Giustizia: a quando il reato di tortura? di Salvatore Scuto Il Garantista, 4 novembre 2014 Le parole che non avremmo mai voluto ascoltare le ha pronunziate, commentando la sentenza di assoluzione dei medici condannati in primo grado per la morte di Stefano Cucchi, il Segretario generale del Sap, uno dei Sindacati che rappresentano la Polizia. Per questo zelante funzionario dello Stato, Stefano Cucchi, in fondo, è morto a causa della sua vita dissoluta, abusando di alcol e di droga. Parole gravide di una sorda e strisciante violenza, che le pone al riparo da ogni umana pietà e comprensione e che con arroganza tentano di nascondere i fatti che pur quel processo ha accertato ovvero i segni delle percosse, le fratture, il calo ponderale che il corpo di Stefano Cucchi presentava quando la sua cella venne finalmente aperta. Sono le parole del custode che non esita a scagliarsi contro chi aveva il dovere di proteggere e curare, e lo fa una volta scampato alla responsabilità per la sua morte. Nel silenzio assordante delle istituzioni penitenziarie, della politica e dell’Esecutivo, lo Stato parla senza equivoci per bocca di un sindacalista, che così rappresenta con quale consapevolezza del proprio ruolo svolge la delicata funzione di custodia. Uno Stato che, nel momento in cui priva un suo cittadino del bene prezioso della libertà, non è in grado di proteggerne l’integrità fisica e la salute, così marcando indelebilmente il basso livello di civiltà che lo contraddistingue. Piaccia o no, al di là del processo e del suo stesso esito, con la morte di Stefano Cucchi muore quel sistema di regole, scritte e non, che ci ostiniamo a chiamare stato di diritto e che sono destinate a regolare la convivenza civile. Le regole su cui si dovrebbe fondare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e che dovrebbero consentire ad ogni familiare di un recluso di soffrire per la privazione della sua libertà senza dover nutrire timori per la sua incolumità. Così non è per il nostro Paese, così non è per la nostra società che si ostina a non volgere il proprio sguardo verso il carcere e le sue abiezioni, quasi sottomessa dal timore di vederne riflessa, come in uno specchio, la propria immagine. Nel silenzio e nella totale assenza di ogni iniziativa da parte dello Stato si continua così a scaricare il peso di un simile drammatico problema sul processo penale, stravolgendone la funzione e le finalità. Ma cosa si è fatto dopo la morte di Stefano per affrontare il problema costituito dalla tutela dell’incolumità di ogni persona privata della sua libertà per iniziativa delle forze di Polizia o su ordine dell’Autorità Giudiziaria? Cosa si è fatto per rendere più efficace la medicina penitenziaria? Domande che restano senza risposta mentre il processo per l’accertamento delle ipotizzate responsabilità per la morte di Stefano Cucchi consuma le sue dinamiche e si conclude con una fisiologica sentenza di assoluzione che subirà il vaglio del giudizio di legittimità. Un esito questo che va salvaguardato da ogni polemica, che non va né difeso né posto alla berlina: va semplicemente rispettato. Difficile, ma non impossibile, è lo sforzo teso a trovare un punto di equilibrio tra la domanda di giustizia che il caso Cucchi pone direttamente alle istituzioni repubblicane, al Parlamento ed all’Esecutivo, e la domanda di giustizia che è stata oggetto dell’esercizio della funzione giurisdizionale. L’assoluzione degli imputati di quel processo non può e non deve cancellare le gravi responsabilità che lo Stato, in tutte le sue articolazioni direttamente coinvolte, ha in questa drammatica vicenda. Quella sentenza ha risposto al quesito se gli imputati, secondo la prospettazione accusatoria, fossero responsabili della morte di Stefano Cucchi. Ed ha dato una risposta secondo le regole del processo e nel rispetto delle garanzie difensive; una risposta che, come detto, sarà sottoposta al vaglio del giudizio di legittimità secondo lo schema del sistema processuale vigente. La sentenza della Corte di assise d’appello di Roma, però, ha l’effetto di rimarcare, rendendole più evidenti ed attuali, le molteplici responsabilità segnate dall’imbarazzante assenza della politica e delle istituzioni. Cosa aspetta, infatti, il Parlamento ad introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura? Qual è l’inconfessabile motivo che determina tale timidezza del Legislatore nonostante la Convenzione Onu del 1984, ratificata dall’Italia nel 2002, e lo stesso precetto della nostra Carta costituzionale secondo cui è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà? Non è peregrina l’ipotesi secondo cui il processo per l’accertamento delle responsabilità per la morte di Stefano Cucchi avrebbe potuto avere esiti diversi se il reato di tortura fosse stato introdotto, così assegnando alla domanda di giustizia dei familiari di Stefano un respiro processuale più adeguato. Ed ancora. Sono proprio sicure le istituzioni interessate, stando a quanto si sente affermare in più sedi, che l’emergenza carcere sia superata grazie ai deboli interventi con cui si è fatto fronte al severo richiamo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo? Questi sono gli interrogativi ai quali la politica e le istituzioni sono chiamate a dare con urgenza risposte adeguate e convincenti, così rispondendo alla domanda di giustizia che il dramma di Stefano Cucchi ha posto e che è rimasta ancora senza risposta. Il processo penale, così, potrà assolvere la funzione che gli è più propria al riparo da ogni polemica. Giustizia: Bernardini (Ri); viviamo in un Paese dove nelle carceri esiste ancora la tortura Italpress, 4 novembre 2014 "La nostra battaglia per l’amnistia va avanti. Riteniamo che solo con la premessa di quella che noi definiamo l’amnistia per la Repubblica possa partire la riforma della giustizia in un Paese dove la giustizia non funziona, dove i processi durano troppo a lungo e con la loro irragionevole durata distruggono la vita dei cittadini e mandano al macero la Costituzione. Siamo in un Paese dove nelle carceri esiste ancora la tortura. Questo non lo diciamo noi Radicali, ma è stato documentato dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Insomma in un Paese così, è necessaria una lotta dura, che certo dà anche molte soddisfazioni". Così Rita Bernardini appena riconfermata segretario del partito Radicale, intervistata da Data 24 News. "Pensiamo al messaggio bellissimo del nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano in Parlamento, quando ha parlato di obbligo di uscire dall’illegalità da parte dello Stato. Lui stesso ha parlato di amnistia e di indulto. Fino al messaggio recentissimo di Papa Francesco. Da parte nostra - conclude - devo dire che quello che ci contraddistingue è una forza interiore: quella della leadership di Marco Pannella, che continua ad essere speranza e a darci speranza per esserlo anche noi". Giustizia: il Garante dei detenuti Angiolo Marroni "il carcere rimane un’istituzione violenta" di Danilo Patti Futuro Quotidiano, 4 novembre 2014 Il caso della morte di Stefano Cucchi - rispetto al quale la Corte d’Appello, suscitando polemiche e indignazione, ha assolto tutti gli imputati - riporta al centro del dibattito il problema della custodia nelle strutture di sicurezza e più in generale delle condizioni delle carceri italiane. Secondo i Radicali, a proposito di questo, la situazione generale nonostante gli ultimi provvedimenti non è per nulla risolta se - solo per citare un dato - "i detenuti presenti nelle nostre galere sono attualmente 55 mila ed i posti regolamentati soltanto 49.000". Di questo e delle problematiche legate alla violenza, alla normativa e alle scelte "politiche" di non intervenire sulle misure alternative Futuro Quotidiano ne ha discusso con Angiolo Marroni, Garante per i detenuti del Lazio. Avvocato, è normale che un cittadino entri in "custodia" dello Stato vivo ed esca da lì senza vita? Non è normale, ovviamente, ciò che è successo al giovane Cucchi. Ne ho parlato spesso anche in incontri pubblici con la famiglia. E penso che in ogni caso un colpevole o i colpevoli vadano trovati. Capisco l’imbarazzo del magistrato che si è trovato in condizione di non decidere. Ma è chiaro che il problema esiste e occorre fare fronte a ciò anche con altre indagini. Non so come ciò potrà accadere: è stata appena emessa una sentenza. Quanti casi del genere si affrontano? Questo ha scavalcato tutti. C’è da dire che la violenza sui detenuti dentro il carcere, che storicamente c’è sempre stata, è diminuita. Anche perché, come qui nel Lazio, siamo noi a vigilare. Che cos’è cambiato? È migliorata la cultura della polizia, degli educatori ed è migliorato il carcere in generale. Discorso diverso sono i casi di violenza tra detenuti. Quest’ultima è una situazione più complicata: i momenti di tensione, spesso tra nazionalità diverse o per rivalità banali, ci sono. Crede che sia eliminabile la violenza nelle carceri? Il carcere è di per sé un’istituzione violenta. Toglie la libertà, e con questa anche la libertà sessuale che in Italia ancora viene vista come un peccato. E le misure alternative? Sono sempre più rare. Non sono applicate come andrebbero, bisognerebbe convincere i magistrati. Il carcere, sia pur diminuendo la sua popolazione, rimane un’istituzione affollata e violenta. Quali sono i problemi che da garante si trova ad affrontare? Il diritto alla salute, ad esempio, Problema serio in quanto diritto primario e che tuttavia si fa fatica a far rispettare. Segue il diritto al lavoro: un diritto esercitato dal 15% dei detenuti. Per gli altri se non ci fossero le associazioni e le cooperative non ci sarebbe nessuna risposta. Poi un’altra domanda non tenuta in considerazione è il rapporto con la famiglia. In che senso? Parlo di territorialità della pena. La distanza produce dissesti disastrosi per le famiglie dei detenuti. Questo assieme alla mancanza, come dicevamo prima, di una norma sulla sessualità. Che tipo di risposte sono arrivate dall’azione del ministro della Giustizia Orlando? Il ministro ha fatto qualcosa. È riuscito a far diminuire il numero dei detenuti. E ha fatto aumentare la vivibilità con la direttiva di non tenere troppo in cella le persone e, assieme a questo, ha aumentato la messa in prova dei detenuti. Dall’altro punto di vista, per ragioni di cassa, ha ridotto i provveditorati e ciò non va bene. Così come il fatto che l’amministrazione penitenziaria non abbia ancora un capo. E poi, a fondo di tutto, sul 41bis permane sempre un silenzio enorme: è una pena aggiuntiva piuttosto unica. Pena certamente non costituzionale. Torna sempre il tema dell’amnistia e dell’indulto come una delle soluzioni. Tempo sprecato, non ci saranno. Il Parlamento non le voterebbe mai. Che soluzione propone il Garante dei detenuti? La riforma del codice penale: ossia privilegiare le misure alternativa. Perché il carcere è una misura estrema. Giustizia: il carcere preventivo? è soltanto una pena occulta accollata fuori dalla legalità di Massimo Krogh Libero, 4 novembre 2014 Un quotidiano napoletano giorni fa ha pubblicato la notizia che il Papa, parlando in un incontro con i giuristi della giustizia italiana, ha fra l’altro definito la carcerazione preventiva una "illecita pena occulta che va oltre la patina della legalità". È quasi commovente sentire dalla voce più alta della Chiesa una verità terrena così puntuale. Non a caso Francesco è un gesuita, l’ordine di cui sono note le aspirazioni culturali, ed anche democratiche. La Compagnia di Gesù ha sempre mirato ad un Chiesa fatta di piccole comunità autonome al posto di una Chiesa gerarchica. La cosiddetta Chiesa del popolo, la quale, anziché gli scopi ultraterreni della chiesa tradizionale, ha sempre perseguito l’uguaglianza e la liberazione dei popoli dalle ingiustizie sociali. Riprendo questa osservazione del Pontefice perché è assolutamente esatto ciò che lo stesso dice ed è assolutamente spiacevole che avvenga. Purtroppo avviene. La carcerazione preventiva (cautelare nel linguaggio dei codici), se applicata come anticipazione della pena, offende sia il principio di uguaglianza, trattando tutti gli indagati indistintamente come presunti colpevoli, sia il principio della libertà personale, che viene privata in modo illegittimo. Per chiarezza, è opportuno sapere cosa sia la carcerazione preventiva o cautelare secondo il codice e cosa è divenuta nell’applicazione concreta. L’articolo 273 del codice di procedura penale stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistano gravi indizi di colpevolezza. Per il successivo articolo 274, la misura deve essere emessa se sussista la pericolosità sociale, vale a dire un pericolo di inquinamento delle prove o un pericolo di fuga o un pericolo di reiterazione di reati della stessa indole. La statuizione normativa pare piuttosto chiara. I gravi indizi di colpevolezza rimuovono la presunzione costituzionale d’innocenza, e per altro verso la pericolosità sociale del soggetto impone la custodia preventiva come tutela della collettività. Nella pratica giudiziaria troppe volte le cose non vanno così. Accade che il pubblico ministero formuli un’ipotesi di accusa, che non dirado può rivelarsi un teorema, e dopo un esame dei presupposti e delle condizioni reso frettoloso dalla ritenuta gravità dei fatti, cattura come persona pericolosa il soggetto indagato. In tali casi, stante la carenza di approfondimento sulle condizioni e sui presupposti per la imposizione o per il mantenimento dello stato di custodia, questa si traduce nell’anticipazione di una pena che potrebbe non arrivare nel fumo dei tempi in cui si perde il nostro processo penale. È questo il disfacimento della giustizia nel nostro Paese. Direi che sia legittimo il sospetto che tale uso improprio della carcerazione discenda anche dalla consapevolezza degli stessi magistrati della inapplicabilità della pena vera e propria, quale riflesso delle disfunzioni della giustizia. Come a dire, il reo si faccia almeno un po’ di carcere. Come dice Francesco nelle sue prodigiose intuizioni, ciò è qualcosa che "va oltre la patina della legalità". Giustizia: i super-pm non aiutano… i troppi poteri dei magistrati "svuotano" le indagini di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 4 novembre 2014 Il livello di professionalità delle nostre forze di polizia è notevolmente cresciuto in pochi anni. Un esempio? Fino al 1996 per diventare sottufficiale dei carabinieri, il ruolo portante dell’Arma, era sufficiente possedere il diploma di scuola media inferiore. Ora i novelli marescialli sono tutti laureati in Scienza della Sicurezza e il corso dura un anno in più. È innegabile un cambio radicale dei programmi di studio. Nuove materie pratiche e teoriche, grande attenzione alle metodologie investigative, maggiore selezione all’ingresso. Il rovescio della medaglia di questa positiva e radicale modifica dei piani formativi è l’aspetto, per cosi dire, "pratico" della professionalità acquisita. Negli ultimi anni alcuni efferati omicidi hanno catalizzato l’opinione pubblica. Penso a quello di Chiara Poggi, a quello di Meridith o a quello di Ya-ra. Delitti il cui comune denominatore è il non essere riusciti, ad anni di distanza, a dare un nome all’assassino. A fronte di indagini lunghe e costose. Solo per Yara sono stati spesi oltre 3 milioni di euro in kit per analisi del Dna. ual è il file rouge che lega i tre omicidi che ho elencato? Le indagini fatte male. Che costringono poi in dibattimento il giudicante a "tamponare" sopralluoghi spannometrici, sviste clamorose, testimonianze importanti incredibilmente trascurate. In una parola a disporre nuove indagini. E ciò, a distanza di anni, quando le prove sono ormai evaporate e i ricordi lontani. Nel caso Garlasco, supplementi di perizie tecniche disposte in appello. Una riflessione sul perché, a fronte di una accresciuta professionalità teorica delle forze di polizia e a una evoluzione dei sistemi d’indagine difficilmente immaginabile solo qualche anno fa, non siano seguiti risultati investigativi degni di nota, credo sia doverosa. Provo ad azzardare una risposta. L’attuale codice di procedura penale - pessimo, una per tutte: è fittizia la parità fra accusa e difesa - accentra un potere incredibile sul pubblico ministero, il vero ras dell’intero sistema giustizia del Paese. È lui che dispone della polizia giudiziaria, che coordina le indagini, che decide quale indagine debba avere (alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale) una "corsia preferenziale". Il ruolo della polizia giudiziaria è diventato talmente marginale da essere di fatto ininfluente nelle scelte di politica criminale. L’attività della polizia giudiziaria si limita sostanzialmente a riferire "senza ritardo" la notizia criminis di cui è venuta a conoscenza. Dopodiché ogni ulteriore passo spetta al pubblico ministero. Tenere l’indagine "in sonno", procedere a una rapida iscrizione delegando le attività conseguenti, decidere di archiviare direttamente senza neppure passare dal vaglio di un giudice. Ovvero il mitico caso delle iscrizioni al registro modello 45. Il registro dei fatti, a giudizio insindacabile del procuratore della Repubblica, non costituenti notizia di reato. Di fatto un grosso cestino per episodi più o meno scomodi. Che è meglio non approfondire. Non si sa mai. La polizia giudiziaria, in questo quadro molto contingentato, si è rifugiata in due grossi gusci protettivi: l’intercettazione telefonica e l’indagine scientifica. Tralascio il ricorso ai collaboratori di giustizia. Un capitolo, nei fatti, ormai chiuso. Da vent’anni è sistematico il ricorso all’ascolto di conversazioni o all’analisi del Dna. Il caso delle intercettazioni telefoniche è emblematico: quello che il codice di procedura penale prevedeva come strumento investigativo "eccezionale" è diventato da mezzo dì ricerca della prova a mezzo di prova tout-court. Il sistema, comunque, è semplice. E alla fine soddisfa tutti. I magistrati che non hanno interlocutore e giocano la loro partita da soli; la polizia giudiziaria che, a parte qualche rara eccezione, è ben contenta di aver sostanzialmente appaltato la propria autonomia alla magistratura. Porsi al riparo dell’ombrello della Procura è un grande vantaggio. Non si rischia, qualsiasi cosa succeda si può sempre dire "è il magistrato che ha delegato". In una Repubblica fondata sull’avviso di garanzia non è poco. Anche perché fare indagini tradizionali costa maggior fatica ed impegno: ascoltare le vite degli altri è più facile. Il caso della trattativa Stato-mafia è emblematico: cosa viene contestato agli investigatori del Ros? L’aver tenuto sostanzialmente all’oscuro la Procura di Palermo della loro attività. Non è facile uscire da questo meccanismo. Soluzione? Copiare il sistema dei Paesi di common law dove le indagini sono svolte autonomamente dalla polizia, che poi trasmette gli elementi raccolti al pubblico ministero affinché decida, sulla base degli stessi, se esercitare o meno l’azione penale. Il pubblico ministero ha anche compiti di consulenza nei confronti della polizia ma, in generale, non ha poteri di direzione sulla stessa. Un sistema questo che, forse, garantirebbe un maggiori risultati. Giustizia: non è il processo d’appello la causa di tutti i mali di Stefano Pellegrini (Presidente della Camera Penale Regionale Ligure) Secolo XIX, 4 novembre 2014 Sul Secolo XIX di sabato 1 novembre è stato ospitato un articolo del dottor Michele Marchesiello, titolato "Condannati all’appello" in cui, prendendo lo spunto dalla vicenda giudiziaria relativa alla tragedia del giovane Stefano Cucchi, l’autorevole ex magistrato e opinionista attribuisce all’istituto dell’appello la causa di una serie di mali che affliggono la giurisdizione e che, a suo dire, giustificherebbero un senso di sfiducia nella giustizia da parte dei cittadini. Si tratta di affermazioni molto gravi per due ordini di ragioni: 1) la riproposizione di una certa idea di riforma del processo penale - che vede nel sacrificio delle garanzie del cittadino sottoposto a procedimento penale la via più facile e meno dispendiosa per velocizzare la generalità dei processi - nell’ambito dei commenti ad una particolare vicenda giudiziaria che, allo stato, registra la comprensibile insoddisfazione dei familiari della vittima e dell’opinione pubblica, per non essere state ancora accertate all’indomani della sentenza d’appello le responsabilità personali, per la morte di una persona che si trovava in regime di privazione della libertà personale. Affidata all’apparato dello Stato e, più in generale, a istituzioni pubbliche che ne avrebbero dovuto garantire l’incolumità e il rispetto dei diritti fondamentali; 2) il "depistaggio" di questa stessa opinione pubblica sulle cause dell’inefficienza del sistema giudiziario italiano, per poi individuare e presentare il rimedio dell’ abolizione dell’appello o della sua trasformazione "in un evento processuale del tutto eccezionale", non considerando che la rapidità - che sovente è indice di sommarietà- del giudizio è quasi sempre inversamente proporzionale alla qualità del risultato decisorio e, quindi, della sentenza. Il rischio della deresponsabilizzazione del giudice di primo grado, paventato dal dottor Marchesiello, cederebbe, pertanto, il posto a quello, ben più grave, della pronuncia di una decisione non adeguatamente ponderata e non emendabile. È ormai un dato statistico consolidato e considerato anche dai tecnici e dai giuristi delle commissioni che si occupano del progetto di riforma del processo penale, che l’allungamento dei tempi necessari per la definizione del processo stesso si registra nella fase inquirente e non in quella giudicante; mentre i ritardi nella celebrazione di quest’ultima - sempre con il conforto di indagini statistiche - dipendono, per la maggior parte, non dai tatticismi delle difese, ma da vizi di notifica degli atti del procedimento o da omesse o errate citazioni dei testimoni della pubblica accusa, se non a causa del mutamento della persona del giudice durante lo svolgimento del processo. Insomma, ancora una volta assistiamo al tentativo surrettizio di confondere i piani del ragionamento intorno alle cause delle disfunzioni della giustizia: un conto è l’analisi delle criticità e dei possibili rimedi all’interno delle fasi del procedimento e dei singoli gradi di giudizio; altro è svilire o eliminare tout court dal sistema della giurisdizione una garanzia del cittadino, privandolo della possibilità di denunciare un errore di fatto o di diritto - eventualmente intervenuto nel primo grado di giudizio - davanti a una Corte superiore. È bene ricordare, infatti, che l’eventuale scrutinio della Corte di Cassazione, davanti alla quale è impugnabile qualsiasi provvedimento giurisdizionale, riguarda solo vizi di legittimità o di motivazione della decisione ma non si estende, per disposizione di legge, alla rivalutazione e all’apprezzamento dei fatti. Singolare, peraltro, che l’istituto dell’appello venga sempre messo sotto accusa in occasione della pronuncia di sentenze di assoluzione e quasi mai nei casi contrari (che pure non mancano, anche nel nostro distretto), quando una condanna pronunciata in riforma di una sentenza assolutoria dovrebbe giustificare ben maggiori interrogativi e perplessità alla luce della regola costituzionale sul giusto processo; per cui il ragionevole dubbio (e tale dovrebbe essere quello indotto da un precedente giudizio di non colpevolezza) è incompatibile con l’affermazione della responsabilità penale. Giustizia: il corpo del morto è a tal punto sacro che non è pornografia la richiesta di verità di Luigi Manconi Il Foglio, 4 novembre 2014 Ha fatto bene, Giuliano Ferrara (ieri, su queste colonne), a sollevare qualche dubbio robusto sull’uso cinico della morte, che sarebbe svelato dalla pubblicazione sregolata e parossistica di immagini macabre. E non solo per il rischio di esaltare uno sguardo morboso su corpi martoriati, ma anche per lo scarso "rispetto per la semplice verità, che in molti di questi casi è difficile a rivelarsi". Una riflessione è, dunque, opportuna perché non c’è dubbio che una certa "pornografia della morte", lungi dal costituire un fattore di verità, può trasformarsi agevolmente in una sorta di sentimentalismo dell’orrore. Ma c’è un dato - che mi viene da definire materiale - difficilmente ignorabile. Se dal ragionamento generale, passo alla circostanza concreta, devo dire che senza la pubblicazione delle foto del volto di Stefano Cucchi, scattate all’obitorio, la sua vicenda sarebbe finita nell’oblio. Sono state quelle immagini - è inconfutabile - a determinare l’attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni, e perfino di una parte della classe politica e a impedire, così, che quella vicenda venisse silenziosamente archiviata. Ricostruisco i fatti. Nel pomeriggio del 27 ottobre 2009 io, Valentina Calderone e Valentina Brinis, ricevemmo dai familiari di Stefano Cucchi quelle foto. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica e disegnavano una mappa anatomica degli abusi patiti. Immagini strazianti, destinate inevitabilmente a colpire la sfera della sensibilità individuale. E a innescare un meccanismo emotivo che avrebbe suscitato più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento. Non solo: ricorrere a una dinamica psicologica, quando la questione richiama profonde implicazioni giuridiche e politiche, può costituire sempre un rischio, può spostare l’attenzione verso una dimensione impropria e può prestarsi a speculazioni di segno opposto. D’altra parte, risultava evidente che attraverso quelle foto, si penetrava, con tutta la potenza dei media, nella sfera più intima della personalità. Laddove il corpo inerme, il corpo degradato, il corpo senza vita acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo del morto è a tal punto sacro che, presso tutte le culture, è definita come sacrilegio qualunque offesa gli venga portata. In ogni caso quel corpo senza vita appartiene a chi ne è stato titolare e a nessun altro. L’unica eccezione immaginabile è rappresentata da chi lo (ri)prenda in custodia, in quel momento, in virtù del vincolo originario di genitorialità e di parentela. Un vincolo di sangue, certo, ma anche di accudimento reciproco tra la vita e la morte, dei genitori nei confronti dei figli, dei figli nei confronti dei genitori e tra fratelli e sorelle (consanguinei, appunto). Tutto ciò per dire che, ricevute quelle foto, non potei far altro che rimandare qualunque decisione sul loro utilizzo ai familiari di Cucchi. Parlai con Ilaria la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevo sbagliato anche solo comunicare la mia opinione prima di conoscere la loro, e che a quest’ultima mi sarei attenuto. Passarono quasi quattro ore e Ilaria mi comunicò che la famiglia aveva deciso per la diffusione di quelle immagini. Quindi, nel corso della conferenza stampa dell’indomani, le distribuimmo, autorizzandone la pubblicazione. Il resto venne di conseguenza. Se fossero rimaste chiuse nel fascicolo processuale, il corpo e la memoria di Stefano non ne sarebbero stati così irreparabilmente segnati, ma quanto della verità di quei fatti sarebbe stato burocraticamente depositato e forse dimenticato - insieme a quelle foto - in un fascicolo? E lo stesso può dirsi di altre immagini strazianti. Lucia Uva ha raccontato il passaggio dalla semplice e tragica notizia della morte del fratello (trattenuto illegalmente per quasi tre ore in una caserma dei carabinieri di Varese) alla sua potente oggettivizzazione iconografica: "Ho smesso di piangere e ho iniziato a guardarlo. L’avrò guardato per un quarto d’ora senza dire una parola". Il naso pesto, un bozzo dietro la nuca, un livido enorme sulla mano: per ogni segno, una giustificazione già pronta. "Prendo la macchina fotografica e inizio a scattare", fin sotto il pannolone messo a coprire gli abusi tra i genitali e il retto. "Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte. Un simile scempio non può rimanere impunito". Non doveva, Lucia, diffondere quelle foto indecenti del corpo martoriato del fratello? Non sapeva che così avrebbe attirato curiosità morbose? Certo, lo sapeva. Eppure non altro le restava: far vedere, far conoscere. Non la verità storica, né la verità giudiziaria, ma la semplice verità di quel corpo con cui l’una e l’altra, per quanto approssimative nelle loro ricostruzioni e acquisizioni, non possono non concordare. Quelle immagini di Cucchi, nuovamente esposte dalla sorella dopo l’assoluzione degli imputati, non sono un’ipotesi accusatoria determinata, ma stanno lì a ricordare che qualsiasi decisione giudiziaria non può prescindere dall’obbligo di spiegare la loro intima e impudica verità. Giustizia: accuso chi ha indagato e ha giudicato, non hanno voluto scoprire chi l’ha ucciso di Maria Brucale Il Garantista, 4 novembre 2014 La carcerazione preventiva è, nel nostro sistema processuale, l’ultima ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Cominciamo da qui, con le parole rivolte da papa Francesco all’Associazione internazionale di diritto penale: la carcerazione preventiva, "quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto", costituisce "un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità". E ancora: "Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte". Stefano Cucchi è morto a 31 anni in custodia cautelare. Il 15 ottobre 2009 viene fermato dalla polizia dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato in caserma e perquisito, viene trovato in possesso di 12 confezioni di varia grandezza di hashish, 21 grammi in tutto, tre confezioni di cocaina, ognuna di una dose, una pasticca di un medicinale. Stefano soffriva di epilessia. Era alto 1.76 e pesava 43 chili. Viene arrestato e processato per direttissima. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi attorno agli occhi. Il calvario è iniziato. Dalle celle del Tribunale, al carcere di Regina Coeli, al Fatebenefratelli - dove vengono messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome, una frattura della mascella, un’emorragia alla vescica e al torace; due fratture alla colonna vertebrale - ancora al carcere e, infine, alla struttura detentiva dell’ospedale Sandro Pertini dove Stefano muore, il 22 ottobre 2009. Ha perso sei chili, è disidratato e denutrito. Il suo corpo porta i segni orribili di un martirio. È solo. I familiari non lo hanno potuto vedere. Non hanno saputo nulla delle sue condizioni di salute. Medici e infermieri non hanno sentito il dovere di chiamarli, di avvisarli. Stefano è morto solo. I familiari hanno appreso da un ufficiale giudiziario della sua fine. Serviva il consenso per l’autopsia. Non doveva essere arrestato Stefano. Deteneva una modesta quantità di droga, era malato e fragile o "vulnerabile" come dice papa Francesco. Ecco il primo punto dolente della tragedia di Cucchi: una persona nelle sue condizioni, per quel reato, non doveva mai entrare in carcere al di là dell’orrore che ne è seguito. E ancora, una legislazione diversa in materia di detenzione di stupefacenti, e di hashish in particolare, una normativa nella direzione proposta con forza dai Radicali - che ne hanno fatto il centro mediatico anche del congresso a Chianciano - che ammette la cannabis per uso terapeutico (i cui effetti benefici sull’epilessia sono ormai certificati), avrebbero creato uno sbarramento normativo. Oggi Stefano sarebbe vivo. Era epilettico e gracile. Non doveva essere arrestato. A cinque anni dalla sua morte resta lo strazio per quello che non si è fatto, che non è stato e che doveva essere. La Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria: mancanza di prove. Niente prova, niente condanna. Giusto, santo principio di diritto. Ma il punto è: i giudici si ricordano della necessità di una prova granitica solo quando imputati sono forze dell’ordine o appartenenti a strutture protette? E le indagini? E le escussioni testimoniali? Che reazioni hanno avuto pm e giudici davanti alla reticenza? Alla menzogna? Cucchi era in carcere. Ogni suo movimento era registrato. Il personale che lo accompagnava, spostava, dovrebbe essere noto. I medici basta che fossero presenti, ciascuno al momento del suo turno. Non si sono accorti che moriva o che si lasciava morire? Non era compito loro impedirlo? Dodici imputati sono pochi. Dove sono tutti gli altri? Tutti coloro che non potevano non vedere in che condizioni era Stefano, non sentire l’invocazione di aiuto urlata se non da lui dal suo corpo che si spegneva? Dove sono tutte le persone che nel passaggio da una all’altra struttura statale protetta avevano il dovere di custodire, preservare, proteggere Stefano? Chi ha voluto che morisse? Chi ha lasciato che morisse? Chi ha costruito - sapientemente e non - false versioni che non stavano in piedi? Tutti assolti. Stefano è morto nelle mani dello Stato, dei medici, del personale ospedaliero. Un’azione (o un’omissione) frammentata e collettiva ha portato alla sua morte. Quanti hanno taciuto? Omesso? Nascosto le responsabilità proprie e di altri? Quanti sono i responsabili della morte di Stefano? Non è l’assoluzione che sconcerta più di tutto. È la sotterranea, strisciante percezione che non si sia cercata la verità. Stefano Cucchi è morto. Nessuno ha visto. Nessuno ha sentito. Nessuno parla. Qualcuno lo ha preso in consegna. Qualcuno lo ha massacrato di botte. Qualcuno ne ha registrato l’ingresso in carcere, in ospedale. Qualcuno doveva curarlo ma ha lasciato che morisse. Il corpo straziato di Stefano è stato visto da tutti. Tutti assolti. Lo Stato si assolve. Mentre Giovanardi nega perfino il pestaggio, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, commenta il processo per la morte di Stefano Cucchi: si dice soddisfatto: "in questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità". "Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie". Allora Stefano è morto di overdose? Per strada? Mentre ballava ad una dissoluta festa tra amici? Si è schiantato con la macchina perché guidava ubriaco? No! È morto nelle mani dello Stato! "Quando un cittadino è nella custodia dello Stato - ricorda il Senatore Luigi Manconi - il suo corpo diventa il bene più prezioso, qualunque sia il suo curriculum criminale. La legittimazione morale dell’azione dello Stato sta nella garanzia della sua incolumità. Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado, quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale". Ancora: "Non è accettabile - dice Pignatone, procuratore capo di Roma - dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato". Promette di riaprire le indagini, Pignatone, se verranno segnalati elementi di novità. Un atteggiamento sano, di interesse alla verità che lascia uno spiraglio di speranza. Sono troppe le morti di Stato senza colpevole. Poche sono note: Dino Budroni, Michele Ferulli, Giuseppe Uva. Uccisi ma senza assassini. Per l’omicidio di Federico Aldrovandi gli imputati sono stati condannati, omicidio colposo. Nella sentenza la descrizione di una ferocia che si fa fatica davvero a chiamare "colpa", nella sua portata codicistica "negligenza, imprudenza o imperizia": manganelli spezzati accanto al corpo di Federico, un corpo straziato, ammanettato a faccia in giù, a lungo, mentre moriva. Indossano ancora la divisa. Sono ancora tutori della legge. Lungi dall’approdo a una deriva giustizialista e manettara, occorre affermare con forza il principio - un principio di garanzia e di giustizia - dell’ eguaglianza sostanziale che muore ogni volta che sotto processo ci sono "i buoni" per dogma, e farsi portatori rabbiosi dell’esigenza sempre più pressante che si sfondi un sistema corporativo e omertoso che si ripiega su sé stesso proteggendosi. Finché non capiremo, non capiranno, che la punizione delle "mele marce" non è un segno di debolezza ma di forza, saremo sempre deboli, corrotti e colpevoli. Tutti. Ma assolti, tutti. In nome del popolo italiano. Giustizia: Magistratura Democratica; mancanza di verità su Cucchi è sconfitta per lo Stato di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 novembre 2014 Intervista a Luca Poniz, procuratore aggiunto di Milano. "Non vogliamo difendere né accusare nessuno, non diamo voti. Solo non possiamo nascondere l’evidenza che questa vicenda della morte del povero Stefano Cucchi è una sconfitta per alcuni pezzi dello Stato. Quale pezzo e da chi era rappresentato in quei frangenti, bisognerà accertarlo". Luca Poniz, procuratore aggiunto di Milano, fa parte del comitato esecutivo di Magistratura Democratica, la corrente delle toghe che ieri è intervenuta sul caso Cucchi con una nota pubblicata sul sito. Dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma, il vostro è un segnale importante, dall’interno della magistratura… No, no. Sia chiaro: il nostro comunicato non può e non vuole essere una critica a una sentenza, a questo o a quel grado di giudizio. Il problema è chiedersi se tutta questa vicenda, nell’insieme, dalla sua genesi fino all’attuale giudizio lasci rassicurati. Non tanto sul fatto che la decisione sia conforme oppure no alle aspettative della famiglia, ma se sia rassicurante rispetto ad una vicenda davvero molto particolare. C’è una persona che viene affidata a un pezzo del nostro Stato - la parola "Stato" è troppo generale per poter essere univocamente utilizzabile come foriera di responsabilità - al momento dell’arresto; poi a un altro pezzo dello Stato al momento del trasferimento in carcere; poi ancora ad un altro pezzo, i servizi sanitari; e a un altro, quello giudiziario; e infine a quello della decisione. In ciascuno di questi segmenti c’è stato qualcosa che evidentemente non ha funzionato. A cominciare da una circostanza non adeguatamente valorizzata che il povero Cucchi nel momento in cui forse avrebbe potuto raccontare cosa gli era successo non ha potuto o non ha voluto, forse anche perché non si fidava di quei pezzi dello Stato che aveva incontrato. In questo senso è una sconfitta. Quindi nessuna "autocritica"? Non sono abituato a commentare sentenze di cui non conosco nemmeno le motivazioni. Ma anche come cittadini non possiamo nasconderci che quella persona è morta e che è accertato e pacifico che Cucchi ha subito delle lesioni che non sono state auto-inferte. Vuol dire che qualcosa di illecito è stato commesso a suo danno. E questo significa che un pezzo dello Stato ha fatto male, illecitamente o addirittura con dei reati il proprio lavoro. Nella nota scrivete anche: "È una sconfitta per le forze dell’ordine che non hanno saputo collaborare lealmente all’accertamento della verità". Tutto ciò, dite, "ci impone un rinnovato impegno a presidio delle garanzie e a tutela dei diritti di chi è debole e non ha altra forza che quella che la Legge gli riconosce". Insisto: non sarebbe stato più giusto che la Corte d’Appello rinviasse gli atti in procura? L’assoluzione non significa che la Corte vuole chiudere la vicenda. Cercando il nesso tra le lesioni e la morte, la Corte ha assolto tre categorie di imputati - agenti, medici e infermieri - cioè coloro ai quali astrattamente le lesioni e le cure ipoteticamente omesse erano ascrivibili, ma non aveva titolo di poter immaginare altri tipi di responsabilità. Ciò non impedisce alla procura di formulare altre ipotesi. Insisto sull’ambito preciso nel quale il comunicato di Md si vuole collocare: da uomini e donne dello Stato sentiamo che nell’insieme questa vicenda lascia un evidente senso di insoddisfazione. Ma anche di impotenza. Perché uno Stato, che sulla carta ha un gigantesco potere, in questo caso ha dimostrato di arrendersi, comunicando ai cittadini che hanno seguito il caso un senso di impotenza e anche di non chiarezza. Rimane infatti enorme il quesito di chi sia stato a infliggere quelle lesioni. Perché le lesioni ci sono state. Questo è ciò che l’opinione pubblica percepisce con sgomento. E anche noi magistrati abbiamo difficoltà a spiegare perché quella domanda non ha ancora una risposta. Il comunicato del Comitato Esecutivo di Magistratura Democratica Cinque anni e due gradi di giudizio non hanno consentito di accertare responsabilità penali per la morte di Stefano Cucchi e tuttavia è stato provato in giudizio che egli fu vittima di violenza mentre si trovava in stato di arresto. È una sconfitta per lo Stato, che può privare della libertà personale chi sia gravemente indiziato di un reato, ma ha il dovere indefettibile di garantirne l’incolumità. È una sconfitta per le forze dell’ordine, che, ancora una volta, non hanno saputo collaborare lealmente all’accertamento della verità. È una sconfitta per il sistema penitenziario e per il Servizio Sanitario Nazionale che non hanno saputo assicurare assistenza e cure adeguate a chi ne aveva bisogno. È una sconfitta per il sistema giudiziario nel suo complesso, e non perché gli imputati sono stati assolti (in uno Stato di diritto la responsabilità penale è personale), ma perché quel sistema non ha saputo infondere in un giovane arrestato - pur assistito da un Difensore e interrogato da un Giudice in udienza di convalida - la fiducia di cui avrebbe avuto bisogno per denunciare chi, con grave violazione dei propri doveri, aveva attentato alla sua integrità fisica. Questa sconfitta ci coinvolge come Magistrati e come cittadini: ci interroga sulla capacità del sistema di assicurare effettiva tutela ai diritti violati; ci sfida ad affinare le nostre capacità di ascolto e la nostra attenzione per le vicende umane sottese ad ogni procedimento; ci impone un rinnovato impegno a presidio delle garanzie e a tutela dei diritti di chi è debole e non ha altra forza che quella che la Legge gli riconosce. C’è molto su cui riflettere, tanto più in un tempo in cui, troppo spesso, la giurisdizione viene rappresentata come un orpello inutile e vetusto. Giustizia: caso Cucchi; al via l’inchiesta-bis. E Celentano scrive a Stefano di Lavinia Di Gianvito Corriere della Sera, 4 novembre 2014 Nel mirino dell’accusa potrebbero finire i carabinieri che arrestarono il geometra e altri medici che lo visitarono. Il Sappe querela la sorella di Stefano. Pace fatta. Anzi no. È gelo - ancora una volta - tra Ilaria Cucchi e la procura di Roma nonostante il capo, Giuseppe Pignatone, abbia promesso di rivedere le carte dell’inchiesta sulla morte di Stefano. Il grande freddo scoppia quando il magistrato, per la prima volta da quando si è concluso il processo d’appello, spende qualche parola in difesa dei pm che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, in questi giorni alquanto "irritati" dalle "non poche inesattezze" circolate sulla vicenda. "Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio", sottolinea Pignatone dopo aver avuto con loro un colloquio di un’ora. Per Ilaria, che con i due sostituti si è scontrata più volte, è come gettare benzina sul fuoco: "Non sono passate nemmeno due ore (dall’incontro con la famiglia Cucchi, ndr) - si arrabbia la sorella del geometra - e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo". Sarà una revisione a tutto campo. E stavolta nel mirino dell’accusa potrebbero finire i carabinieri che nel 2009 arrestarono Stefano Cucchi e lo condussero in tribunale per l’udienza di convalida. Ma anche i medici del Fatebenefratelli e di Regina Coeli che nelle ore successive lo visitarono. Ad annunciare, tra le righe, la novità è il procuratore Giuseppe Pignatone: "Procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell’inchiesta, dal primo all’ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo". Si agirà, sottolinea il magistrato, "con animo sereno e senza pregiudizio, né positivo né negativo, e all’esito di questo esame, una volta conosciute le motivazioni della sentenza della corte d’assise di appello, faremo le nostre valutazioni". Pignatone spiega su quali binari si muoverà l’inchiesta-bis dopo aver incontrato i familiari di Cucchi. Un incontro durato appena un quarto d’ora, al termine del quale Ilaria anticipa: "Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio". Il magistrato inoltre, riferisce la sorella di Stefano, "ha fatto le condoglianze ai miei genitori. Era la prima volta che li vedeva. Una frase così scalda il cuore dopo 5 anni che mio fratello è stato trattato come un cane e noi siamo stati presi in giro dalla giustizia". Prima dell’appuntamento con Pignatone, ai microfoni di RaiNews24, Ilaria aveva sottolineato: "Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Mio fratello è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato mio fratello". Intanto dopo le proteste, lo sconcerto, le manifestazioni di solidarietà alla famiglia, sul caso Cucchi arriva anche una lettera di Adriano Celentano. Che dà degli "ignavi" ai giudici responsabili dell’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte di Stefano, il 33enne arrestato a Roma e poi deceduto per le percosse il 22 ottobre 2009, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Celentano se la prende con i magistrati del Tribunale di Roma e cita l’aria "flebile e malata di quei giudici ignavi", i quali, "come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene e né da quella del male". Dunque, "sono i più pericolosi", scrive il cantante. Ma dalla parte opposta arriva un attacco durissimo: il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ha sporto querela contro la sorella del geometra. "Dopo essersi improvvisata aspirante deputato prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni dei pm - si legge in una nota, magari per confezionare la sentenza che più la soddisfi". "C’è un problema culturale di portata enorme - interviene il senatore Luigi Manconi: quando due sindacati di polizia, il Coisp e il Sap, sostengono che "lo stile di vita dissoluto di Cucchi è stata la causa della sua morte" e quando un parlamentare della Repubblica, Giovanardi, parlando di Cucchi lo definisce "larva, zombie, anoressico, epilettico, tossicodipendente", vuol dire che messaggi del genere si trasmettono agli apparati dello Stato che hanno a che fare con persone simili a Stefano Cucchi. È quindi evidente che queste persone, quelle che hanno incontrato Stefano, lo abbiano guardato come un cittadino di serie B. E che lo abbiamo ritenuto una persona condannabile e non considerato come essere umano di pari dignità rispetto agli altri". Quanto a Celentano, nella sua lettera postata sul profilo del blog "Il Mondo di Adriano", l’artista scrive direttamente al giovane morto, immaginando di potergli parlare là dove potrebbe trovarsi, in Paradiso: "Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un’altra cosa. L’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c’è la luce, la luce vera! Che non è quella flebile e malata di quei giudici ignavi che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene e né da quella del male sono i più pericolosi, e giustamente il Poeta li condanna. Ma adesso dove sei tu è tutto diverso". E Celentano prosegue dando dell’omicida agli agenti di polizia penitenziaria: "Lì si respira l’amore del Padre che perdona" e non i sentimenti "di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire". "Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti. Perché dove sei tu non si può morire. La morte non è che un privilegio dei comuni mortali e quindi proibito a chi non ha la fortuna di nascere. Un privilegio dell’anima che, se non la uccidiamo del tutto, ci riconduce alla Vita eterna". Terni: le guardie gli dissero "impiccati o ti ammazziamo…" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 4 novembre 2014 Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 giugno del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S.D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla Polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de "Il Garantista" riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri. Carissimi/e compagni/e, prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male... ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico... così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne costatava la morte e facendo le fotografie al morto. Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano... quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Temi mi hanno trasferito subito! Ora possiamo fare aprire un’inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma lo ho fatto per quei due ragazzi che erano terrorizzati... ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciar impunita questa istigazione al suicidio... devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci... sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri Carcere di Spoleto, 20 settembre 2014 Livorno: detenuto di 55 anni nuore nel carcere di Porto Azzurro www.tenews.it, 4 novembre 2014 Un uomo di 55 anni, detenuto nel carcere di Porto Azzurro, è morto ieri. Si chiamava Vincenzo Saffioti ed era originario della provincia di Reggio Calabria. Avrebbe finito di scontare la pena nel 2018. Si è sentito male in cella, ed è stato soccorso dagli stessi detenuti che lo hanno portato a braccia verso l’infermeria. Il primo intervento sanitario è stato condotto dalla Misericordia di Porto Azzurro che ha tentato la rianimazione con un defibrillatore, con l’assistenza del medico del carcere dottor Tararà. È giunta in supporto anche l’ambulanza medicalizzata del 118 della Croce Verde di Portoferraio con a bordo il dottor Giovanno Gay. Ogni tentativo di rianimazione è stato però inutile. La salma è stata trasferita all’obitorio per l’esame autoptico. Cagliari: Pili (Unidos); per il nuovo carcere già spesi 95 milioni di euro e manca collaudo Ansa, 4 novembre 2014 "Nel nuovo carcere di Uta di collaudi non c’è traccia, di certificati di prevenzione antincendio meno che mai, l’obbligatorio certificato di agibilità inesistente". Lo denuncia il deputato di Unidos, Mauro Pili, che parla della struttura come di "un pozzo senza fondo senza collaudi e senza autorizzazioni". Il parlamentare sardo, che ha presentato questa mattina le istanze di accesso agli atti e di diffida al ministero della Giustizia, sostiene, infatti, che "il quadro finanziario di questo carcere ha raggiunto l’esorbitante cifra di 94,5 milioni di euro, a fronte di una disponibilità per euro 89,8 milioni, oltre 3 milioni di euro già a carico di Piano carceri per i lavori di completamento e gli allacci, sono stati stanziati 1,4 milioni di euro per maggior costi dei materiali e 3,3 milioni di euro derivanti da una transazione del 28 marzo 2013, stipulata con l’appaltatore. A questo si aggiunge - conclude Pili - ancora che il Commissario è stato autorizzato con la variazione al Piano del 18 luglio 2013 all’utilizzo delle maggiori somme per 4,7 milioni di euro per Uta". Cagliari: Sdr; l’area sanitaria del nuovo carcere di Uta ancora senza linee telefoniche Ristretti Orizzonti, 4 novembre 2014 "L’assenza di linee telefoniche nell’area sanitaria del Villaggio Penitenziario di Uta, a dodici giorni dal programmato trasferimento dei detenuti della Casa Circondariale di Cagliari, sembra ancora una volta dare credito all’incertezza sulla data del trasloco e alimenta l’ansia di detenuti, familiari e agenti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso del nuovo intoppo "che si aggiunge ad altri particolari non secondari". "Nella mega struttura, che comprende più padiglioni, non sono stati ancora ultimati - sottolinea Caligaris - i lavori non solo dell’ala destinata ai detenuti sottoposti al regime duro del 41bis ma anche di quella sanitaria. Ci sono anche problemi irrisolti nel seminterrato a causa delle infiltrazioni d’acqua che richiedono l’utilizzo di pompe aspiranti. Il trasferimento rischia di avvenire in condizioni di grave disagio e generare forti tensioni". "La situazione - aggiunge la presidente di Sdr - è molto delicata anche a Buoncammino dove l’incertezza sulla data del trasferimento sta facendo registrare una condizione ansiogena tra i detenuti e i loro familiari nonché un certo disagio dovuto all’alleggerimento dei bagagli. Per favorire il passaggio dei detenuti da un Istituto all’altro, ciascun ristretto potrà portare con sé non più di 8 chilogrammi. I cittadini privati della libertà hanno quindi provveduto a collocare nel Magazzino e/o inviare nelle loro case il peso eccedente rinunciando quindi a molti beni di necessità. Il protrarsi della permanenza nelle celle del vecchio Istituto con l’irrigidimento del clima, specialmente nelle ore notturne, sta aumentando il malessere". "Nel frattempo sono tornati nella Casa Circondariale gli Agenti che erano stati temporaneamente assegnati ad altri Istituti proprio in vista del trasferimento. È divenuto quindi improcrastinabile riverificare le date sulla conclusione dei lavori a Uta e ridefinire il numero dei detenuti all’interno di Buoncammino. Il trasferimento in una giornata, così com’è stato per Sassari-Bancali, può avvenire solo quando i ristretti sono in numero contenuto, circa 200. Attualmente invece a Cagliari ci sono oltre 360 detenuti, alcune decine dei quali in condizioni di salute precarie. Insomma prima di aumentare i disagi - conclude Caligaris - sarebbe opportuno riflettere e far prevalere il buon senso, mettendo da parte imprese velleitarie". Biella: Osapp; nel carcere di via Dei Tigli detenuti e guardie devono convivere con i ratti www.ilperiodicodibiella.com, 4 novembre 2014 Una situazione inconcepibile, sia per chi si trova lì per lavoro, che per coloro che, dentro il carcere di Biella, devono starci per scontare la loro pena: la struttura di via Dei Tigli, è infatti invasa dai topi, con cui ormai, detenuti e guardie, devono condividere gli spazi quotidiani. Il grido d’allarme, come al solito, arriva dall’Osapp, il sindacato della Polizia penitenziaria, che in queste battaglie riesce a perorare anche, la causa di coloro che per lavoro, deve controllare. "Quella dei topi - spiega Leo Beneduci, segretario generale Osapp - sembra essere la seconda emergenza penitenziaria più rilevante, in ambito nazionale, dopo quella del sovraffollamento. E anche in questo caso, le responsabilità vanno ricercate nell’incuria con cui l’Amministrazione Penitenziaria, gestisce le infrastrutture e il personale che vi è addetto". Un concetto, che trova la propria sublimazione, nei disagi quotidiani a cui deve far fronte, la popolazione della casa circondariale di via Del tigli: "Nel carcere di Biella - prosegue Beneduci - infatti, capita di incontrare i simpatici quanto deleteri mammiferi in ogni dove, tra il piano terra e il primo piano, tanto da dover considerare la possibilità di stabilire una tregua tra l’essere umano e il topo, ovvero tra chi debba condividere, tra l’una e l’altra dislocazione, lo spazio vitale". Quale miglior arma, contro una situazione di così grave degrado, dell’ironia? Benedici, infatti, rincara la dose: "Sebbene - conclude infatti Leo Beneduci - il ratto in carcere, non abbia alcuna attinenza con le attività di rieducazione e trattamento, occorre che prima o poi si prenda atto che la pantegana, in quanto tale, costituisce componente essenziale e insostituibile della vita penitenziaria, almeno nel nostro paese". Monza: è arrivato l’attestato di "operatore del legno" per dieci detenuti di Pierfranco Redaelli Avvenire, 4 novembre 2014 Falegnami ma non solo. C’è molto di più dietro al progetto che ha portato dieci detenuti del carcere di Monza a conseguire l’attestato di "operatore del legno". C’è un’idea che va ben oltre le sbarre. Nei mesi scorsi sono stati selezionarli dieci cui è stato proposto di conoscere e imparare l’antica arte del "Legna-mee", dal nome della falegnameria gestita da Cooperativa Sociale 2000 del Consorzio Exit di Monza, che con i suoi volontari da anni è attiva nel penitenziario monzese. Attraverso la "dote formazione e lavoro soggetti deboli" finanziato dalla Regione Lombardia, l’ente formativo "Immaginazione è Lavoro" in collaborazione con Cooperativa Sociale 2000 ha predisposto il percorso di formazione di 150 ore, durante il quale i reclusi - grazie alla moderna attrezzatura del laboratorio del carcere - hanno realizzato arnie per apicoltura e vassoi con la tecnica dell’intarsio. Si sono destreggiati tra proiezioni ortogonali ed essenze del legno, incastri e intagli. Il risultato è stata un’esperienza di valore formativo, professionale e umano. Durante la cerimonia di consegna degli attestati, gli allievi hanno voluto ringraziare la direttrice dell’istituto, Maria Pitaniello, donandole uno stupendo vassoio. Poco più di un mese fa protagoniste erano state le detenute che avevano presentato i prodotti del loro orto: insalata, patate, zucchine coltivati con passione. Progetti questi che, oltre a qualificare la giornata del detenuto, consentono di aprire la strada al futuro reinserimento nella società. Napoli: all’Ipm di Nisida decima edizione Progetto "Nella memoria di Giovanni Paolo II" Ristretti Orizzonti, 4 novembre 2014 "Nella memoria di Giovanni Paolo II" il 4 novembre a Napoli con Gigi D’Alessio, Edoardo Bennato e Tosca D’Aquino e il Rockers Cattolico Roberto Bignoli per dare voce ai ragazzi di Nisida. All’Istituto Penale per Minorenni la decima edizione della manifestazione promossa dalla Life Communication in collaborazione col Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia. Sensibilizzare le istituzioni e la società civile al fine di offrire una reale opportunità di riscatto e reinserimento lavorativo a tutti i giovani provenienti dal circuito penale. È questo uno degli obiettivi principali che caratterizza il progetto "Nella memoria di Giovanni Paolo II", giunto alla sua decima edizione, promosso dalla "Life Communication produzioni televisive e grandi eventi" in collaborazione col Ministero della Giustizia - Dipartimento della Giustizia Minorile e patrocinato dalla Conferenza Episcopale Italiana - Ufficio delle Comunicazioni Sociali. L’iniziativa, nata in Calabria da Domenico Gareri, autore e conduttore televisivo, si propone di ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati nella storia della Chiesa e diffondere i suoi messaggi dal profondo significato sociale, culturale ed evangelico alle nuove generazioni. L’evento dallo scorso anno, nell’ambito del Protocollo d’intesa siglato con lo stesso Dipartimento del Ministero della Giustizia, si svolge all’interno degli Istituti Penali Minorili e, dopo aver fatto tappa all’Istituto "Malaspina" di Palermo, martedì 4 novembre si terrà nell’Istituto di Napoli-Nisida. La manifestazione - patrocinata dall’Arcidiocesi di Napoli, dalla diocesi di Pozzuoli, dalla Regione Campania, dal Comune di Napoli, dalle Camere di Commercio di Napoli e di Catanzaro - dedicherà, anche quest’anno, una particolare attenzione ai "piccoli" secondo il Vangelo, i ragazzi che vivono in situazioni di disagio e diversamente abili, attraverso l’ausilio di performance artistiche e testimonianze di noti personaggi del mondo delle istituzioni, della cultura e dello spettacolo. Tanti sono, infatti, gli artisti napoletani "doc" che hanno voluto sposare e condividere l’impegno sociale alla base della manifestazione. Insieme a Domenico Gareri saliranno sul palco Tosca D’Aquino, nelle vesti di co-conduttrice, e due cantautori particolarmente legati alla tradizione partenopea, come Edoardo Bennato e Gigi D’Alessio, che verranno insigniti del premio "Nella Memoria di Giovanni Paolo II" realizzato dal maestro orafo Michele Affidato. Nel corso della serata ci saranno le testimonianze dell’Arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, e del cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, che fu segretario di san Giovanni Paolo II. Saranno, inoltre, consegnati dei premi anche agli "artisti speciali" del Giffas Onlus, operante da diversi anni in attività di riabilitazione psico-motoria, ai maestri cattolici italiani, impegnati quotidianamente a diffondere la cultura evangelica nella scuola e alla comunità di S. Egidio, movimento laico ispirato ai valori del dialogo, della pace e della solidarietà. Tra gli altri ospiti ci sarà anche il rocker cattolico Roberto Bignoli autore ed inteprete della bellissima canzone "Non Temere" dedicata a Giovanni Paolo II Roberto (artista diversamente abile impegnato nel sociale) parlerà della sua esperienza attraverso il suo libro "Il mio Cuore Canta" Piemme Incontri uscito da poco in tutte le librerie d’Italia e non mancheranno, inoltre, i contributi artistici di importanti aggregazioni sociali e realtà musicali che raggiungeranno Napoli grazie anche alla collaborazione dell’Aig (Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù): l’Ars Canto "G. Verdi" - coro di voci bianche giovanile del teatro Regio di Parma -, l’Orchestra Giovanile di Laureana di Borrello e il Coro dell’Unione Italiana dei Ciechi di Catanzaro. Le coreografie saranno dirette dal maestro Giovanni Calabrò e realizzate dal Centro Studi Artedanza. Di particolare rilievo sarà, inoltre, la presenza attiva dei giovani provenienti dal circuito penale, che proporranno alcune testimonianze ispirate ai temi dell’evento, ai quali si intende offrire una reale opportunità di riscatto e reinserimento lavorativo. "Siamo orgogliosi - ha commentato l’ideatore Domenico Gareri - di poter collaborare con il Dipartimento del Ministero della Giustizia in un percorso volto a sensibilizzare, attraverso la comunicazione sociale, la società civile e le istituzioni sull’importanza di offrire reali opportunità socio-lavorative ai minori che usciranno dagli istituti penitenziari al termine del periodo di detenzione". Per ulteriori informazioni sull’evento è possibile visitare il sito internet www.sclifecommunication.it o telefonare al numero 0961468131. Torino: addio al capolinea dei bus al carcere delle Vallette, si arriva ma non si riparte più di Gabriele Guccione La Repubblica, 4 novembre 2014 Il bus in arrivo ogni venti minuti dal centro continua a fermarsi davanti all’istituto di pena. Ma non riparte più. Alle Vallette si può arrivare, ma non tornare indietro verso il centro città, come quando c’era il capolinea. Chi deve rientrare in città, familiari dei carcerati, dipendenti, operatori sociali, ma anche i 46 detenuti in regime di semilibertà che tutti i giorni escono per andare a lavorare e poi rientrano, non ha molte scelte: o fare più di un chilometro e mezzo a piedi fino al nuovo capolinea di piazzale Vallette o aspettare alla fermata che passi un altro bus nella stessa direzione, arrivare al nuovo capolinea, attendere che il mezzo riparta, e da lì avviarsi verso piazza Solferino. Una doppia attesa, insomma, dato che al ritorno non è previsto che il bus passi dal carcere. Di fatto è come se ci fossero due linee 29: una per chi dal centro cittadino è diretto al carcere. E un’altra, che ritorna indietro, ma dal carcere non ci passa. All’origine due mesi fa della soppressione del capolinea ci sarebbe l’esigenza di garantire agli autisti servizi igienici e un punto di sosta confortevole. Non si capisce, però, perché il bus sia a senso unico solo per la fermata del carcere e, al di là di dove faccia capolinea, non torni a caricare i passeggeri in uscita dalle Vallette. Una domanda che resta aperta anche per il direttore della casa circondariale, Domenico Minervino, che ha scritto una lettera a Gtt per chiedere il ripristino del servizio: "Quel bus è molto utilizzato - chiarisce - Ma adesso le attese si sono dilatate ed è diventato difficile per chi è in regime di semilibertà rispettare i tempi di uscita e di entrata. A Gtt ho fatto presente la situazione dicendo che sono pronto a mettere a disposizione per la sosta degli autisti i nostri servizi igienici e il nostro punto ristoro. Ma non ho avuto risposta". Ma perché il capolinea non esiste più? "Forse per ragioni di risparmio", ipotizza il direttore. Ma qualcuno azzarda scenari diversi. Anna Greco, sindacalista Cgil, ha scritto a sua volta una lettera al sindaco Fassino: "Si dice di non meglio identificati motivi di sicurezza, per cui ci sono state delle lamentele – racconta. Non vorrei che sia l’ennesimo tentativo di tagliare fuori il carcere dal tessuto della città: non potendo sopprimere del tutto il bus, si è pensato di abolire il capolinea". Motivi che se confermati fanno tornare in mente la proposta-provocazione del sindaco di Borgaro di creare una linea 69 solo per i rom. Sono solo supposizioni, ma sono balenate in testa anche al direttore Minervino: "In passato, quando ci sono stati episodi di intemperanza da parte di qualcuno, le nostre guardie sono sempre intervenute. Essere vicini è una garanzia. Non passi l’idea che il carcere sia un luogo che è meglio tenere nascosto". Il caso finirà in Sala Rossa, dove il consigliere di Sel, Michele Curto, ha presentato un’interpellanza all’assessore Claudio Lubatti: "Il capolinea presso il carcere è stata una conquista di civiltà di dieci anni fa. Se qualcuno pensa di tornare indietro si sbaglia". Livorno: al via a progetto pilota di pet-therapy con carcere di Gorgona leader nazionale di Lara Loreti Il Tirreno, 4 novembre 2014 Giù le mani dagli animali. Basta uccisioni di suini o capre al macello, sì a percorsi di amicizia tra uomo e cani, gatti e maialini nativi dell’isola di Gorgona. Sono gli stessi detenuti dell’isola carcere a chiedere al direttore Carlo Mazzerbo di mettere fine al macello degli animali, i quali, nel percorso di reinserimento sociale del detenuto, rappresentano una vera e propria risorsa. Un sos che non è rimasto inascoltato. Mazzerbo ha preso in mano la situazione e con l’aiuto del veterinario dell’isola Marco Verdone e di altre figure esperte, tra cui volontari che fanno attività in Gorgona, ha immediatamente avviato un percorso virtuoso di relazione tra uomo e animale. Ed ecco che, sulla scia del desiderio dei detenuti di stabilire un rapporto con gli animali dell’isola, la scorsa primavera sono fioccate le prime "grazie", chieste proprio da loro. Sono state così risparmiate dalla morte la maialina Bruna, le mucche Valentina, Sara, Rossina e Castagna e la vitellina Giulietta. Ma c’è di più. Gli animali dell’isola si preparano ad essere promossi educatori a quattro zampe, da affiancare al detenuto per avviare un processo di riabilitazione basato sulla pet therapy. L’animale diventa un punto di riferimento per il detenuto, che a sua volta, avvia un iter di rieducazione sociale proprio grazie al rapporto con il suo nuovo "partner". Un progetto che in Gorgona è già stato avviato a marzo e che ora si sta evolvendo, coinvolgendo anche altri enti. Venerdì scorso, infatti, sull’isola è approdata una delegazione formata da Luca Farina, direttore del Centro di referenza nazionale interventi assistiti con gli animali, e dall’educatrice Luisa Varotto. Si tratta di un ente, che ha sede in Veneto, istituito nel 2009 con decreto del Ministero della Salute, che si occupa di interventi assistiti con gli animali nel campo dell’educazione, terapie e di altre attività. L’idea è quella di fare della Gorgona il centro pilota di un progetto nazionale di pet therapy che coinvolga vari istituti detentivi. Madrina dell’iniziativa, Marta Gazzarri, consigliera regionale di Toscana Civica, che sta già lavorando a un convegno regionale sul tema. Bologna: "Giallo Dozza Rugby", lo sport in carcere aiuta a imparare regole e disciplina www.estense.com, 4 novembre 2014 "Tornare in campo" è l’iniziativa che ha preso le mosse per iniziativa del ferrarese Stefano Cavallini, presidente del Giallo Dozza Bologna Rugby, e del Provveditorato regionale alle case di Pena, assieme alle carceri Regionali (Ferrara compresa) per portare il Rugby fra i detenuti come strumento educativo. Domenica scorsa dietro i cancelli del carcere bolognese una prima tappa del percorso si è concretizzata con la partita fra gli atleti del Giallo Dozza Bologna Rugby, detenuti che partecipano al progetto e si allenano da solo quattro mesi, e la squadra dello Stendhal Parma, che milita nel campionato C2 Girone Emilia Romagna. Per la cronaca, la partita è finita 71 a 10 per o Stendhal. "Abbiamo preso una batosta - spiega Stefano Cavallini ai microfoni di Repubblica.tv - ma vedere questi ragazzi che sono solidali fra loro, hanno rispetto dell’avversario, che si impegnano con determinazione e disciplina, è una soddisfazione enorme". La squadra del Giallo Dozza Bologna Rugby si compone di giocatori che sono stati "pescati" dai vari istituti di pena dell’Emilia Romagna, fra i quali figurano anche quattro atleti provenienti dalla casa circondariale di Ferrara, ed è stata inserita nel campionato di C2, con l’unica limitazione di dover giocare sempre in casa sul campo del carcere della Dozza di Bologna. "L’idea - spiega Stefano Cavallini - è una mia "pensata" sulla scorta di quanto già fatto al carcere delle Vallette di Torino, dove questo tipo di esperienza ha già quattro anni di vita. Ne ho parlato con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, Pietro Buffa, che è stato direttore del carcere di Torino fino al 2012, e da quel momento è stato messo in piedi questo progetto. Fin dalla prima partita, quella di domenica, abbiamo assistito a qualcosa di straordinario. Oltre ai giocatori in campo avevamo anche il pubblico, con i detenuti della Dozza a fare il tifo dalle finestre con striscioni e stracci colorati. "Regole e disciplina di questo sport - aggiunge Cavallini - vengono interpretati come strumenti di riabilitazione straordinari, facendo capire a chi ha fatto stupidaggini più o meno gravi, che sono una risorsa e non un limite. Queste persone sono momentaneamente fuori dalla società, ma prima o poi dovranno rientrare e noi vogliamo dargli una mano fornendogli un valido strumento educativo". Il progetto ha riscosso particolare interesse anche da parte dei media, con servizi sui tg Rai regionali e nazionali. Libri: "Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri" di D. Di Cesare di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 4 novembre 2014 "Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri" di Donatella Di Cesare per il melangolo. Le visite della filosofa italiana al Cie di Ponte Galeria sono il punto di partenza per una analisi sulla sistematica violazione della dignità dei migranti. Crediamo in molti di sapere come funzionano i Cie, le istituzioni totali in cui vengono rinchiusi per un tempo indeterminato i migranti non autorizzati, gli irregolari, i cosiddetti clandestini. Abbiamo denunciato i soprusi che vi avvengono. Ci sono state manifestazioni di protesta e anche interrogazioni parlamentari, quando la sinistra era rappresentata in parlamento. E poi, inevitabilmente, abbiamo dovuto ammettere che in una società "civile", "democratica", "umana" ecc. si diffondono spazi recintati in cui i diritti elementari vengono violati legalmente, senza che la magistratura possa intervenire, senza che l’opinione pubblica sappia o voglia sapere, senza che noi, cittadini a pieno titolo, possiamo conoscere i crimini commessi in nostro nome, senza, insomma, che cambi nulla. Adesso, questi crimini sono oggetto di un saggio densissimo di Donatella Di Cesare (Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri, il melangolo, pp. 103), che analizza logica, struttura e funzionamento dei Centri di internamento ed espulsione, dando oltretutto la voce a chi vi è internato. Di Cesare ha visitato a due riprese il Cie di Ponte Galeria e quindi racconta quello che ha visto. Il fatto interessante è che non è una giornalista o una sociologa, ma una filosofa, nota, tra l’altro, per i suoi studi sull’ermeneutica, Gadamer, l’etica ebraica, il negazionismo e molto altro. Ma il fatto di non essere un’osservatrice di professione conferisce alla sua indagine una semplicità e un’immediatezza che raramente si riscontrano nei testi sociologici o etnografici, appesantiti come sono dalla langue de bois delle scienze sociali. E, soprattutto, Crimini contro l’ospitalità è del tutto privo del narcisismo che talvolta si affaccia nei resoconti di militanti e ricercatori quando visitano i Cie ("Ah, come soffro nel vedere gli altri che soffrono!"). Di Cesare descrive, con l’apparente oggettività e la secchezza di chi cova un vero furore per ciò che vede (ma è capace di trattenerlo), le procedure a cui è sottoposto chi visita uno di questi centri di internamento, le barriere senza fine, le giornate nulle degli internati, le vessazioni, la segregazione dagli altri e dal mondo, le vite senza scadenze, l’incertezza sul futuro, non diversamente da quanto Goffman o Foucault o Basaglia avevano scritto di prigioni o ospedali psichiatrici, con la differenza che qui non ci sono giudici di sorveglianza a cui appellarsi o psichiatri visionari, non c’è il diritto da invocare o la rivolta da accendere contro ordinamenti medievali - ma il vuoto, l’illegalità neutra e atroce del cosiddetto stato di diritto; e dietro, l’indifferenza dei cosiddetti democratici, la scomparsa di un’opinione in grado di arginare i fascismi di stato, le facce, inespressive più che torve, di tutti quelli che i Cpt e i Cie li hanno votati, gente di destra e di centro, e gente che magari si ritiene di sinistra. E dietro e dentro ci sono anche le connivenze delle cooperative (magari di Legacoop), di medici e psicologi che impongono sedativi, dei cosiddetti mediatori culturali, cioè di tutti gli operatori che "aiutano", offrono un "sostegno", "assistono", "mediano". Nient’altro che poliziotti senza pistola. "La psicologa e la mediatrice culturale mi seguono con lo sguardo sospettoso", scrive a un certo punto Di Cesare su una sua visita a Ponte Galeria, e queste parole spiegano tutto. Se pensiamo che gli internati sono scampati a stragi o alla fame nei paesi d’origine, alle milizie armate, alle traversate dei deserti, agli annegamenti nel Canale di Sicilia, l’orrore dei Cie apparirà ancora più insostenibile. E intollerabili le cagnare leghiste o neofasciste contro gli immigrati. Ma i latrati di alcune minoranze non alleggeriscono la responsabilità di una società in grande maggioranza indifferente all’apertura di queste vere e proprie lacerazioni nello stato di diritto, all’avvento di uno stato penale al posto di quello che si pensava legale. Dopo aver riflettuto sul significato dei campi nella nostra cultura, Di Cesare sottolinea giustamente che non abbiamo alcun merito nel vivere da questa parte del confine che separa privilegi e povertà. E che un’istituzione insensata e costosa come la rete dei Cie ha una funzione simbolica e non pratica - quella di mantenere nella paura tutti quelli che stanno dall’altra parte e hanno questa assurda pretesa alla libertà e al benessere di cui noi godiamo grazie alla mera contingenza storica. L’appello "ai miei concittadini" con cui si conclude il saggio, l’appello a chiudere i Cie, affinché nemmeno uno straniero sia più tenuto "tra le grate", nella lacuna del diritto e nella totale assenza di giustizia, non avrà effetti pratici. Ma questo non ne fa certamente un appello retorico. Chiunque non sia avvelenato dall’abitudine e dall’indifferenza in materia di giustizia reale, sociale e politica, sa che i Cie sono un’ignominia. E che la loro istituzione è una macchia sul nostro tempo, sul nostro paese e su noi che ci viviamo. E quindi ha perfettamente ragione Donatella Di Cesare, in conclusione del suo bel saggio, a ricordarcelo. Immigrazione: caro Alfano, quel film dei Cie in Africa è già finito male di Damiano Aliprandi Il Garantista, 4 novembre 2014 Centri di identificazione ed espulsione direttamente nei paesi d’origine dei migranti, a proporlo è il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Dopo aver detto addio all’operazione Mare Nostrum, che ha permesso di salvare centinaia e centinaia di migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo, Alfano fa sapere che "occorre coraggio nel fare un’altra scelta, quella di campi profughi e dì zone di accoglienza in Africa, dobbiamo cambiare strategia come Europa e chiedere che le domande di asilo siano presentate lì. La risposta -continua - non può avvenire in mare ma deve avvenire nei paesi di partenza". Alfano trova la sponda del senatore Vincenzo Gibiino, coordinatore di Forza Italia in Sicilia: "Sono lieto che il ministro abbia finalmente deciso di accogliere la mia idea, prospettata ormai quasi un anno fa in atti parlamentari, di realizzare centri d’accoglienza nel territorio africano". E aggiunge: "Attraverso i fondi comunitari si potrebbero realizzare Cie in grado di curare i malati e dare assistenza e sicurezza ai rifugiati senza che questi mettano in pericolo la propria vita. Cosi facendo, inoltre, l’Europa infliggerebbe un duro colpo alle organizzazioni criminali che lucrano sui viaggi della speranza, sulla disperazione di questa povera gente". La costruzione dei centri che "accolgono" i profughi direttamente in Africa, però non sono una novità, come dimostra anche il famigerato accordo con la Libia dell’allora colonnello Gheddafi. L’Italia si era preparata da anni, passo dopo passo, per il sostegno del governo libico nel "contrasto dell’immigrazione irregolare", con una politica di piena continuità tra i diversi governi che si erano succeduti nel tempo. Nel 2004 veniva promulgata la legge n. 271, che attribuiva al ministero dell’Interno la possibilità di finanziare la realizzazione, in paesi terzi, di "strutture utili ai fini del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano". I finanziamenti elargiti dall’Italia non sono stati mai legati al rispetto dei diritti dei migranti o alla ratifica della Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo, né alla conformità delle strutture di trattenimento agli standard minimi internazionali per la detenzione. Con i fondi stanziati grazie a questa legge, in Libia, negli anni sorsi, erano stati finanziati almeno tre centri di detenzione per migranti, dove le violazioni dei diritti umani sono sistematiche, come confermato da Amnesty International e da Human Rights Watch. A confermare gli abusi non sono state solo le organizzazioni che difendono i diritti umani o i giornalisti che hanno potuto visitare la Libia, ma i vertici dei servizi segreti italiani, come l’ex direttore del Sisde Prefetto Mario Mori. Nel 2005, durante una audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, Mori dichiarava come in Libia "i clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi". Mori parlava anche del centro di accoglienza finanziato dagli italiani in Libia, nella località di Seba, al confine con il deserto, uno di quei centri di detenzione dove venivano trasferiti anche i clandestini respinti dai centri di permanenza temporanea italiani. Il ministro Alfano propone come idea innovativa un passato da dimenticare. Iran: nuova protesta di Ghoncheh, condannata per il volley entra in sciopero della fame Ansa, 4 novembre 2014 Ha iniziato un nuovo sciopero della fame Ghoncheh Ghavami, la giovane britannico-iraniana condannata ad un anno di prigione in Iran per aver cercato di assistere ad una partita di pallavolo a Teheran. Lo ha fatto sapere la madre alla Bbc. La protesta, riferisce il sito dell’emittente, è indirizzata contro il "limbo" in cui è finito il caso di Ghoncheh: c’è stata la condanna ma la magistratura non ha confermato la sentenza per "propaganda" anti-regime: la Corte centrale rivoluzionaria ha rinviato il caso all’ufficio del procuratore, ha riferito la Bbc in persiano. La giovane, 25 anni, aveva già condotto uno sciopero della fame il mese scorso per protestare contro la lunga detenzione cautelare in isolamento nel famigerato carcere di Evin a Teheran. Ghoncheh era stata arrestata in giugno qualche giorno dopo aver cercato, assieme ad altre ragazze, di assistere a una partita di World League fra Iran e Italia. La repubblica islamica da due anni ha esteso alla pallavolo una proibizione da tempo imposta al calcio impedendo alle donne di assistere alle partite assieme agli uomini: la motivazione ufficiale del divieto è che si vuole evitare di esporre le donne sugli spalti alle oscenità verbali cui in genere si abbandonano i tifosi. Londra si è detta preoccupata per la condanna inflitta in Iran che non riconosce la doppia cittadinanza in possesso della giovane. Danimarca: la migliore arma contro la recidiva? i figli di Gabriella Meroni Vita, 4 novembre 2014 Il governo danese vara un piano quadriennale per favorire i contatti tra detenuti e figli minori, con lo scopo di abbattere il tasso di recidiva. Prevista la copertura del costi di viaggio, case famiglia per ricucire i rapporti, corsi di sostegno alla genitorialità. Un detenuto privato dell’affetto dei figli durante la carcerazione ha maggiori probabilità di tornare a delinquere una volta rilasciato. È quanto dimostrano diverse ricerche, sui cui risultati si sono basati in Danimarca per varare un piano quadriennale che consentirà ai detenuti con figli di rimanere in contatto con loro. Per l’attuazione del progetto sono stati stanziati oltre 24 milioni di corone (circa 3,2 milioni di euro). Numeri piccoli (visto che il 40% dei detenuti danesi ha figli minori, lassù si dovranno occupare "solo" di 4500 bambini) ma intuizione interessante, quella danese, che prende atto del fatto che spesso per vergogna i ragazzi rompono i legami con mamma e papà quando finiscono dietro le sbarre. E ricucire i traumi familiari è la via maestra, dicono gli esperti, per evitare che i condannati, dopo aver scontato la pena, ricadano in tentazione. "I bambini sono spesso quelli che soffrono di più quando mamma o papà è in prigione", ha dichiarato il ministro della Giustizia Mette Frederiksen, "e un buon contatto durante la prigionia non può che contribuire ad attenuare la perdita, e contribuire a garantire che la madre o il padre non finiscano di nuovo dalla parte sbagliata della legge. Sono quindi lieto che sia stato deciso di destinare questi fondi a noi per aiutare i bambini dei detenuti e le loro famiglie". Nel dettaglio, il governo di Copenaghen coprirà i costi di trasporto per i figli dei detenuti durante le visite nei centri di detenzione e nelle carceri; costruirà case-famiglia "temporanee" da 5-6 posti in cui sarà offerto sostegno educativo per genitori e bambini prima del loro rilascio; varerà programmi di sostegno alla genitorialità per detenuti con figli sia durante che dopo la detenzione. Svizzera: presentato alla stampa il nuovo direttore delle strutture carcerarie ticinesi www.tio.ch, 4 novembre 2014 È stato presentato ufficialmente alla stampa lunedì mattina al Palazzo delle Orsoline il nuovo direttore delle Strutture carcerarie, che ha preso il posto del direttore ad interim Marco Zambetti. Il capo del reparto della polizia cantonale aveva aveva rimpiazzato, lo scorso febbraio, Fabrizio Comandini, licenziato per visioni discordanti sugli obiettivi riguardanti la gestione delle strutture carcerarie. Il nuovo direttore si chiama Stefano Laffranchini-Deltorchio ed ha assunto l’incarico il 1° novembre scorso. Come riferisce il Dipartimento delle Istituzioni in una nota, Laffranchini è nato nel 1969 è domiciliato a Cagiallo e ha ottenuto la laurea in biologia presso l’Università di Zurigo. Inoltre, è Ufficiale professionista dell’Esercito svizzero ed è in possesso del Master in criminologia forense e dell’Executive Master of Business Administration. Dal 2013 ad oggi è stato responsabile dello stato maggiore aziendale della Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana, dirigendo un team che gestisce direttamente i progetti strategici SSR e il Centro di competenza organizzativo aziendale. Secondo il DI "il nuovo Direttore presenta le garanzie per portare avanti con successo le raccomandazioni dell’audit suggerite dalla TC Team Consult e il progetto di edificazione della nuova Stampa a medio-lungo termine. Nigeria: attaccato carcere Koton-Karfe, già obbiettivo di Boko Haram, evasi 50 detenuti Tm News, 4 novembre 2014 Un gruppo di miliziani muniti di esplosivo ha attaccato il carcere nigeriano di Koton-Karfe, già obbiettivo nel 2012 del gruppo terroristico islamico di Boko Haram, liberando almeno 50 detenuti: lo hanno reso noto fonti della polizia nigeriana. Repubblica Democratica Congo: niente tv a detenuti perché non imitino Burkina Faso Tm News, 4 novembre 2014 Niente televisione per paura che i detenuti imitino ciò che è appena successo in Burkina Faso, dove la rivoluzione ha costretto alle dimissioni del Presidente. È successo in un carcere di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, dove alcuni agenti hanno confiscato le tv nelle celle per impedire che i carcerati seguissero le notizie provenienti dal Burkina Faso. La vicenda è stata riferita all’Afp da un detenuto, che ha raccontato come i funzionari della prigione abbiano incontrato una feroce resistenza quando hanno cercato di fare altrettanto nei bracci del carcere dove erano rinchiusi i detenuti più pericolosi e i condannati a morte. Secondo il testimone, la cui versione è stata confermata anche da un avvocato di un altro detenuto, la tensione che il sequestro ha provocato all’interno della struttura carceraria ha costretto l’amministrazione penitenziaria a restituire anche i televisori già sequestrati. Un responsabile del Ministero della Giustizia congolese ha detto che non si è trattato di una direttiva governativa. La Rdc si appresta a celebrare un lungo ciclo di elezioni che terminerà nel 2016 con le presidenziali. Il capo di stato Joseph Kabila, al potere dal 2001, non potrebbe concorrere per un terzo mandato secondo l’attuale ordinamento costituzionale. Ma le opposizioni sospettano che queste norme verranno modificate e hanno cominciato a fare appello ai congolesi affinché si ribellino come i burkinabè.