Giustizia: la riforma non decolla; al palo sei ddl, solo l’arretrato civile diventa legge di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2014 Rispetto agii impegni iniziali, l’Esecutivo è in ritardo di almeno 4 mesi. Camere costrette a rallentare in attesa dei testi In principio furono le "12 linee guida", tante quante le fette della torta che da fine giugno campeggia sul sito del ministero della Giustizia sotto il titolo "Riforma". Poi divenne un pacchetto di 7 provvedimenti - un decreto legge e 6 ddl - per "rivoluzionare" il sistema. Riforme già belle e fatte, a sentire il governo in questi mesi: "Abbiamo approvato il falso in bilancio!", "Abbiamo riformato la giustizia civile!". "Abbiamo introdotto l’auto-riciclaggio!" e via dicendo. Oggi, di quel pacchetto, soltanto il decreto sull’arretrato civile diventa legge (con fiducia), mentre gli altri 6 ddl restano al palo. Di più: ben 5 sono ancora invisibili. Altro che operativi. Fatta eccezione per la responsabilità civile dei magistrati e per la norma sull’auto riciclaggio -estrapolata dal ddl sulla criminalità economica e diventata un emendamento al ddl sul rientro dei capitali dall’estero - i testi non sono neppure arrivati in Parlamento. E in alcuni casi, come la delega sul processo penale contenente l’attesa riforma della prescrizione, vengono dati addirittura per dispersi. Eppure sono trascorsi oltre due mesi da quando, il 29 agosto, il Consiglio dei ministri ha varato il pacchetto, peraltro con due mesi di ritardo rispetto al cronoprogramma di Matteo Renzi, secondo cui il mese della riforma della giustizia avrebbe dovuto essere giugno. A quell’appuntamento, infatti, il governo arrivò a mani vuote ma con le slide sugli ormai famosi 12 punti, spiegando però che voleva "aprire" la riforma alla consultazione popolare, tant’è che le "linee guida" furono pubblicate online sui siti di palazzo Chigi e di via Arenula. Ma tant’è. Il 29 agosto finalmente il varo: un decreto legge per dimezzare in un anno l’arretrato civile, e 6 ddl, appunto, di cui 4 di delega al governo (processo civile e penale; estradizioni, magistratura onoraria) e due ordinari (responsabilità civile dei giudici e criminalità economica. In più di un caso l’approvazione avvenne "salvo intese" e questo spiega, in parte, il ritardo e la continua riscrittura dei testi. Ad oggi ne mancano all’appello 5 su 6. Un ritardo inspiegabile, che ha finito per frenare il lavoro delle Camere sugli stessi temi. Così è avvenuto per la prescrizione: la commissione Giustizia di Montecitorio aveva cominciato a lavorare alla riforma ben prima dell’estate ma è stata bloccata (e poi rallentata), prima dagli annunci del governo e, poi, dalla notizia dell’approvazione di un testo governativo che, però, oggi sembra desaparecido. Idem per la riforma dell’anticorruzione il cui esame era cominciato al Senato ma è stato bloccato. Qual è, dunque, lo stato dell’arte? Il ddl sulla responsabilità civile è da poco giunto al Senato ed è stato trasformato in emendamento al testo già in esame avanzato. L’Italia è sotto procedura di infrazione europea, per cui ora il tempo stringe ma, visto lo scontro con l’opposizione (e nella maggioranza), non si esclude il ricorso a un decreto legge. Il ddl sulla "criminalità economica", più volte scritto e riscritto, è arrivato al Quirinale solo lunedì sera e contiene - oltre a falso in bilancio e misure di prevenzione contro la criminalità mafiosa- anche la norma sull’auto-riciclaggio, ma nel testo precedente a quello che nel frattempo governo e maggioranza hanno presentato come emendamento al ddl sul rientro dei capitali dall’estero. Nel provvedimento, invece, non c’è la modifica (data per invece approvata al Cdm di agosto) della concussione, con l’inserimento dell’incaricato di pubblico servizio tra gli autori del reato. È già passato al vaglio del Colle il ddl delega su rogatorie e estradizioni (riforma del libro XI Cpp), che però è parcheggiato a Palazzo Chigi per un problema di copertura finanziaria, mentre nulla si sa - benché se ne sia scritto moltissimo - sull’ambizioso ddl delega per la riforma complessiva del processo civile né di quello - sempre una delega - sulla riforma della magistratura onoraria. Ma se in questi casi sono circolate varie bozze, nulla si è visto sulla delega sul processo penale, che dovrebbe contenere la pluri-annunciata riforma della prescrizione, passaggio essenziale per rendere più efficace la lotta giudiziaria al malaffare, e su cui siamo stati messi in mora da anni sia dall’Ocse che dall’Europa. A conti fatti, rispetto alle scadenze fissate, la riforma del governo e in ritardo di quattro mesi (se basteranno). E finora ha prodotto solo il risultato di rallentare i lavori parlamentari sulle stesse materie oggetto della riforma. Giustizia: gli orrori delle carceri e lo scandalo degli Opg che non chiudono mai di Valter Vecellio www.lindro.it, 6 novembre 2014 Nelle carceri persiste la problematica dell’ invivibilità nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Papa Francesco. A dispetto di quello che si dice (e può sembrare), il carcere continua a restare un luogo dove si muore, ci si uccide. Non se ne parla più, è vero: l’impellente urgenza individuata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il suo messaggio solenne al Parlamento, lo hanno gettato alle ortiche. Pensate: il Parlamento, che pure ha l’obbligo di dibattere il messaggio venuto dal Colle, non lo ha neppure messo in agenda. Sostanzialmente censurato, poi, l’appello di papa Francesco, che ha puntato l’indice sull’ergastolo, definito "morte nascosta", e ancor meno presa in considerazione la grave denuncia degli ispettori dell’Onu, che ha definito le carceri italiane luogo di tortura; e, come si è detto, si continua a morire, tra la generale indifferenza. L’ultimo episodio riguarda un detenuto calabrese 56enne, ristretto per omicidio e condannato ad una pena di 30 anni, morto per infarto causato da una embolia nel carcere toscano di Porto Azzurro. Ne da notizia il Sappe, sindacato di Polizia Penitenziaria. "Il detenuto aveva un fine pena nel 2018 e fruiva regolarmente di permessi premio, avrebbe dovuto fruirne uno proprio il prossimo venerdì" - spiega il segretario del Sappe, Donato Capece. "È deceduto dopo aver accusato alcuni malori e problemi di respirazione. Nonostante i tempestivi interventi del personale di Polizia Penitenziaria, di quello medico e paramedico non c’ stato purtroppo nulla da fare". Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le patologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi colpisce il 22% dei detenuti, l’hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%". Non solo: i dati raccolti dalla Società italiana di medicina e sanits’ penitenziaria ci dicono che il 60-80% dei detenuti affetto da una patologia. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% tossicodipendente. Solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv. Per tornare alle morti in carcere: nei primi mesi del 2014 "è stato raggiunto un nuovo picco di suicidi nelle carceri italiane: il 40% di tutti i decessi in carcere è infatti rappresentato da suicidi". Lo ha affermato il presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Claudio Mencacci, sottolineando che nel 2013 la quota di suicidi era stata pari al 30%, contro il 40% del 2012 ed oltre il 40% del 2009. Prima di terminare questa nota. Ricordate gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Li si doveva chiudere, abolire. Proroghe a non finire, perché non si era ancora pronti, poi il solenne impegno delle Regioni di istituire strutture alternative e risolvere finalmente questa dolorosissima questione che il presidente Napolitano aveva qualificato come vera e propria barbarie... Ebbene, cos’è accaduto? Un bel nulla. Nella "Relazione sul programma di superamento degli Opg", trasmessa dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin e dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando si sostiene che, "allo stato, appare irrealistico che possa addivenirsi alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro la data del 31 marzo 2015. La ragione di fondo di tale previsione risiede nell’acclarata impossibilità che le Regioni possano, entro il termine previsto dal decreto legge n. 52 del 31 marzo 2014, portare a compimento l’opera di riconversione delle strutture, con la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza)". Di fatto, il Governo ammette che poco o nulla in questi mesi è stato fatto dalle Regioni per realizzare le nuove strutture (Rems) che garantissero ai malati psichiatrici una degenza nel pieno rispetto della loro dignità, secondo quanto stabilito sia dal decreto legge di proroga che dalla risoluzione approvata dalla Commissione Igiene e Sanità. Insomma: l’avvilente ammissione che la tutela della salute e della dignità umana sono vittime degli inammissibili ed ingiustificabili ritardi della politica. A suo tempo il governo Monti aveva messo a disposizione circa 180 milioni di euro per la realizzazione di nuove strutture. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto, come sono stati utilizzati, e da chi. Giustizia: non c'è soltanto il sovraffollamento... i detenuti fanno anche la fame di Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 6 novembre 2014 Non soltanto sovraffollamento, celle fatiscenti e condizioni igienico-sanitarie pessime. I detenuti italiani sono costretti a fronteggiare un altro problema non da poco: il cibo. O meglio, la fame. Già, proprio così. La spesa fissata dallo Stato per far mangiare un "galeotto" è di soli 3,90 euro al giorno. Nemmeno due euro per il pranzo e nemmeno due euro per la cena. Poco, pochissimo. Chi è che riesce a sfamarsi con soltanto così poco denaro a disposizione? Nessuno, tranne i carcerati che sono costretti a farlo. A rivelarlo è un’inchiesta dell’Espresso, pubblicata dopo aver consultato il dossier della Corte dei Conti sui contratti segregati. "Anche gli appalti per il cibo dei detenuti sono top secret e quindi seguono procedure diverse rispetto alle gare pubbliche", scrive il settimanale. Non solo, leggendo si scopre un altro fatto, più o meno scandaloso. Sicuramente singolare. L’alimentazione dei carcerati costerà 390 milioni in quattro anni. Peccato però che gli appalti non tengano conto né della diminuzione dei reclusi che, anche se lentamente, si sta verificando ultimamente, né di alcune sezioni delle carceri chiuse, ma calcolate come "pasto". Tradotte in numeri? Nel secondo semestre del 2013 sono stati 12 milioni di giorni/presenza che equivalgono a circa 65 mila detenuti da sfamare. Lo stesso accadrà per i prossimi 4 anni, fino al 2017 (gli appalti sono quadriennali). E non importa che oggi, in cella, ci siano "solamente" 54 mila persone (anche se i posti sarebbero per 49 mila, tanto per accennare il sovraffollamento). Lecito, dunque, domandarsi dove vadano a finire i soldi dei pasti già pagati dallo Stato per i detenuti che non sono più reclusi in galera. La risposta non c’è, rimane top secret. "La Corte dei Conti afferma che i Provveditorati, da cui dipendono gli istituti di pena di una regione, possono stipulare uno o più contratti successivi, nell’ambito dei quattro anni, tenendo conto delle variazioni della popolazione carceraria", scrive ancora l’Espresso. Non resta che augurarsi che lo facciamo davvero. Giustizia: l’ex ministro Conso; nessuno sconto alla mafia, ma il 41bis non è costituzionale di Damiano Aliprandi Il Garantista, 6 novembre 2014 "La mancata proroga di trecento decreti di 41bis ai boss di Cosa Nostra fu una mia scelta e io non sono mai stato al corrente di una trattativa fra lo Stato e la mafia". L’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, oggi 92 enne, ribadisce così in un’intervista al quotidiano la Repubblica la sua estraneità alla questione della presunta trattativa Stato-Mafia. Chiamato in causa nel processo (e più volte anche da Marco Travaglio), Conso respinge con forza ogni dietrologia rispetto al suo comportamento: "Non ci fu alcun retroscena in quella scelta. Decisi io, perché così mi sembrava giusto. L’ho detto ai giudici e lo ripeto". Il processo? Non segue nemmeno le udienze più importanti. "Sto facendo delle cure ho poco tempo. Non so nulla di quello che accade". Anche rispetto alla recente deposizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, assicura: "Non ho ricordi particolari sulla notte delle bombe di Roma e Milano, è passato tanto, troppo tempo". Giovanni Conso è considerato uno dei più grandi giuristi e ha ricevuto attestati di solidarietà dai suoi ex colleghi del mondo accademico. L’alleggerimento del 41 Bis ai 334 detenuti, eseguito per ordine dell’allora ministro Conso, viene visto come un favore alla mafia. In realtà, i soggetti appartenenti a Cosa Nostra presenti in quell’elenco, il cui alleggerimento avrebbe potuto conseguire il gradimento dell’organizzazione criminale siciliana, erano circa una dozzina. Gli altri erano soggetti secondari, ed in stragrande maggioranza del tutto alieni a Cosa Nostra, e tra l’altro ben oltre la metà di quei 334 non erano neppure siciliani. Persino la commissione Antimafia ha già recepito questa circostanza, e ne ha dato pubblicamente atto. Parole attente ed equilibrate nei suoi confronti sono da ritrovare nel libro di Pier Luigi Vigna In difesa della giustizia. Egli narra di come Conso, piuttosto di intavolare una trattativa con Riina e Provenzano, si sarebbe fatto volentieri crocifiggere. Vigna ritiene che Conso davvero si fosse posto il problema della legittimità costituzione del 41bis. La finalità riabilitativa della detenzione non può essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza. E sempre secondo Vigna, l’allora ministro e uomo di diritto come Conso, non poteva non tener presente questo: ritendendo di non poter risolvere come ministro questo problema anticostituzionale, aveva optato per non rinnovare quelle misure detentive. Si trattava in diversi casi peraltro di detenuti che non erano nemmeno alla prima applicazione del 41bis, ma in attesa della proroga sistematica biennale. Vigna continua dicendo che forse bisogna porsi delle domande sui depistaggi sulla strage di via d’Amelio, invece di fossilizzarsi sulla presunta trattativa. Ma questa è un’altra storia. Giustizia: caso Cucchi, lo Stato si commuove di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 novembre 2014 "Il senatore Giovanardi sostiene che incontrando la famiglia Cucchi io stia partecipando al "massacro delle Istituzioni". Forse è utile sottolineare che io le Istituzioni le sto difendendo e che l’unico massacrato, dalle foto, sembra essere proprio Stefano Cucchi". Un incontro sentito, quello tra il presidente del Senato e i familiari del giovane romano morto il 22 ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare, arrestato per possesso di pochi grammi di cannabis. Addirittura commosso, Piero Grasso non si è limitato ad un incontro formale e ha voluto segnare un altro primato di questi giorni delle istituzioni: rispondere al senatore Udc Carlo Giovanardi che da giorni combatte la sua personale battaglia contro le rivendicazioni della famiglia Cucchi e con argomentazioni simili a quelle di alcuni sindacati di polizia come il Coisp e il Sap. "Lo Stato non può tollerare che questa violenza rimanga impunita - ripete, per il secondo giorno, Grasso - non deve avere paura della verità: come ho detto ai suoi familiari è doveroso che la morte di Stefano non sia vana e contribuisca a costruire una società che rispetti i diritti dei più deboli. Negli occhi della famiglia Cucchi ho visto coraggio e dignità: non bisogna lasciarli soli, non si può ammettere, né ora né mai, che lo Stato fallisca nel compito di tutelare i propri cittadini, soprattutto quando essi si trovano sotto la propria custodia". Parole che si aggiungono a quelle pronunciate da Matteo Renzi martedì sera a Ballarò. "C’è un’evidente responsabilità dello Stato; quel ragazzo poteva essere mio fratello", ha detto il presidente del consiglio - che scaldano il cuore della sorella e dei genitori della vittima. "Sono segnali importanti e di svolta, dopo cinque anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti presi in giro. Sia chiaro che io non voglio che sia trovato un capro espiatorio, ma solo la verità", commenta Ilaria Cucchi che a Palazzo Madama, accompagnata dal presidente della Commissione diritti umani, Luigi Manconi, ha incontrato anche i senatori Alberto Airola (M5S), Loredana De Pedris (Sel), Riccardo Mazzoni (Fi), Lucio Romano (Per l’Italia) e Luigi Zanda (Pd). Importanti anche le parole del Guardasigilli Andrea Orlando che sembra ben disposto ad accogliere la richiesta di risarcimento danni avanzata dalla famiglia Cucchi nei confronti del ministero di Giustizia. "È una ferita da risarcire", ammette Orlando. E aggiunge: "Le parole del premier sono rese a nome del Governo, è una valutazione comune. Il mio compito ulteriore specifico è di fare in modo che la giurisdizione consenta di risarcire o comunque superare questa ferita e contemporaneamente di riflettere su una vicenda come questa perché i meccanismi che l’hanno prodotta non si ripetano". È chiaro insomma che finalmente qualcosa si muove. Forse perché, come dice Manconi, è in atto "un transfert collettivo" sui familiari di Stefano. Un sentimento nuovo che potrebbe intaccare l’omertà che sta impedendo di appurare chi sia stato a picchiare il giovane. "Da mille segnali, dai messaggi che arrivano a me e alla famiglia Cucchi - afferma Manconi - so che l’atteggiamento dei poliziotti non è certamente quello espresso da due bonzi sindacali, disposti a tutto, come Tonelli e Maccari. E si deve tener conto che questi due sindacati, Coisp e Sap, non rappresentano la maggioranza della polizia di Stato e dunque le loro dichiarazioni sono uno strumento di campagna elettorale per incrementare i propri iscritti tra i poliziotti che si sentono più ingiustamente trattati dal potere politico", aggiunge Manconi che sta progettando un convegno sulle forze dell’ordine e sui diritti umani assieme al Siulp e al Siap (che ha inviato al manifesto una lettera, pubblicata in questa pagina), le sigle che raccolgono la maggioranza degli agenti iscritti al sindacato. La famiglia comunque va avanti nella ricerca della verità sui fatti, su chi pestò il giovane detenuto - come hanno riconosciuto due gradi di giudizio - e sul perché sia morto. "Lasciamo fare alla giustizia, che è lenta, molto lenta, ma alla fine un risultato lo si ottiene", è convinto il presidente della Consulta Giuseppe Tesauro. Proprio in cerca di giustizia, ieri Ilaria ha depositato in procura un esposto contro il perito Paolo Arbarello, già direttore dell’Istituto di medicina legale della Sapienza, accusandolo di aver "sottoposto ai pm prima e alla Corte poi delle non verità scientifiche su temi di comune e banale conoscenza e verificabilità, pur di minimizzare le lesioni di Stefano ed escludere qualsiasi legame di esse con la sua sofferenza e con la morte". Secondo i Cucchi, il prof. Arbarello avrebbe "cercato di dimostrare la colpa dei (soli) medici per la morte di Stefano, escludendo qualsiasi nesso di causa con le lesioni". Nell’esposto si sostiene anche che "in corrispondenza delle singole riunioni medico legali, i consulenti di parte degli agenti penitenziari ricevevano in qualche modo delle rassicurazioni sul fatto che sarebbe stata riconosciuta una morte naturale di Stefano indipendentemente dalle lesioni subite". Infine, l’esposto fa notare - secondo quanto riportato da Ilaria Cucchi - anche che l’8 maggio 2012 Arbatello venne nominato componente del cda della Milano Assicurazioni, diventando "portatore di un interesse qualificato nei confronti della società stessa, nonché del socio di maggioranza Fondiaria Sai e del gruppo Unipol che è ente assicurativo dell’ospedale Pertini in cui Stefano fu ricoverato e dove morì". Giustizia: il ministro Orlando su Cucchi "ferita da risarcire… mai più una morte così" di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 6 novembre 2014 Quella di Stefano Cucchi "è una ferita da risarcire". La famiglia del geometra romano incassa anche la solidarietà e l’impegno del Guardasigilli, Andrea Orlando. "Il mio compito - dice il ministro - è di fare in modo che la giurisdizione consenta di risarcire o comunque superare questa ferita e contemporaneamente di riflettere su una vicenda come questa perché i meccanismi che l’hanno prodotta non si ripetano". Il responsabile di via Arenula è l’ultimo di una lunga lista di cariche istituzionali che si sono espresse in questi giorni. Ieri la famiglia Cucchi ha incontrato il presidente del Senato Pietro Grasso. "La sua morte - ha detto la seconda carica dello Stato, commosso nel corso dell’incontro - non deve essere vana. Bisogna costruire una società che rispetti i diritti dei più deboli: questo deve fare uno Stato che si definisce civile. E lo Stato che rappresento farà tutto il necessario affinché in futuro non accada mai più una cosa simile. Non si può tollerare che chi è in custodia dello Stato possa vedere annientata la propria vita". Sostegno anche dal presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Tesauro: "Sono cose talmente delicate, tristi. Certo c’è un problema, ma insomma lasciamo fare alla giustizia, che è lenta, molto lenta, ma alla fine un risultato lo si ottiene". Dopo essere uscita da palazzo Madama, Ilaria Cucchi è andata in tribunale per presentare un esposto contro il professor Paolo Arbarello, consulente dei pm, accusato di "aver redatto una falsa perizia". Perché, si legge, "ha sottoposto ai pm e alla Corte delle non verità scientifiche su temi di comune e banale conoscenza e verificabilità, pur di minimizzare le lesioni di Stefano ed escludere qualsiasi legame di esse con la sua sofferenza e con la morte". A questo punto la palla passa alla procura di Roma che sta vagliando l’esposto e presto deciderà se ci sono gli estremi per avviare un’inchiesta bis. Giustizia: "diranno che è stata morte naturale", ma cosa sapevano gli agenti su Cucchi? di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 novembre 2014 Nelle intercettazioni gli indagati parlavano come se avessero già la certezza del risultato. La famiglia denuncia i periti della Procura "Domani è un giorno importante, perché ci sarà l’autopsia e così diranno che è morto di morte naturale", disse la moglie di uno degli agenti penitenziari inquisiti il 15 novembre 2009, parlando al telefono con un’amica. L’indomani i consulenti del pubblico ministero ricevettero l’incarico di riesumare il cadavere di Stefano Cucchi - a un mese dall’arresto e tre settimane dal decesso - ma gli indagati parlavano come se avessero già la certezza del risultato. Oppure era il semplice auspicio che venisse confermato ciò che appariva già chiaro, sosterranno gli interessati, ma intanto questa intercettazione è finita nell’atto d’accusa presentato dai familiari di Cucchi contro i periti nominati della Procura di Roma. Come un’altra, in cui la stessa signora annuncia alla madre: "Da lunedì, quando usciranno i risultati dell’autopsia, loro saranno scagionati". E un’altra ancora, in cui una delle guardie coinvolte parla con un co-indagato e gli comunica: "L’avvocato ha detto che ha parlato con il perito e questo gli ha detto che è tutto a loro favore", cioè dei consulenti nominati dalle difese. Una settimana dopo, lo stesso agente confida a un collega che "il suo perito conosce i periti del tribunale e questi gli hanno detto che le cause della morte non dipendono dalle percosse". I risultati della perizia furono consegnati ad aprile 2010, ed effettivamente stabilirono che "il quadro traumatico d’insieme (cioè gli effetti delle percosse subite da Cucchi, ndr) non ha avuto alcuna valenza causale nel determinismo della morte". Conseguenza: l’accusa nei confronti delle guardie carcerarie fu declassificata da omicidio preterintenzionale a lesioni e abuso di autorità. Tuttavia gli inquisiti sapevano già tutto fin da novembre e dicembre; del resto il capo del gruppo nominato dai pubblici ministeri, il professor Paolo Arbarello, prima ancora di iniziare il suo lavoro spiegò davanti a una telecamera: "Il magistrato ci chiederà: sono state lesioni mortali quelle che hanno determinato la morte? Quindi i medici non potevano fare altro? Oggi le dico probabilmente di no. Sono portato più a ritenere che ci sia una responsabilità dei medici, però... lo devo dimostrare". Un’anticipazione bella e buona delle conclusioni raggiunte sei mesi dopo, secondo i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, che ieri hanno presentato una denuncia penale contro Arbarello, sostenendo che "l’impostazione accusatoria è stata gravemente compromessa dalla pervicace negazione che la morte di Stefano abbia avuto un qualsiasi collegamento causale rispetto alle lesioni fisiche, che invece erano apparse fin da subito talmente gravi da imporre immediate visite al pronto soccorso e poi quel ricovero in ospedale in cui Stefano è deceduto". Tuttavia dopo l’indagine c’è stato un processo, nel quale la corte d’assise ha incaricato altri periti di svolgere nuovi esami sulle cause della morte di Cucchi, e il risultato non è cambiato. Per questo la denuncia di Ilaria Cucchi e dei suoi genitori contiene un’istanza, apparentemente incomprensibile, dietro la quale si cela un sospetto: "Gli esponenti chiedono a codesta Procura della Repubblica, con la riserva di precisare e segnalare altri aspetti utili, di compiere ogni opportuna indagine, ivi compreso l’accertamento della corrispondenza elettronica intercorsa fra il professor Arbarello e i periti nominati dalla corte di assise di primo grado". In sostanza si ipotizzano contatti anomali tra i periti dei pubblici ministeri e quelli nominati dai giudici, e si chiede si verificare "se il consulente medico legale prof. Paolo Arbarello, le cui valutazioni hanno significativamente orientato l’indagine, in un procedimento così delicato come quello della morte di Stefano che ha visto coinvolte varie amministrazioni dello Stato, abbia svolto il proprio compito, non solo nel rispetto della doverosa lealtà, ma altresì nell’ambito della liceità delle condotte". Nei retro pensieri dei familiari di Cucchi e del loro avvocato, Fabio Anselmo, s’intravede una sorta di complotto: la perizia che escludeva il nesso tra le botte e la morte (secondo loro con ragionamenti medico scientifici sbagliati, contraddetti dai periti di parte) doveva servire a ridimensionare il capo d’accusa nei confronti degli agenti penitenziari, in modo da tranquillizzarli e farli attestare sulla linea del silenzio, anche rispetto ad eventuali responsabilità altrui. L’avvocato Anselmo, di fronte alla contestazione di reati meno gravi, quasi intimò ai pm che sarebbero andati incontro a una sconfitta; così è stato, al termine di due processi, e se pure non c’è certezza che le cose sarebbero andate in altro modo mantenendo l’accusa di omicidio preterintenzionale, ora la famiglia Cucchi torna alla carica giocando la carta della denuncia personale contro i periti che furono alla base di quella scelta. Con quali risultati si vedrà. Giustizia: Presidente Senato Grasso; morte non sia vana, istituzioni devono cercare verità La Repubblica, 6 novembre 2014 Il presidente del Senato ha ricevuto i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto dopo l’arresto a Roma nel 2009. Nel suo ufficio a Palazzo Madama anche Luigi Manconi. Al termine dell’incontro la soddisfazione di Ilaria: "È un punto di svolta, ci sentiamo meno soli" e presenta un esposto contro il professor Albarello per falsa perizia. L’Ordine dei Medici di Roma: "Basta caccia al camie bianco". Luigi Zanda, capogruppo dem: "Tutti e 108 i senatori del Pd con la famiglia di Stefano". E Tesauro, presidente della Corte Costituzionale: "La giustizia è lenta, molto lenta, ma alla fine il risultato ci sarà". "Sensibilizzeremo tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce su questo caso che colpisce in maniera così forte". Lo ha detto il presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha incontrato stamani nei suoi uffici a palazzo Madama la famiglia Cucchi, i genitori, Rita e Giovanni, e la sorella, Ilaria. E ha aggiunto: "Dobbiamo far sì che la morte di Stefano non sia vana, per la costruzione di una società in cui i diritti dei deboli, delle vittime, siano rispettati perché questo è il compito di uno Stato che si definisce civile. Non si può assolutamente tollerare che chi è in custodia di organismi dello Stato possa vedere annientata la propria vita". E ha continuato Grasso: "Mi sono commosso incontrando la famiglia Cucchi: quella morte è una vicenda che colpisce in maniera molto forte". L’incontro in Senato. Al termine dell’incontro la soddisfazione di Ilaria: "Questo è un momento di svolta, ora abbiamo fiducia ma per cinque anni io e la mia famiglia siamo stati presi in giro. Non ci fermeremo, ma oggi non ci sentiamo più soli. La seconda carica dello Stato ha detto che è inaccettabile ciò che è accaduto. Se c’è qualcuno che sa parli e spezzi questa catena. Noi continuiamo a credere nella giustizia", ha osservato la sorella di Stefano Cucchi, ringraziando poi anche il premier Renzi che ieri sera, nell’intervista a Ballarò, aveva tra l’altro detto: "È una vicenda che a me fa male, lo Stato è chiaramente responsabile. La partita non è chiusa e giudici valuteranno". "Una frase che mi ha commossa ed emozionata: l’ho sentito per la prima volta parlare di mio fratello come di un essere umano", ha sottolineato Ilaria Cucchi. Che poi ha aggiunto: "Noi non cerchiamo un capro espiatorio, ma vogliamo giustizia. Ora andrò in Procura e presenterò un esposto contro il professore Albarello per falsa perizia". L’esposto contro il perito Albarello. Paolo Albarello fu consulente dell’accusa nel processo di primo grado, nominato a suo tempo dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy per l’autopsia di Stefano Cucchi: sua la perizia che attribuì le responsabilità della morte ai medici del Pertini, che poi furono condannati. La perizia sancì che Stefano morì in ospedale per fame e sete. Così oggi Ilaria Cucchi ha presentato al posto di polizia della città giudiziaria di piazzale Clodio un esposto di 15 pagine nella speranza che la procura di Roma svolga "ogni opportuna indagine" sul conto di Paolo Arbarello. È convinta che il consulente medico legale "abbia significativamente orientato l’indagine" quando la sera del 9 novembre 2009, data di inizio delle operazioni autoptiche, dichiarò al Tg5 di essere "portato più a ritenere che ci sia una responsabilità dei medici" nella morte del geometra di 31 anni, avvenuta 18 giorni prima all’ospedale Pertini. Facendo quelle dichiarazioni in tv, Arbarello "ha anticipato, ancor prima di qualsiasi attività di studio e valutazione, che sarebbe stata riconosciuta una responsabilità dei sanitari, escludendo che le lesioni fisiche da Stefano precedentemente subite avessero determinato la morte". Dell’esposto "prende atto" l’Ordine provinciale di Roma dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri che in una nota del presidente Roberto Laia aggiunge: "Sarebbe ragionevole da parte di chiunque leggere prima le motivazioni della sentenza anziché trarre deduzioni dal solo dispositivo, rilanciando accuse di colpevolezza a trecentosessanta gradi. Al momento c’è di certo che una Corte d’Appello, composta anche da giurati popolari, ha stabilito l’assoluzione dei soggetti chiamati a rispondere della morte del giovane Cucchi. Riterremmo ingiusto e intollerabile veder puntare mediaticamente il dito ancora contro i medici, quali responsabili del decesso come conseguenza di percosse o per non aver curato o, addirittura, non alimentato il paziente che era detenuto. A questo proposito prendiamo atto che anche la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, ha ora maturato la convinzione che è stato un errore l’aver indirizzato i processi verso queste ipotesi di reato. A maggior ragione quindi non possiamo che ribadire la nostra posizione a difesa dell’operato e dell’immagine dei colleghi assolti. Al contempo invitiamo fermamente tutti a non proseguire in una fuorviante caccia al camice bianco". L’appello di Grasso. Anche ieri da Bari il presidente Grasso aveva lanciato un appello: "Ci sono dei rappresentanti delle Istituzioni che sono certamente coinvolti in questo caso. Quindi, chi sa parli. Che si abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, perché lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo", aveva detto. E oggi, l’ex procuratore nazionale antimafia ha ribadito la sua volontà di stare al fianco della famiglia Cucchi che continua la sua battaglia per scoprire "chi ha ucciso Stefano". Una battaglia che ha ripreso vigore dopo lo scorso 31 ottobre quando la Corte d’appello ha assolto tutti gli imputati nel processo: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari che a vario titolo avevano avuto contatti con Stefano Cucchi ancora vivo e detenuto. "Sensibilizzeremo tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce su questo caso che colpisce in maniera così forte". Lo ha detto il presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha incontrato stamani nei suoi uffici a palazzo Madama la famiglia di Stefano Cucchi, i genitori, Rita e Giovanni, e la sorella, Ilaria. Un incontro annunciato ieri sera dopo che l’ex procuratore nazionale antimafia era intervenuto da Bari sulla vicenda della morte del giovane romano: "Chi sa parli - aveva detto. Lo Stato non può sopportare una violenza impunita". Le reazioni. "Ringrazio il presidente Grasso per aver accolto immediatamente la mia proposta di incontrare i familiari - ha detto il senatore dem Luigi Manconi - Da quel tragico ottobre del 2009 nonostante delusioni, frustrazioni e umiliazioni, la famiglia di Cucchi ha conservato la fiducia nella giustizia e nello stato di diritto". Da loro, in questi anni, ha proseguito, "non una parola di vendetta nè un atto di resa ma un’ostinata e reiterata richiesta di ottenere verità e giustizia dai tribunali della Repubblica. E questo incontro è ancora più importante perché nelle ultime 48 ore alcuni sindacalisti felloni hanno indirizzato a questi cittadini esemplari contumelie e aggressioni verbali. Parole crudeli (‘tossicodipendente, anoressico, epilettico, larva, zombiè) che - va purtroppo ricordato - abbiamo dovuto ascoltare persino in questa alta sede istituzionale da qualche parlamentare irresponsabile". E il capogruppo dei senatori del Pd Luigi Zanda, dopo l’incontro con i genitori e la sorella di Cucchi, ha sottolineato la vicinanza di tutti e "108 i senatori del Pd, insieme a Grasso, alla famiglia di Stefano e alla loro richiesta di giustizia". Lunedì scorso, uscendo dagli uffici del tribunale di piazzale Clodio dopo l’incontro con il procuratore capo Giuseppe Pignatone, Ilaria Cucchi si era sentita incoraggiata: "Abbiamo avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della vicenda". Poi però tra magistrati e familiari era di nuovo caduto il gelo dopo l’attestato di piena fiducia sul lavoro svolto dai pm Barba e Loy, (i sostituti che hanno condotto gli accertamenti e l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi) dal parte del procuratore-capo, a poca distanza dall’incontro con i parenti di Stefano. Oggi interviene Giuseppe Tesauro, presidente della Corte Costituzionale: "La giustizia è lenta, molto lenta, ma alla fine il risultato ci sarà". La scritta su Stefano a piazzale Clodio. Intanto, sul muro di un palazzo nei pressi del Tribunale di Roma, in piazzale Clodio, è comparsa la scritta: "La rabbia non si assolve. Stefano vive". La frase è firmata Acab. Giustizia: Marcello Lonzi, un altro "caso Cucchi" lungo 11 anni di Damiano Aliprandi Il Garantista, 6 novembre 2014 Per scongiurare l’ennesima archiviazione la madre, l’11 novembre, sarà davanti a Montecitorio con le foto del figlio. La madre di Marcello Lonzi, Maria Ciuffi, per scongiurare l’ennesima archiviazione del caso, martedì 11 novembre ore 10 sarà davanti a Montecitorio ed esporrà le foto che ritraggono il figlio morto in carcere. A giugno di quest’anno, dopo undici anni di battaglie" archiviazioni e denunce, il giudice delle indagini preliminari Beatrice Dani ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e con un provvedimento di cinque pagine, depositato in cancelleria, ha disposto che vengano svolti nuovi accertamenti. Marcello Lonzi ufficialmente è morto di infarto nel carcere Le Sughere di Livorno, ma con otto costole rotte, due buchi in testa e un polso fratturato. Aveva 30 anni. Era finito in carcere per tentato furto. Aveva quasi finito di scontare la sua pena, e gli mancavano tre mesi alla sua scarcerazione. Eppure, quella libertà, luì non la più ritrovata. E morto lì. Ci sono fotografie che suggeriscono un pestaggio in carcere, ma tre diverse procure, nel corso degli anni, hanno archiviato il caso, smentendo la morte violenta. Per il medico legale, Marcello è morto per cause naturali, un infarto. Ed effettivamente anche il perito nominato dalla famiglia è dello stesso parere: ma cosa accadde, prima, nessuno lo sa. Sul corpo di Marcello vengono dapprima rinvenute "un’unica frattura costale e tre lesioni occipitali, ma senza nessuna incidenza". Poi, successivamente, un nuovo esame autoptico confuta quanto precedentemente detto: le costole rotte erano sette, e lo sterno fratturato. Per il consulente medico si tratta di conseguenze di un massaggio cardiaco. Eppure c’è ancora qualcosa che non torna; altre lesioni, tracce di vernice blu nella testa ferita, polso fratturato, mandibola rotta. Inizialmente, un testimone, le dice che il figlio era caduto dal letto, Poi, un altro, un ex detenuto di Le Sughere, intervistato ai microfoni di Linea Gialla, spiega quanto sa al riguardo e ricorda l’esistenza delle "celle lisce", stanze in cui i carcerati vengono massacrati di botte. La battaglia condotta dalla madre di Marcello Lonzi sembra infinita, La prima archiviazione è per morte naturale. Ma l’autopsia viene eseguita prima che la madre venga avvertita del decesso e, quindi, senza che faccia in tempo a nominare un perito di parte. Lei va avanti e presenta una denuncia che porta il pm Roberto Pennisi ad aprire un fascicolo per omicidio contro ignoti. A distanza di un anno, nel luglio 2004, lo stesso pm avanza una richiesta di archiviazione del procedimento per omicidio poiché, sostiene, Marcello è effettivamente morto per un infarto dovuto a cause naturali. Ma la vicenda è tutt’altro che chiusa; il gip di Livorno respinge in un primo momento la richiesta di archiviazione e fissa 1’ udienza preliminare per discutere il caso. Ma anche quell’udienza porterà ad un niente di fatto per ì familiari di Marcello dato che il gip accoglierà la richiesta di archiviazione presentata del pubblico ministero. La vicenda continua però a destare sospetti ed emergono nuovi indizi; ci sarebbe un referto medico falso e senza firma, stilato poco dopo l’ingresso in carcere di Marcello, nel quale al ragazzo viene effettuata una radiografia poiché lamenta dolori al torace dovuti, a quanto dice, a percosse subite dalle guardie. Nel referto il medico scrive "non fratture" e non si firma. La madre di Marcello non smette dì pensare che ci sia un’altra verità e continua a portare avanti la sua battaglia con tutte le armi che ha a disposizione. Nel 2006, viene riaperto il caso a seguito di una sua nuova denuncia. Sembrerebbe l’inizio di un nuovo corso, una svolta nella torbida storia del ragazzo morto in carcere, ma così non è: ancora una volta, con non poca sorpresa, il caso viene archiviato nel maggio del 2010. Maria Ciuffi non si ferma e presenta una denuncia alla Corte Europea, che non porta a nulla. Fino ad arrivare ad oggi con la richiesta di archiviazione respinta dal giudice delle indagini preliminari. Giustizia: Irene Testa e il "Detenuto Ignoto" al fianco della madre di Marcello Lonzi di Monica Gasbarri www.clandestinoweb.com, 6 novembre 2014 Marcello Lonzi, giovane detenuto delle Sughere, muore l’11 luglio del 2003, a 29 anni. Secondo il referto dell’autopsia è stato un infarto a portarselo via. Il ragazzo viene però trovato in una pozza di sangue, col volto gonfio e con 8 costole fratturate, un polso e la mandibola rotta, due buchi in testa. La diagnosi di infarto lascia forti dubbi, soprattutto nella madre, Maria Ciuffi, e le immagini del corpo del suo ragazzo fanno pensare che sia stato persino trascinato. Ora, a undici anni di distanza, il caso si è riaperto e la mamma di Marcello sarà martedì 11 novembre alle 10 davanti a Montecitorio per esporre le foto che ritraggono il figlio morto in carcere. Lo farà per chiedere un impegno da parte della politica e già hanno dato la propria adesione sia esponenti radicali che del Movimento 5 Stelle. "Quella di Marcello Lonzi è una vicenda che non vede la luce" spiega a Data24News Irene Testa dell’associazione "Il detenuto ignoto", da tempo al fianco della Ciuffi. "Martedì, la madre, esponendo le foto del suo ragazzo, chiederà alla politica di affiancare e seguire questa indagine che presenta molti lati oscuri. Magari con una commissione parlamentare d’inchiesta: ne sono state fatte tante finora e non vedo perché anche nel caso di morti come queste non si possa cercare uno strumento per fare luce". Dopo la sentenza del caso Cucchi, le polemiche e le richieste di chiarezza, sembrerebbe essersi aperto un varco: ed è proprio in questo varco che si vuole inserire Maria Ciuffi, la cui battaglia va avanti da più di dieci anni, "per chiedere che sia fatta luce anche sul caso di Marcello e su altre vicende simili". Quella del giovane Lonzi è una vicenda complessa che è sempre rimasta radicata nel territorio toscano, dove si è consumata. "Da tanti anni seguo la mamma e come radicale negli anni passati ho portato avanti anche uno sciopero della fame proprio per scongiurare un’altra archiviazione" ci racconta ancora Testa, che spiega anche di aver conosciuto la storia di Marcello dopo l’interrogazione parlamentare di Maurizio Turco e Sergio D’Elia. Un’interrogazione che non ha portato, come le tante altre presentate, alla verità storica di quanto accaduto nel carcere delle Sughere. "Di fronte a queste immagini tutti rabbrividiscono, rimangono colpiti, nessuno si sente di credere a una morte per infarto, solo che non si è andati oltre" insiste Irene Testa che ci ricorda come, purtroppo, di storie come queste ne esistano tante: "storie di persone morte in condizioni poco chiare e che erano state affidate allo stato". Proprio per dar voce a queste vittime "già durante la passata legislatura facemmo una conferenza stampa dal titolo "Anche lo stato sbaglia". Per la prima volta i familiari di ragazzi affidati allo stato e morti in circostanze poco chiare varcavano le porte del Senato. Se ne parlò pochissimo proprio perché l’attenzione mediatica non sempre accende i riflettori su queste vicende. E allora, il Caso Cucchi ha il merito di aver fatto luce su un sistema, quello delle istituzioni chiuse e opache, dove le mele marce (che ci sono) andrebbero isolate anche, e soprattutto, in favore di tutti quegli operatori che, invece, in quelle istituzioni sono benedetti perché se non ci fossero non so come potrebbero funzionare oggi le carceri". Operatori che svolgono il loro lavoro in modo egregio, sottolinea la Testa: "se non fosse stato per gli agenti di polizia penitenziaria il sistema carcerario sarebbe andato al collasso, tante volte sono loro che salvano i detenuti da probabili suicidi e coloro che spesso, non essendoci altri operatori diventano consiglieri educatori fanno un lavoro preziosissimo, sottopagato, sottorganico". Tuttavia, continua, non si può negare che anche in quello carcerario, come in ogni altro settore, c’è qualcuno che abusa della violenza, che non compie il proprio dovere, e per questo trovo sbagliata, la denuncia del Sappe nei confronti della sorella di Stefano Cucchi: "cosa si pretende da Ilaria? Che smetta di ricercare la verità? Che senso ha denunciare una sorella che porta avanti una lotta in cui sta chiedendo, giustizia, verità e diritti per le persone che vengono private della libertà? Per fortuna altri membri della polizia penitenziaria hanno preso le distanze. È una guerra che non porta a nulla". Giustizia: detenuto romeno suicida a Terni nel luglio 2013, la procura apre un’inchiesta di Damiano Aliprandi Il Garantista, 6 novembre 2014 Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de "Il Garantista", Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella dì aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013, Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi "che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico". A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che "un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina". Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che "lo toglievano anche dal lavoro dì barbiere". A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che sì sarebbe impiccato se lo avessero chiuso; ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui - sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera - cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che "se non si impiccava , lo uccidevano loro". Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere" tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto - sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera - ì due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta "ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella". Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno "si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo". Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore "che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto". Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione, Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni sì è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre, Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria , confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luco su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario-giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato "perfetto". Giustizia: Giuseppe Gulotta, in carcere 22 anni da innocente, chiede 56 milioni allo Stato Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2014 I legali di Giuseppe Gulotta, il manovale condannato per l’eccidio della caserma di Acalmo, chiedono il risarcimento alla Corte d’appello di Reggio. I legali di Giuseppe Gulotta, il manovale di Alcamo che ha scontato da innocente 22 anni di reclusione per l’eccidio della casermetta di Alcamo Marina il 26 gennaio 1976, dove furono uccisi due carabinieri, hanno chiesto 56 milioni di euro di risarcimento alla Corte d’appello di Reggio Calabria, formalizzando la richiesta che era stata annunciata dopo la scarcerazione, avvenuta nel 2012. Nella strage morirono l’appuntato Salvatore Falcetta e il carabiniere Carmine Apuzzo. Gulotta - come pure Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà - confessarono, è stato appurato nei processi di revisione, perché sottoposti a torture. A scagionare i quattro (Mandalà ha avuto giustizia solo dopo la morte) fu la testimonianza, seppur tardiva, di un brigadiere dell’Arma, che all’epoca era in servizio ad Alcamo: Renato Olino. I processi di revisione hanno stabilito che le indagini furono depistate. Lettere: caso Cucchi, il coraggio di ammettere gli errori di Giuseppe Tiani (Segretario generale del Siap - Sindacato Italiano Appartenenti Polizia) Il Manifesto, 6 novembre 2014 Sono giorni, questi, in cui le parole sono macinate senza sosta, passate al setaccio in alcuni casi in altri rigurgitate ed amplificate dai media, a volte trasformate nell’essenza, mistificate nella sostanza, devastate nell’etimologia. Così, nella deformazione di una quotidianità che non conosce umana pietà e disdegna la coerenza morale, chiedere scusa è diventato il segno assoluto di una debolezza dell’animo e dell’essere uomo. Ma io sono un uomo, un cittadino, un padre, un poliziotto, un sindacalista. Sono una persona che non vive tra la porta dell’inferno e il fiume Acheronte, in quel lembo di anti inferno di dantesca memoria in cui piangono le loro colpe quegli ignavi, vissuti "senza infamia e senza lode". A differenza di quanti, frenati da un ordinamento del personale ancora forse troppo succube delle originarie impostazioni militari, fanno fatica a dire a gran voce la loro opinione su tutti quegli episodi che vedono alcuni di noi, nostro malgrado protagonisti, io da poliziotto sindacalista mi posso esporre in prima persona. Il sindacato di polizia, oggi accusato di conservatorismo e corporativismo non rende la mia divisa più leggera; seppur cucita sulla mia pelle, non mi impedisce di essere obiettivo sul se e quando abbiamo sbagliato; di essere critico se e quando il nostro lavoro è stato travisato da un’abile regia; di essere realista se e quando veniamo additati come ciechi e stolti esecutori materiali di ordini apparentemente sbagliati; sono… siamo lavoratori. Indossiamo una divisa ma questo non ci rende immuni, non ci rende invincibili, non ci rende inattaccabili. La nostra divisa, la mia divisa non mi rende meno vulnerabile; come cittadino capisco lo sgomento del mio vicino di casa professore di lettere, turbato quanto me di fronte alle foto di Stefano Cucchi, preoccupato quanto lui quando sembra che la democrazia nel nostro Paese sia diventata una vittima eccellente. Ma sono anche un uomo dello Stato e credo fermamente nel mio lavoro; di poliziotto prima e di sindacalista poi. Allo Stato a cui ho giurato fedeltà chiedo giusta tutela e gli strumenti operativi idonei ad affrontare ogni giorno, nelle piazze e per le strade del mio Paese, la criminalità, le emergenze ma anche il disagio sociale per una crisi - di valori ed economica - che piove anche sulla mia famiglia, sui miei figli, sui miei colleghi. Ai cittadini chiedo il rispetto per il mio lavoro, il riconoscimento della dignità della mia professione, chiamata a difendere tutte le libertà costituzionalmente garantite, anche quella di manifestare liberamente il proprio dissenso. Ai colleghi chiedo il coraggio e la determinazione figlia della consapevolezza che il nostro lavoro è fatto anche, purtroppo, di situazioni paradossali in cui lo stress e la tensione anche emotiva può giocare brutti scherzi. Ammettere - se e quando - di aver sbagliato non è certo sinonimo di vigliacca defezione; noi siamo coraggiosi, anche nel dolore. Perché noi comprendiamo il dolore, comprendiamo il preoccupato stupore di chi si trova un fratello lavoratore con il manganello. Alcune di quelle parole sentite in questi ultimi giorni non sono certamente rappresentative di tutti gli uomini e le donne della Polizia di Stato; sui drammi umani e sulle incongruenze della vita il sindacato, il mio sindacato, quello che rappresento ogni giorno ha il coraggio di riconoscerne la durezza e di noi, nessun potrà dire "…non ragionar di loro ma guarda e passa". Sardegna: Sdr; i dati del ministero confermano il sovraffollamento in 5 carceri su 12 Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2014 "La Casa Circondariale di Cagliari, benché in dismissione, spicca ancora una volta per il sovraffollamento. Registra 373 detenuti (22 donne, 42 stranieri). Sono 55 in più rispetto al numero regolamentare pari a 318 posti letto. Un dato significativo in una regione dove l’eccedenza dei cittadini privati della libertà riguarda 5 strutture penitenziarie su 12. Il peso maggiore è concentrato oltre che nell’ottocentesco Istituto di viale Buoncammino nei nuovi Istituti di Massama e Tempio Pausania. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 31 ottobre scorso. "La distribuzione dei cittadini privati della libertà - sottolinea - conferma una situazione di sofferenza anche a Lanusei (54 su 34 posti - 10 stranieri) e Iglesias (84 su 62) mentre nelle Case di Reclusione di Alghero, Mamone-Onanì, Isili e "Is Arenas" i detenuti sono notevolmente diminuiti. A "Badu e Carros" invece i ristretti sono 159 (2 donne; 11 stranieri) su 271 spazi". "Dall’analisi numerica dei posti disponibili però emerge qualche dato sorprendente. È il caso di Massama dove erano previsti 250 posti (240 nella sezione circondariale e 10 semiliberi) mentre nell’ultimo rapporto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risulta una capienza regolamentare di 266 posti e una presenza effettiva di 287 detenuti (35 dei quali stranieri). Un dato - evidenzia ancora la presidente di SDR - che sembra confermare il costante aumento di presenze nella struttura dove convivono detenuti in regime di alta sicurezza molti dei quali ergastolani". Per quanto riguarda Tempio Pausania i posti regolamentari sono 167 ma i cittadini privati della libertà risultano 189. Mentre a Sassari-Bancali a fronte di 363 posti sono recluse 299 persone (8 donne - 126 stranieri). "Secondo i dati del Ministero la Sardegna ha a disposizione 2427 posti regolamentari ma se si escludono quelli delle tre colonie penali agricole (742), a regime attenuato, gli spazi agibili si riducono a 1.685. I detenuti presenti sono 1864 (32 donne - 476 stranieri). Si evince dunque che il sovraffollamento è proprio nelle principali strutture detentive. Un aspetto tuttavia è evidente che in Sardegna sta crescendo a dismisura la servitù penitenziaria. Nel dicembre del 2012 l’isola disponeva di 2007 posti (comprese le colonie). Attualmente sono 420 in più e quando entrerà a regime il villaggio di Cagliari-Uta per altri 586 ristretti la situazione - conclude Caligaris - sarà davvero pesante". Grave assenza manichette antincendio lungo mura cinta Tempio-Nuchis "Aver rilevato dalla Polizia Penitenziaria l’assenza delle manichette antincendio lungo le mura di cinta della Casa di Reclusione di Tempio-Nuchis la dice lunga sull’agibilità della struttura penitenziaria inaugurata da poco tempo e sollecita immediati interventi per evitare qualunque rischio". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che "l’emergenza incendi verificatasi nelle campagne di Tempio ha evidenziato l’ennesima grave carenza in un Istituto costato diversi milioni di euro e getta una luce sinistra sulle modalità delle concessioni di nulla osta". "La prontezza della Direzione e la professionalità della Polizia Penitenziaria hanno evitato situazioni di pericolo per l’incolumità delle persone presenti nella Casa di Reclusione ma occorre anche rilevare - sottolinea Caligaris - il comportamento responsabile dei detenuti. Si tratta di cittadini privati della libertà in regime di Alta Sicurezza che hanno collaborato e mantenuto la calma nonostante la difficile situazione". "L’auspicio è che si ponga rimedio al più presto alle carenze e - conclude la presidente di Sdr - si faccia chiarezza sulle relative responsabilità". Piemonte: "Good morning poesia" nelle carceri di Torino e Saluzzo con Cascina Macondo Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2014 È un progetto europeo, si chiama "Parol - Scrittura e Arti nelle carceri, oltre i confini, oltre le mura". Iniziato nel 2013 si concluderà nell’aprile del 2015. Coinvolge cinque paesi: Belgio, Italia, Polonia, Serbia, Grecia, con circa 200 detenuti di 20 carceri europee. Cascina Macondo è l’associazione italiana partner co-organizzatore. Laboratori di scrittura, lettura ad alta voce, ceramica, pittura, poetry slam, scultura, haiku, renga, haiga, haibun, mosaico, fotografia, video, terranno impegnati i detenuti in un percorso di formazione e creatività. Tra le diverse iniziative particolare rilievo riveste l’attività "Good Morning Poesia". Si tratta di appuntamenti settimanali in carcere durante i quali i detenuti del carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino e quelli di Alta Sicurezza del carcere "Rodolfo Morandi" di Saluzzo, leggono al microfono ad alta voce poesie, haiku, racconti, durante gli orari in cui i detenuti sono a passeggiare nei cortili e tutti possono ascoltare. Sono state dislocate alcune cassette di raccolta all’interno del carcere dove è possibile "imbucare" una propria poesia o il testo di un autore che è stato apprezzato desiderando di sentirlo leggere ad alta voce dal gruppo Parol. In questo modo tutti i detenuti residenti nel carcere, ma anche gli agenti di custodia, sono coinvolti e invitati a partecipare segnalando i testi che amano. Ogni settimana anche il mondo esterno al carcere partecipa all’appuntamento con un gruppo di lettori volontari che affiancano i detenuti. A proporre i lori testi ad alta voce si alternano i Narratori di Macondo: Anna Abate, Melania Agrimano, Sara Amaiolo, Giusy Amitrano, Arianna Barbarossa, Riccardo Di Benedetto, Annunziata Di Matteo, Luisa Gnavi, Vittoria Iozzo, Marianna Massimello, Gaia Manuela Napoli, Giulio Cesare Schiavone, Emanuela Squadrelli. L’obiettivo è far diventare "Good Morning Poesia" una consuetudine, un rituale, una "tradizione" dell’Istituto Penitenziario che la ospita, gestita alla fine in maniera autonoma e responsabile dai detenuti. I detenuti che inizieranno questa tradizione, nella previsione che essi possano essere trasferiti in altre sedi o che possano abbandonare il carcere, avranno anche il compito di "tramandare" ad altri detenuti la ritualità di leggere a voce alta ogni settimana una poesia. Una sorta di "passaggio del testimone" affinché la tradizione possa continuare. Il progetto Parol è stato sovvenzionato dalla Comunità Europea, ma ancora non è stata raggiunta la cifra per coprire tutti i costi. Mancano ancora 19mila euro. Cascina Macondo ha lanciato una campagna di raccolta fondi: "Adotta una bolla di sapone". Molti cittadini hanno già adottato bolle di sapone (1 bolla = 1 euro). La Fondazione Crt ha dato un contributo per il progetto Parol. Chi volesse dare il proprio aiuto, ecco l’Iban per fare un versamento di solidarietà: IT13C0335901600100000013268. Rieti: progetto "Carcere Verde", i rifiuti diventano compost Dire, 6 novembre 2014 Le buone pratiche ambientali diventano un'opportunità di riscatto per i detenuti. Accade a Rieti, dove nella Casa circondariale è stato avviato "Carcere Verde", un progetto che punta a ridurre i rifiuti prodotti dalla struttura coinvolgendo in prima persona i detenuti e permette di ottenere importanti risparmi sia in termini economici che ambientali. Sono stati avviati anche una serie di incontri finalizzati alla sottoscrizione di un protocollo di intesa per la formazione del personale interno, la manutenzione della compostiera ed il monitoraggio con analisi dell'ammendante organico. La tracciabilità e analisi dell'intero ciclo potrà essere verificata da una collaborazione con il centro Enea. La corretta gestione degli scarti organici alimentari, unitamente alla loro valorizzazione e reimpiego, sono la base di questo progetto rieducativo in ambito detentivo che punta a diventare un modello da estendere a livello nazionale. Il progetto "Carcere Verde", presentato in occasione di Ecomondo 2014 dalla Provincia di Rieti, City net e da Achab group, che ne hanno curato la realizzazione, prevede di trattare in loco il rifiuto organico prodotto dalla mensa carceraria - che da solo costituisce circa il 30% - 40% del totale degli scarti prodotti all’interno della struttura - attraverso la trasformazione di questo rifiuto in compost. Il metodo utilizzato per il trattamento del rifiuto organico è il cosiddetto compostaggio di comunità con sistema aerobico, pratica che prevede l’utilizzo di una compostiera elettromeccanica Big Hanna. Si tratta di macchine che permettono di trasformare direttamente in loco lo scarto della preparazione dei pasti e gli avanzi di cibo in ottimo compost riutilizzabile. Il processo di compostaggio è naturale, senza impiego di additivi chimici ed è completamente automatizzato. La Provincia di Rieti, prima nel Lazio, all'interno del proprio programma di prevenzione e riduzione dei rifiuti, ha acquistato e conferito alla Casa circondariale una compostiera elettromeccanica Big Hanna T120 per trattare sul posto gli scarti organici e trasformarli in compost. Una volta ottenuto il fertilizzante, questo potrà essere impiegato all’interno del carcere per la realizzazione di orti e serre, dove i detenuti avranno l'opportunità di coltivare varie tipologie di prodotti, da destinarsi al consumo interno e/o alla commercializzazione esterna di una linea di prodotti biologici da poter mettere sul mercato. Oltre agli aspetti educativi e di coinvolgimento sociale, il compostaggio di comunità è una pratica che riserva notevoli vantaggi dal punto di vista ambientale. L’impatto ambientale del rifiuto è praticamente azzerato mentre le emissioni di Co2 equivalente, legate ai trasporti di questa tipologia di rifiuto, si riducono drasticamente, dato che il trattamento avviene sul posto e non prevede trasporti a distanza: si stima che per ogni tonnellata di materiale compostato sul posto, si ottenga un risparmio in emissioni di Co2 equivalente in atmosfera, pari a 461 kg. Ma i vantaggi non si fermano qui. Attraverso questo progetto, l’amministrazione penitenziaria potrà avere la possibilità di beneficiare di importanti sconti e/o riduzione sulla tariffa rifiuti grazie all’auto-compostaggio del rifiuto organico. Un ulteriore vantaggio offerto da questo sistema è infine legato alla sicurezza della Struttura Penitenziaria che deriva dalla riduzione degli accessi da parte di personale esterno ed automezzi per il servizio di raccolta dei rifiuti. Bologna: accordo con l’Università, i detenuti della Dozza vanno a lezione all’Alma Mater Il Resto del Carlino, 6 novembre 2014 Ad annunciarlo è stata la direttrice della casa circondariale, Claudia Clementi: "Questa è una novità ma chi lo vuole ha già l’opportunità di studiare". Nel progetto saranno coinvolte venti persone. Studiare in una vera aula universitaria lasciandosi alle spalle le sbarre del carcere. È l’opportunità che avranno una ventina di detenuti del penitenziario della Dozza di Bologna. Ad annunciarlo Claudia Clementi, direttrice della casa circondariale sotto le Due torri, durante l’udienza conoscitiva tenutasi in Comune sul progetto dei lavori socialmente utili rivolto ai detenuti. "Questa è una novità - ha detto Clementi - ma con l’Alma Mater esiste da tempo un protocollo in cui si dà la possibilità a chi lo volesse di poter studiare. Quest’anno abbiamo deciso di fare un passo in più. Riuscendo a predisporre un’aula all’interno del polo universitario in cui i detenuti potranno seguire le lezioni". Sono molti i progetti che la casa circondariale di Bologna, attraverso una collaborazione con associazioni, cooperative e aziende del territorio, ha messo in piedi negli anni. "Il fine è sempre lo stesso - ha continuato la direttrice - permettere ai detenuti di ricostruirsi una vita". Si va dall’officina meccanica Fare impresa in Dozza (quella raccontata in "Menomale è lunedì", il film di Filippo Vendemmiati presentato in anteprima al Festival del cinema di Roma) fino alla sartoria Gomito a Gomito passando per lo sport con la nascita della neonata squadra di rugby Giallo Dozza e il laboratorio Raee di recupero dei rifiuti elettronici. A essere coinvolti, all’interno dei diversi progetti, sono quei detenuti che stanno finendo di scontare la pena. Su una popolazione carceraria che si aggira attorno alle 650-700 persone sono in tutto 75 quelle che a oggi hanno iniziato questi percorsi. L’incontro in commissione è stato anche l’occasione per fare il punto sulla possibilità di un maggiore coinvolgimento delle istituzioni pubbliche in percorsi di reinserimento, attraverso i lavori socialmente utili. "Bisogna avviare dei progetti concreti e portarli a compimento - ha detto Pietro Buffa, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna - così come abbiamo fatto per il progetto Acero". Un’iniziativa partita un anno fa e che ha coinvolto, la Regione, l’amministrazione penitenziaria e associazioni e imprese del privato sociale. In un anno sono stati 150 i detenuti che hanno usufruito di un percorso di educazione e formazione lavoro teso al reinserimento. "Dalla riunione di oggi è venuta fuori la disponibilità del Comune ad avviare un dialogo - ha concluso Buffa - e la necessità di informare associazioni e altri enti pubblici sulla possibilità di realizzare dei progetti concreti". Lecce: l’ultimo sogno di Traps... detenuti per una sera diventano attori fuori dal carcere di Paola Teresa Grassi www.klpteatro.it, 6 novembre 2014 L’avevamo incontrata all’indomani di "Io non sopporto niente e nessuno, nemmeno Spoon River". Era il 2012. Sono passati poco più di due anni e torniamo a parlare di "Io ci provo", il percorso teatrale laboratoriale coordinato da Paola Leone e rivolto ai detenuti della sezione maschile della Casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce. In realtà quello che allora era solo progettualità è andato oltre il termine della laboratorialità, fino a diventare una vera e propria compagnia di attori: "Il lavoro non si è mai fermato - spiega la regista - Ho continuato a costruire intorno a noi fiducia e relazione, non solo con i detenuti, ma anche con la direzione, la polizia penitenziaria e la popolazione fuori". Le ore da dedicare al percorso sono aumentate, fino a dar vita ad una vera e propria consuetudine nel tempo del carcere: i momenti per le prove ma anche la trasformazione del personale interno, che da sonnecchiante spettatore è diventato vero e proprio pubblico. Moltissimi anche coloro che hanno deciso di andare oltre le mura, in questi anni, per assistere alle rappresentazioni e a "Ubu Re", il cortometraggio di Mattia Epifani presentato l’anno scorso alle Manifatture Knos di Lecce. La prossimità con l’evoluzione di questo progetto non può non attestare l’entusiasmo dei suoi protagonisti (fra cui anche l’aiuto regista Antonio Miccoli). "L’entusiasmo mi piace - spiega la coordinatrice - ma ho visto tante persone spegnersi subito, e quindi preferisco dire che semplicemente amo questo lavoro perché non posso farne a meno. È il privilegio della scoperta. La condivisione della lettura di un testo nuovo con altre 20 persone e il tentativo di raccontarlo senza avere un modello in testa. E questo per me è bellissimo". L’ultimo testo esplorato è "La panne" di Friedrich Dürrenmatt, modellato insieme fino a diventare "L’ultima cena di Alfredo Traps…". "Un testo che ho incontrato per caso ma che ho deciso di proporre perché sembrava molto adatto a mettere in scena il diritto e la giustizia. Un diritto e una giustizia molto diversi da quelli raccontati dal diritto e dalle istituzioni… Ma il teatro e l’arte hanno questa funzione: rimescolare le carte e riattivare possibilità rimosse permettendo di vedere il possibile nell’impossibile". Ecco dunque come nasce l’osservazione di quella che forse è una "panne" nel funzionamento di quel meccanismo di riflessione sul momento presente che è il pensiero critico. La dimensione del paradosso quasi surreale esplode molto bene nella resa di questo copione presentato in quattro repliche lo scorso aprile in carcere, ma riallestito per una sera "oltre le mura" al Teatro Paisiello di Lecce (nuova replica il 18 novembre). Una conquista importante, ma anche un contenitore adattissimo (il piccolo elegante teatro abitato per l’occasione da una folla di agenti) ad arricchire in maniera quasi meta-teatrale l’originaria drammaturgia. L’intelligente ed interessante meccanismo infatti offre allo spettatore due diverse prospettive che sono anche due diverse tonalità emotive: da una parte la rappresentazione, che porta dentro alla narrazione in maniera quasi sognante, complice la bravura di chi la agisce, facendo dimenticare d’essere di fronte a una compagnia di ex imputati ora detenuti - quello stare "comodi" nella modalità teatro che molto assomiglia a quell’essere "come in una favola" che il protagonista (interpretato da un attore-detenuto) afferma ad un certo punto; d’altra parte il testo continuamente ricorda l’identità di imputato (potenzialmente detenuto) di colui che agisce la rappresentazione (l’attore-detenuto) e che inevitabilmente ridesta da quella illusione momentanea - il microfono da tribunale, la tattica processuale, "Ma io non ho commesso nessun reato!". "Un reato lo si trova sempre…"). L’illusoria sensazione di sicurezza, quel ‘sentirsi al sicurò di fronte alla giustizia (incarnato dagli affabili ex giudici che mettono in scena i loro antichi mestieri), viene riprodotta in scena e coinvolge l’osservatore su questo duplice registro emotivo. Una dinamica che molto bene conosce l’imputato-detenuto qui (anche) attore. Chissà che prima o poi non arrivi una tournée e, magari, anche un teatro nuovo all’interno del carcere dove poter provare ogni giorno, capace di diventare ambiente permanente della formazione oltre che occasione di lavoro concreta per chi dentro abita. "Un teatro aperto alla città". Napoli: tournée nelle carceri per il cantante Luca Pugliese, il 18 tappa a Secondigliano Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2014 Con classici napoletani e cantautorali, l’artista campano suona a sostegno dei diritti detenuti e accende i riflettori sul problema del sovraffollamento. "Organizzo una tournée a mie spese nelle carceri italiane". Dopo l’esibizione - nel gennaio 2013 - nel carcere di Secondigliano e altre nove tappe, in altri istituti penitenziari (Rebibbia, Regina Coeli, Opera, San Vittore, Poggioreale, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Ariano Irpino) continua il tour carcerario di Luca Pugliese. L’iniziativa solidale del cantautore campano a sostegno dei diritti detenuti che accende i riflettori soprattutto sul problema del sovraffollamento carcerario è diventata una vera e propria missione. Che ha un titolo "Un’ora d’aria colorata" che punta il dito sullo stato dei nostri istituti penitenziari e chiama provocatoriamente in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. Prossime tappe il 12 e il 18 novembre, di nuovo Regina Coeli, a Roma, e Secondigliano con un rocambolesco Luca Pugliese one man band: chitarra, voce e percussioni a pedale, tra le note dell’ultimo album, Déjà vu, pubblicato con il progetto Fluido Ligneo e che presenta classici della tradizione partenopea, perle del patrimonio cantautorale italiano e incursioni nel variegatissimo mondo latino, dal samba brasiliano alla musica cilena. "La dignità dell’uomo è un diritto universale che non ammette deroghe, e l’arte è un diritto di tutti" dichiara Pugliese. "La musica è come aria dipinta, aria colorata. Portarla in luoghi dove tutto è troppo buio e troppo stretto mi ha reso vivo e mi ha fatto sentire utile al mondo. Sono più che mai convinto che se vogliamo migliorare il nostro paese dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile. L’effetto ristoratore e "liberatorio" che l’arte riesce ad avere in luoghi come il carcere, insegna che spesso basta poco per fare del bene a chi sta male. Io ho messo gratuitamente a disposizione una mia competenza, e se tutti dessero gratuitamente qualcosa per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con se stesso". Droghe: Sottosegretario Esteri Della Vedova; viva l’America… che legalizza la marijuana Dire, 6 novembre 2014 "Dopo Colorado e Washington altri due Stati Usa, Alaska e Oregon, hanno deciso con referendum popolare di legalizzare la marijuana. Così anche a Washington D.C. In Florida la maggioranza dei votanti (57%) ha votato sì alla legalizzazione dell’uso medico della marijuana, ma la proposta è stata respinta perchè il quorum richiesto era del 60%. Dopo anni di tetragona e infruttuosa politica proibizionista, in America sta dunque iniziando una vera e propria riforma antiproibizionista sulla cannabis, basata su un’analisi pragmatica del rapporto costi benefici". Lo scrive su Facebook il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. "La legalizzazione consente di rendere più controllabile il mercato in termini sanitari, sottrae profitti alla criminalità, permette alle forze di polizia di concentrarsi su crimini e traffici socialmente più gravi e pericolosi, contribuisce ad attenuare il sovraffollamento delle carceri e decongestiona i tribunali. A questo - prosegue Della Vedova - si aggiungono significative entrate fiscali e la creazione di migliaia di posti di lavoro regolari. L’America aveva sperimentato nel secolo scorso i danni prodotti dal proibizionismo sull’alcol e aveva fatto bruscamente marcia indietro: oggi comincia a scegliere in modo significativo di abbandonare il non più fortunato proibizionismo sulla cannabis, aprendo una strada che - sottolinea il sottosegretario agli Esteri - andrebbe percorsa anche da noi. Come per altri consumi nocivi quali alcol e tabacco, la scelta della legalizzazione, del controllo sanitario, delle campagne di dissuasione e della tassazione rende il consumo di cannabis socialmente meno pericoloso di quanto sia oggi, appannaggio com’è di un capillare mercato criminale e privo di qualsiasi controllo. Decenni di fallimenti spingono ad abbandonare l’ideologia e scegliere la concretezza. Viva l’America!", conclude Della Vedova. Stati Uniti: dopo 13 anni di prigionia a Guantánamo rimpatriato un detenuto kuwaitiano Tm News, 6 novembre 2014 Uno degli ultimi due detenuti kuwaitiani di Guantánamo è stato rimpatriato oggi all’alba, dopo 13 anni di prigionia nel carcere americano a Cuba. Lo si è appreso da un portavoce del Pentagono. La liberazione di Fawzi al-Odah, 37 anni, porta a 148 il numero dei prigionieri ancora presenti nel controverso carcere americano, che il presidente Barack Obama ha promesso di chiudere. Il rimpatrio è avvenuto a bordo di un aereo del governo kuwaitiano. Corea Nord: dai lager alle miniere di carbone, detenuti uccisi dalle condizioni disumane www.ilsussidiario.net, 6 novembre 2014 Come schiavi, presi e spostati dai lager dove già vivevano in condizioni disumane, alle miniere di carbone. Sono molti detenuti maschi del regime di Kim Jong-un, trasferiti di forza nelle miniere di carbone del nord del paese, tra l’altro da anni controllate dalla Cina che adesso potrebbe anche reagire. Il regime nord coreano soffre l’ennesima crisi energetica con la produzione in calo sistematico e allora si è deciso di sfruttare la manodopera gratuita dei prigionieri politici. Che secondo quanto trapela dalla cortina di ferro del paese, muoiono come mosche per le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare. "Non hanno luci di sicurezza e sono costretti a spingere carrelli da una tonnellata in corridoi sotterranei lunghi centinaia di metri. Hanno soltanto lampade ad acetilene, molto pericolose. Mangiano rimasugli di pannocchie e riso, collassano per problemi respiratori, per stanchezza e per fame" riporta l’agenzia Asianews. Manca poi completamente un sistema di ventilazione, requisito indispensabile in ogni miniera. In molti svengono e quando si rimettono vengono di nuovo mandati sottoterra, chi cerca di opporsi viene picchiato a sangue dagli altri detenuti su ordine dei carcerieri. Come detto, questi territori sono da anni in mano alla Cina come da accordi con il regime, ma adesso Kim Jon-un ordinando l’apertura di nuove miniere nelle stesse zone sta cercando di sfidare Pechino stessa. Birmania: segni tortura su giornalista morto in detenzione, la denuncia della moglie Ansa, 6 novembre 2014 Il corpo di un giornalista birmano freelance ucciso lo scorso 4 ottobre mentre era detenuto dall’esercito è stato riesumato ieri: dalle prime indicazioni emergono segni di tortura che contrastano con la versione della morte fornita dai militari. Lo ha denunciato la moglie del reporter. Ko Par Gyi era stato arrestato a settembre mentre era impegnato nella copertura degli scontri tra l’esercito e i ribelli Karen vicino al confine con la Tailandia. I militari hanno ammesso di averlo ucciso con un colpo d’arma da fuoco, dopo che il reporter - nella loro ricostruzione - avrebbe cercato di impossessarsi dell’arma di un soldato nel tentativo di scappare, e accusano il giornalista di aver collaborato con i ribelli come "capitano delle comunicazioni". La moglie del reporter, Ma Thandar, ha riportato che il cadavere mostra i segni di una frattura al cranio, alla mascella e forse anche alle costole, il che farebbe pensare a dei pestaggi subiti in detenzione. Il corpo è stato riesumato alla presenza di attivisti, poliziotti e rappresentanti delle autorità. Il caso è stato denunciato da molti attivisti come l’ennesimo segnale di una progressiva erosione delle aperture nella "nuova Birmania" seguita alla dittatura militare, tra cui una maggiore libertà di stampa.