo di primo grado si è concluso con una sentenza di condanna dei medici per sequestro di persona. Com’è stato possibile in questo caso giungere a un apprezzabile accertamento dei fatti e alla condanna di alcuni dei principali autori di quella infamia? In queste ore, mentre la vicenda di Stefano Cucchi viene presa a paradigma di un sistema che tende ad autoassolversi, sembra che a Vallo della Lucania si sia compiuto un piccolo miracolo: un uomo sotto la custodia di un apparato dello Stato (e dei suoi medici e dei suoi infermieri), è morto, e oggi possiamo dire di sapere di chi sia la responsabilità. Ma noi, in effetti, fatichiamo un bel po’ a credere nei miracoli e pensiamo che, se nella vicenda giudiziaria di Mastrogiovanni si è arrivati alla verità si deve a due semplici motivi: tutte le 87 ore della contenzione del maestro di Vallo della Lucania sono state filmate da una telecamera di servizio, e il video è stato prontamente sequestrato dalla magistratura. Insomma, il fatto era lì - nudo e crudo, si potrebbe dire - e la sua inaudita crudeltà non era in alcun modo negabile o rimovibile. Di conseguenza, il primo magistrato incaricato del caso - che è stato poi trasferito - si è comportato assai correttamente, senza trascurare alcun elemento, e raggiungendo il risultato preliminare del sequestro delle immagini (che altrimenti, nel giro di sette giorni, sarebbero state distrutte). E qui entra in gioco la funzione insostituibile di quel video, dove si può vedere l’immobilità forzata di Mastrogiovanni, e i suoi tentativi di liberarsi - sempre più deboli con il passare delle ore. E, poi, quei rantoli sordi che pure un video privo di sonoro sembra permettere di ascoltare, e quegli sforzi per respirare che si facevano sempre più crudeli e vani nelle ore immediatamente precedenti l’esalazione dell’ultimo fiato. E, ancora, quel video ci dà la rappresentazione più vivida di cosa sia un atto di tortura. Più che l’averlo legato mani e piedi, più che averlo privato di cibo e acqua, è un’altra la scena che rappresenta l’orrore del trattamento inumano e degradante e della mortificazione della dignità. È la scena in cui, durante il secondo giorno di ricovero, un infermiere depone sul comodino vicino al suo letto un vassoio con il pasto contenuto in quelle scatole sigillate, proprie degli ospedali: il cibo è alla portata dei suoi occhi, ma troppo lontano per le sue mani imprigionate. E quel vassoio resta lì, per ore, fino a che un altro infermiere lo ritirerà intatto. Dunque, la tortura esiste qui, nel nostro paese, e accade che venga attuata da chi esercita pubbliche funzioni, come quegli infermieri e quei medici. O come un vigile urbano, un agente della Polfer o un operatore di un campo profughi. Chiunque, cioè, eserciti violenza abusando della propria posizione di potere. Solo se il nostro ordinamento si dota del fondamentale presidio rappresentato dalla fattispecie penale di tortura, processi come questo non rischiano la prescrizione. Esito, quest’ultimo, sempre possibile quando i capi di imputazione riguardano lesioni, omissione di soccorso, omicidio colposo. Se è vero che episodi del genere accadono - nelle carceri, nelle caserme, nei posti di polizia, negli ospedali - perché continuare a girare la testa dall’altra parte e fare finta che si tratti solo di "incidenti", di tragiche fatalità o, al più, di casi eccezionali? No, fatti del genere non devono più accadere. E anche quando dovessero succedere, dobbiamo essere pronti a indagarli, a ricostruirne la dinamica, a segnalarne le cause ultime e il contesto che li consente. E a rendere esplicito un semplice concetto: una morte nelle mani dello Stato non può rimanere mai senza responsabili. Sarebbe davvero, e davvero, l’ingiustizia più grande. Giustizia: Scaglia, arrestato e assolto "Io, manager, in cella tra zingari e vecchie lamette" di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2014 In due giorni passai dai Caraibi a Rebibbia, un ladro mi portò un piatto di pasta. Ho scoperto che lì non sono belve. Giustizia e carceri sono problemi da affrontare, ma non voglio essere simbolo di una fazione. L’altro grave problema è la corruzione e mi preoccupa che non lo dica nessuno. Tra poco Silvio Scaglia tornerà sul banco degli imputati. La Procura di Roma, dopo averlo arrestato nel febbraio 2010 con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata a una colossale frode fiscale e dopo averlo tenuto agli arresti per un anno (tre mesi in carcere e il resto ai domiciliari), non molla la presa nonostante l’assoluzione con formula piena del tribunale nell’ottobre del 2013. I pm Giancarlo Capaldo e Francesca Passaniti stanno predisponendo l’appello. Scaglia nel frattempo è diventato, suo malgrado, il simbolo della riforma in chiave anti-magistratura annunciata da Renzi alla Leopolda del 2013: "La storia di Silvio (Scaglia non Berlusconi) ci dimostra che la riforma della giustizia è ineludibile". Il Fatto ha incontrato Scaglia, che nel giugno 2013 ha comprato con un fondo la società di intimo e moda La Perla, alla vigilia dell’appello per farsi raccontare il suo punto di vista. Non solo sul processo e sulla giustizia, ma anche sulle telecomunicazioni. La storia di Scaglia somiglia alle montagne russe. Dopo aver creato nel 1999 dal nulla Fastweb (ceduta nel 2007 a Swisscom) nel 2008 era il 13° italiano più ricco con un patrimonio di 1,2 miliardi. Due anni dopo, nel febbraio del 2010, Scaglia è passato da Antigua a Rebibbia e ha scoperto l’importanza delle lamiere arrugginite delle scatolette di tonno. Lei è stato tre mesi in carcere a Rebibbia, cosa le resta di quella esperienza? Sono momenti durissimi, ma sarebbe un peccato non averli vissuti. Ho scoperto che ci sono tanti innocenti e molti altri che hanno sbagliato ma vogliono migliorarsi e non sbaglierebbero più se fossero aiutati. Come è cambiata la sua vita? In due giorni sono passato dalla vacanza su una splendida barca a vela nel mare dei Caraibi alla cella di isolamento. Avevo paura di uscire. Nel momento più nero della mia vita però lo sportellino della porta blindata si apre e vedo la faccia di un giovane zingaro. Era dentro per furti e mi dice: "Amico è stata proprio una brutta giornata oggi per te, ma noi ti abbiamo fatto un piatto di pasta". Forse sapeva che lei è Silvio Scaglia e lo ha fatto per quello... No. Lo facevano con tutti, come poi ho scoperto. Quel giovane ladro con un piatto di pasta calda mi ha cambiato la vita. Ho capito che fuori non c’era un mondo di belve, ma persone che soffrivano come me. Dopo tre giorni sono uscito dall’isolamento e per prima cosa mi sono avviato verso la doccia. Non avevo nulla con me. Un altro mi ha visto e mi ha offerto le sue ciabatte. Ci racconta questa storia della scatola del tonno di Rebibbia? Il rancio non è male, ma i detenuti cercano di cucinare per restare vivi. Sono costretti però a preparare i cibi nel bagno, tra il lavandino e il cesso alla turca. Lì ho scoperto l’importanza della lamiera del tonno. Non ci sono coltelli e per tagliare le zucchine per esempio tutti usano l’unica lamiera di una scatoletta di tonno di chissà che epoca. Da anni quelle lattine sono vietate e si possono usare solo quelle di cartone. Qualcuno però, previdente, ha conservato la lamiera come se fosse una reliquia. Ogni sera ce la passavamo di cella in cella per potere affettare i cibi e cucinare. Poi magicamente la lattina tornava al suo posto segreto. Ha più sentito nessuno? Mi sento con alcuni ex detenuti e mi scrivo spesso con una persona che è ancora lì dentro e penso sia uno dei tanti che dovremmo aiutare quando escono. Apprezzo molto le battaglie dei radicali e ricordo i sorrisi dei detenuti ogni volta che entrava Rita Bernardini a Rebibbia. Renzi ha detto che la sua storia dimostra che la riforma della giustizia è urgente. Lei conosce il premier? No. Non l’ho mai conosciuto. Lo stimo ma ho sempre il timore di trasformarmi in un simbolo per una delle fazioni in lotta. Io vorrei che il problema della giustizia e delle carceri si risolvessero senza dividerci. Il primo problema dell’Italia è proprio questa incapacità di fare sistema senza fazioni. Il secondo problema è la corruzione pesantissima. Lei avverte molta corruzione in giro? Tantissima! Che lo dica un grande imprenditore è molto preoccupante. A me invece preoccupa che non lo dica nessuno. Confesso di avere un’ammirazione per l’approccio della leadership cinese. Loro hanno avuto almeno il coraggio di dire: "La corruzione è il nostro primo nemico da combattere". Fino a quando non guarderemo in faccia il problema non inizieremo a combatterlo. Cosa pensa della scelta della Procura di presentare appello? Me lo aspettavo. Io sono certo di essere assolto completamente dopo un primo grado così dettagliato, ma gli effetti del processo sono molto pesanti. Per me è una perdita di risorse, di tempo e di soldi. In tanti Paesi in caso di assoluzione l’appello non c’è. Oggi decide da solo il pm. Forse si potrebbe pensare almeno a un passaggio interno di verifica. Se un giudice potesse valutare oggi gli elementi a mio carico, io ritengo che il mio appello non passerebbe. Quanto ha speso finora? Circa due-tre milioni di euro tra i legali, il costo del blog per informare i cittadini, i viaggi. Quanto le è costato il volo noleggiato per farsi arrestare, di cui ha parlato Renzi? Mi è costato 100 mila euro. Ero su una barca ad Antigua quando arriva una telefonata disturbata da Londra. Mio figlio di nove anni si era svegliato con un agente che frugava sotto il letto con il mitra. Mia figlia dice che avrebbero fatto saltare in aria la cassaforte se non le davo la combinazione. C’era un mandato di arresto che mi descriveva come membro di un’associazione a delinquere. Non avevo scelta: ho noleggiato un Challenger per il lungo raggio perché non volevo essere arrestato nei Paesi di transito. Gli avvocati mi hanno detto che sarei andato in galera ma volevo spiegare tutto ai giudici subito. Invece l’interrogatorio di garanzia è stato una farsa. Sono rimasto tre mesi in cella e poi nove mesi ai domiciliari in Val d’Aosta. Lei poi è stato assolto con formula piena, ma il Tribunale del Riesame e la Cassazione l’hanno tenuta in galera. La pressione dei media ha travolto prima il Riesame e poi la Cassazione. Fino al processo non c’è stato modo di rivedere la mia storia. C’era stata una frode fiscale da 300 milioni sull’Iva grazie ai rapporti commerciali della "banda Mockbel" anche con Fastweb. I pm dal loro punto di vista hanno ritenuto che lei, fondatore e amministratore per tanti anni di Fastweb, dovesse sapere qualcosa. Invece il processo ha dimostrato che io non sapevo nulla della frode e non conoscevo nessuno dei signori che avrebbero creato un’associazione a delinquere con me. Fastweb andava sempre a credito Iva e non ha tratto nessun vantaggio da questa frode fiscale realizzata da altri. La sentenza è chiarissima. Il suo arresto è stato annunciato in una conferenza stampa nella quale l’attuale presidente del Senato, Pietro Grasso, allora capo della Direzione Nazionale Antimafia, era a fianco del pm Giancarlo Capaldo e parlava di "strage del diritto". Io abolirei le conferenze stampa. Non è civile che un pm parli in tv del tuo arresto. Passa il messaggio che sei colpevole. In quelle condizioni è difficile per i giudici annullare l’arresto. Per fortuna siamo arrivati al processo immediato. Da un lato è servito a prolungare i termini per tenermi agli arresti domiciliari per un anno. Dall’altro però ho potuto difendermi. Oggi lei si occupa de La Perla che ha comprato da un’asta fallimentare. Perché questa scelta? La Perla è un’opportunità fantastica. Siamo leader assoluti nel segmento alto dell’intimo e stiamo espandendo l’offerta nel mondo del lusso in tutto il mondo. Produciamo in Europa, in Italia e Portogallo, e vendiamo l’80 per cento all’estero. Cosa pensa dell’articolo 18? L’articolo 18 è un ostacolo alle assunzioni e agli investimenti. Prima di assumere un lavoratore in Italia ci si pensa su molto. L’articolo 18 favorisce quella quota di persone che non vogliono lavorare e danneggia chi vorrebbe essere assunto per farlo. Fastweb è stata la prima società a portare la fibra nelle case. Ora si parla di un piano per cablare l’Italia. Cosa ne pensa? Io non farei un piano dall’alto di tipo governativo. Soprattutto non mi piacciono questi discorsi sull’unione delle forze tra società diverse. Io lascerei le due reti esistenti, Telecom e Fastweb, in concorrenza tra loro. Non c’è bisogno di un grande piano pubblico per cablare l’Italia, ma di società private in concorrenza tra loro che abbiano una struttura azionaria trasparente, senza scatole cinesi. Si parla di una fusione Mediaset-Telecom. Potrebbe nascere un gigante che unisce rete e contenuti con conflitti di interesse connessi? Io penso che le reti e i contenuti debbano restare separati. Un’aggregazione Mediaset-Telecom potrebbe diventare un blocco alla concorrenza. Io preferisco la neutralità della rete rispetto ai produttori di contenuti. Lo scenario migliore per i consumatori è quello che prevede due reti in concorrenza tra loro, che siano aperte ai contenuti di tutti gli operatori. Il concetto di neutralità della rete è fondamentale. La rete non deve sposarsi con un fornitore di contenuti perché poi la tentazione di privilegiare quel fornitore sugli altri è troppo forte. Cagliari: detenuto con grave anemia respinto da pronto soccorso dell’Ospedale "Brotzu" Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2014 "Sconcertante episodio al Pronto Soccorso dell’Ospedale "Brotzu" di Cagliari dove un cittadino privato della libertà affetto da una grave carenza di emoglobina, con fratture vertebrali, che lo costringono a muoversi in carrozzina, e un elevato indice di infiammazione conseguenza di un’ustione è stato rinviato ieri nel carcere di Buoncammino, nonostante i medici della struttura penitenziaria ne avessero richiesto il ricovero". Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al caso di R.C., 46 anni, quartese, le cui condizioni di salute destano preoccupazione. "Il carcere di Buoncammino, peraltro in dismissione, non può - sottolinea Caligaris - far fronte a situazioni così complesse. Prima di essere un detenuto, R.C. è un paziente con esiti di ustioni in diverse parti del corpo che deve essere accudito costantemente. Appare quindi assurdo che si possa ritenere adeguata alle trasfusioni e alla degenza assistita un Centro Clinico dove tra l’altro si registra un sovraffollamento". "L’auspicio è di una maggiore collaborazione tra le Istituzioni e di considerare chi vive l’esperienza detentiva - conclude la presidente di Sdr - con la stessa attenzione e disponibilità di un cittadino senza aggettivi. Anche perché il diritto alla salute è principio costituzionale". Verona: protesta del Sappe, denuncia e manifestazione contro il direttore del carcere Comunicato stampa, 7 novembre 2014 I poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, si astengono dal consumare i pasti nella mensa di servizio del carcere per protestare contro le criticità e le problematiche di servizio e il direttore, per ripicca, impedisce che possano persino consumare un panino o un tramezzino e "staccare" la mezz’ora consentita per i pasti. Accade a Verona e la decisione del dirigente carcerario ha scatenato le proteste del Sappe, che annuncia denunce e una manifestazione pubblica di protesta davanti alla struttura detentiva scaligera. Spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: " Il Sappe e le altre Sigle sindacali della Polizia Penitenziaria di Verona hanno deciso di dare vita a una incisiva forma di protesta presso la Casa Circondariale, consistente nell’astensione della mensa obbligatoria di servizio (M.O.S.), alla luce di reiterati ed inveterati atteggiamenti anti sindacali, volti ad impedire o limitare le prerogative sindacali con conseguenti effetti significativi sulla organizzazione del lavoro e, quindi, in definitiva, sul benessere del personale, dal 03.11.2014 al 05.11.2014. A tale forma di protesta l’Autorità dirigente della Casa Circondariale di Verona ha ritenuto di reagire disponendo, peraltro verbalmente, di non concedere la pausa pasto al personale del Corpo che presta servizio all’interno delle sezioni detentive e che aderisce alla protesta. Insomma, i poliziotti chiuse nelle sezioni detentive del carcere per tutto il turno, senza nemmeno aver diritto a quella breve pausa che permette loro anche di staccare dal posto di servizio, dal contatto dei detenuti, seppur temporaneamente". Il SAPPE annuncia una denuncia in Procura della Repubblica contro il direttore e una pubblica manifestazione di protesta, fuori dal carcere scaligero. E chiede l’intervento del Ministro della Giustizia Orlando, già sollecitato alcuni mesi fa. "Chiedo al Guardasigilli se sia opportuno che il direttore rimanga in questa sede, visto che alimenta tensioni e pericolose contrapposizioni. E poi ricordiamoci che siamo sempre in attesa di sapere se è lecito che un direttore di carcere, un impiegato dello Stato che svolge compiti amministrative, faccia 500 ore di straordinario in un anno (succede a Verona, lo scorso anno e anche quello in corso, che deve ancora concludersi) pensando addirittura di tagliare lo straordinario a chi sta tutti i giorni in prima linea e a contatto con i detenuti, ossia i poliziotti penitenziari". Aosta: arrestato agente di Polizia penitenziaria, aveva 60 grammi di cocaina Ansa, 7 novembre 2014 Sorpreso con circa 60 grammi di cocaina, David Grosso, di 40 anni, di Aosta, agente di polizia penitenziaria al carcere di Brissogne (Aosta) è stato arrestato nel capoluogo valdostano dalla Squadra mobile della Questura di Aosta. L’arresto è avvenuto nell’ambito di un’indagine, condotta in collaborazione con la polizia penitenziaria, scaturita da una segnalazione di traffici illeciti di droga e schede telefoniche tra i detenuti della casa circondariale. Era "monitorato già da qualche tempo" l’assistente di polizia penitenziaria David Grosso, di 40 anni, di Aosta, arrestato dalla Squadra mobile martedì scorso con circa 50 grammi di cocaina. Lo ha detto il Questore di Aosta, Maurizio Celia. È stato fermato vicino ad Aosta, su un suv Hyundai, mentre rientrava da Torino: lo stupefacente, diviso in quattro ovuli, era nascosto nel pannello di uno sportello del veicolo. Nell’attesa della decisione del gip è in carcere a Verbania. Nell’interrogatorio di garanzia di stamane "ha risposto a tutte le domande del giudice", ha detto il suo avvocato, Corrado Bellora, che richiesto gli arresti domiciliari. Il pm Luca Ceccanti, che ha coordinato l’indagine, ha chiesto la custodia cautelare in carcere. La decisione del gip Maurizio D’Abrusco è attesa entro domattina. "La droga non era destinata al carcere. Si tratta di un singolo episodio legato alle gravi difficoltà economiche in cui versa il mio assistito". Così l’avvocato Corrado Bellora, che difende l’assistente di polizia penitenziaria David Grosso, di 40 anni, di Aosta, arrestato con 60 grammi di cocaina in un’indagine scaturita su segnalazioni di traffici illeciti nella casa circondariale di Brissogne. Incensurato, Grosso è molto conosciuto nel mondo del calcio valdostano. Oggi si è svolta l’udienza di convalida dell’arresto davanti al pm Luca Ceccanti e al gip Maurizio D’Abrusco, ancora in camera di consiglio. "Ho chiesto la concessione degli arresti domiciliari", ha detto Bellora. Roma: "Lo sport dentro... ti cambia la vita", un progetto promosso da Regione e Coni di Francesca Schito Il Tempo, 7 novembre 2014 "Io sono nato a via del Trullo e per chi come me è nato e cresciuto in periferia, la linea che separa giusto e sbagliato è labile e passare dall’altra parte è questione di attimi". Con queste parole Max Giusti si è rivolto ai detenuti del braccio G8 di Rebibbia. L’occasione è stata l’inaugurazione della Nuova Palestra nella Casa Circondariale, fortemente voluta dal Forum Sport Center assieme al Cesp, il Centro Studi Scuola Pubblica, e immediatamente approvata dall’Istituto Penitenziario. Il progetto "Lo Sport dentro... ti cambia la vita" è nato dalla volontà dei privati, di cui il Forum è ideatore condividendo l’iniziativa anche con altri circoli sportivi del panorama romano, allargando poi il coinvolgimento alle istituzioni pubbliche ieri presenti nelle persone di Roberto Tavani, in rappresentanza delle Regione Lazio, e Riccardo Viola, presidente del Coni Lazio. Questa palestra a cielo aperto, realizzata grazie all’aiuto di alcuni detenuti di buona volontà, è uno spiraglio di speranza. È una possibilità non di praticare semplicemente un po’ di attività fisica, ma di cambiare se stessi, perché lo sport aiuta a cambiare lo spirito, la testa, la propria natura. Quello di ieri è stato il primo passo che porterà ad una serie di iniziative volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Un passo di un percorso lungo e irto di difficoltà ma che deve avere un seguito. Si è cominciato da Rebibbia, un’eccellenza nel sistema carcerario italiano, ma che comunque ha bisogno di spazi dedicati. "La cura di sé e la cura del sé, è quello che serve a chi trascorre del tempo qui - racconta Anna Grazia Stammati, presidente del Cesp, quindi sport e istruzione. Io insegno nelle carceri da oltre 16 anni, la situazione è molto delicata. L’Italia è la pecora nera d’Europa a causa del sovraffollamento nelle carceri e delle condizioni della maggior parte di esse. La Casa Circondariale di Rebibbia è una mosca bianca perché ha ampi spazi aperti e una direzione illuminata che permette ai detenuti di avere 8 ore giornaliere da dedicare allo studio e allo sport". L’obiettivo è quello di arrivare ad avere uno spazio per l’attività sportiva in ogni braccio, assieme ad una biblioteca, per permettere ai detenuti di occupare il loro "non tempo", come lo ha definito il direttore del carcere, Mauro Mariani, in maniera costruttiva e salutare. "Volevamo lanciare un messaggio positivo in un momento in cui nel nostro Paese tanto, troppo sembra irrealizzabile - spiega Walter Casenghi, fondatore del Forum e promotore dell’iniziativa. Il prossimo step sarà la palestra coperta, adesso in stato di semi abbandono, ma che presto diventerà palcoscenico di tante iniziative. Chiameremo i campioni dello sport del passato per aiutarci a realizzare tanti eventi". Sportivi e non. Proprio Max Giusti infatti tra gennaio e febbraio proporrà il suo spettacolo per i detenuti nel teatro di Rebibbia, una delle poche carceri in cui si conserva la dignità umana. Lecce: "Ombrelli Parlanti" realizzati dai detenuti per sostenere cura di bimba autistica Ansa, 7 novembre 2014 Si terrà domenica prossima 9 novembre a Lecce la inaugurazione della nuova stagione della produzione degli "Ombrelli Parlanti" realizzati dai detenuti del carcere di Lecce per sostenere le spese di cura di una bimba autistica, "senza parole". L’iniziativa è stata ideata nel 2009 dalla mamma di Serena, Chiara Scardicchio, ricercatrice della Università di Foggia: "Una sera del 2009 riflettevo sulla pioggia - racconta - e su Serena, che non parla: inizialmente è un temporale poi lei ti insegna che il suo silenzio è fatto di altre parole". "E così - racconta Chiara Scardicchio - mi è venuta l’idea di far parlare gli ombrelli". Per questo progetto lavorano sei detenuti del carcere di Lecce. Chi acquista un ombrello (costo 10 euro da acquistare sul sito pianodifuga@libero.it) scegliendo il colore e una delle 13 frasi inserite nel manifesto elaborato da Chiara Scardicchio, "non solo sposa la causa di aiutare Serena ma anche noi", dicono i detenuti impegnati in questa gara di solidarietà. "Per noi l’ombrello - spiega Chiara Scardicchio - non è una operazione commerciale, ma è una iniziativa culturale-filosofica". Sogniamo un mondo pieno di ombrelli parlanti, in cui tutte le difficoltà siano trampolini per imparare qualcosa di buono, anche dalla pioggia Roma: dalle detenute ricamano l’arazzo "La Tavola dell’Alleanza", con la mappa del Dna Adnkronos, 7 novembre 2014 Un arazzo di 12 metri, ricamato da donne di nazionalità diverse. Sulla tela la trascrizione del nostro Dna. Le mani, quelle delle detenute del carcere di Rebibbia. È "La Tavola dell’Alleanza", il progetto realizzato dall’artista Daniela Papadia, che ha avuto l’adesione del presidente della Repubblica e che è stato presentato oggi in Campidoglio. L’opera intende dare voce a una partecipazione al lavoro dal valore simbolico e solidale ed esplorare il dialogo tra arte, scienza, multiculturalità e spiritualità attraverso la traduzione visiva del genoma umano. Il ricamo corre sulla tela come una partitura, il filo è quello della vita scritto nel nostro codice. L’incontro di mani, veicolo anche di un universale messaggio di pace. L’arazzo ricoprirà una tavola allestita come una vera e propria mensa alla quale ognuno sarà invitato a partecipare, in piazza del Campidoglio, il prossimo 9 novembre, dalle 10.30 alle 21. Un luogo che nell’intenzione dell’artista è centro urbano per eccellenza, pulsante di energie diverse. L’opera nasce da un interesse per la genetica. "Attraverso la lettura del nostro Dna si evince che noi siamo unici ma allo stesso tempo simili - dice Daniela Papadia. Dopo la mappatura del genoma quello che si evince è anche che non esiste l’idea di razza. È come se noi fossimo figli di unici genitori. Verosimilmente il nostro corpo ci dice che noi apparteniamo alla stessa famiglia". Quindi "questo mio progetto che può sembrare utopico, in realtà parte anche da una base scientifica" spiega l’artista. Si tratta di un "progetto aperto e in fieri" spiega Mirta d’Argenzio, curatrice della performance della Tavola dell’Alleanza al Campidoglio. Infatti prevede varie tappe in luoghi simbolici, con l’obiettivo di giungere preferibilmente là dove il dialogo tra gli uomini si è per qualche motivo interrotto. "Il mio sogno - rivela Daniela Papadia - è di far viaggiare il progetto in tutti i luoghi dove c’è stato uno strappo da ricucire". Fino a Gerusalemme, dove "far ricamare insieme donne israeliane e palestinesi". È difficile rendere l’intensità, la potenza e l’emozione del messaggio. Ci è riuscito il doc del regista Francesco Micciché che ha ripercorso la genesi del progetto fino al suo compimento, dall’incontro dell’artista con le donne nel carcere di Rebibbia all’opera di realizzazione dell’arazzo durata quattro mesi, al banchetto conviviale finale. Attraverso i silenzi e i rapporti di amicizia, collaborazione e solidarietà maturati attorno alla tela. E, ancora, l’esperienza, i desideri, i sogni e le speranze delle detenute. Perché se gli errori, le scelte o la vita ti costringono in un carcere, le mani restano libere di creare e la mente di volare. Aspettando la libertà. Venezia: oggi iniziativa "Detenuti, stranieri, attori", quando il carcere si apre alla società Prima Pagina News, 7 novembre 2014 Fare teatro in carcere significa soprattutto creare le premesse per un buon reinserimento nella società. La probabilità di recidiva, normalmente al 70%, scende infatti all’8% per i detenuti che si sono messi alla prova come attori durante la pena. Alle esperienze del teatro in carcere è dedicata l’iniziativa "Detenuti, stranieri, attori", aperta al pubblico, organizzata dal Master Immigrazione dell’Università Cà Foscari Venezia per venerdì 7 novembre alle 14 all’Auditorium Santa Margherita, Venezia. Tra i relatori, il direttore della rivista "Catarsi. Teatri delle diversità" Vito Minoia, che offrirà una panoramica sulle esperienze di teatro in carcere in Italia. Per la prima volta, inoltre, si confronteranno sul tema esperti di scienze sociali e di teatro. Tra gli altri, infatti, interverranno Paolo Puppa e Maria Ida Biggi, docenti a Cà Foscari e studiosi del teatro, i quali presenteranno, anche con filmati, esempi e testimonianze di detenuti-attori. L’esperienza italiana del teatro in carcere iniziò nel 1988, a Volterra, con la Compagnia della Fortezza. Da allora ha avuto grande diffusione in Italia e in Europa. "La riforma carceraria italiana, che ha fatto scuola in Europa, portò attività come il teatro nelle carceri e avviò un processo virtuoso di apertura del carcere alla società - spiega Pietro Basso, professore di Sociologia all’Università Cà Foscari e coordinatore del Master Immigrazione -. Il teatro rappresenta una formidabile opportunità di riscatto per il detenuto, il quale comprende il proprio valore e la possibilità di coinvolgere gli altri". Con il cambiamento della popolazione carceraria, negli anni, gli spettacoli teatrali hanno visto sulla scena sempre più immigrati. "È diventata un’esperienza interculturale, un modo di fare mediazione, inclusione e anche educazione", conferma Fabio Perocco, professore di Sociologia delle diseguaglianze a Cà Foscari e coordinatore del Laboratorio di Ricerca Sociale del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali. La conferenza, infine, punterà un riflettore anche sul progetto progetto teatrale "Passi Sospesi" realizzato negli Istituti Penitenziari di Venezia, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia e Casa Circondariale Sat di Giudecca. Interverrà Gabriella Straffi, direttrice del Carcere Femminile di Venezia, mentre le conclusioni, sul rapporto tra carcere e società, saranno affidate a Chiara Ghetti, già docente a Cà Foscari e oggi direttrice dell’ufficio esecuzione penale esterna di Venezia, ufficio che si occupa delle misure alternative alla pena carceraria. Bologna: 15 detenuti e Gruppo Elettrogeno; canzoni Faber conducono all’Isola in-cantata di Paola Naldi La Repubblica, 7 novembre 2014 La Fondazione De Andrè ha "adottato" il corso di canto e teatro che 15 detenuti hanno seguito con il Gruppo Elettrogeno, basato sui brani del cantautore genovese. Cristiano e Dori Ghezzi parteciperanno alla prova generale e l’11 novembre "L’isola in-cantata" debutterà all’Arena del Sole. La Fondazione Fabrizio De Andrè adotta il teatro solidale bolognese, in particolare il progetto laboratoriale "I fiori blu", promosso dalla compagnia Gruppo Elettrogeno che ha coinvolto 15 detenuti aventi il diritto di accedere alle Misure Alternative alla Detenzione. Un gruppo di persone che hanno imparato ad usare il linguaggio teatrale e che si ritroveranno in scena, martedì 11 novembre alle ore 21 al Teatro Arena del Sole, con lo spettacolo "L’isola in-cantata". Progetto speciale che avrà come ospiti speciali Dori Ghezzi e Cristiano De Andrè, sul palco insieme ai protagonisti nel giorno della prova generale, lunedì 10, a confrontarsi sull’arte di stare in scena. "De André è uno degli autori colti più conosciuti anche all’interno del carcere, alla pari dei melodici napoletani. I suoi personaggi, sofferenti, riescono a parlare e ad arrivare al cuore dei detenuti", ha spiegato Sebastiano Scollo, musicista che ha condotto la parte musicale dei laboratori. "Le sue canzoni sono al centro del nostro lavoro fin dall’anno scorso quando abbiamo messo in scena uno spettacolo La collina in-cantata che prendeva spunto dal suo album sull’Antologia di Spoon River - prosegue Scollo - ma ci siamo poi accorti che i contenuti erano efficaci anche su altre drammaturgie, come questa che si ispira alla Tempesta di Shakespeare". Lo spettacolo nasce da un lavoro, avviato lo scorso aprile nei locali di Villa Pini, che ha alternato letture di testi, improvvisazioni musicali, prove di scena seguendo anche i consigli della cantautrice Etta Scollo e del coro delle Mondine di Bentivoglio, mentre in scena ci sarà anche Paolo Fresu. "Questo lavoro sulla musica e sul teatro ci ha aiutato a riconoscere queste persone non come detenuti, ma nella loro identità - Adriana, Liliana, Antonio. Il bello è che anche chi ha finito la pena ha deciso di rimanere e di arrivare in scena", ha commentato Antonio Amato, responsabile dell’area esecuzione penale esterna. Prenotazioni e vendita biglietti presso il Teatro di via Indipendenza 44; info: 051.2910910. Libri: "Non si può incatenare il sole. Storie di donne nelle carceri iraniane" www.pagineabruzzo.it, 7 novembre 2014 L’integralismo islamico al potere ha cambiato la storia dell’Iran e del mondo intero e la notizia dell’arresto e della detenzione a Teheran di Ghoncheh Ghavami ragazza anglo-iraniana colpevole di essere andata a vedere una partita di pallavolo maschile ed ancor di più quella relativa all’esecuzione di Reyhaneh Jabbari, la ragazza giustiziata aver ucciso il suo stupratore, sono soltanto le ultime notizie relative ai tentativi vani di donne che hanno tentato di ribellarsi ad un regime che punisce ed insanguina ogni forma di dissidenza. Tra le storie di donne che con coraggio hanno scelto di sfidare il regime iraniano c’è il racconto di Puoran Najafi e Hengameh Hajassan due giovani ragazze che nonostante le spaventose torture, trovano nei loro ideali di libertà e democrazia la forza per resistere e il libro "Non si può incatenare il sole. Storie di donne nelle carceri iraniane", edito dalla Menabò, tradotto da Esmail Mohades (autore per la Menabò di "Una voce in capitolo. Storia del popolo dell’Iran") è il racconto-testimonianza dell’arresto e della vita nelle carceri delle ragazze, colpevoli di aver partecipato con entusiasmo al destino del proprio paese. Dal racconto delle donne si evince come ormai sia sempre più evidente che le vittime dell’integralismo islamico sono le donne iraniane che maggiormente lo combattono. Dalle storie dure e drammatiche riportate nel libro trapela la speranza sempre presente di poter sconfiggere la tirannia l’arbitrio che governano ancora l’Iran e che consente ai ribelli di tenere vivo il sogno di libertà e democrazia, l’unico che li aiuta e da loro la forza per pagare il prezzo del sacrificio della vita. Il libro sarà presentato al Pisa Book Festival sabato 8 novembre alle ore 11,00 dalla scrittrice Dacia Maraini che ne ha curato la prefazione. Immigrazione: Corte Ue; sì al rimpatrio se lo straniero è già stato sentito da un giudice di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2014 L’ascolto prima del provvedimento "lesivo" garantisce il rispetto del contraddittorio e non va, quindi, ripetuto. Se le autorità nazionali assicurano al cittadino di un Paese terzo che si trova in una situazione di irregolarità l’esercizio del diritto a essere ascoltato in un procedimento non è più necessario sentirlo nuovamente nell’adozione della decisione di rimpatrio. È il principio stabilito nella sentenza relativa alla causa C-166/13, depositata ieri dalla Corte Ue, chiamata a interpretare la direttiva 2008/115/Ce del 16 dicembre 2008 relativa a norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Sono stati i giudici francesi a chiamare in aiuto Lussemburgo per risolvere un problema interpretativo della direttiva, di interesse anche generale, riguardante il diritto al contraddittorio. La vicenda aveva preso il via dalla decisione di rimpatrio disposta dalle autorità francesi nei confronti di una cittadina ruandese alla quale già un anno prima era stato intimato di lasciare il territorio dopo aver accertato l’irregolarità del suo soggiorno. La donna aveva impugnato i provvedimenti sostenendo che era stata violata la direttiva perché era stata sentita solo nel procedimento che aveva accertato l’irregolarità del soggiorno in Francia, ma non al momento dell’adozione della decisione di rimpatrio. Una tesi che non ha convinto la Corte Ue che ha cercato di far quadrare il cerchio tra esigenze di rispettare le garanzie procedurali e necessità di provvedimenti di rimpatrio celeri. Chiarito che il rispetto dei diritti di difesa e, quindi, del contraddittorio, è un principio fondamentale del diritto dell’Unione, previsto per di più dalla Carta dei diritti fondamentali, la Corte ha stabilito che ciò che conta è che ogni individuo sia sentito prima che "venga adottato un provvedimento individuale lesivo". Questo non vuol dire, però, che l’irregolare deve essere sentito in ogni procedimento relativo alla sua domanda di soggiorno. D’altra parte, la direttiva non fissa le condizioni e le conseguenze di un’eventuale violazione del diritto a essere sentito, che sono affidate alla discrezionalità degli Stati. Il rispetto dei diritti di difesa - osserva la Corte - non è una prerogativa assoluta, e può essere sottoposto a limitazioni a condizione che siano funzionali agli obiettivi di interesse generale e non si tratti di interventi sproporzionati e inaccettabili. Nel caso in esame, la donna era stata sentita nel procedimento che aveva accertato l’irregolarità del soggiorno e negato l’asilo. Pertanto, tenendo conto che il provvedimento di rimpatrio deriva dall’accertamento dell’irregolarità e che le autorità nazionali sono tenute a eseguire i provvedimenti in modo rapido, nel rispetto di una procedura equa e trasparente, gli Stati possono prevedere nel proprio ordinamento un’unica fase di ascolto. Pakistan: nuovo omicidio per blasfemia, agente uccide detenuto a sprangate Ansa, 7 novembre 2014 Un poliziotto pachistano ha ucciso un detenuto a sprangate, sostenendo che si trattasse di un blasfemo. Lo riferisce il sito Dawn News, spiegando che il detenuto, Syed Tufail Haider, 45enne di Jhang, nel Punjab, era stato arrestato ieri per aver ferito due persone. Nella notte, durante un interrogatorio, il poliziotto Faraz Naveed lo ha colpito al collo con un bastone, uccidendolo. L’agente si è difeso affermando che il detenuto aveva pronunciato frasi offensive nei confronti dei compagni del profeta Maometto. Naveed è stato arrestato e sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta. Anche il ministro capo del Punjab, Shahbaz Sharif, ha chiesto che si faccia chiarezza sulla vicenda. L’incidente arriva due giorno dopo l’uccisione di una giovane coppia di cristiani accusati di blasfemia da parte di una folla inferocita, sempre nel Punjab, in un villaggio nei pressi di Kot Radha Kishan. I due erano accusati di aver dato alle fiamme una copia del Corano. La moglie, già madre di tre figli, era incinta. Insieme al marito, è stata picchiata e gettata in una fornace. Quello della blasfemia è un tema molto sensibile in Pakistan, dove sono frequenti le sollevazioni popolari e gli atti di violenza contro chi è accusato di questo reato. Sono spesso colpiti da questa accusa membri della sparuta comunità cristiana del paese. Fa parte della comunità anche Asia Bibi, la donna condannata a morte per aver pronunciato presunte frasi blasfeme sul profeta Maometto. Nigeria: per attacchi di Boko Haram evasi oltre 2 mila prigionieri negli ultimi cinque anni Nova, 7 novembre 2014 Oltre 2mila prigionieri sono evasi nel corso degli ultimi 5 anni in Nigeria: lo riferiscono funzionari della sicurezza citati dal quotidiano nigeriano "The Guardian", secondo i quali il gran numero di evasioni è stato causato soprattutto da attacchi alle carceri del gruppo militante islamico Boko Haram, che hanno causato la morte di decine di agenti di polizia e guardie carcerarie. Il mese scorso centinaia di prigionieri sono fuggiti dalla prigione di Mubi dopo l’attacco sferrato contro la struttura da militanti jihadisti, che questa settimana hanno assaltato anche un carcere nello Stato di Kogi per liberare decine di detenuti. Nel 2009, invece, quasi 500 prigionieri sono fuggiti dal carcere di Maiduguri. Secondo i funzionari un totale di 2.251 detenuti sono riusciti a evadere negli ultimi cinque anni, a riprova dell’inefficienza delle prigioni e delle forze di sicurezza nel paese. Turchia: studente condannato al carcere per graffiti anti-islam Aki, 7 novembre 2014 Uno studente universitario è stato condannato in Turchia a cinque mesi di carcere per aver scritto su un muro frasi offensive contro l’Islam. Lo ha riferito il sito del quotidiano Hurriyet, precisando che il giovane, identificato solo con le iniziali D. D., ha eseguito i graffiti durante la manifestazione del primo maggio a Eskisehir, nell’ovest del paese. Per l’accusa lo studente si è reso colpevole di aver "umiliato tutti i valori religiosi di un paese pio". I graffiti, inoltre, a causa della loro natura provocatoria, avrebbero potuto "disturbare la quiete pubblica", ha sottolineato la procura che ha indagato sul caso. Durante il processo, D. D. ha negato di aver voluto insultare la religione, spiegando di aver eseguito i graffiti in inglese ispirandosi al testo di una canzone di un gruppo punk britannico, The Exploited. Lo studente ha anche negato di conoscere l’inglese. Il suo legale ha evidenziato che D. D. non voleva specificatamente insultare l’Islam, aggiungendo che la canzone in questione criticava la religione in generale. E tale diritto di critica - secondo l’avvocato - è sancito da diverse sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo in materia di libertà di espressione. Il tribunale di Eskisehir non ha comunque accolto la linea di difesa dell’avvocato punendo il giovane, la cui pena è stata comunque sospesa. La condanna dell’universitario si lega ad altri due casi analoghi balzati all’attenzione dei media turchi, quelli del linguista turco-armeno e scrittore Sevan Nisanyan e dell’acclamato pianista Fazil Say. Entrambi sono stati condannati per blasfemia. Nisanyan è stato condannato a tre mesi e mezzo di carcere per aver pubblicato su un blog un post ritenuto offensivo nei confronti del profeta Maometto. Say è stato condannato a 10 mesi per "insulti alla religione" dopo aver ritwittato alcuni versi del poeta persiano, Omar Khayyam.