Un Paese civile può tranquillamente maltrattare i suoi prigionieri? Il Mattino di Padova, 3 novembre 2014 Ma uno Stato democratico deve risarcire "i cattivi" per averli trattati in modo inumano, o pensiamo piuttosto che commettere un reato significhi perdere ogni diritto, e che un Paese civile possa tranquillamente e irresponsabilmente maltrattare i suoi prigionieri? Sono tanti i cittadini che pensano che l’aver commesso un reato, la "perdita dell’innocenza", significhi perdere tutto. Il detenuto è entrato in carcere perché ha violato la legge, quindi cosa vuole ancora, studiare, lavorare, essere curato come i cittadini che non hanno commesso nessun reato, ed essere anche risarcito se è stato trattato in modo degradante? I nostri padri costituenti una risposta ce l’avevano data, "La pena deve tendere alla rieducazione", ed era una risposta saggia e lungimirante: ma oggi si cercano le scorciatoie, e ci si illude che le persone detenute possano cambiare, avendo come esempio uno Stato che non rispetta le sue leggi. L’uso improprio del diritto di cronaca La reazione di sdegno di gran parte dell’informazione, stampa, telegiornali e rete, nel diffondere la notizia che il magistrato di Sorveglianza di Padova ha concesso il risarcimento previsto dalla legge a un detenuto che era stato sottoposto a una detenzione illegale, lascia davvero sgomenti. Impone di fermarci a riflettere per domandarci per quale ragione certe istituzioni e certa informazione siano così disinvolti nell’affermare un criterio di illegalità. Per illegalità intendo non tenere conto che la giustizia debba essere uguale per tutti, non soltanto per coloro che ci piacciono di più. Quando su alcuni quotidiani ho letto che a una persona che aveva finito di scontare la pena al momento della scarcerazione è stato concesso un risarcimento di otto euro al giorno, per avere subito un trattamento inumano, consistente in una detenzione non rispettosa della dignità della persona e delle norme penitenziarie, a cui hanno diritto tutti coloro che sono stati privati della libertà, mi ha colpito il fatto che i commenti che sulla stampa e nei telegiornali criticano il reato particolarmente odioso della persona destinataria del risarcimento, e sembra che vogliano stigmatizzare l’operato del Magistrato, il quale, invece, ha solo applicato giustamente la legge. E come si può pensare che una persona detenuta possa essere maltrattata per anni e non abbia diritto al risarcimento solo perché ha commesso un reato "che non piace"? Ma esistono reati che piacciono? Ogni reato produce delle vittime, pertanto è soggetto a una sanzione e nessuno è esente. In questo caso l’amministrazione penitenziaria infrangendo la legge ha creato a sua volta una vittima di reato. Per questo motivo lo Stato italiano è stato sanzionato e deve risarcire il danno prodotto. Mi chiedo, ma i mass media si sono svegliati adesso? Dov’erano in questi anni che il Presidente della Repubblica e pochi altri denunciavano lo stato di illegalità in cui si trovano le nostre galere, anche e soprattutto per colpa di leggi, che poi sono state pure dichiarate incostituzionali? L’informazione ha svelato un meccanismo perverso che attraversa tutta la società: il fatto che in parecchi si sentano in diritto di attribuire patenti di impunità a chi gli piace e di toglierla a quelli che non gli piacciono, e permettersi anche di maltrattarli impunemente. È questa la cultura che sta passando. Un altro fatto curioso che ha suscitato qualche stupore è che il Ministero della Giustizia ha avanzato ricorso contro il risarcimento, ma se il dolo è del tutto evidente a cosa serve? In verità credo che ogni volta che è condannato a risarcire qualcuno, il Ministero faccia sempre ricorso, ma facendo ricorso, oltre a dover risarcire la vittima per aver infranto la legge, non è che poi gli tocca anche spendere altri soldi per pagare l’apparato degli avvocati dello Stato? Paga il contribuente. In tempi di crisi l’informazione dovrebbe porre l’attenzione su queste cose, piuttosto che lanciarsi in campagne denigratorie mettendo alla berlina chi ha espiato la sua condanna ed è stato pure maltrattato, diventando a sua volta vittima dello Stato che lo aveva condannato. L’informazione dovrebbe finalmente cominciare a mettere all’indice l’incapacità della politica di rispettare le leggi. Bruno Turci La cattiva informazione crea una cattiva cultura Si discute tanto sul primo provvedimento di risarcimento nei confronti dei detenuti sottoposti a un trattamento ritenuto disumano. Si pensa solo alla somma, 4808 euro, che dovrebbe essere data al detenuto per essere stato sottoposto a un regime di tortura per 601 giorni, ma quasi nessuno fa caso che questa persona, ex detenuto, ha scontato la pena in carcere fino all’ultimo giorno. Allora io dico a chi "grida" e sostiene che in Italia nessuno sconta la pena fino alla fine, e secondo me questo dev’essere chiaro: in Italia se non sei un uomo potente che ha rubato milioni di euro all’onesto contribuente, la pena è facile che te la fai fino all’ultimo giorno. Sono da quasi sei anni nel carcere di Padova, ho vissuto per tanti anni questo "trattamento" o per meglio dire questo ammassamento in celle progettate per una persona colpevole di aver commesso reati, ma da quando i detenuti non sono considerati più persone, in queste celle costruite per ospitare una persona vengono collocati tre detenuti. Non è possibile descrivere quello che si prova a vivere in queste condizioni, posso solo garantire che anche se sei un "carnefice", ad essere trattato cosi alla lunga ti senti una vittima. Lo spazio di una cella è 9.2825mq, lo spazio occupato dai mobili attaccati al pavimento o alle pareti è di 4.325mq. Tre detenuti hanno 4,9575mq per trascorrere anni e anni e magari con la pretesa che escano migliori di come sono entrati. Per la "fortuna" di chi si trova in queste condizioni l’uomo è un mammifero resistente, perché credo che siano pochi gli animali che sopravvivrebbero per anni in queste condizioni. Art. 27, 3. co. Costituzione "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". 4.808 euro per essere sopravvissuto 601 giorni in queste condizioni, in una cella con due sconosciuti, senza far nulla dalla mattina alla sera perché non ci sono attività per tutti. Da quando mi trovo in carcere ho conosciuto tanti che si sono suicidati, e conosco tanti che hanno provato ma non ci sono riusciti. E non credo che chi ha tentato di suicidarsi e chi ci è riuscito, per la disperazione o per l’assenza di speranza, se sapeva che avrebbe avuto otto euro al giorno avrebbe accettato di essere torturato. E parlo di tortura perché proprio per questo è stata condannata più volte l’Italia dalla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Se in Italia non fosse stata introdotta questa legge che risarcisce chi è in carcere con uno sconto di pena di un giorno ogni dieci, e chi ha finito la pena con otto euro, ma di fatto impedisce i ricorsi alla Cedu, il risarcimento nel caso concreto sarebbe stato moltiplicato per dieci. Perché l’Europa le persone private della libertà pensa che vadano trattate con rispetto, se vogliamo che a loro volta imparino a rispettare la società e le sue regole. Çlirim Bitri Caro Papa Francesco… io, ergastolano, ti voglio dire grazie di Camelo Musumeci Famiglia Cristiana, 3 novembre 2014 Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, da 23 anni in carcere, risponde con gratitudine alle parole di papa Francesco e chiede di poter andare a dirgli grazie: "Vorrei essere io a venire a stringere la mano di un uomo giusto che ha avuto il coraggio di difendere i più cattivi del mondo". Alberto Laggia, Famiglia Cristiana "Caro Papa Francesco, è calata la sera dentro la mia cella come, da tanti anni, dentro il mio cuore. È il momento in cui mi sento più solo. La tv accesa è un rumore di sottofondo, a volte l’unico collegamento che ricorda a noi ergastolani, sepolti vivi tra sbarre e cemento, che esiste un altro mondo al di là del muro di cinta del carcere. Ma stasera è accaduto un fatto nuovo. Ho sentito le tue parole, riprese da tutti i media": "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta". Sono le prime, commosse parole, di commento alle frasi del papa, scritte e affidate in esclusiva a Famiglia Cristiana, da Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, detenuto da 23 anni, scrittore e promotore della campagna "Mai dire mai" per l’abolizione dell’ergastolo, vera e propria voce tra le sbarre dei detenuti sottoposti al "fine pena mai", quelli, cioè, che sui certificati di detenzione portano scritto "fine pena: 31.12.9999". "Francesco, quasi non riesco a crederci: sono tanti anni che combatto da solo, o quasi, e sono quasi l’unico che urla invano, come solo possono fare gli uomini ombra come me, per dire le cose che oggi hai detto tu", continua Musumeci. "Ci sono dei giorni che mi sembra che i muri della mia cella mi stritolino il cuore e ci sono dei momenti che non mi ricordo più come si vive da uomo libero. Francesco, non riesco a capire! A cosa serve che tanti "uomini ombra" (così si chiamano fra loro gli ergastolani ostativi sicuri di morire in carcere) dopo venti, trent’anni, alcuni molto di più, rimangano ancora chiusi in una cella?", afferma ancora l’ergastolano. "Io non sono mai stato vicino alla Chiesa, perché sono nato colpevole, anche se poi da grande ci ho messo del mio e ho fatto di tutto per diventarlo. Ma da piccolo ho ricevuto solo tante botte dai preti dei collegi dove sono cresciuto. Ed è forse per questo che ben presto ho messo da parte Dio nella mia vita. Anche se ora spero che lui non abbia messo da parte me. Con gli esempi che ho ricevuto è stato facile credere che Dio non esistesse, ma ultimamente tu e qualcun altro mi fate pensare che esistano degli angeli in terra". E conclude con una richiesta: "È per questo motivo che con gli angeli della Comunità Papa Giovanni XXIII che tu riceverai il prossimo 20 dicembre ho chiesto il permesso straordinario di poter venire a ringraziarti di persona. Ti avevo chiesto di venire da me, ma ora vorrei essere io a venire a stringere la mano di un uomo giusto che ha avuto il coraggio di difendere i più cattivi del mondo". Francesco, non so se i giudici me lo concederanno: mi hanno sempre detto di no. Anzi, mi dicono tutti che sono bravo, mi danno encomi, mi fanno laureare, mi dicono che sono meno pericoloso di una volta, ma poi quando è ora di chiedere un po’ di libertà mi dicono sempre che sono cattivo perché non metto un altro in cella al posto mio. Mi vogliono bravo ma poi mi dicono che morirò in carcere perché sono cattivo. Sai Francesco, i buoni sono proprio strani. Io proprio non li capisco. Probabilmente non li capisco perché sono cattivo davvero, ma diglielo tu che non l’ha fatto neanche Gesù. Vorrei venire da te con la mia famiglia: una compagna che mi aspetta da 23 anni e i miei figli e i miei due nipotini, che hanno l’età dei miei figli quando li ho lasciati, e il mio angelo (anche i diavoli a volte ne hanno uno). Mi hanno detto che per realizzare i sogni bisogna prima sognarli, ma gli uomini ombra non possono sognare. Possono solo sopravvivere e sopravvivere non è come vivere e non è neppure come morire. Francesco, ti arrivi un abbraccio tra le sbarre di un’ombra che vorrebbe vivere". Carmelo Musumeci Giustizia: trentottesimo suicidio nelle carceri italiane dall’inizio del 2014 di Davide Mirò Il Garantista, 3 novembre 2014 Questa a volta a togliersi la vita nelle patrie galere, impiccandosi con le lenzuola della propria branda, è stato un 28enne rinchiuso dal 21 ottobre scorso nel penitenziario del Bassone di Como. L’estremo gesto è avvenuto venerdì scorso, ma la notizia è stata resa nota solo ieri da "Ristretti Orizzonti", il portale che monitora costantemente la situazione delle nostre carceri. Il ventottenne suicida si trovava in una condizione di reclusione particolare: per esigenze giudiziarie legate alle indagini in corso, era stato posto sotto osservazione in quanto i Pm avevano disposto che non poteva avere contatti con gli altri indagati. L’uomo, amara ironia della sorte, è stato trovato dalle guardie carcerarie esanime proprio il giorno in cui, nell’istituto dove si trova rinchiuso, era in corso un’ispezione del Dipartimento di polizia penitenziaria che voleva fare chiarezza sulla morte di un altro detenuto, impiccatosi il 12 ottobre, sempre nel carcere di Bassone di Como. L’avvocato del giovane ha chiesto che venga fatta luce su quanto accaduto, anche se non sembrano esserci dubbi che si sia trattato di un suicidio. In ogni caso, e come atto dovuto, nei prossimi giorni sul corpo del 28enne verrà effettuata l’autopsia. Ristretti Orizzonti ci informa che con questa morte "salgono a 38 i detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno: avevano un’età media di 41 anni, sei gli stranieri, due le donne. Le carceri nelle quali si sono registrate più vittime sono Napoli Poggioreale (quattro) e Padova Casa di Reclusione (tre)". Sempre dal monitoraggio fatto da Ristretti Orizzonti si scopre che è l’impiccagione la modalità più frequente con la quale i detenuti si tolgono la vita. "Sono 32 le persone", dice l’associazione, "dietro le sbarre che si sono impiccate: cinque si sono asfissiate con il gas del fornelletto in uso nelle celle, un detenuto si è dissanguato tagliandosi la carotide con una lametta da barba". E la conta dei suicidi in carcere per impiccagione poteva esse ancora più grave: sabato scorso infatti, nel penitenziario di Ariano Irpino, un detenuto 25 anni ha cercato di togliersi la vita con una corda. L’uomo è stato però salvato da un agente carcerari in servizio che, accortosi di quello che stava accadendo, ha tagliato la corda impedendo che il ragazzo portasse a termine il suicidio. A dare più dettagli sulla vicenda era stato il segretario generale della Uil-Pa, Eugenio Sarno: "Nella terza sezione del carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, un detenuto 25enne di Salerno, ha tentato di suicidarsi mediante impiccagione. Il tempestivo intervento dell’agente di polizia penitenziaria in servizio di sorveglianza, che ha sollevato il corpo e tagliato la corda, ha consentito di salvare la vita al giovane detenuto che da circa 15 giorni era stato trasferito ad Ariano dalla casa di reclusione di Eboli. Il detenuto è stato subito ricoverato nell’infermeria del carcere per valutare le condizioni fisiche". Giustizia: caso Cucchi; il procuratore Pignatone "siamo pronti a riaprire le indagini" Corriere della Sera, 3 novembre 2014 Lunedì incontro con i familiari. Pignatone: "Valuteremo l’eventualità di nuovi accertamenti". La sorella Ilaria: "Azzeriamo tutte le perizie che hanno solo fatto fumo". Dopo l’assoluzione in appello, il caso Cucchi potrebbe riaprirsi. Il legale dei familiari, infatti, ha annunciato che presenterà in Cassazione "ulteriori elementi che orienteranno il processo". E ora, il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone si dice disponibile a incontrare la famiglia (probabilmente già lunedì) e riaprire il caso. "Se emergeranno fatti nuovi o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura sempre disponibile, come in altri casi, più o meno noti, a riaprire le indagini. Per quanto mi riguarda - aggiunge Pignatone - incontrerò volentieri, come già altre volte in passato, i familiari di Stefano Cucchi e il loro difensore. Se dalle loro prospettazioni e dalla lettura della sentenza di appello emergeranno fatti nuovi o l’opportunità saremo disponibili a cercare nuove prove". "Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato" aggiunge Pignatone riferendosi alla morte del geometra nel 2009 all’ospedale Pertini dopo un’agonia di sei giorni. "La responsabilità penale però - aggiunge il procuratore - è, come vuole la Costituzione, personale, e non collettiva, e deve essere riconosciuta dalle sentenze dei giudici, che tutte meritano assoluto rispetto anche quando, come nel caso di specie, tra loro contrastanti e, a parere dell’ ufficio di procura, in tutto o in parte non condivisibili". Secondo Pignatone, "nel caso in questione, poi, la sentenza di appello non è ancora definitiva e non se ne conoscono le motivazioni; essa, peraltro, giunge dopo un lungo e complesso iter processuale nel corso del quale tutte le parti, pubbliche e private, hanno potuto richiedere ai giudici gli accertamenti e gli approfondimenti ritenuti opportuni o necessari". Dopo le dichiarazioni di Pignatone, arriva a stretto giro la replica della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria: "Prendiamo atto di questa importante decisione del procuratore capo di Roma. Rimaniamo in attesa di giustizia e verità come abbiamo sempre fatto in questi cinque anni. Possiamo dire che vanno azzerate tutte le perizie e le consulenze che hanno fatto solo fumo e nebbia sui fatti". Erano stati proprio i familiari del geometra a chiedere un incontro al procuratore Pignatone: "Voglio domandargli - precisa Ilaria Cucchi - se è soddisfatto dell’operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato e contro mio fratello ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano". "Orgoglioso che Roma abbia un procuratore capo come Giuseppe Pignatone disponibile a riaprire le indagini" scrive su Twitter il sindaco di Roma, Ignazio Marino. E proprio dal primo cittadino era arrivata la prima buona notizia nella tempesta delle assoluzioni per la morte di Stefano Cucchi: l’intitolazione di una strada a Stefano Cucchi. "Mi piacerebbe - aggiunge la sorella Ilaria - che via Golametto, la via d’accesso al Palazzo di giustizia, fosse quella prescelta. Sarebbe un segnale importante". Proprio in via Golametto lunedì Ilaria Cucchi e i genitori si presenteranno con maxi-cartelloni raffiguranti Stefano. "Andremo solo noi tre - spiega Ilaria - senza alcun sit-in, presidio o altro. Vogliamo far vedere come mio fratello è morto e in quali condizioni ce lo hanno riconsegnato" E domenica Ilaria, in una lettera aperta, ha replicato al presidente della corte d’appello, Luciano Panzani, che aveva stigmatizzato la "gogna mediatica" a cui è stato sottoposto il collegio che ha assolto gli imputati. "Nutro profondo rispetto per la magistratura. Rispetto, ma non venerazione. Non credo di mancare di rispetto a lei e alla magistratura se mi permetto di dire che le critiche rivolte ai suoi colleghi sono tutt’altro che una gogna. Chiedere responsabilità per chi sbaglia e commette gravi e ripetuti errori non significa metterlo alla gogna". Silp-Cgil: fuori luogo la dichiarazione del Sap "La presa di posizione sul caso Cucchi del Sap è fuori luogo". A sostenerlo è il segretario del Silp-Cgil Daniele Tissone, per il quale "le sentenze possono anche indurre a commenti, ma quanto affermato dal sindacato di polizia Sap - ‘se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze" - superano di gran lunga ogni obiettiva valutazione tesa a ricostruire una non facile verità processuale, acuendo il solco tra la società e chi, tra le forze dell’ordine con sacrificio e impegno, assolve i propri compiti istituzionali". Tissone sottolinea che "come sindacato di polizia, abbiamo sempre cercato, durante tutte le vicende processuali da Aldrovandi a Cucchi, di affermare il principio che la magistratura inquirente ha il compito di esercitare a pieno il proprio mandato, senza che derive corporativistiche, da qualsiasi parte provengano, intaccassero mai tali giudizi". Per questo motivo, per il segretario del Silp-Cgil, "la presa di posizione del Sap è fuori luogo e non aiuta il percorso democratico che deve vedere cittadini e forze dell’ordine unite nel comune obiettivo di garantire sicurezza, legalità, giustizia e trasparenza, alla luce dei difficili compiti che vengono oggi affidati ai tutori dell’ordine". Sindaco Milano Pisapia: Sap e Coisp si vergognino "Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri non rimangano dei morti senza giustizia. Per loro, per le loro famiglie e per tutti quei poliziotti, agenti di Polizia Penitenziaria, medici e infermieri che nonostante le difficoltà fanno il loro dovere ogni giorno. È una questione di civiltà, oltre che di Diritto e diritti". Lo scrive in un post, sulla sua pagina Facebook, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. "C’è da domandarsi se una persona che serve lo Stato non si vergogni di fare certe affermazioni. Mi riferisco alle dichiarazioni del segretario generale del Sap: "Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie", o ancora alle parole del Coisp che addirittura accusa la famiglia", aggiunge il primo cittadino. "Invito tutti a guardare il viso tumefatto di Stefano Cucchi e, riporto le parole del presidente della Corte d’Appello di Roma quel corpo dilaniato da lesioni, fratture, ecchimosi, a domandarsi come sia possibile ancora solo pensare di parlare di morte naturale - sottolinea Pisapia. I responsabili di questa violenza non possono rimanere impuniti. Certo, la condanna deve essere basata su prove certe e spetterà alla Cassazione valutare se vi sono quelle prove o quei gravi indizi necessari per una sentenza di condanna". Per il sindaco di Milano, Pisapia "ciò che lascia sgomenti è che anche l’omertà e le falsità di chi era presente al feroce pestaggio di Stefano hanno finora impedito verità e giustizia". E conclude: "Mi sono sempre impegnato perché le carceri non siano il luogo dell’oblio, ma possano essere un luogo dove riscattare l’errore o gli errori commessi. Sembra però di combattere contro i mulini a vento. Nessuno può, né deve, morire nella solitudine e nell’indifferenza senza che le responsabilità vengano non solo denunciate, ma anche chiarite e punite". Giustizia: caso Cucchi; dalla Procura di Roma arriva l’ammissione dell’errore di Carlo Bonini La Repubblica, 3 novembre 2014 L’ostinazione civile di una famiglia che non si rassegna all’assenza di giustizia e quarantotto ore di sgomento, rabbia e indignazione collettive convincono Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, a trovare parole che, per la prima volta in cinque anni, tolgono al "discorso giudiziario" sulla morte di Stefano Cucchi la sua maschera disumana. E, senza tartufismi, ne rimettono al centro la questione sostanziale. L’unica che conti, perché misura la qualità di una democrazia e quel principio di uguaglianza di fronte alla legge che ne è uno dei capisaldi: l’unico che giustifichi l’altrimenti incomprensibile monopolio della forza riconosciuto allo Stato e alle sue Istituzioni. Siano un collegio giudicante, uomini delle forze dell’ordine, agenti penitenziari, medici di un reparto protetto di un ospedale civile dove per legge viene ricoverato un detenuto. Dice il procuratore: "Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato. Se emergeranno fatti nuovi o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura di Roma è sempre disponibile a riaprire le indagini". E tuttavia, nel segnalare l’insostenibilità di un’idea dello Stato che si auto assolve o, peggio, si mostra legibus solutus, libero dal vincolo di legalità, perché al riparo del "ragionevole dubbio" di un’insufficienza di prove figlia del vincolo di "omertà" dei suoi servitori, Pignatone dice qualcosa di più. La "disponibilità a riaprire le indagini in presenza di fatti nuovi", infatti, è, insieme, l’ammissione di un errore dell’ufficio della pubblica accusa e un impegno a mettervi riparo. Tardivo, evidentemente. Ma pure sempre riparo. Un impegno che va preso alla lettera e per questo meriterà di essere sottoposto a verifica, perché non si risolva in una petizione di principio utile soltanto a raffreddare animi e coscienze in attesa che altro le distragga. E però, appunto, nelle parole del procuratore c’è anche l’ammissione di un errore, che va raccontato per quel che è stato. Non più tardi di sabato scorso, il presidente della Corte di appello di Roma Luciano Panzani aveva infatti difeso il lavoro dei giudici della sua Corte di Assise, ricordando che a rendere "giuridicamente impossibile" l’accertamento della verità nel caso Cucchi è stata un’insufficienza di prove ritenuta insormontabile. A meno di non voler violare garanzie costituzionali altrettanto fondamentali (quelle riconosciute agli imputati) e dunque di "aggiungere obbrobrio a orrore". Ebbene, la raccolta delle prove (a carico, come a discarico) è lavoro della pubblica accusa. Che - ammette ora Pignatone e vanno ripetendo da tempo la famiglia Cucchi e il suo legale Fabio Anselmo - forse poteva essere più aggressivo. Quantomeno non minato da un’aperta diffidenza che dal giorno della morte di Stefano Cucchi ha diviso l’ufficio del pubblico ministero dalla parte civile (che è e resta "l’accusa privata" di un processo penale) fino al punto da renderle reciprocamente ostili persino sulla "qualificazione giuridica" da dare ai capi di imputazione per cui i 12 tra agenti di custodia e medici sono stati mandati a processo. E ancora: che poteva sicuramente essere più "vigile" sul guasto decisivo portato all’intera istruttoria da una perizia di ufficio che elideva ogni nesso di causa-effetto tra il pestaggio di Stefano e la sua morte fino al punto di individuare nella "fame e nella sete" la ragione del decesso (non a caso, oggi, Ilaria Cucchi chiede che si riparta da una nuova perizia). Detto questo, le "nuove indagini" cui Pignatone impegna il suo ufficio hanno un sentiero molto stretto. Nella sostanza e nei tempi. Perché se è vero che la morte di Stefano Cucchi non è ancora verità giudiziaria immodificabile (resta il giudizio di Cassazione) è altrettanto vero che esiste un principio costituzionale che impedisce che un imputato possa essere giudicato due volte per uno stesso fatto. Solo "fatti nuovi" potranno dunque avvicinare a una verità diversa da quella sancita sin qui da due corti giudicanti. Ma perché questo sia il caso, quei "fatti nuovi" andranno appunto cercati. Possibilmente, cominciando a considerare l’ostinata ricerca della verità della famiglia Cucchi come una risorsa, e non un ostacolo. Giustizia: caso Cucchi; se gli investigatori non sanno più fare le indagini Il Garantista, 3 novembre 2014 Così anche gli imputati per la morte del povero Stefano Cucchi sono stati assolti in grado d’appello: e lo sono stati con la formula più ampia possibile, quella secondo la quale "il fatto non sussiste". Questo dà da pensare da due punti di vista complementari. Innanzitutto, ci si chiede con una certa curiosità come sia possibile che la Corte abbia adoperato proprio questa formula, la quale normalmente viene usata allorché si vuol significare che il reato in quanto tale non esiste, non è ontologicamente ravvisabile nulla che sia accaduto di giuridicamente rilevante. Questo in effetti sembra strabiliante, perché tutti hanno potuto vedere in modo chiaro le numerose e serie ecchimosi sparse sul volto e suo corpo del giovane. Ora, escluso che se le sia prodotte da solo, resta da vedere chi le abbia causate: fermo restando che a leggere il dispositivo della sentenza pare di capire che non ci sia reato, che forse potrebbe trattarsi di una morte accidentale. Dopo aver letto la motivazione si potrà comprendere meglio. Tuttavia, è opportuno avanzare una seconda considerazione a proposito di questa assoluzione. Se la Corte ha ritenuto di assolvere (e meno male che c’è l’appello, che alcuni vorrebbero abolire) è perché non ha trovato prove sufficienti per condannare, per di più ad una pena elevata, visto che si trattava di omicidio volontario. Bisogna allora chiedersi perché mai queste prove non siano state trovate. Probabilmente non lo sono state per il semplice motivo che a volte le investigazioni successive al reato vengono condotte in modo molto approssimativo: e ciò credo per due ragioni principali. La prima è che le cosiddette investigazioni scientifiche - quelle per intenderci fatte dai Ris o dalla polizia scientifica - istituite per affiancarsi a quelle tradizionali, le hanno invece pian piano soppiantate. Sicché, quando sulla scena di un delitto giungono loro - gli esperti in tuta bianca e mascherina - non sempre le cose filano lisce, perché gli esiti dei metodi adoperati, pur se capaci di fornire indizi, non sono in grado di ottenere una prova, che è cosa ben diversa. E, come è noto, senza la certezza di una prova, non è possibile irrogare un ergastolo. Per esempio, la tanto celebrata metodologia messa in opera per individuare il codice genetico di una persona serve in realtà soltanto a stabilire delle compatibilità ( e, reciprocamente, delle incompatibilità ), restringendo perciò il ventaglio degli indiziati, ma in nessun caso ad indicare in modo assolutamente preciso una sola persona quale responsabile di un certo comportamento. Nella migliore delle ipotesi, come ben sanno i genetisti, il profilo genetico può servire ad associare una certa persona alla scena del delitto: ma da questo a dichiararne la colpevolezza ce ne corre. Per far questo, occorre ben altro. Ecco perché ed in che senso i risultati che ne derivano non possono mai, da soli, esser considerati decisivi per un accertamento di responsabilità penale, occorrendo invece che siano corroborati da altre indicazioni tratte dall’esperienza comune. Ma oggi, purtroppo, i dati dell’esperienza comune son divenuti, a volte, la cenerentola delle indagini giudiziarie. Chiedersi seriamente, per esempio quale possa essere il movente di un delitto sembra ormai diventato poco più di un esercizio retorico, mentre invece a volte è un quesito fondamentale, senza il quale non è possibile comprendere nulla di quanto accaduto. A ciò si aggiunga (ed è questa la seconda ragione) che le tecniche investigative vengono trascurate nella formazione dei pubblici ministeri, i quali, pure, sono coloro che istituzionalmente dirigono la polizia giudiziaria, vale a dire l’intera attività di indagine. Essi, infatti, dopo aver vinto il medesimo concorso pubblico di coloro che invece son collocati nella magistratura giudicante, seguono alcuni mesi di tirocinio presso una Procura con un magistrato affidatario e poi vengono lasciati liberi di fare ciò che ritengono opportuno. Si dà il caso tuttavia che le indagini ben condotte non possono essere inventate senza una seria preparazione, quella preparazione che oggi è del tutto assente non tanto negli organi investigativi veri e propri, quanto in chi appunto è incaricato di dirigerli. Non parliamo poi del caso, non rarissimo, in cui ci si innamora di una tesi accusatoria: a volte si finisce col non vedere ciò che è chiarissimo davanti agli occhi e che condurrebbe da un’altra parte, perché si è troppo impegnati a cercare ciò che esiste soltanto nelle proprie fantasie. È capitato infatti che mentre le indagini seguivano pervicacemente - e contrariamente ad ogni evidenza - un sentiero del tutto improbabile, ma oltremodo caro a chi le dirigeva, il vero responsabile finisse col farla franca, semplicemente perché mai obiettivo di una investigazione: troppo impegnati a seguire una via palesemente falsa, si perdeva di vista quella chiaramente vera. E allora, non diamo la colpa alla Corte che, in assenza di prove certe, assolve. Essa fa il suo mestiere: bene. Giustizia: caso Cosentino, cioè la condanna anticipata di Aldo Balestra Il Mattino, 3 novembre 2014 Agli arresti per un anno e 4 mesi ma i processi sono ancora al palo Chissà se, nella sua cella del carcere di Secondigliano, Nicola Cosentino ha finito di leggetela "Storia Universale". Di certo l’ex deputato di Forza Italia ed ex potente sottosegretario all’Economia, in regime di isolamento detentivo, aveva iniziato una lettura così impegnativa sperando di non terminarla in carcere, durante il suo secondo periodo di custodia cautelare iniziatolo scorso 3 aprile. Comunque sia, ora che dal punto di vista procedurale i suoi difensori Montone e De Caro hanno percorso fino in Cassazione, ed ultimato senza il risultato sperato, i possibili passaggi per farlo tornare in libertà, il tuffo nella storia del mondo continua. E la lettura sta costituendo per l’incensurato Cosentino il modo per affrontare dignitosamente quello che ha definito "universo parallelo alla vita dì fuori", ovvero la detenzione cautelare. E però senza perdere la speranza dì riprendere a partecipare, da uomo libero, ai due processi che ha incorso (il primo, iniziato già nel 2011 con rito immediato richiesto dallo stesso ex sottosegretario, è ancora nella fase dell’escussione dei circa 200 testimoni) e il terzo che con ogni probabilità scaturirà dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia, per la quale si trova ora in carcere. Cosentino, come uno delle migliaia di detenuti italiani (e non) in attesa di giudizio, attende che la giustizia faccia il suo lungo, lunghissimo corso. Oggi, intanto, nello stesso giorno in cui il Gup decide a Roma sul suo rinvio a giudizio o meno per diffamazione (vicenda dossier contro Caldoro), si compiono i secondi sette mesi trascorsi a Secondigliano. In totale, tra carcere e arresti domiciliari, un anno e 4 mesi. E, se non dovessero intervenire fatti processuali nuovi, l’ex sottosegretario potrebbe rimanere in cella fino al massimo perìodo previsto per la custodia cautelare, considerando che Riesame e Cassazione hanno stabilito che i "nuovi" contatti politici di Cosentino, accertati dopo la prima scarcerazione, rappresentino presupposto per la possibile commissione di reati della stessa indole. Lui, già individuato in seguito alle inchieste della Dda come simbolo del sistema politico campano colluso conia delinquenza organizzata, sottoposto perii cosiddetto doppio binario al regime cautelare proprio dì chi è indagato per fatti di camorra, essendo considerato un politico di riferimento per il clan dei Casalesi che lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, ha recentemente dichiarato "non esistere più". Ma quanti sono i "simil-Cosentino", in Italia, e detenuti non solo per fatti di camorra e mafia, con cognome certo meno ingombrante e di cui nessuno parla, nessuno sì occupa? Tanti, tantissimi, Troppi, ì quasi 25mila stimati dal Ministero della Giustizia (un anno fa), per non affrontare con risolutezza il problema dell’uso, e troppo spesso dell’abuso, della custodia cautelare, al dì là dell’utile concretezza dello strumento e dell’innegabile diritto alla difesa. Se la detenzione, talvolta anche per ipotesi di reato datate nel tempo, finisce per diventare - in presenza della patologica condizione del sistema giudiziario - una sistematica, vera e propria anticipazione di una sentenza di condanna presunta, qualcosa davvero non va. Potremo sì essere europei, ma fa arrossire di vergogna la terza posizione nella classifica, dopo Ucraina e Turchia, sul numero dei detenuti in attesa di giudizio. Sarà solo e soltanto un tribunale, allora, a decidere se Cosentino, così come tanti come lui, sia colpevole o innocente, se sia giusto che sconti in carcere una pena, se condannato. Ma tutto con un processo, una sentenza, in tempi accettabili. Qui, invece, si continua a tenere recluse migliaia di persone, certo tecnicamente nell’assoluta applicazione della legge, ma pure nell’insopprimibile consapevolezza che in Italia ì processi hanno i tempi dilatati che ben si conoscono. In un moderno stato di diritto non affrontare con decisione questioni del genere significa mettere la polvere sotto il tappeto, voltarsi dall’altra parte, magari sopraffatti da dati emozionali ed emergenziali. E il disegno di legge approvato ad aprile dal Senato in prima lettura, che prevede l’adozione di un provvedimento restrittivo solo in caso di eventualità concreta e attuale nei presupposti di reiterazione, fatti salvi i reati dì terrorismo e mafia, rischia di "danzare" senza grande interesse tra le Camere, senza andare a costituire una pietra angolare dì riforma strutturale della giustizia. In particolare, la questione detenzione, nelle sue mille sfaccettature (non a caso papa Francesco è recentemente intervenuto sull’ergastolo), è troppo attuale ed urgente per essere tralasciata, a fronte della vergognosa condizione di sovraffollamento, con circa 20mìla detenuti in più di quelli ospitabili dalle nostre strutture. E un Paese che sorvola sul crudo e dilatato ricorso al carcere prima di un giudicato rischia di fare ancora troppi "prigionieri". Continuando a non vincere la guerra. Sardegna: Sappe; ogni giorno gesti autolesionistici in cella, da oggi sopralluoghi nell’isola Ansa, 3 novembre 2014 Quasi ogni giorno nelle carceri sarde un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette o procurandosi tagli sul corpo e, in media una volta alla settimana, qualcuno tenta il suicidio in cella, salvato in tempo dal tempestivo intervento delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria. È quel che emerge dai dati diffusi dal Sappe, Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, che domani visiterà il carcere di Sassari per andare, nei giorni successivi, a Tempio Pausania e Cagliari, con una delegazione guidata dal segretario generale Donato Capece, e dal segretario regionale Antonio Cocco. "Altro che emergenza superata, come ci affretta a liquidare la questione sovraffollamento", commenta Capece. "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2014 nelle carceri delle Sardegna si sono contati il suicidio di un detenuto a Cagliari, 167 atti di autolesionismo, 26 tentati suicidi, 7 colluttazioni e 12 ferimenti. Sassari e Cagliari sono le prigioni con il numero più alto di atti di autolesionismo (81 e 75) ed è sempre nel carcere del capoluogo di regione che ci sono stati più tentati suicidi sventati dai poliziotti, 14. Cinque tentativi di suicidio si sono registrati anche a Sassari e 3 a Iglesias- prosegue - otto i ferimenti nel carcere di Sassari, 2 a Lanusei e 6 le colluttazioni nel penitenziario di Is Arenas Arbus. La situazione nelle carceri resta dunque sempre allarmante e, in un anno, in Sardegna il numero dei detenuti è calato di circa 140 unità: dai 2.031 del 30 settembre 2013 si è infatti passati agli attuali 1.888". Como: ancora morte al Bassone, detenuto di ventotto anni s’impicca con le lenzuola di Paola Pioppi Il Giorno, 3 novembre 2014 Lo hanno trovato gli agenti di Polizia penitenziaria nella sua cella, quando ormai per lui non c’era più niente da fare. Nel pomeriggio di venerdì, un detenuto del carcere Bassone, si è tolto la vita impiccandosi. Maurizio Riunno, 28 anni, era stato arrestato una decina di giorni fa per sequestro di persona, assieme ad altre quattro persone. Dopo il suo arresto, era stato portato in osservazione, quattro celle presidiate da un agente, dove confluiscono i detenuti che hanno motivi di incompatibilità con gli altri. In questo caso, si trattava di esigenze giudiziarie, legate alle indagini ancora in corso, per le quali la Procura aveva disposto il divieto di contatto tra i vari indagati. Venerdì pomeriggio verso le 16, gli agenti lo hanno trovato esanime, impiccato con le lenzuola della sua branda. Non aveva avuto contatti con nessun altro, se non l’agente che, a intervalli ravvicinati, controllava le sue condizioni in cella. Ciononostante, è riuscito a realizzare il suo intento. Il ventottenne, non nuovo a esperienze carcerarie, era uscito da poche settimane, prima di finire nuovamente nei guai: tuttavia la drammaticità del suo gesto, ha spiazzato i familiari, che ora - attraverso un legale - chiederanno che vengano fatti tutti gli accertamenti possibili per fare chiarezza, ed escludere qualsiasi possibilità diversa dal gesto volontario. Tuttavia, già una serie di circostanze verificate nell’immediatezza, lascerebbero poco margine ad altre ipotesi. Venerdì pomeriggio, è stato subito avvisato il magistrato di turno della Procura di Como, che valuterà l’eventuale necessità di disporre accertamenti ulteriori, al di là dell’autopsia, atto dovuto in questi casi. Venerdì pomeriggio, inoltre, era in corso, all’interno del Bassone, una ispezione da parte del Dipartimento di Polizia Penitenziaria, voluto per capire le circostanze in cui, il 12 ottobre, era avvenuto un altro suicidio, sempre per impiccagione. In questo caso si era trattato di un trentenne cileno, arrestato pochi giorni prima per rapina, furto, violazione della legge sulle armi. Poco prima il detenuto aveva seguito la messa, salvo poi tornare in cella e, rimasto solo, togliersi la vita. Lanciano (Ch): "Mettiamoci in gioco", esordio nel campionato di Serie D per i detenuti www.divisionecalcioa5.it, 3 novembre 2014 È finita 3-1 per la Casolana, ma nella Casa Circondariale di Lanciano difficilmente dimenticheranno questa giornata. Per la Libertas Stanazzo, squadra formata interamente da detenuti del penitenziario in provincia di Chieti, è stato il giorno dell’esordio nel campionato di Serie D di calcio a 5 della delegazione territoriale di Vasto: la prima partita nell’ambito del progetto "Mettiamoci in gioco", promosso dalla Lega Nazionale Dilettanti-Cr Abruzzo e dalla Divisione Calcio a cinque, in collaborazione con il Ministero della Giustizia. I detenuti hanno giocato con grinta e orgoglio, nel rispetto delle regole, sostenuti dagli altri "residenti" nel penitenziario, che hanno preparato lo striscione "Forza Libertas Stanazzo", esposto ai lati del campo in terra battuta su cui si è giocata la partita, e che ospiterà tutte le gare della Libertas, a segno con Russo al 23’ del secondo tempo, dopo che la Casolana era andata a segno con Travaglini, Forlano e Di Giuseppe. Nello stesso girone della Libertas Stanazzo c’è anche una squadra composta da agenti di Polizia Penitenziaria, le Fiamme Azzurre Lanciano. "Questo progetto rientra nelle attività sociali promosse dalla Lega e dal nostro Comitato, assieme alla Divisione - ha detto il presidente del Cr Abruzzo, Daniele Ortolano. Sono queste le iniziative che ci qualificano: dopo aver iscritto la Libertas Stanazzo, abbiamo avuto altre richieste da altre case circondariali, a cui speriamo di rispondere positivamente, per allargare questo progetto e garantire un’attività a coloro che sono privi di libertà all’insegna dell’acquisizione di valori e del rispetto delle regole". Israele: inasprimento delle pene per coloro che tirano pietre… fino a 20 anni di carcere La Presse, 3 novembre 2014 Il governo di Israele ha votato a favore dell’inasprimento delle pene per coloro che tirano pietre. Secondo le nuove misure, le autorità potranno condannare i responsabili fino a vent’anni di carcere per coloro che lanceranno pietre e bombe incendiarie contro i veicoli, fa sapere l’ufficio stampa del governo. "Israele - ha affermato il primo ministro Benjamin Netanyahu, all’inizio della riunione settimanale di Gabinetto - agisce in modo risoluto contro i militanti e coloro che tirano pietre e bombe incendiarie. Continueremo ad approvare leggi più dure per portare a calma e la sicurezza in tutte la parti di Gerusalemme". Il lancio di pietre è diventato simbolo della resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana. La prima Intifada iniziò proprio così, con il lancio di pietre da parte dei giovani contro le forze di difesa di Israele. Stati Uniti: diplomatici russi possono visitare Vadim Mikerin, detenuto negli Usa www.italian.ruvr.ru, 3 novembre 2014 I diplomatici russi possono accedere in visita al detenuto negli Usa Vadim Mikerin, Presidente della compagnia controllata americana "Techsnabexport - Tene" - Tenam, riferisce l'Ambasciata russa negli Stati Uniti. I diplomatici hanno ottenuto l'accesso consolare per visitare il connazionale e per potere parlare con lui. "Mikerin si sente bene e non ha lamentele riguardo il trattamento che riceve e le condizioni di detenzione" si legge in un comunicato. Inoltre, gli è stato anche permesso di comunicare con la moglie e il figlio ed effettuare un esame medico. Mauritania: detenuti salafiti protestano per deterioramento stato di salute loro leader Nova, 3 novembre 2014 I detenuti salafiti mauritani hanno avviato una serie di proteste per il deterioramento dello stato di salute del loro leader, Dahud Ould al Sebti. Il capo salafita è in fatti in sciopero della fame nel carcere centrale di Nouakchott. Secondo i suoi compagni di cella rischierebbe la vita per il deteriorarsi delle condizioni di salute dovute alla protesta estrema attuata per chiedere migliori condizioni carcerarie per i detenuti islamici mauritani.