La menzogna è come il crimine, non paga mai di Marcello (Casa circondariale di Venezia, redazione de "L’Impronta") Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2014 Mia figlia: "Quand’è che ritorni a casa?". Rispondo: "Presto! Devi portare ancora pazienza, ok?". "Va bene, però mi devi promettere che una volta tornato a casa non ti allontanerai più da me e che non andrai più a lavorare così distante". Rispondo: "Non te lo prometto…te lo giuro! Sai devo dirti una cosa, è vero che in questi due anni ho lavorato, ma non è vero che la sera sono troppo stanco per tornare a casa, la verità è che sono in una prigione perché il tuo papà ha sbagliato." È così che mi sono espresso durante l’ultimo incontro avuto qualche giorno fa fuori dalla Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore qui a Venezia durante un incontro con gli studenti. Sono in regime di semilibertà da qualche mese, mia madre quando può viene a farmi visita con mia figlia, approfitto di quel poco lasco di tempo che ho per rientrare dal posto di lavoro in carcere, per stare insieme a loro. Queste visite sono brevi, ma io preferisco così. Meglio pochi minuti trascorsi all’aperto in libertà e a bordo di un autobus o di un vaporetto piuttosto che avere colloqui in carcere, all’interno di una sala blindata. Ho trovato il coraggio di dire come stanno veramente le cose. Può sembrare facile dire alla propria figlia di cinque anni la verità, ma non è affatto così; mi sono preparato mentalmente per cercare le parole giuste e adeguate per far capire a mia figlia questa situazione familiare anomala e complessa. Mentre spiego alla piccola che il papà in passato ha sbagliato e che ora sta pagando per gli errori commessi, mia madre con gli occhi fuori dalle orbite mi fa cenno di stare zitto, ma non le ho dato retta perché credo che spetti a me decidere cosa dire e come crescere mia figlia. Ci sono un sacco di domande che la piccola si pone spesso, non le si può rispondere sempre: "Sei troppo piccola per capire, quando sarai grande...". Nell’arco di due anni, mia figlia ha subito il trauma del nostro distacco, dovuto alla carcerazione e, come se non bastasse, ora provo dolore per l’abbandono da parte di sua madre; se non ci fossero i nonni a prendersi cura di lei, di sicuro ora si ritroverebbe rinchiusa in qualche istituto. "Perché la mamma non la vedo mai? Perché si comporta così?" Ci sono domande ancora più pesanti di queste due che mia figlia mi rivolge, sono le stesse domande che io stesso mi sono posto un sacco di volte standomene rinchiuso in cella. Ora conosco le risposte a tali domande, nel momento in cui sono entrato in carcere, mia moglie ha mollato tutto e tutti. Questa realtà è troppo dura da accettare per me, figuriamoci per mia figlia. Ho scelto di dire la verità a mia figlia per diversi motivi: l’ho fatto per mettere a tacere la mia coscienza, non sono un bugiardo e non voglio diventarlo proprio ora, specialmente nei confronti della persona per me più cara al mondo. Detesto i bugiardi, forse perché spesso le persone cui tenevo mi hanno mentito e continuano a farlo, mi credono ingenuo o stupido, mi spiace vedere che queste persone non hanno capito a fondo che persona sono realmente. Dove c’è menzogna non c’è spazio per amore, affetto, onestà, fiducia e rispetto. Come potrò pretendere che un domani mia figlia possa fidarsi ed essere sincera nei miei confronti se io per primo mento? Prima o poi la verità viene sempre a galla, prima che qualche mala lingua adulta pronunci la frase "Tuo padre è un galeotto", preferisco essere sincero evitando e prevenendo così eventuali possibili traumi e delusioni future. Nel mio percorso di vita ho commesso molti errori, sono stato l’artefice di molti dei miei fallimenti, ho paura di fallire anche come genitore, non me lo perdonerei mai, per questo ho deciso di impegnarmi al massimo per costruire un rapporto leale e sincero con mia figlia. Lettere di circostanza: la corrispondenza epistolare con i tuoi affetti di Ermanno (Casa circondariale di Venezia, redazione de "L’Impronta") Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2014 "Ciao papy come stai???". Quasi tutte le lettere che ricevo dai miei figli, dal 07 febbraio 2013, data del mio arresto e permanenza in carcere, iniziano così, con la domanda retorica alla quale altrettanto retoricamente rispondo, quasi sempre nello stesso modo: "sì tesoro mio, io sto bene tutto tranquillo e a posto sto solo aspettando". Quando sei qui, in questo mondo parallelo che è il carcere, le domande e le risposte sono canonizzate, si cerca di non far trapelare alle persone a te care le tue sofferenze, le emozioni ed umiliazioni che subisci. Cerchi di scrivere sforzandoti di dire che tutto fila liscio, ma immancabilmente traspare dalla lettura completa della lettera il tuo stato di disagio, e poi, se hai la fortuna di avere i colloqui, il palco costruito e la messinscena messa in atto cadono immediatamente dinnanzi allo sguardo attento e scrutatore di chi ti conosce bene, poiché solo nel guardarti negli occhi capisce il tuo stato di disagio e di sofferenza. Le 12.30, è il momento della consegna della posta, è il momento più bello e crudele della giornata poiché spero sino all’ultimo di aver ricevuto la missiva tanto attesa e, se l’agente viene davanti alla mia cella per un momento mi dimentico di tutto e quando apro la busta per i controlli di routine mi si apre il cuore, viceversa se l’agente si ferma davanti alla cella precedente o vicina alla mia il cuore mi si ferma e cado in una tristezza difficile da spiegare, ma facile da comprendere da tutte quelle persone che, come me, son qui rinchiuse. Apro la busta, respiro un’aria di casa, di amore, di affetto. Poi mi dedico alla lettura cercando un po’ di privacy, immancabilmente mi isolo da tutto e da tutti per il tempo necessario alla lettura di ciò che i miei cari mi hanno scritto. Nello scorrere la lettera spero sempre che non ci siano cattive notizie, solo nel guardare una persona intenta nella lettura, della preziosa missiva ricevuta, puoi capire le sue emozioni, i suoi pensieri, la sua felicità mista a tristezza. Oggi, in un mondo in cui l’inchiostro della penna ha lasciato spazio al più comodo e veloce "messaggino" inviato dal telefonino, perlopiù con geroglifici scritti con rapidità e maestria, ho riscoperto il vero valore della scrittura, poiché dal carcere per poter comunicare coi tuoi cari esiste solo la possibilità della scrittura epistolare e, in alcuni casi, tramite telefonata. Così, aprendo la lettera e leggendola, mi immergo nel mio mondo, dal sapore un po’ antico, ma pieno di ricordi indelebili e affetti sinceri. Mi trovo a leggere ciò che il mio affetto più caro mi scrive: "Ciao papy come stai?? Siamo preoccupati per te, ti abbiamo visto male l’ultima volta e non possiamo pensare che oltre al dolore della lontananza forzata tu possa vivere in queste condizioni di privazioni e sofferenze, perché è successo tutto questo?? Perché non ti fanno tornare a casa???". E così, mentre scorre la lettura, penso già alle risposte e, in alcuni casi, mi devo ingegnare per poter rispondere qualcosa di credibile, perché io stesso non ho risposte da darmi. La lettera continua: "Sei il miglior papy, il più bravo, il più…, ma sinceramente non riesco a capire il perché delle tue assenze, di quante volte hai promesso di venire a trovarci e poi all’ultimo, per impegni di lavoro improvvisi, sei venuto meno alla promessa data. Ora ti dico una cosa forte, spero tu non t’arrabbi e mi capisca. All’inizio il fatto che tu fossi in prigione mi ha dato la certezza che almeno potevo decidere io quando venire a vederti, sicura di trovarti, e ciò mi ha dato un senso di tranquillità, ma poi il primo giorno che son venuta ho capito che era solo un mio forte egoismo e all’uscita ho pianto pensando a dov’eri e a come soffrivi in silenzio. Tu mi dici sempre che stai bene e che devo avere forza e coraggio che tutto si sistemerà, di aver fiducia nella giustizia. Tutte frasi di circostanza, ma io e mio fratello abbiamo bisogno, ora più che mai, della tua presenza, ma non forzata in quel luogo di sofferenza, ma qui libero e vicino a noi. Promettimi che non mi dirai più le solite cose che tutto va bene ecc... sono cazzate, io voglio sapere la verità sapere veramente come stai. Non son più una bambina, ma un’adulta e come tale mi devi trattare. Sì ho ancora tanto bisogno di te, ma ti voglio vicino a me e sincero, basta bugie, mezze verità, sii te stesso e parla tranquillamente perché noi siamo i tuoi figli e ti saremo sempre e comunque vicini e presenti nel bene e nel male." A queste parole non ci son tante risposte, sono combattuto tra il dire ciò che provo veramente e realisticamente, o non dirlo per non far star male chi mi è vicino, che soffre con me e per me per la situazione che sto passando e che vivo, consapevole del fatto che oltre al dolore della pena che sto scontando, ho involontariamente trasmesso un dolore enorme a chi mi sta vicino, una pena accessoria ed invisibile ma ben marcata nell’animo, la mia forzata assenza. E così, tra i miei conflitti interni e i miei dubbi, prendo la penna e inizio a rispondere, cercando di camuffare la realtà per non far soffrire di più chi mi sta vicino, sperando che le mie mezze verità non vengano subito scoperte. "Ciao ragazzi qui, nonostante la solitudine e la carcerazione, sto bene. Vi ringrazio per le vostre belle parole e le lettere che mi avete inviato e speriamo che presto la situazione si risolva intanto aspettiamo fiduciosi… spero di rivedervi presto." Sì aspetto fiducioso. Io purtroppo, come tutti gli altri detenuti devo, anzi posso solo aspettare fiducioso che qualcosa accada, non posso fare altro che aspettare e sperare che domani sia un giorno migliore, magari se sono fortunato ricevo una lettera che mi può cambiare la giornata rendendomi felice per la bella missiva, oppure se sono più fortunato ricevere una visita nei giorni stabiliti per i colloqui e così poter incontrare i miei affetti e abbracciarli vivendo intensamente questo magico momento dell’incontro. Giustizia: il gran business del vitto in carcere di Gianluca Di Feo L’Espresso, 5 novembre 2014 Per il cibo di ogni detenuto si spendono 3,90 euro al giorno: una somma che deve garantire tre pasti quotidiani. L’alimentazione dei carcerati costerà 390 milioni in quattro anni. Ma gli appalti top secret non tengono conto della diminuzione dei reclusi. Ecco il dossier della Corte dei Conti. Lo Stato spende al massimo tre euro e 90 centesimi al giorno per i pasti dei detenuti. Una cifra che non lascia spazio alle illusioni sul vitto che l’amministrazione garantisce ai reclusi nelle prigioni italiane. Eppure alla luce del numero si persone custodite nei penitenziari, l’importo complessivo diventa impressionante: nei quattro anni dal luglio 2013 allo stesso mese del 2017 il costo sarà di 390 milioni di euro. A rivelarlo è la Corte dei Conti nel dossier appena reso noto sui contratti segretati. Sì, perché anche gli appalti per il cibo dei detenuti sono top secret e quindi seguono procedure diverse rispetto alle gare pubbliche. In realtà, grazie alla competizione al ribasso tra fornitori, il valore di quello che arriva nei piatti ogni giorno è addirittura inferiore: si va dai 3 euro e 77 centesimi del Piemonte ai 3,60 della Liguria ai 3,58 di Padova, il minimo assoluto. Unica eccezione la Gorgona, l’isola toscana dove per i problemi di rifornimento via mare l’amministrazione è costretta ad aumentare il budget quotidiano fino a 4 euro e mezzo. La media nazionale si attesta sui 3,70 euro quotidiani, che devono coprire le necessità alimentari dall’alba al tramonto. Fin troppo facile fare un confronto con i prezzi correnti. Nel centro di Milano con la stessa somma si riesce a fare un’abbondante colazione del mattino: cappuccino e due brioche, lisce perché la farcitura farebbe saltare il preventivo. A Roma ci si potrebbe saziare con tre tramezzini. I menù promozionali "salva euro" di McDonald’s offrono un pasto di gran lunga più sostanzioso: si possono acquistare due cheese burger e una porzione di patatine fritte, anche se una dieta del genere ripetuta per anni potrebbe avere effetti deleteri per il fisico. Forse uno dei tanti show televisivi dedicati alle competizioni tra chef potrebbe lanciare una puntata speciale: riuscire con 3,70 euro a riempire i piatti per un’intera giornata. Nessun detenuto riesce a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Ed ecco che ricorrono all’extra vitto: alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti, con prezzi in genere gonfiati. Un ottimo business per le aziende che li gestiscono e che sono le stesse incaricate della ristorazione: un meccanismo che sembra in qualche modo incentivare il risparmio sulle porzioni ufficiali, per incentivare lo shopping parallelo. Un’altra riflessione nasce dal confronto tra la spesa per il cibo e il costo complessivo a carico dello Stato per ogni giorno di detenzione: i dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria sostengono che si tratti di 124 euro quotidiani. Tolti i pasti, si tratta di 121 euro, destinati alle strutture di custodia, al personale di vigilanza, all’assistenza medica e alla burocrazia e alla rieducazione. Una voce, quest’ultima, che resta trascurata nonostante la nostra Costituzione la indichi come la funzione principale del carcere. L’alimentazione di un’omicida condannato a 30 anni viene a costare 40.515 euro, mentre la collettività spenderà un milione e 325 mila euro per gli altri costi della pena che deve scontare: due numeri che statisticamente dimostrano l’inefficienza del nostro sistema. Le tabelle della magistratura contabile hanno però alcuni aspetti singolari. Uno su tutti: il numero dei reclusi viene considerato stabile. Nel secondo semestre 2013 vengono calcolati 12 milioni di giorni/presenza il che equivale a circa 65 mila detenuti da sfamare. Lo stesso accade per gli anni successivi, incluso il 2017. Ma oggi in cella ci sono "soltanto" 54 mila persone, seppure richiuse negli spazi previsti per 49 mila. E la differenza? Dove vanno a finire i pasti già pagati dallo Stato? Certo, gli appalti vengono programmati sul lungo termine e non si può improvvisare una ristorazione di massa. Ma le variazioni nella popolazione carceraria sono sempre state sensibili. Negli ultimi mesi le prigioni si sono svuotate parecchio: da aprile a ottobre si contano cinquemila detenuti in meno, per effetto della sentenza della Consulta sulla legge Giovanardi-Fini che ha fatto tornare in libertà tanti piccoli spacciatori e per una intensificazione delle misure alternative al carcere. Anche nel dicembre 2013, all’inizio dei contratti firmati del ministero della Giustizia, i reclusi erano 62.500, con una situazione di sovraffollamento pesantissima: 2.500 in meno dal numero indicato negli accordi per le forniture. Se la tendenza rimanesse invariata, per i prossimi due anni lo Stato continuerebbe a garantire pasti a 11 mila detenuti fantasma: quasi 30 milioni di euro buttati via. La Corte dei Conti scrive che i Provveditorati, da cui dipendono gli istituti di pena di una regione, possono stipulare uno o più contratti successivi, nell’ambito dei quattro anni, "tenendo conto delle variazioni medie della popolazione carceraria". C’è da augurarsi che lo facciano. La segretezza imposta su queste forniture impedisce il controllo, affidato alla sola magistratura contabile. Una riservatezza che nasce "dall’incidenza (della ristorazione ndr) sull’intera attività svolta all’interno dei penitenziari. Tanto da potere generare ripercussioni negative sull’ordine e la sicurezza, sia in ragione della particolarità dei luoghi (locali posti all’interno della struttura penitenziaria) dove trova esecuzione l’attività, sia dei destinatari del servizio". La necessità di gestire gli appalti nella massima sicurezza è indubbia, con il controllo sul personale addetto alle cucine per "limitare il veicolamento di oggetti illeciti o non consentiti tra la popolazione detenuta nonché il rischio di collegamenti con la criminalità organizzata". Ma siamo certi che tutti i 205 istituti penitenziari debbano essere sottoposti a un regime così rigido? Non è possibile che in una parte di essi, dove si trovano persone meno "pericolose" almeno le forniture di pasti possano essere gestite con più trasparenza? Giustizia: il ministro Orlando; chiusura degli Opg, stavolta le Regioni non avranno alibi di Errico Novi Il Garantista, 5 novembre 2014 Il ministro Orlando: pronto a commissariare i governatori che non riconvertono le strutture entro marzo 2015. Degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari si sa poco. Sono una materia, per così dire, rimossa. Seguono un po’ il destino del disagio mentale, in genere ricacciato il più lontano possibile dal consesso delle persone "normali". Ci si accorge dell’esistenza di queste strutture solo quando ridiventano un problema da sciogliere. Adesso sarebbe arrivato il momento. Lo prevede un decreto del marzo scorso, che fissa al 15 marzo del prossimo anno la data in cui gli "Opg" dovranno essere definitivamente riconvertiti, e in ogni caso dismessi rispetto alla loro forma attuale. Alcune delle cinque regioni interessate a questo programma sono però in ritardo. Il che ha spinto i ministri della Salute, Beatrice Lorenzin. e della Giustizia, Andrea Orlando, a presentare una relazione che loro stessi considerano "provocatoria". Innanzitutto perché vi si legge come sia del tutto "irrealistico" ritenere che per il 15 marzo 2015 il programma di riconversione potrà essere interamente realizzato. "Sì, una provocazione", spiega al Garantista il guardasigilli Orlando. Consapevole di come la battaglia non assicuri grandi ritorni di popolarità: se non si vince innesca la retorica dell’eterno ritardo; se uno la porta a compimento, "non è che ti facciano i caroselli, considerati i pregiudizi che ancora incombono su questi temi, ammette il ministro della Giustizia. "Ma è una misura di civiltà che va in ogni caso realizzata". Orlando insomma non desiste. E fa notare come nelle pieghe del decreto ci fosse già un "contro-piano", predisposto proprio per rimediare a possibili inadempienze delle amministrazioni regionali. "In quel provvedimento c’è una serie di verifiche puntuali da compiere per portare a termine in un modo e nell’altro la riconversione degli ospedali. Prima dì tutto un censimento esatto dei malati ancora in trattamento. E proprio domani (oggi per chi legge, ndr) attendiamo i primi dati dai magistrati di sorveglianza. Dobbiamo innanzitutto sapere quante persone ancora si trovano nelle strutture, considerato che nel decreto sono previste misure per accelerare le dimissioni". A cominciare dalla norma che ha equiparato il limite temporale massimo di degenza alla pena massima prevista per il reato commesso dall’infermo di mente. "Entro la fine di questa settimana conosceremo dunque il numero esatto degli internati rilasciati e di quelli da inserire nel nuovo sistema, basto sulle Rems, ovvero residenze per l’esecuzione della misura". C’è un secondo aspetto, segnalato anche nella relazione inviata alle Camere: "Con quell’alert sul rischio di non poter rispettare la scadenza abbiamo anche cercato di provocare le Regioni. Sono convinto che qualche effetto lo abbiamo già avuto. Anche perché, e qui vengo al punto chiave, l’idea del ministro della Salute e del sottoscritto non è quella di prendere atto, alzare bandiera bianca e dare una proroga di altri 6 mesi. Non se ne parla. Stavolta commissariamo le Regioni inadempienti. Non mi pare una cosa da poco". No, in effetti non lo è. Soprattutto perché, con quello che il guardasigilli definisce "intervento di carattere sostitutivo", il governo si assumerebbe tutte le responsabilità. E anche perché lo farebbe "in piena campagna elettorale" per le Regionali, Vuol dire due cose: che ai governatori potrebbe convenire affrettarsi e completare le Rems, in modo da evitare di essere esautorati mentre chiedono la rielezione; significa anche mettere in conto un conflitto, seppure limitato, con Regioni dov’è il Pd che governa. Tra i punti da accertare c’è quello della formazione specialistica. Se gli internati non vanno più sottoposti a un regime spesso criticato e basato sulla mera "contenzione", il personale dovrà saper attuare protocolli diversi. E dei 180 milioni già stanziati, una parte dovrebbe essere stata utilizzata proprio per addestrare gli infermieri. O è rimasto tutto sulla carta? "Un momento: c’è da ritenere che non ci sia bisogno di commissariare per questo, Le Rems sono un fatto definito da tempo, non è che si deve ricominciare da capo, parliamo di un lavoro che dovrebbe già essere stato compiuto. Se qualcuno non avesse portato a termine la formazione", dice Orlando, "adotteremmo le pratiche delle amministrazioni più solerti", Si parla, è bene ricordarlo, non di reclusi ma di "malati". Trattenuti non in base alla "gravità" del reato commesso ma per la loro possibile "pericolosità sociale". Aspetto di cui si terrà conto nel definire quanti internati dovranno necessariamente essere destinati alle Rems e quanti potranno invece passare a trattamenti diversi. Su questi numeri Orlando non azzarda previsioni: "L’importante è essere determinati, spingere le Regioni e in ogni caso non alzare bandiera bianca". Se davvero arrivassero i commissariamenti, Orlando e Lorenzin non passerebbero per sconfitti. "No, ma non è che la fermezza su questa vicenda assicuri chissà che popolarità. I pregiudizi sono tantissimi, non ci faranno i caroselli", dice il guardasigilli, "ma è una misura di civiltà e va realizzata. Non è il caso di continuare a produrre leggi che hanno piuttosto le sembianze di grida manzoniane, destinate a non realizzarsi mai". Giustizia: Sappe; nelle carceri 60-80% dei detenuti ha patologie, 1 su 2 malattie infettive Asca, 5 novembre 2014 Un detenuto calabrese 56enne, V. S. ristretto per il reato di omicidio e condannato ad una pena di 30 anni, è morto ieri sera per infarto causato da una embolia nel carcere toscano di Porto Azzurro. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Il detenuto aveva un fine pena nel 2018 e fruiva regolarmente di permessi premio: avrebbe dovuto fruirne uno proprio il prossimo venerdì. È deceduto dopo aver accusato alcuni malori e problemi di respirazione", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Nonostante i tempestivi interventi del personale di Polizia Penitenziaria, di quello medico e paramedico non c’è stato purtroppo nulla da fare". "Una notizia triste" commenta Capece, che ricorda come "i dati diffusi recentemente dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria ci dicono che il 60-80% dei detenuti è affetto da una patologia. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% è tossicodipendente. Solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv. Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate dalla Simspe vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le patologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi colpisce il 22% dei detenuti, l’Hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%". Giustizia: alla Polizia un prontuario sull’uso della forza, per evitare nuovi casi Cucchi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 novembre 2014 Nelle ultime direttive agli agenti l’accento sulla soglia del dolore. Manifestazioni di piazza, servizi di controllo del territorio, gestione dei migranti, violenza su donne e minori: le nuove "regole d’ingaggio" per i poliziotti fissano i comportamenti da tenere in ogni situazione. E chiariscono in maniera netta le modalità di "intervento su persone che sono in stato di alterazione psicofisica" provocata da alcol o droghe. Perché mai più debba accadere un caso come quello di Federico Aldrovandi, morto per mano degli agenti che lo avevano fermato mentre tornava a casa ubriaco. Mai più possa ripetersi un caso come quello di Stefano Cucchi, morto dopo essere stato arrestato e "pestato", come hanno riconosciuto i giudici pur non trovando le prove per condannare gli imputati. La polemica per la gestione della piazza e di quei casi singoli finiti poi in tragedia non si placa e per questo i vertici del Dipartimento della sicurezza hanno ritenuto necessario accelerare l’entrata in vigore delle nuove norme. Anche in vista di un autunno che si preannuncia ricco di appuntamenti organizzati per protestare contro la politica del governo e più in generale per sollecitare interventi di sostegno per il mantenimento dei posti di lavoro. Il regolamento del prefetto Alessandro Pansa parte da un principio generale, troppe volte dimenticato: "L’uso della forza deve essere sempre proporzionato al grado di resistenza e violenza del soggetto interessato e deve cessare non appena lo stesso abbia desistito". Non solo: "La fase di coazione fisica deve essere limitata al tempo strettamente necessario perché il soggetto alterato può presentare una soglia del dolore molto superiore alla media". Il divieto di colpi al viso La direttiva fissa i vari stadi da seguire e dunque sottolinea come "non devono essere inferti colpi sul viso o in parti vitali del corpo e non deve essere compromessa o minacciata la possibilità dell’interessato di respirare". Viene ribadito che "è vietata ogni forma di accanimento nell’utilizzo dei mezzi di coazione fisica" e che "in caso di soggetti alterati l’approccio deve essere maggiormente caratterizzato dalla gradualità dell’intervento privilegiando, ove possibile, l’azione di dialogo e persuasione". Manette e sfollagente Indispensabile, proprio per evitare eccessi e abusi, è ritenuto il corretto uso dei dispositivi e degli equipaggiamenti per i poliziotti in servizio di ordine pubblico. Per questo si specifica che "si può procedere all’ammanettamento quando è strettamente necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza o per impedire la consumazione dei reati", ma soprattutto "quando è richiesto dalla pericolosità del soggetto, dal pericolo di fuga o da circostanze ambientali che ne rendono difficile l’esecuzione, sempre nel rispetto della dignità e della riservatezza della persona". Ancor più vincolanti sono le nuove disposizioni riguardo l’uso dello sfollagente che "deve essere utilizzato come strumento di difesa-offesa e non deve essere considerato come mezzo punitivo; deve essere impiegato con decisione, mai con brutalità; deve essere adoperato indirizzando i colpi agli arti superiori e inferiori, mai al capo, al volto e a tutte le parti vitali del corpo". E quindi, "l’operatore deve astenersi dall’utilizzo della sfollagente nei confronti di persone inermi che abbiano desistito in maniera evidente dalla propria azione violenta oppure siano in posizione tale da non nuocere e non realizzino alcuna forma di resistenza". Regola nuova anche per l’uso delle armi: "non si può sparare in caso di fuga del soggetto a meno che non sia effettuata mettendo in pericolo l’incolumità degli altri". Giustizia: ma quale uso del manganello "non punitivo"? serve il numero sulle divise di Celeste Costantino (deputata Sel) Il Garantista, 5 novembre 2014 Il Viminale presenterà giovedì ai sindacati di polizia un documento di circa 100 pagine con le nuove regole di ingaggio per gli agenti in servizio durante i cortei e le manifestazioni. Vogliono introdurre finalmente il numero identificativo per le forze dell’ordine? Assolutamente no. Dopo le cariche della polizia agli operai della AST di Terni, il Governo Renzi che, con il ministro Alfano, ha sostenuto in parlamento una versione totalmente smentita dalle immagini tv e che finora ha scelto la strada del silenzio e del no comment, sta per introdurre l’utilizzo dello spray al peperoncino, degli idranti e del taser. Però specificano fonti del Ministero dell’Interno, il "contatto fisico con i manifestanti deve essere l’extrema ratio" e sarà considerata una "area di rispetto". L’ennesima retorica utilizzata da questo Governo per tutti i suoi annunci maldestri. Dicono che l’obiettivo sia tutelare "l’incolumità dei cittadini, ma anche degli agenti chiamati a garantire la sicurezza". Una necessità condivisa. Il fatto è però i Governi che si sono alternati negli ultimi 20 anni hanno perso ogni credibilità di cui (purtroppo) hanno goduto, siano essi di centrodestra, centrosinistra o esecutivi tecnici. Abbiamo assistito ad un continuo e perpetrato uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine del nostro Paese: dagli incancellabili giorni del G8 di Genova fino alle cariche degli operai delle Acciaierie di Terni che manifestavano pacificamente a Roma. Ci sia consentito di avere qualche dubbio nei confronti di un Governo che nelle "istruzioni operative" descrive nuove tecniche di ammanettamento, l’impiego dello spray al peperoncino, le fasce in velcro per immobilizzare "soggetti particolarmente aggressivi", lo "sfollagente" (ma da non usare come "mezzo punitivo"!), la pistola elettrica - il taser - che l’Esecutivo ha voluto fortemente inserire un mese fa nel nostro ordinamento con la legge sulla violenza negli stadi. Il manganello e i lacrimogeni saranno usati solo in "extrema ratio" tengono a specificare. Ma non finisce qui. Perché i sindacati di Polizia (alcuni dei quali come il Coisp e il Sap proprio in queste ore hanno dato il peggio di sé sulla vicenda di Stefano Cucchi, a testimonianza di un sistema completamente da riformare) avrebbero proposto l’utilizzo delle microtelecamere su tutti gli agenti che partecipano ai servizi di ordine pubblico. Una proposta monca e inutile. Non è soltanto un problema di uso e abuso di armi letali e non, men che meno di chi gira le immagini nelle manifestazioni. Sarebbe molto più semplice e utile, come chiediamo da tempo, il numero identificativo sulle divise dei poliziotti in assetto antisommossa: i cittadini devono avere il diritto di risalire all’identificazione dei poliziotti in situazioni di ordine pubblico poiché lo stesso assetto delle forze dell’ordine ne impedisce il riconoscimento. Non una proposta rivoluzionaria: è già così in tantissimi Paesi europei. Ad inizio settimana abbiamo depositato una proposta di legge per mettere a disposizione delle forze dell’ordine dei percorsi didattici, di addestramento e aggiornamento all’uso delle risorse della nonviolenza. Per fornire finalmente agli operatori addetti alla protezione dei diritti ed al controllo del territorio un quadro di riferimento coerente con la Costituzione e con la Dichiarazione universale dei diritti umani. La nonviolenza è una grande risorsa per la democrazia, ed oggi più che mai vi è bisogno dell’impegno di tutti in difesa e a promozione della giustizia sociale. Per tutte queste ragioni oggi pomeriggio presenteremo la nostra mozione di sfiducia al ministro dell’Interno Angelino Alfano, nata dopo le cariche agli operai di Terni. Nelle sue proposte c’è solo repressione, sperimentazioni di nuove armi e iniquità. Nel suo atteggiamento l’irresponsabilità che non è consentita a un ministro dell’Interno. Esattamente il modo sbagliato per affrontare la questione "sicurezza" nel nostro Paese. Giustizia: il processo non fa miracoli se manca la cultura dei diritti di Rinaldo Romanelli (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 5 novembre 2014 Abbiamo atteso qualche giorno prima di confrontarci sulla vicenda del povero Stefano Cucchi per evitare commenti frammentari e che risentissero dell’emotività del momento. Si è assistito alle più varie prese di posizione in merito alla vicenda, sollecitate dalla pronuncia di assoluzione della Corte di Assise di Appello di Roma. Qualcuno si è lamentato di sentenze di condanna in primo grado "ribaltate" in appello; qualcun altro ha pensato (sbagliando) di dedicarsi al registro del paradosso grottesco chiedendosi se si debba dedurre dalla sentenza che Cucchi sia ancora vivo; altri hanno evocato la necessità di introdurre al più presto il reato di tortura, sostenendo che avrebbe consentito di compiere indagini più incisive ed efficaci; da ultimo si è sentito parlare di una possibile riapertura delle indagini. Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine senza la preoccupazione di doverci unire per forza al coro di quelli che menano la danza degli sdegnati. Ed allora in primo luogo diciamo che il processo, tutte le volte che si verifica un importante fatto di cronaca con ricadute di carattere politico o sociale, è caricato di aspettative in relazione a funzioni che non gli sono proprie. Si vorrebbe che, a seconda del caso: accertasse la verità, scrivesse la storia, si occupasse di etica, giudicasse i partiti, la politica, il governo, le forze di polizia, lo Stato e così via. La funzione del processo è però un’altra: quella di verificare, oltre ogni ragionevole dubbio, se l’imputato abbia posto in essere la condotta che gli è contestata nel capo di imputazione; niente di più e niente di meno. Se la sentenza sia giusta o sbagliata non è una valutazione che si possa esprimere senza aver letto le motivazioni ed ancor prima gli atti di causa. Certo è che assolvere tutti gli imputati in un processo così sovra esposto mediaticamente non è decisione che si possa prendere a cuor leggero. Ma in questi frangenti - salva ogni verifica sulla correttezza della decisione - bisognerebbe pensare al valore dell’indipendenza della magistratura e difenderne l’operato, che è garanzia di tutela dei diritti di tutti i cittadini. Chi vorrebbe mai essere giudicato da un giudice condizionato dalla pressione dell’opinione pubblica? La giustizia si amministra in nome del popolo italiano e non nel nome della piazza. Dunque, il primo insegnamento: rispettiamo l’operato dei magistrati non solo quando vestono i panni del super inquirente che "sconfigge" le associazioni mafiose o commina severe condanne, ma anche e perché no, quando assolvono. La famiglia Cucchi ha criticato le indagini: la fase investigativa non sarebbe stata condotta in modo adeguato. Il tema è, dunque, quello della mancanza di tensione investigativa in casi del genere e allora osserviamo che l’introduzione del reato di tortura, da qualcuno evocato, in questo frangente non c’entra nulla. È giusto che sia licenziata quanto prima la norma che punisce la tortura. L’Ucpi è stata tra i primi a sostenere la necessità come reato proprio del pubblico ufficiale che tuteli il cittadino dall’abuso dello Stato. Tuttavia, in questo caso, non serviva scomodare questa figura di reato per sostenere che ciò avrebbe reso possibile indagini più incisive. Non si dimentichi, infatti, che si procedeva per il reato di omicidio preterintenzionale che prevede una sanzione ben più grave (da 10 a 18 anni) di quello di tortura e che consentiva di attivare ogni strumento investigativo (comprese le intercettazioni). La norma sulla tortura non avrebbe, dunque, fornito alcuno strumento investigativo in più. Il punto allora qual è? Si deve prendere atto che indagare sugli apparati dello Stato pone maggiori problemi ed è più complicato rispetto a un’indagine "ordinaria", e che i diritti dei più deboli che si trovino privati della libertà personale e sottoposti all’autorità pubblica, non sempre sono adeguatamente rispettati. Di entrambe le circostanze non è difficile comprendere le ragioni. Una struttura gerarchica organizzata come si presenta una qualunque delle forze di polizia ha in sé la capacità fisiologica di chiudersi ad interventi esterni, che ne mettano in discussione l’operato. Sul piano giudiziario questo dovrebbe incoraggiare in un impegno investigativo ben maggiore dell’ordinario, ma è lecito domandarsi se nella pratica ciò avvenga effettivamente. Il Procuratore di Roma è intervenuto in modo certo inusuale dando disponibilità a verificare la possibilità di una riapertura delle indagini, poi però si è affrettato ad elogiare l’operato dei pm. Difficile pensare che se si ritiene di aver indagato bene prima si possa farlo meglio dopo, magari spinti dall’opinione pubblica. La questione non può però essere ridotta alle indagini o alla sentenza giusta o sbagliata. Così ci si limita, appunto, al caso Cucchi, che è reso diverso da molti altri dalla presenza di una famiglia che ha avuto la forza di portare all’attenzione della pubblica opinione com’è morto un uomo che si trovava nelle mani dello Stato. La riflessione deve uscire dal solo ambito giudiziario per spostarsi sul piano culturale, etico e politico. Non bastano precetti e sanzioni, può non bastare l’approvazione di una norma sulla tortura che si vuole giustamente introdurre, se non si riafferma la centralità del diritto e della dignità dell’uomo, quali elementi fondamentali della nostra civiltà come ha voluto ricordarci anche Papa Francesco. La cultura della legalità, del rispetto e della civiltà negli apparati dello Stato si deve costruire e coltivare con percorsi formativi adeguati e prima ancora con la creazione di luoghi di detenzione che siano rispettosi dei diritti umani. Giustizia: Grasso (Senato) su caso Cucchi; chi sa parli, Stato non può sopportare impunità Adnkronos, 5 novembre 2014 "Vorrei fare un appello: ci sono rappresentanti delle istituzioni che sono certamente coinvolti in questo caso. Quindi, chi sa parli. Che si abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità perché lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo". Lo ha detto il presidente del Senato, Piero Grasso, parlando con i giornalisti a Bari, dove è intervenuto alla cerimonia del 4 novembre, al sacrario dei Caduti d’Oltremare, a proposito del caso di Stefano Cucchi. "Intanto è doverosa e giusta - ha aggiunto - la solidarietà alle famiglie delle vittime di violenza. La violenza non può far parte della dignità di uno Stato civile, soprattutto quando viene da rappresentanti delle istituzioni. Noi speriamo di continuare a cercare la verità, nonostante ci siano state delle sentenze che non hanno saputo o potuto trovarla. Pensiamo - ha concluso Grasso - che bisogna continuare su questa strada dando la massima solidarietà ai familiari delle vittime". Giustizia: l’agente Nicola Minichini "Cucchi arrivò già segnato, indagate sui carabinieri" di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2014 Aveva già quei segni sotto gli occhi, lamentava mal di testa. Al medico che lo ha visitato ha detto di avere anche mal di schiena. E quel medico l’ho chiamato io, cinque minuti dopo averlo preso in consegna. Io non ho visto il pestaggio, non ho assistito, ma secondo lei, uno che appena vede l’arrestato in quelle condizioni chiama il medico...". Nicola Minichini è un fiume in piena. Dopo cinque anni e due assoluzioni, uno dei tre agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra per la morte di Stefano Cucchi adesso chiede di essere lasciato in pace, "per non passare il resto della vita additato come un mostro". Minichini, può ricostruire quello che è accaduto nei sotterranei di piazzale Clodio il 16 ottobre 2009? Io ho ricevuto Cucchi alle 13:30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l’udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne, si fanno le domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva anche un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale. Si rifiutò di farsi visitare. Ferri gli somministrò una pillola per il mal di testa. Poi rientrò in cella. E dopo un’ora lo vennero a prendere i colleghi per portarlo a Regina Coeli. Non notò nient’altro? Si alzò da solo, ma non di scatto, faceva fatica a camminare. Ma in cella entrò da solo. Quindi la versione dell’altro detenuto, Samura Yaya, secondo cui Stefano si rifiutava di entrare e voi lo portaste dentro con la forza, non è vera? Nessuno dei 150 testimoni ha confermato quella versione. Senta, immagini questa situazione. In quei sotterranei transitano mediamente 30/32 arrestati al giorno, ci sono due agenti ogni arrestato più il personale di Villa Maraini più gli avvocati. Ma secondo lei è veramente possibile riempire di calci e pugni una persona senza essere notati? E per cosa, poi? Me lo dica lei: per cosa? Ecco, non lo so. Me lo devono ancora spiegare. Perché ci aveva chiamato "guardie"? Ma ci chiamano in tutti i modi, persino "secondini". Perché Cucchi era un rompiscatole? Quaranta arrestati al giorno e sa quanti rompiscatole ci sono. Perché mi doveva far trovare qualcosa, mi doveva far fare carriera? E io sarei così pazzo da menare uno davanti a tutti? Io quel reparto l’ho aperto nel 1993 e da allora non ho mai avuto un problema. Minichini, lei però non ha mai accusato nessun altro di averlo pestato. A questo punto avrebbe potuto farlo. Io non ho visto il pestaggio, se c’è stato io non c’ero. Quello che so per certo è che da noi non è successo niente. Ma è certo che il pestaggio ci sia stato? Lo dicono le sentenze, non lo dico io. Per quanto mi riguarda, quei segni sotto gli occhi potevano anche essere il risultato dell’eccessiva magrezza. Però, gliel’ho detto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare il medico. Quindi lei ha la coscienza a posto, pur sapendo che è morto un ragazzo di 31 anni e che a cinque anni di distanza non c’è ancora un colpevole. Io ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutare Cucchi, di più non avrei potuto. Ha letto che adesso il procuratore capo Pignatone si è detto disposto a riaprire le indagini, qualora dovessero emergere nuovi elementi? Io me lo auguro e mi auguro che possano trovare qualcosa. Sarebbe ora di allargare gli orizzonti. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi. Come si sente da "innocente"? Come uno che chiede giustizia. Per la famiglia Cucchi e per la mia. Senza un colpevole agli occhi dell’opinione pubblica sarò sempre quello del caso Cucchi. Ho dovuto spiegare ai miei vicini che non sono un mostro, pensi come mi sono vergognato. Anch’io cerco la verità, perché anch’io mi sento una vittima di questa storia. Lettere: caso Cucchi, le domande senza risposte di Stefano Anastasia Il Manifesto, 5 novembre 2014 Stefano Cucchi è morto a causa di azioni e omissioni del personale addetto alla sua cura e custodia, ma non ci sono prove che le persone responsabili di tali azioni e omissioni fossero quelle portate in giudizio. Questo, in sostanza, quanto deciso dalla Corte di appello di Roma venerdì scorso. Ancora una volta, una morte tutt’altro che naturale di una persona trattenuta coattivamente sotto la responsabilità dello Stato non ha responsabilità penali acclarate (salvo che la Cassazione non disponga il rinnovamento del giudizio sulla base di un qualche errore di interpretazione delle norme da parte della Corte di appello). È questo il problema che questa sentenza ci pone: la sostanziale impunità delle violenze (e dell’incuria) su persone la cui vita è affidata alle istituzioni pubbliche. Se non vogliamo che i principi di garanzia dell’imputato nel processo penale, richiamati dal Presidente della Corte di appello di Roma, non si risolvano in una foglia di fico per coprire le responsabilità pubbliche e istituzionali, il problema dell’impunità delle morti accadute sotto la custodia dello Stato va affrontato in ogni sede e a ogni livello. Non è in discussione la libertà di associazione sindacale e meno che mai la libertà di opinione dei dirigenti sindacali nella Polizia di Stato, ma è mai possibile che i responsabili del Sap e del Coisp continuino a dire le cose che dicono, scaricando la responsabilità di quanto accaduto sulla famiglia entro cui - fino al giorno del suo arresto - Stefano Cucchi godeva di ottima salute? Le loro farneticanti dichiarazioni ledono solo la dignità e l’immagine delle loro persone e dei sindacati di cui sono portavoce (hanno, cioè, solo una rilevanza privata) o ledono l’immagine e la dignità anche del corpo di polizia cui appartengono? Non sono in discussione i principi della formazione della prova in dibattimento e della sussistenza della colpevolezza solo quando sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, ma siamo sicuri che nell’assoluzione dell’altro ieri non vi sia una implicita condanna del funzionamento della giustizia italiana quando interviene su queste cose? Se non sono quasi mai quelli rinviati a giudizio, non c’è un difetto di indagine e di autonomia della magistratura inquirente (e forse anche di quella giudicante) dalle forze di polizia e dagli apparati istituzionali serventi la funzione giudiziaria? Non è in discussione il principio di personalità nella responsabilità penale, ma siamo sicuri che l’Amministrazione penitenziaria, la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri, e finanche le articolazioni interessate del Servizio sanitario nazionale non abbiano nulla da dire o da fare in termini di responsabilità disciplinare e di formazione deontologica del personale addetto alle "relazioni con il pubblico", quando il pubblico gli muore tra le mani per proprie azioni e/o omissioni? Tutte queste domande rimaste aperte dietro quella, davvero capitale, di Ilaria Cucchi (ma allora chi è stato?) non ammettono auto-assoluzioni nascoste dietro sacri principi garantisti, scuse di circostanza e qualche colpo sul petto. A queste domande devono rispondere le autorità politiche, amministrative e giudiziarie competenti, dal Ministro dell’Interno a quello della Giustizia, dal vertice dell’Amministrazione penitenziaria al Capo della polizia, dal Comando generale dell’arma dei carabinieri ai responsabili dei servizi sanitari, fino al Consiglio superiore della magistratura. Fino a ora di risposte se ne è sentite poche e maldestre. Ne aspettiamo di più chiare e convincenti. Lettere: a uccidere 893 detenuti #SonoStatoio di Riccardo Arena www.ilpost.it, 5 novembre 2014 Questo doveva essere il giusto titolo della bella mobilitazione che c’è stata in questi giorni su internet a proposito del caso Cucchi: "A uccidere 893 detenuti #SonoStatoio". E già perché, anche se pochi cittadini lo sanno, dal 22 ottobre del 2009, data in cui morì Stefano Cucchi, sono morte fino a oggi 893 persone detenute. 893 persone detenute che hanno perso la vita in circostanze gravi quanto quelle che hanno causato la morte di Stefano Cucchi. 893 persone detenute morte, molte delle quali erano malate e che sono decedute, tra atroci sofferenze, senza ricevere una adeguata assistenza medica. Omicidi colposi (art. 589 c.p.). 893 persone detenute morte, tra cui un numero sconfinato di persone che si sono suicidate. Persone, non solo costrette a vivere nel degrado, ma che sono state abbandonate alla loro disperazione. Persone che si sono impiccate (magari usando i lacci delle scarpe, un pezzo di lenzuolo o delle mutande), senza ricevere un adeguato aiuto e un adeguato controllo. Abbandono di persona incapace (art. 591 c.p.). Dunque non morti improvvise e imprevedibili. Ma decessi che si potevano evitare. Persone che si potevano e che si dovevano salvare, anche perché affidate alla responsabilità dello Stato per motivi di giustizia. Esattamente come nel caso di Stefano Cucchi. 893 decessi di cui nessuno parla. Una montagna di cadaveri nascosti, occultati da quella che ancora chiamano informazione. 893 decessi che non hanno mai avuto giustizia. Una valanga di delitti che quasi mai sono approdati a un processo e che ancora più raramente sono terminati con una sentenza di condanna. Non più persone, ma fascicoli archiviati dopo un’indagine frettolosa e mandati nel sottoscala di un tribunale. 893 decessi. Anzi, omicidi rimasti impuniti che dimostrano il collasso del nostro sistema penitenziario e che certificano il fallimento del nostro sistema giudiziario. Un sistema giudiziario incapace ad accertare dei reati commessi all’interno di istituti dello Stato e che si fa anche manipolare da una becera informazione. Una becera informazione abile nello scegliere una tra le tante vittime di cui trattare. La più appetibile e, soprattutto, la più vendibile. Non è un caso che su 893 detenuti morti i mass media parlano solo di Stefano Cucchi, come se fosse morto solo lui. E gli altri? Vengono semplicemente ignorati, ammazzandoli per la seconda volta. Morale. La questione non è limitata solo al caso Cucchi. La questione riguarda altre 893 persone detenute. Il che è ben diverso e più grave. La questione riguarda un intero sistema penitenziario capace solo di infliggere maltrattamenti e uno Stato che non vuole o non è capace di accertare delitti commessi all’interno di proprie strutture. La questione è un’informazione che nega ai cittadini, su questo come su altri temi, il diritto di "conoscere per deliberare". No. Non solo Cucchi: "A uccidere 893 detenuti #SonoStatoio". Lettere: caso Cucchi, se lo Stato assolve se stesso di Ferdinando Camon La Nuova Ferrara, 5 novembre 2014 Ci sono articoli che si scrivono con sofferenza e vergogna. Come questo. Perché si parla dello Stato, la sua Giustizia, il modo in cui tratta i suoi cittadini. E non si riesce a scacciare il sospetto che lo Stato collochi se stesso al di sopra e al di fuori delle leggi. Stavolta, chiamato a risponderne in tribunale, si sarebbe autoassolto. Il reato di cui è sospettato è l’omicidio di un detenuto. Le domande sono: il detenuto è stato o non è stato picchiato in carcere? Cos’hanno visto e testimoniato i compagni di prigione? Perché in pochi giorni di cella ha perso sette chili? Dicono che è caduto per le scale, ma come mai ha le occhiaie blu, come un pugile picchiato? E ferite varie? Da morto aveva un litro e mezzo di orina in vescica, dunque non orinava da molte ore? E come mai? Il modo nebuloso di procedere da parte della Giustizia è quello di una corazzata che, sotto attacco aereo, sgancia i fumogeni e si nasconde, non si sa più dov’è. Per vedere dov’è, bisogna dissolvere i fumi. Qui bisogna tornare all’essenziale. Che è questo: un cittadino è stato arrestato e chiuso in carcere e in carcere è morto. Lo Stato dice di non sapere come e perché. È inaudito. Il carcere non può essere un mattatoio. "In carcere" vuol dire "sotto custodia dello Stato". Il custode deve sapere cosa succede al custodito. Il corpo del prigioniero nei pochi giorni di carcere s’è riempito di lividi, ferite, ematomi e fratture. Le spiegazioni che lo Stato fornisce sono inverosimili. Dice che il prigioniero è caduto per le scale, ma da quando in qua una caduta per le scale spacca le costole, spappola la vescica, taglia i muscoli, e scava le occhiaie? Va subito detto che i motivi per cui è stato arrestato Stefano Cucchi sono giusti. Stava spacciando, aveva appena venduto una bustina di hashish, e in tasca ne aveva altre 12 di hashish e 3 di cocaina. Trovo sorprendente la proposta del sindaco di Roma, Ignazio Marino, di dedicargli una strada della Capitale. Se dedichiamo strade e piazze agli spacciatori, non resterà neanche una viuzza per i benefattori, gli eroi, i geni, i santi, gli artisti. Non possiamo restar chiusi in questa morsa: da una parte la santificazione, dall’altra l’ammazzamento. Bisogna rifiutare l’una e l’altro, per chiedere un’altra cosa: giustizia. Può darsi che questo o quel poliziotto, questo o quel medico non sappia, personalmente, cos’è successo, chi è responsabile di quella morte. Ma l’istituzione ospedaliera e l’istituzione carceraria lo sanno. Qui si tratta di uno di quei casi, non rari in Italia, in cui un ramo dello Stato, la Giustizia, deve pronunciarsi sulle colpe di altri rami dello Stato, la Polizia e la Sanità. Cioè: lo Stato deve giudicare se stesso. Il sospetto che tenda ad assolvere per autoassolversi è fortissimo. Vorremmo tutti che fosse un sospetto palesemente infondato e insostenibile. Invece secondo le indagini tre agenti avrebbero abbattuto a terra il detenuto per poi colpirlo con calci e pugni, tre medici avrebbero visto le condizioni del detenuto, bisognoso di cure immediate, e non lo avrebbero curato. Lo ammettono, giustificandosi con la tesi che il malato non voleva esser curato. In primo grado sono state pronunciate condanne a vari anni per queste colpe. E la conclusione dell’appello, che assolve tutti con una formula che riecheggia la vecchia "insufficienza di prove", non è liberatoria per nessuno, perché qui si tratterebbe di un crimine commesso nelle sedi dello Stato da uomini dello Stato, e dunque tocca allo Stato fornirci le prove che quel crimine è stato commesso o non è stato commesso. Uno Stato che dichiara di non saperlo non funziona bene. In casi come questo, dove vengono infranti diritti umani, bisognerebbe che intervenisse l’Europa, sollecitata, per imporre la prevalenza di quei diritti. È già successo. Fossi l’avvocato della famiglia Cucchi, mi rivolgerei all’Europa. Ma se arriviamo a questa conclusione, però, che smacco per l’Italia. Lettere: l’associazione "A Roma Insieme" in merito all’intervista a Luigi Manconi Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2014 Il senatore Luigi Manconi ha rilasciato nei giorni scorsi una lunga e argomentata intervista a Giancarlo Capozzoli (www.huffingtonpost.it, 31 ottobre 2014) sul tema delle pene con un riferimento particolare alla detenzione delle detenute madri e dei loro figli 0-3 anni detenuti nelle carceri italiane. Da oltre 20 anni la nostra Associazione è presente in questo particolare campo con azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica attraverso convegni, mobilitazioni, petizioni popolari e il sostegno a proposte di legge "perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere". Da oltre 20 anni siamo conosciuti attraverso l’azione quotidiana delle sue volontarie e volontari. Per rispetto della verità bisogna rammentare che tra il 2001 ed il 2014 non è che non sia accaduto nulla. Nel 2011, esattamente ad aprile, il Parlamento licenzia un testo di legge, con il quale, intervenendo sulla materia, si introducono mutamenti di reale significato: permessi alle madri detenute di visitare e di assistere i loro bambini ricoverati all’esterno; la istituzione delle Icam e delle Case Famiglia Protette. Alla legge poi, a distanza di due anni, consegue un decreto attuativo (marzo 2013) che fissa chiari criteri in base ai quali vanno realizzate le Case Famiglia Protette; e sono criteri ispirati tutti ad una visione della struttura che sia confacente alla crescita fisico psichica del fanciullo e della madre al fine di rispondere in pieno a criteri che garantiscano lo sviluppo di rapporti di affettività e che restituiscano il pieno ruolo genitoriale alla madre. Non eravamo d’accordo, e non lo siamo, sull’obiettivo delle Icam perché sappiamo che in quanto "carceri camuffate" (il responsabile della struttura rimane il direttore del carcere, vi operano, pur se in borghese, agenti di polizia penitenziaria, sono sottoposte al regolamento penitenziario, a controlli e perquisizioni e via dicendo) dovevano essere destinate a madri che compivano reati gravi o al regime del 41bis. Noi, infatti, sostenevamo e sosteniamo che le madri con bambini devono scontare la propria pena nelle Case Famiglia Protette. Como: la ribellione dei detenuti del Bassone, un carcere già turbato dai recenti suicidi Corriere di Como, 5 novembre 2014 Non sono giorni tranquilli per il carcere del Bassone. Dopo la notizia dei due morti suicidi nelle ultime settimane, ieri i detenuti hanno iniziato anche una classica forma di protesta, quella della "battitura" delle sbarre fatta con le gavette. Premessa d’obbligo, i due fatti drammatici di cui abbiamo parlato in apertura non sarebbero al centro del contendere, ma sarebbero stati solo la miccia - preannunciata da un incendio di coperte dello scorso fine settimana - per rivendicazioni sopite da tempo. Al centro della protesta ci sarebbero le telefonate a casa dei detenuti e la possibilità - in caso di bisogno - di mettersi in contatto con gli avvocati. Con l’arrivo della nuova direzione della struttura, stando alle rimostranze, su questi permessi ci sarebbe stato un giro di vite. Giusto per fare un esempio, ad ogni detenuto sono concesse quattro telefonate al mese. In caso di padri con figli sotto i 10 anni, le maglie erano un po’ più larghe, previo parere favorevole della direzione. Ultimamente tuttavia questi via libera sarebbero stati ridotti, o quantomeno rallentati, così come le possibilità di chiamare gli avvocati. Da qui le proteste, che hanno trovato terreno fertile nei malumori per i due recenti suicidi. Una delegazione di detenuti ha chiesto un incontro con la direttrice e nel frattempo è iniziata - da ieri mattina - la "battitura" che si ripete due volte al giorno. Ieri pomeriggio, intanto, la Procura ha dato mandato per eseguire l’autopsia sul corpo del 28enne di Lomazzo che si è tolto la vita la scorsa settimana. La famiglia vuole vederci chiaro. Nelle numerose lettere inviate di recente alla compagna, non si faceva cenno a nulla che potesse far prevedere un esito simile, anzi il ragazzo - nonché padre di tre figli - parlava di progetti per il futuro. Da qui l’incredulità dopo aver appreso del decesso. Ma la Procura vuole capire anche altro. Ovvero il perché di una simile decisione. L’arrestato infatti era in cella per una vicenda delicata, ovvero il sequestro e il pestaggio di un uomo nell’ambito di conflitti tra la criminalità della zona della Bassa comasca. Quello stesso ambiente malato in cui sono poi maturati molti altri fatti di cronaca recente della nostra provincia. Il capire dunque cosa possa essere maturato nella mente del 28enne e perché, potrebbe dunque essere importante anche su altri fronti di indagine ancora aperti. Il ragazzo di Lomazzo non era in una cella comune, ma era in osservazione e costantemente monitorato per esigenze investigative legate al divieto di avere contatti con qualsiasi altro detenuto. Sassari: detenuto tenta di impiccarsi in cella col lenzuolo, salvato dagli agenti penitenziari Ansa, 5 novembre 2014 Un uomo residente nell’hinterland di Sassari, da tempo recluso nel carcere di Bancali, ha tentato di uccidersi. Un agente ha notato il detenuto che, dopo aver intessuto una corda con le lenzuola, aveva già stretto il cappio attorno al collo. Il suo intento suicida, però, è stato sventato da un agente di Polizia penitenziaria che stava compiendo un ordinario giro di ricognizione e ha notato il detenuto che, dopo aver intessuto una corda con le lenzuola, aveva già stretto il cappio intorno al collo. La guardia carceraria ha immediatamente avvisato un collega e insieme sono entrati nella cella e hanno evitato il peggio. "Per fortuna l’insano gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento del poliziotto penitenziario, ma l’ennesimo episodio accaduto in un carcere è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria, come per altro ho riscontrato non più tardi di ieri nel corso della mia visita a Bancali", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Da quel che si apprende, il detenuto che si è reso protagonista di questo gesto estremo non ha mai accettato le ultime accuse che gli sono state rivolte dai suoi familiari, rispetto alle quali continua a professarsi innocente e a causa delle quali è stato arrestato per l’ennesima volta quattro mesi fa. Spoleto (Pg): 16 detenuti impiegati in lavori di pubblica utilità, chance per reinserimento www.umbria24.it, 5 novembre 2014 Accordo siglato tra Comune e carcere di Maiano tra i primi in Italia, l’impegno dei reclusi a scarsa pericolosità sociale è a titolo volontario e gratuito. Sedici detenuti a scarsa pericolosità sociale e con pene brevi impegnati sei ore al giorno in lavori di pubblica utilità. È tra le primissime convenzioni siglate dopo le modifiche del febbraio 2014 alla normativa sull’ordinamento penitenziario, quella tra il Comune di Spoleto e la casa di reclusione di Maiano che a stretto giro avvieranno operativamente il progetto che coinvolgerà quattro detenuti a semestre per i prossimi due anni. Il gruppo di reclusi, tutti in età lavorativa e individuati dopo gli approfondimenti del caso dai responsabili dell’istituto penitenziario e dai magistrati di sorveglianza, in questa prima fase si occuperà di piccole manutenzioni al cimitero monumentale e sarà coordinato in tandem dall’assessore ai lavori pubblici Angelo Loretoni e dall’amministratore unico dell’Ase (l’azienda servizi del Comune), Angelo Musco. L’adesione al progetto da parte dei detenuti, come previsto dalla legge, sarà a titolo volontario, gratuito e, come ha precisato il vicesindaco Maria Elena Bececco, "non sostituirà mansioni in capo alle aziende pubbliche o private di cui si avvale l’ente". I soggetti coinvolti riceveranno una formazione dal personale Ase sia in merito a norme di sicurezza sul lavoro che all’utilizzo delle attrezzature, così come una serie di istruzioni saranno fornite ai dipendenti dell’azienda servizi che opereranno con i detenuti, che saranno comunque sottoposti a controlli da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Naturalmente l’impegno in lavori di pubblica utilità non coincide con una riduzione della pena, ma come ha spiegato il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi "è una chance per ricostruire il rapporto del detenuto con la società civile che rappresenta uno step importante nel percorso di ognuno di loro". Il direttore della casa di reclusione, Luca Sardella, e la direttrice dell’Uepe (ufficio per l’esecuzione penale esterna) Maria Rosaria Monaco, hanno riferito del grande entusiasmo che c’è tra i sedici detenuti coinvolti, che peraltro hanno anche spinto per il perfezionamento della convenzione a cui le parti lavorano da qualche mese. In passato, comunque, esperienza analoghe in città se ne sono registrate anche se all’epoca si trattava di borse lavoro. Particolarmente soddisfatta del progetto il vicesindaco Maria Elena Bececco che ha parlato di "diritto al reinserimento per soggetti che rappresentano una risorsa per la città". Immigrazione: Corte europea; l’Italia non assicura standard adeguati ai richiedenti asilo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2014 Sovraffollamento nei Centri di accoglienza per richiedenti asilo, standard di vita inadeguati nei Cara, privacy non rispettata, condizioni insalubri. Una situazione che ha spinto la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Tarakhel, depositata ieri, a ordinare alla Svizzera di non rinviare in Italia i richiedenti asilo. A meno che le autorità italiane non forniscano specifiche garanzie individuali. E il primo caso in cui la Corte di Strasburgo ha affermato che l’Italia è un Paese che non assicura standard di vita adeguati per i richiedenti asilo, pur riconoscendo che la situazione non è drammatica come quella della Grecia. A Strasburgo si erano rivolti due coniugi e i loro sei figli di nazionalità afgana, approdati in Calabria: le autorità italiane, in adempimento del regolamento Dublino sui criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo, avevano preso le impronte digitali, inserendole nella banca dati Eurodac. Dopo un periodo nel Cara di Bari, avevano lasciato, senza permesso, l’Italia, arrivando a Losanna. Qui avevano presentato la domanda di asilo, ma le autorità svizzere, vincolate al regolamento di Dublino in forza dell’accordo di associazione con la Ue, avevano passato la questione all’Italia, competente in quanto primo Paese di sbarco. Il Tribunale amministrativo federale svizzero aveva respinto il ricorso dei richiedenti che si sono così rivolti a Strasburgo. La Corte europea, dopo aver deciso sulle misure provvisorie, ordinando alla Svizzera di non far rientrare in Italia i ricorrenti, ha dato loro ragione nel merito. Prima di tutto, osservala Corte, dalle raccomandazioni dell’Ufficio Onu sui rifugiati e dal rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, diffusi nel 2012, risultano numerose mancanze italiane nel sistema di accoglienza dei richiedenti asilo. Basta guardare i numeri: a fronte di 14mila domande di asilo presentate nel 2013, l’Italia ha a disposizione, nell’intero network del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati, solo 9.630 posti. Non solo. Tenendo conto che i richiedenti asilo hanno diritto a una protezione speciale, la Corte ha concluso che la Svizzera non può rinviare in Italia i richiedenti asilo. Strasburgo, pur riconoscendo gli sforzi fatti dall’Italia, non ha nessun dubbio nel ritenere che le condizioni di vita per i richiedenti asilo, nei centri italiani, sono insalubri, in strutture sovraffollate e con casi di violenza. Tanto più che l’Italia non ha fornito chiarimenti dettagliati sulle specifiche condizioni nelle quali si troverebbero i richiedenti una volta rientrati in Italia. Pertanto, per Strasburgo, l’unica possibilità di rientro in Italia è che la Svizzera ottenga garanzie individuali per i richiedenti. Immigrazione: 10 milioni di "senza patria", campagna dell’Unhcr per cancellare l’apolidia di Stefano Pasta La Repubblica, 5 novembre 2014 A 50 anni dalla Convenzione internazionale che istituiva lo status di apolide, sono ancora dieci milioni le persone a cui è negata una cittadinanza nel mondo. Spesso sono le minoranze etniche ad essere colpite, mentre un terzo degli apolidi sono bambini. Luci e ombre per l’Italia, in cui gli apolidi sono 15mila de facto, ma solo 900 quelli riconosciuti. L’Unhcr lancia una campagna per porre fine all’apolidia nei prossimi dieci anni. La ragazza ritratta nella foto è una ventenne urdu di lingua bihari. Paga una "colpa" non sua: a 300mila persone della sua etnia è stata negata la cittadinanza da parte del Governo del Bangladesh, quando il paese, nel 1971, ha ottenuto l’indipendenza. Nell’ultimo anno, il marito l’ha lasciata per sposare una donna locale per risolvere i suoi problemi di cittadinanza. La ragazza sta per diventare cieca e, senza documenti, non ha diritto alla tessera sanitaria; per ora, per mantenere se stessa e il suo bambino, fabbrica buste di carta. Invisibili dalla culla alla tomba. Nel mondo ci sono 10 milioni di persone come lei, apolidi. Bambini, coppie, anziani, intere comunità, a cui viene negata una cittadinanza. Non hanno diritto ad un certificato di nascita, ma neanche a quello di morte. Oggi l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati lancia la campagna "I belong" per cancellare l’apolidia dalla faccia del pianeta nei prossimi dieci anni. "È un problema - spiega l’Unhcr - creato unicamente dall’uomo, facilmente risolvibile se ci fosse la volontà dei Governi". Si può essere apolidi per generazioni, come succede ai bihari del Bangladesh, a 600mila ex cittadini sovietici ancora senza nazionalità a più di vent’anni dalla disgregazione dell’Urss, e agli oltre 800mila rohingya di fede islamica che in Myanmar, l’ex Birmania, si sono visti rifiutare la cittadinanza sulla base di una legge del 1982 che ne limita fortemente la libertà di movimento, quella religiosa e l’accesso all’istruzione. Ma si può anche diventare apolidi dal giorno alla notte: è successo nel 2013 a decine di migliaia di dominicani di origine haitiana, a cui una sentenza della Corte Costituzionale ha revocato la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. Tra bambini a cui è negata l’istruzione e rifugiati in fuga dalle guerre. Più di un terzo degli apolidi nel mondo sono bambini e lo stigma dell’apolidia può seguirli per il resto della loro vita. Talvolta significa che per loro non suona la campanella della scuola. In Myanmar, solo il 4,8% delle ragazze e il 16,8% dei ragazzi apolidi completano l’istruzione primaria, rispetto al 40,9% e al 46,2% dei coetanei con cittadinanza. Le guerre sono una delle cause principali: il 20% di tutti i rifugiati reinsediati dall’Unhcr nell’ultimo quinquennio erano anche apolidi e tra le eredità di quattro anni di guerra in Siria, ci sono oltre 50mila bambini che non sono mai stati registrati all’anagrafe perché nati da rifugiati siriani in Giordania, Iraq, Libano, Turchia ed Egitto. L’Italia non ha ancora aderito alla Convenzione del 1961. I capisaldi giuridici sono la Convenzione del 1954, che definisce lo status di apolide, e la Convenzione del 1961 sulla riduzione e la prevenzione dell’apolidia, con particolare attenzione ai minori. L’Italia ha ratificato soltanto la prima; eppure, è un problema anche italiano. I dati più attendibili sono quelli della Comunità di Sant’Egidio, che stima 15mila apolidi de facto (cioè potenziali, ma non riconosciuti) a fronte di soli 900 iscritti nei registri anagrafici; la differenza è dovuta principalmente alle difficoltà burocratiche e procedurali. Spiega Helena Behr dell’Unhcr: "L’Italia è uno dei soli 12 Stati al mondo che prevede lo status di apolide; le procedure sono addirittura due, ma entrambe problematiche: l’amministrativa è vincolata al permesso di soggiorno, mentre quella giudiziaria può durare diversi anni. Per entrambe vengono spesso richiesti certificati dei paesi d’origine difficile da reperire". Inoltre, molte persone senza documenti non sono nemmeno a conoscenza di queste possibilità, né sanno a chi rivolgersi per avviare le patiche. L’appello dell’Unhcr al Governo italiano. Ma chi sono gli apolidi nel Belpaese? Quasi tutti rom dell’ex Jugoslavia, spesso qui da due o tre generazioni; il resto provengono soprattutto dall’ex Urss, dalla Palestina, Tibet, Eritrea ed Etiopia. Helena Behr fa due esempi di cosa vuol dire essere apolidi in Italia: "Ho recentemente incontrato una ragazza che non riesce a sposarsi perché senza documento d’identità e un adolescente che, per lo stesso motivo, non può partecipare alla gita all’estero della sua classe". A cinquant’anni dalla Convenzione del 1954 - è quindi l’appello dell’Unhcr - anche l’Italia ha ancora molta strada fare: aderire a quella del 1961, sburocratizzare le pratiche per l’ottenimento dell’apolidia, tutelare gli apolidi privi di documenti dal rischio di essere espulsi o ingiustamente detenuti. Infine una proposta concreta altrettanto importante: elaborare un manuale informativo sui diritti degli apolidi e sulle procedure di riconoscimento. Israele: approvata legge che blocca rilascio detenuti palestinesi condannanti per omicidio Ansa, 5 novembre 2014 Il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva una legge che impedisce, d’ora in poi nell’ambito di eventuali accordi di governo, la liberazione di detenuti palestinesi colpevoli di omicidio con "circostanze particolarmente gravi". L’intervento è stato adottato dopo le polemiche suscitate, soprattutto a destra, dall’accordo fatto con i palestinesi per il rilascio da parte di Israele di detenuti come viatico alla ripresa degli ultimi negoziati di pace (2013-2014)sostenuti dal segretario di stato John Kerry, poi abortiti. In base a quell’accordo, sono stati liberati da Israele 78 detenuti, mentre gli ultimi 26 sono rimasti in carcere per l’andamento delle trattative, giudicato negativo dallo stato ebraico. Una procedura che all’epoca suscitò la rivolta delle Associazioni delle famiglie delle vittime e della destra. Secondo la legge ora il governo non avrà più il potere passato e la destra ha esultato per il provvedimento. Siria: nata nelle carceri Hafez al-Assad, attivista arrestata da regime di Bashar Aki, 5 novembre 2014 È nata nelle carceri di Hafez al-Assad e ora il regime di Bashar l’ha riportata in prigione. È questa la drammatica storia dell’attivista siriana Maria Bahjat Shaabo, che domenica mattina è stata arrestata al confine tra Siria e Libano dai servizi di intelligence del governo di Damasco e di cui, da allora, non si hanno più notizie. Come spiega l’agenzia Siraj Press vicina all’opposizione siriana, la giovane donna stava rientrando a Damasco dopo aver partecipato a un seminario sui diritti umani a Beirut. Arrestati anche i suoi accompagnatori, ossia il giornalista Omar al-Shiar e l’attivista Jadey Nawfal. Maria Bahjat Shaabo proviene da una storica famiglia di oppositori. Suo padre ha trascorso 10 anni nelle carceri di Hafez al-Assad e la madre, Rana Mahfouz, fu arrestata quando era incinta di Maria con l’accusa di appartenenza al Partito d’azione comunista siriano (Pac). Dopo la nascita, Maria è rimasta in prigione fino all’età di un anno e mezzo, mentre la madre ha finito di scontare una pena di quattro anni. Bolivia: la denuncia dell’Ong Progetto Mondo; l’83% dei detenuti è in attesa di giudizio Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2014 Giustizia minorile e diritti umani in Bolivia. Lo scorso 30 ottobre una delegazione di rappresentanti di istituzioni e società civile boliviani ha presentato alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) a Washington un dossier sulla drammatica situazione dell’abuso della detenzione preventiva in Bolivia dei minori e giovani in situazione di conflitto con la legge, i più alti dell’intero continente americano: l’83% dei minori detenuti in carcere è in attesa di giudizio. Anche per reati minori i tempi di attesa di una sentenza possono protrarsi anche fino a tre anni. Il dossier presentato a Washington è frutto dell’impegno che l’ong Progetto Mondo sta portando avanti da più di un decennio in Bolivia a favore dei minori e giovani in conflitto con la legge, grazie a progetti finanziati tra gli altri dal Ministero degli Affari Esteri, Unione Europea e Conferenza Episcopale Italiana (Cei). Dopo un decennio di impegno in difesa dei minori e giovani, indebitamente rinchiusi nel carcere per adulti di San Pedro, l’Ong italiana, con immense fatiche, ha costruito e avviato a El Alto (La Paz) il Centro Qalauma, la prima struttura carceraria del Paese dedicata espressamente a minori e giovani con responsabilità penali (benché una riforma del 2001 preveda la separazione tra adulti-minori, la legge non era mai stata rispettata). E inoltre, grazie a diversi progetti di cooperazione allo sviluppo (Qalauma, Liber’Arte, Justamente), l’Ong sta concretamente contribuendo alla riforma del sistema di giustizia penale minorile, nonché a un cambiamento reale delle condizioni di vita dei minori detenuti, con la promozione di un approccio ispirato alla giustizia restaurativa, e dunque alla creazione di misure alternative al carcere nel caso di reati meno gravi, o attraverso percorsi di reintegro sociale post carcere per coloro subiscono una condanna di detenzione. Un dato su tutti testimonia quanto i risultati ottenuti siano realmente incoraggianti: dall’apertura del nuovo Centro Qalauma, nel 2011, il centro registra tassi di recidiva tra i più bassi di tutti gli istituti carcerari del Paese, inferiore al 4%. Progetto Mondo sta inoltre sperimentando con successo alcuni programmi pilota di formazione, educazione finalizzati al reinserimento post detentivo e pratiche restaurative attraverso la mediazione tra reo e vittima o la creazione di reti comunitarie per favorire i processi di risocializzazione dei giovani. E proprio in base ai risultati ottenuti a Qalauma, su iniziativa della Gobernación si sta ora replicando lo stesso modello socioeducativo anche in altri centri di privazione di libertà per minori e giovani, in particolare nell’omologo Centro Cenvicruz inaugurato nel 2013 a Santa Cruz. Nonostante le enormi difficoltà e i rallentamenti di vario tipo, l’impegno italiano è stato quindi premiato dal governo boliviano (a breve anche un accordo quadro tra Progetto Mondo e il Ministero di Giustizia boliviano) con una collaborazione per l’effettiva applicazione del nuovo "Codice del Bambino, Bambina e Adolescente" promulgato lo scorso 17 luglio e alla cui elaborazione ha attivamente partecipato Progetto Mondo insieme alle altre organizzazioni e istituzioni che costituiscono il Tavolo inter-istituzionale sulla Giustizia Minorile creato nel 2007. A fine settembre si è svolto a La Paz un seminario internazionale sulla Giustizia Restaurativa conclusosi con la firma di una Dichiarazione (ribattezzata la "Dichiarazione di La Paz") che sancisce il formale impegno del Governo boliviano nel continuare il cammino di riforme intrapreso. Il documento, che ha in calce le firme di 100 personalità del mondo accademico e giuridico nazionale e internazionale, è stato firmato anche dal ministro di Giustizia Sandra Guiterrez. L’ultimo atto, di questo lungo processo di cooperazione che sta dimostrando un notevole impatto sulla vita dei minori e giovani in conflitto con la legge e, più in generale, a favore di un maggiore rispetto dei diritti umani in Bolivia, è senz’altro rappresentato dall’udienza svoltasi a Washington. Al termine della relazione, infatti, i relatori speciali della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) si sono detti impressionati della gravità della realtà presentata, riconoscendo in ogni caso gli importanti passi in avanti realizzati e lo sforzo di collaborazione con le istituzioni nazionali. Relatore per Progetto Mondo Mlal è stato il coordinatore del Programma su Giustizia Giovanile Restaurativa, Roberto Simoncelli.