La legalità fa bene all’amore di Carmelo Musumeci www.imgpress.it, 30 novembre 2014 "I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia". (articolo 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354). "I detenuti usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti per uno dei delitti previsti dal primo periodo del prima comma dell’articolo 4 bis della legge e per i quali si applicano il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese. (…) Il colloquio ha la durata massima di un’ora". (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Ristretti Orizzonti ha lanciato una campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri familiari, come già avviene in molti Paesi. Lunedì 1 dicembre la redazione della rivista, in collaborazione con la Casa di reclusione di Padova, organizza il Seminario di Studi "Per qualche metro e un po’ di amore in più". Nei siti www.ristretti.org e www.carmelomusumeci.com tutto il materiale prodotto su questo tema e per questa occasione. La mobilitazione dei detenuti giornalisti volontari della redazione di "Ristretti Orizzonti", insieme a moltissimi prigionieri di tutti i carceri d’Italia, che si stanno attivando per raccogliere le firme dei propri compagni, ha avuto adesioni importanti, tra cui quelle di alcuni senatori della Repubblica. È appena stato depositato al Senato un disegno di legge, a firma del parlamentare Pd Sergio Lo Giudice e altri colleghi, a favore dell’umanizzazione delle visite ai detenuti e per la legalizzazione dell’affettività in carcere. Ho una compagna e due figli (e adesso due nipotini) che mi aspettano da oltre ventitré anni e purtroppo, dato la mia condanna all’infinita pena dell’ergastolo, se non cambiano le leggi in Italia avranno di me solo il mio cadavere. Ho visto crescere i miei figli prima dietro un vetro divisorio, dopo dietro un bancone e ora su delle panche, tramite sporadici colloqui. Da ben ventitré anni non posso scambiare una carezza o un bacio affettuoso con la mia compagna, ma la cosa che ci manca di più non è tanto far l’amore, ma poter piangere insieme abbracciati senza che nessuno ci guardi. In ventitré anni non l’abbiamo mai potuto fare, perché siamo sempre stati osservati e circondati da guardie o da familiari degli altri detenuti. Credo che le leggi di uno Stato non dovrebbero impedire ai suoi prigionieri il diritto di amare ed essere amati. Gli svedesi trattano meglio i loro prigionieri perché si dicono: "Il detenuto di oggi sarà il mio vicino di casa domani" invece in Italia, nella maggioranza dei casi, la detenzione è molto più illegale e stupida del crimine che hai commesso. E spesso non serve a nulla. In molti casi serve solo a farti incazzare o a farti diventare più delinquente. In carcere in Italia il tuo reato sembra che ti faccia perdere tutta la tua umanità. In fondo non chiediamo molto, solo una vita più umana e un po’ d’amore. È già difficile essere dei buoni padri (e nonni) fuori, immaginatevi dentro con solo tre giorni all’anno di colloqui, che se sei sbattuto in carcere lontani non riesci mai a fare. E allora ti tocca fare il padre (e il nonno) per lettera. Per dare il mio personale contributo a questa campagna di "Affetti Tra Le Sbarre" ho deciso di rendere pubbliche queste due lettere che ho scritto ai miei figli tanti anni fa. Buona lettura. E che l’amore sociale sia sempre nei vostri cuori. Cara Barbi, mi ha scritto la mamma dicendomi che stai studiando molto perché vuoi passare con il massimo dei voti. Brava, sono contento e sono sicuro che con la scuola mi darai tante soddisfazioni, come pure nella vita perché sei tanto buona e sensibile. Muoio dalla voglia di vederti, mi manchi tanto, chissà come sarai cresciuta. Vorrei tanto essere a casa per proteggerti e farti sentire quanto ti amo, ma sono sicuro che tu lo senti ugualmente. Tesoro, adesso vorrei farti un discorso da grande che rimanga fra noi due: sono preoccupato per la mamma, ultimamente nelle sue lettere mi sembra triste e nervosa. Poverina, si sente piena di responsabilità con te, Mirko, da sola, senza che io la possa aiutare. Mi ha detto che tu e Mirko continuate a litigare spesso. Mi raccomando, anche quando hai ragione cerca di non bisticciare. Fallo per non fare arrabbiare la mamma e quando la vedi malinconica e si sente sola falle un po’ di coccole, anche se fa la dura è più sensibile di noi due. Me lo prometti, amore, che fai come ti ho detto? Perché sono molto in ansia per lei, le voglio tanto bene e mi dispiace da morire quando la sento triste. Non le dire niente che ti ho detto questo e dalle tanti bacini da parte mia. Sai, dicono che dovrebbero essere i genitori a capire i figli, ma io non sono d’accordo totalmente perché per me è più facile che i figli capiscano i genitori dato che i bambini di adesso hanno una marcia in più, sono più istruiti ed intelligenti dei genitori, quindi conto molto su di te. Dopo che hai fatto gli esami fammi un telex per farmi sapere come è andata. Adesso Tesoro finisco di scriverti ma continuo a pensarti, ti riempio di bacini. Tuo papà che ti adora. N.B. Ho sempre il tuo braccialetto di spago che mi hai mandato, non lo tolgo mai, ci faccio pure la doccia, meno male che è resistente e non si consuma. Quando lo guardo penso subito a te e a volte non resisto di dargli un bacino pensando di darlo a te. Papà. Caro Mirko, eccomi a te con questa letterina per stare un po’ con te, sono preoccupato per la scuola: spero che riesci a passare. Meno male che adesso iniziano le vacanze così ti puoi svagare e dedicarti di più al gioco del calcio. Mi raccomando, ormai siete grandi, non bisticciare con la Barbi perché la mamma me lo scrive e si arrabbia con me perché dice che avete preso il mio carattere. Dà la colpa a me (sic!) anche se non ci sono, ma poverina ha ragione, ha tanti pensieri, deve badare a voi, alla casa e al lavoro. Mi dispiace, certo non sono un buon esempio, né un ottimo padre, sempre lontano, ed ho sempre paura che tu ti senti diverso dagli altri bambini e questo mi fa star male: che tu soffra perché non hai il papà vicino. E non so darmi pace e allora ti voglio ancora più bene, con la speranza che tu lo senta ugualmente anche se sono lontano, in questa maledetta isola sperduta dove persino i gabbiani sono infelici. Ricordati che ti sono, ti sento e ti sarò sempre vicino con tutto il mio amore. Basta che tu lo senti dentro e ti sentirai il figlio più amato del mondo. Proteggi la Barbi e la mamma al posto mio e soprattutto fa tante coccole alla mamma quando la vedi triste e preoccupata. Ti vorrei scrivere tante cose carine ma preferisco mandartele con il pensiero perché mi scoccia che le leggano le guardie. Tanto io so che tu sai il bene che ti voglio. Ti mando tanti bacini. Tuo papà che ti adora, ciao amore. Giustizia: il Dap, ovvero il porto delle nebbie di Emilio di Somma (già Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2014 Posso anche capire che la fase di vera emergenza-faticoso avvio delle riforme, lavoro che non c’è, disastri provocati dal sempre più precario stato del nostro sistema idrogeologico-imponga scelte di assoluta priorità. Però questo non spiega i motivi per i quali non si possano affrontare e risolvere problemi che per lo Stato dovrebbero essere di ordinaria amministrazione. Ad esempio, appare inspiegabile il fatto che siano passati ormai sette mesi e ancora non si sia provveduto a nominare il capo del Dap, cioè del massimo responsabile del nostro sistema penitenziario mentre sono state occupate tutte le altre postazioni di vertice. Si tratta di semplice negligenza o di qualcos’altro? Eppure le emergenze che si sono dovute affrontare a causa delle due sentenze di condanna dell’Alta Corte di Strasburgo-parlo delle misure prese contro il sovraffollamento delle carceri - avrebbero dovuto convincere il governo della necessità di affrontare finalmente in modo più organico, direi quasi radicale, i problemi che da molti anni affliggono il sistema penitenziario. Invece, messa una toppa ad un problema che l’Europa considerava ormai non più rinviabile, tutto sembra essersi di nuovo bloccato. Come se, per quanto riguarda le carceri, non esistessero altri problemi al di fuori di quello denunciato da Strasburgo. E, invece, non è affatto così perché il sovraffollamento è solo la punta di un iceberg di un sistema che non riesce né ad attuare le riforme già da tempo varate né a pensare a modelli organizzativi più moderni e simili a quelli già esistenti in altri paesi d’Europa.Si tratta di semplice negligenza e noncuranza o sta maturando invece l’idea, dopo anni e anni di paralisi, di un diverso e più innovativo progetto di riforma? Il che potrebbe anche essere auspicabile solo che di questo progetto innovativo si sa ancora molto poco né appaiono sufficienti a comprendere quel che dovrebbe essere il vero tracciato della riforma le poche misure fin qui adottate. Forse per capirne di più servirebbe conoscere i motivi per i quali viene lasciata vacante da ben sette mesi e senza che, nel frattempo, venga nemmeno nominato un reggente, la sede del Dap. Questa prolungata "vacanza", che è del tutto irrituale, ha, per caso, a che fare con questo ventilato progetto di riforma? Perché se così non fosse, non si vede il motivo per il quale il ministro non abbia fatto questa nomina magari attribuendola,in mancanza di valide alternative, a Luigi Pagano che ricopre l’incarico di vicario da ben sette mesi. Insomma una situazione kafkiana, da porto delle nebbie. E quali potrebbero essere i motivi di questo persistente e inspiegabile indecisionismo? Ve ne potrebbero essere almeno tre. Il primo è che l’attuale governo, avendo in mente di cambiare molte cose nel sistema penitenziario, abbia deciso di bloccare nomine e altro (sono prive di capo ben tre direzioni generali del Dap) fino a quando non potrà vedere la luce la proposta di riforma. Il secondo è che il ministro e le varie correnti che compongono l’Associazione nazionale magistrati non siano ancora riusciti a trovare un accordo sulla persona giusta da mettere al Dap. Ma il ministro, in questi casi, non dovrebbe, stante a quel che dice la legge, decidere da solo? Non è così perché da tempo, al ministero di via Arenula, esistono prassi consolidate che fanno girare la macchina in tutt’altro modo. Il terzo è che il ministro abbia voluto questa lunga "vacatio" al Dap proprio per depotenziare il ruolo e i poteri di una struttura che fino a sette mesi fa aveva operato con un elevato grado di autonomia. Quella autonomia che un semplice "vicario" non può esercitare, costretto com’è a poggiare la propria azione su di un provvedimento a dir poco anomalo e non proveniente dal Ministro. Se queste ipotesi non avessero invece fondamento - e io mi auguro che possa essere così - questo governo riformista dovrebbe avere il coraggio di prendere almeno un paio di decisioni concrete, quelle che davvero servono per rimettere finalmente in moto la macchina. La prima è quella di nominare o Pagano o altra persona come lui non proveniente dalla magistratura a capo del Dap come previsto dalla legge dl riforma del 1990. Il che vorrebbe dire però andare in rotta di collisione con la magistratura che fino a ieri, a via Arenula, ha occupato tutte le posizioni di vertice, compreso ovviamente il Dap da ultimo con Giovanni Tamburino. Avrà il governo un simile coraggio? La seconda è quella di operare in modo che la nomina del nuovo capo del Dap diventi uno degli strumenti necessari per applicare finalmente quanto previsto dalla riforma del sistema penitenziario approvata nel lontano 1975 che fino ad oggi purtroppo è rimasta, in gran parte, solo un pezzo di carta."Le leggi son ma chi pon mano ad esse" diceva Dante. E così le cose, nelle carceri italiane, comincerebbero a cambiare veramente. Giustizia: il lavoro dei detenuti che nessuno sfrutta per risarcire lo Stato di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 novembre 2014 Un detenuto costa tra i 100 e i 200 euro al giorno, più le spese processuali che spesso non è in grado di pagare quando esce. Perché non utilizzarlo gratis per spalare il fango dei fiumi esondati, ridipingere le scuole, o fare i lavori di manutenzione nei penitenziari? La proposta "provocatoria e forse per qualcuno addirittura sovversiva" la lancerà stasera Milena Gabanelli in una puntata di Report che squarcia il velo dell’ipocrisia. Il sistema penitenziario pesa sul contribuente per 2 miliardi e 800 milioni di euro. Lo scorso anno, solo per il vitto e i prodotti per l’igiene, sono stati spesi 132 milioni. Lo Stato ne ha recuperati poco più di 4,5 dalle spese di mantenimento attribuite ai 54.200 detenuti di quest’anno: 1,69 euro al giorno. La legge dice che l’amministrazione dovrebbe dare un lavoro a ciascun detenuto definitivo, ma quasi nessun istituto ha i soldi per pagarlo e favorire così il suo reinserimento. Anche per questo 7 su 10 tornano a delinquere. Dunque perché non utilizzare i detenuti non pericolosi per lavori di pubblica utilità e trattenere gran parte della paga come risarcimento per le spese dell’amministrazione penitenziaria? A sorpresa, nella puntata firmata da Claudia Di Pasquale e Giuliano Marucci, i più favorevoli all’idea sono proprio i detenuti, colti nella loro attività quotidiana: "Giochiamo a carte, ci facciamo una chiacchierata, 23 ore su 24 non facciamo nulla", raccontano, abbrutiti e avvolti dal degrado di bagni fetidi, muri cadenti, strutture fatiscenti. Mentre dalle istituzioni chiamate a risolvere una situazione che ci è costata già la condanna della Corte europea arriva il consueto scaricabarile: "Tocca al Dap", "no al governo", "no al Parlamento". Più un’alzata di sopracciglio, quasi come se si volesse tornare ai lavori forzati: "Incostituzionale: il lavoro va pagato", tuona il garante Angiolo Marroni. Eppure una legge che prevede il lavoro volontario e gratuito esiste dal 2013. Ma sembra che lo sappiano solo al carcere di Bollate dove il 50% dei detenuti ridipinge le scuole o fa varie attività, pagati o anche gratis. In altri Paesi, come gli Stati Uniti, l’Austria, l’Irlanda, poi, è già così. L’obbligo di lavorare non c’è. Ma con apparente soddisfazione generale, quasi tutti lavorano. "L’amministrazione trattiene le spese e lascia al detenuto circa 50-60 euro in tasca. Noi facciamo l’esatto contrario", evidenzia Milena Gabanelli. In più all’estero lo sconto di pena arriva solo a chi lo merita, lavorando. A Portland, nell’Oregon, squadre di detenuti, più o meno sorvegliati, a seconda della pericolosità, fanno manutenzione di strade e giardini, o fabbricano scarpe. L’amministrazione penitenziaria non è in rosso e ci sono persino celle De Luxe per chi lavora di più. In Irlanda a tutti, in laboratori interni, si insegna a lavorare il legno o altro. In Austria si producono internamente fabbriche per topi, componenti auto e molto di più. Da noi solo il 4% dei detenuti lavora per i privati Modificare le norme per seguire l’esempio estero? "Compito del governo, per la presidente della commissione giustizia della Camera, Donatella Ferranti. E il sottosegretario Cosimo Ferri concede: "È una proposta di buon senso". Giustizia: Gratteri stia sereno, i lavori forzati ci sono già di Giuseppe Caputo (Ph. D Università di Firenze e membro dell’Altro diritto) Il Garantista, 30 novembre 2014 Se l’Italia malaugurata idea di eliminare i pagamenti per il lavoro carcerario, saremmo condannati dall’Europa. Nel numero di Micromega di alcune settimane fa dedicato al giustizialismo, il ministro ombra della giustizia Nicola Gratteri, attuale Procuratore aggiunto e consulente del governo sui temi della giustizia, ha proposto di obbligare i detenuti a svolgere attività lavorativa gratuita in favore della collettività. La proposta, che ha suscitato un certo dibattito e non poche polemiche, sarà probabilmente rilanciata nella puntata di Report che andrà in onda questa sera. Vorrei provare a discutere questa proposta lasciando da parte le polemiche sul giustizialismo e partendo dall’analisi di alcuni fatti per mostrare che, dietro un’idea apparentemente di buon senso, si cela una scarsa conoscenza dell’universo penitenziario e, ahimè, anche una superficiale conoscenza delle norme internazionali e delle prassi seguite negli altri paesi europei. Iniziamo a descrivere la realtà del lavoro carcerario che in pochissimi conoscono. Oggi in Italia appena 1 detenuto su 4 ha la possibilità di lavorare in carcere. Si tratta di lavori molto umili, consistenti perlopiù in attività di pulizia, di cucina e manutenzione degli edifici, e saltuari, della durata di pochissime settimane l’anno, pagati con retribuzioni da fame: al netto del contributo per il mantenimento in carcere, i detenuti guadagnano circa 2 euro l’ora, che usano prevalentemente per soddisfare alcuni bisogni primari (alimentari e di igiene) spesso non adeguatamente soddisfatti dall’amministrazione. La legge, però, imporrebbe retribuzioni più alte: almeno i 2/3 dei minimi previsti dagli attuali contratti nazionali del lavoro. L’amministrazione penitenziaria viola questa norma e, giustificandosi con l’assenza di fondi, continua a pagare retribuzioni da fame e periodicamente, quando un detenuto fa ricorso alla magistratura, viene condannata a pagare la parte restante. Questa violazione di legge assicura un gran risparmio allo Stato: sono pochissimi i detenuti che possono permettersi di avviare una causa dai tempi lunghi e dai costi elevati, così preferiscono continuare a lavorare in cambio di un’elemosina. In questo contesto di grave illegalità, si propone di eliminare l’obbligo di pagare i detenuti. Questa proposta, così formulata, va incontro ad alcune obiezioni. La normativo penitenziaria europea e la Corte Europea dei diritti dell’uomo hanno stabilito chiaramente che il lavoro dei detenuti deve essere pagato, anche se le retribuzioni possono essere inferiori a quelle dei lavoratori comuni. Alla luce di ciò se l’Italia avesse la malaugurata idea di eliminare quella norma che impone di pagare i detenuti per il lavoro carcerario, andrebbe incontro a migliaia di ricorsi nei quali verrebbe sicuramente condannata a pagare retribuzioni e spese processuali. Altro che risparmio, ci troveremmo di fronte a un danno enorme per l’erario, quantificabile in alcune centinaia di milioni di euro l’anno. In confronto, il risarcimento per i danni da sovraffollamento, che l’Italia è stata già condannata a pagare dalla Corte Europea, sono pochi spiccioli. L’idea di far lavorare gratis i detenuti non solo non conviene, ma è anche contraria al diritto. Quando la Corte europea e la nostra Corte costituzionale hanno ribadito la necessità di pagare i detenuti per il lavoro hanno voluto affermare un principio elementare riguardante il senso e i limiti della punizione. Quando sì viene condannati al carcere già sì subisce una punizione molto afflittiva: non si perde solo la libertà personale, ma tutte le altre libertà civili e sociali vengono colpite. Non si può più disporre liberamente del proprio corpo, delle proprie relazioni sociali ed affettive: si è chiusi in gabbia, non si sceglie con chi convivere, ci si può ammalare e non si può scegliere da chi farsi curare, si e potenzialmente vittime di ogni genere di violenza e soprusi, non si può più fare sesso con il proprio partner, non si può fare più nulla senza chiedere il permesso all’autorità, neanche una doccia. Per questa ragione, secondo le convenzioni internazionali, se si obbligassero i condannati anche a lavorare gratis si aggiungerebbe ulteriore sofferenza intollerabile in uno stato di diritto. I condannati al carcere cesserebbero di esser tali e diverrebbero dei veri e propri schiavi. Proprio come avviene negli Stati Uniti (dove un detenuto/lavoratore guadagna 10cent l’ora) che, non a caso, sono tra i pochi paesi che, dopo 84 anni, ancora non hanno ratificato la Convenzione Oil contro i lavori forzati. Nel paese delle libertà civili e democratiche alcuni penitenziari sono delle vere e proprie unità produttive date in appalto a privati che sfruttano il lavoro dei condannati-schiavi a fini di lucro. In conclusione, la proposta del lavoro gratuito risulta essere potenzialmente dannosa per le casse dello Stato e contraria a elementari norme di diritto. Anche perché se si guarda a quel che avviene nel resto d’Europa si scopre che i detenuti vengono pagati per il lavoro svolto in carcere. Ovunque le retribuzioni sono ridotte rispetto a quelle dei lavoratori in libertà e dalla busta paga dei detenuti sono detratte le spese per il mantenimento in carcere, esattamente come avviene in Italia. Non voglio concludere, però, limitandomi a sostenere che il sistema italiano sia perfetto. C’è un domanda di fondo che in molti sicuramente si fanno e che non voglio eludere: che senso ha tenere i detenuti in gabbia senza fargli fare nulla? Non sarebbe meglio fargli fare qualche lavoretto, anche gratis? Secondo la Corte europea è possibile far lavorare gratis i condannati senza farli diventare schiavi a una sola condizione: il lavoro gratuito deve essere un’alternativa al carcere. Così la condanna assume un significato completamente diverso, non è più una punizione fine a se stessa, ma serve a riparare il danno arrecato dal reato. Questo sistema in realtà non è una novità per l’Italia, essendo già previsto nei casi di guida in stato di ebrezza o sotto l’effetto di stupefacenti e di condanne lievi per droga, quando il giudice può imporre il lavoro di pubblica utilità al posto del carcere. Ma si tratta di un sistema che funziona poco e male. Lo Stato non organizza direttamente alcuna forma di lavoro sociale, ma si limita ad autorizzare alcuni privati, in genere associazioni di volontariato, a poter impiegare condannati. Esistono convenzioni che consentirebbero ai Comuni e ad alcuni ministeri di utilizzare direttamente il lavoro dei condannati per la collettività, ma sono carta straccia, nessuno le applica e quasi tutti ne ignorano l’esistenza. Mi domando dunque perché, invece di lanciarsi in avventate proposte di ritorno ai lavori forzati o alla servitù penale, che ci farebbero bastonare ancora una volta dalla Corte europea, non si ragiona su come far funzionare alcune buone norme che già abbiamo. Alle quali proporrei di aggiungerne una nuova: si potrebbe lasciare la possibilità ai detenuti di scegliere di rinunciare alla paga in cambio di uno sconto di pena per ogni giorno di lavoro svolto in carcere o fuori per la collettività (in Romania ad esempio 3 giorni di lavoro gratuito comportano uno sconto di 4 giorni dì pena). Secondo la Corte Europea in questo caso non ci sarebbe alcuna violazione perché il lavoro gratuito non solo non rende schiavi ma, al contrario, avvicina il momento della scarcerazione. Sarebbe un modo per responsabilizzare i detenuti che potrebbero scegliere se risarcire il danno attraverso il lavoro gratuito oppure con più carcere e una paga ridotta. Sarebbe forse un primo passo per superare l’attuale concezione paternalista del carcere, inteso come luogo dì punizione e di cura, in favore di una nuovo modello basato sull’idea che all’individuo deve essere data la possibilità e la responsabilità di restituire qualcosa alla società, senza dover rinunciare ai diritti fondamentali. Sarebbe un vantaggio per la collettività che si vedrebbe restituire individui meno abbrutiti da anni di ozio e di carcerazione inumana e in moltissimi casi anche per le vittime dei reati (pensate ad esempio a chi subisce un furto) che finalmente avrebbero la possibilità dì essere ripagati del danno. Giustizia: abolizione dell’appello o obbligatorietà dell’azione penale? di Astolfo Di Amato Il Garantista, 30 novembre 2014 C’è una nuova parola d’ordine che circola con sempre maggiore insistenza: per ridare efficienza al processo penale occorre abolire l’appello. Il ragionamento è di un semplicismo disarmante. Con l’abolizione dell’appello si riducono i tempi del processo e si chiudono rapidamente più processi. L’eliminazione di un grado consente di incidere in modo molto più significativo sulla quantità, cogliendo in un colpo solo ben due risultati. Accorciare i tempi, così eliminando il rischio di prescrizione, e celebrare più processi. La prospettiva ispiratrice è, evidentemente, una visione quantitativa della giustizia, che, seguendo quella che potrebbe chiamarsi una dimensione macroeconomica della devianza, bada ai grandi numeri, ritenendo irrilevanti le singole vicende. Aleggia il peso del ruolo di chi si sente chiamato a dare una risposta definitiva ai grandi problemi dell’umanità e che, per la gravosità dell’incarico di cui è investito, non può fermarsi a guardare le miserie dei singoli. Di fronte ad una visione del genere è inutile girarci intorno. Discutere di efficienza non ha senso. È in ballo la concezione stessa della società, della democrazia, del rapporto tra le persona, del valore da dare alla dignità del singolo, Anzi, il tema è proprio questo: il valore giustizia può essere così preminente da oscurare quello della dignità del singolo? O non piuttosto in tanto si realizza in quanto riesce ad essere rispettoso della dignità del singolo inverandosi in essa? Se il riferimento centrale è la dignità del singolo, che sembra essere il punto di incontro e di approdo delle culture socialiste, cattoliche e liberali, l’abolizione dell’appello in nome di una pretesa efficienza e una bestemmia. Basta considerare le percentuali di riforma che le sentenze subiscono in grado di appello, per rendersi conto che una abolizione di questo grado renderebbe la giustizia più sommaria e, perciò, meno giusta. Né si dica che in altri ordinamenti l’appello non esiste o è fortemente limitato: essi sono caratterizzati da un rispetto rigorosissimo delle garanzie processuali, che nel nostro paese sono invece costantemente prevaricate in nome della necessità di "salvare i processi", e dalla presenza della giuria popolare e della necessità della unanimità in ordine al giudizio di colpevolezza, che rendono il principio "dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio" una garanzia reale. Se si abbandona la visione macroeconomica e si torna a quella che dà rilievo alla singola vicenda, l’unica compatibile con l’esigenza di rispetto della dignità della persona, appare evidente che il problema della efficienza della giustizia va risolto non incrementando i numeri, ma diminuendoli. Il che può avvenire in due modi. Innanzi tutto riducendo l’area delle condotte penalmente rilevanti. Si parla tanto di depenalizzazione, e poi, ogni volta che nasce un problema, invece che cercare di incidere sulla efficienza della amministrazione, sì introducono nuovi reati. Si tratta di un vecchio problema, del quale la politica non riesce a darsi carico. In secondo luogo abolendo l’obbligatorietà dell’azione penale. Quel principio, presente nella Costituzione e concepito per garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non ha più ragione di essere, Di fatto non esiste più, attesa la pratica impossibilità di perseguire tutti i reati, La conseguenza è un generale intasamento della giustizia e la possibilità, non infrequente, di un potere arbitrario di scelta da parte delle procure circa i processi da mandare avanti. Essendo l’eguaglianza garantita dalla indipedenza dei giudici, l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale, oltre che evitare la attuale arbitrarietà ed irresponsabilità delle scelte, consentirebbe di liberare la macchina della giustizia di molta zavorra del tutto inutile e di rendere trasparenti i criteri in ordine alla scelta dei procedimenti da perseguire, collocandone la elaborazione in una sede che ne rispetti la dimensione essenzialmente politica. In tal modo si consentirebbe di concentrare legittimamente sui casi trattati tutta la necessaria attenzione, così coniugando efficienza e rispetto della dignità della persona. Giustizia: il ministro Orlando; risultati interessanti dalla "messa alla prova" Ansa, 30 novembre 2014 "La messa alla prova", come misura alternativa alla detenzione "ha dato risultati interessanti". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenendo alla presentazione del rapporto "Legalità e sicurezza, 10 anni di criminalità in Liguria". Parlando della situazione dei carceri il ministro ha sottolineato che "c’è una diminuzione dei detenuti, siamo passati da 68 a 53 mila, sono cresciute le pene alternative che in due ani sono cresciute di 5.000 unità". Il ministro ha ricordato che l’Italia "è tra i Paesi europei che spende di più per le carceri, ma siamo anche tra i Paesi che abbiamo più casi di recidività". Il ministro lo ha detto affrontando il tema della decarcerizzazione parlando di come i cittadini percepiscono la sicurezza e sottolineando che la carcerazione non ha portato alla diminuzione dei reati. Orlando ha affermato che "la crisi del welfare aumenta la percezione dell’insicurezza". Lettere: il senso dell’ergastolo in una lettera al Papa di Fiorenza Sarzanini Io Donna, 30 novembre 2014 "Dio perdona. possono farlo anche gli uomini o il perdono è solo "cosa divina"?". Parte da questa domanda la lettera di tredici ergastolani che due donne hanno deciso di inviare a papa Francesco. Nadia Bizzotto, fa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, Francesca de Carolis è una giornalista. Insieme hanno raccolto gli interrogativi di tredici uomini che non hanno speranza di lasciare il carcere e si sono rivolti al pontefice per chiedere aiuto. Detenuti appartenuti in passato a varie organizzazioni criminali, che hanno compiuto un percorso di pentimento morale senza però collaborare con i magistrati. Quindi senza speranza di ottenere permessi e percorsi alternativi alla prigione. Condannati a una "pena di morte viva che non uccide all’istante, ma ti lascia in agonia senza che lo Stato si sporchi le mani di sangue perché ti ruba l’amore, ti mangia vivo, ti succhia la speranza, ti ammazza lentamente". E questo nonostante "alcuni di noi sono ormai giunti ad un livello di maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle vittime, con la certezza che non esistano pene in grado di rafforzare l’autorevolezza della legge o tali da raggiungere l’obbiettivo di cancellare il dolore delle vittime dei reati". Da questo parte il dubbio più lacerante: "Sapendo che per noi la pena non finirà mai, come può un uomo resistere e superare tutto questo? E dopo aver superato questa prova, può un uomo ancora considerarsi una persona normale, umana?". Lettere: Giornata delle "Città per la vita"… nella pena di morte né umanità né giustizia di Marco Impagliazzo Avvenire, 30 novembre 2014 Cesare Beccaria, 250 anni fa, consegnava alle stampe il manoscritto che sarebbe divenuta Dei delitti e delle pene. In quel testo emergeva fiducia nella capacità della ragione di illuminare il campo dell’azione penale, consapevolezza delle difficoltà insite nel contrasto di idee e consuetudini millenarie, orgoglio di combattere per "la causa dell’umanità", come è scritto nel capitolo dedicato all’abolizione della pena di morte. La condizione di chi lotta, oggi, contro la pena capitale è ben diversa. Particolarmente in Europa, continente che con maggiore decisione e compiutezza ha voluto scrollarsi di dosso il retaggio di atti di violenza che si aveva il coraggio di chiamare giustizia. Ma anche guardando al vasto mondo ci si può rallegrare che diminuisca, anno dopo anno, il numero dei Paesi mantenitori e quello dei condannati a morte al termine di una procedura ufficialmente legale. Il recente voto alla VI Commissione delle Nazioni Unite (quella che si occupa di "questioni sociali, culturali e umanitarie") sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un successo, con 114 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto a due anni fa. Quel voto, fa sperare in un mondo che avanzi sulla via del diritto e dell’umanità, trasmettendo a tutti, e in particolare alle generazioni più giovani, l’idea della vita come qualcosa di prezioso. Per questo, oggi, 30 novembre, giorno che ricorda la prima abolizione della pena di morte in uno Stato europeo, il Granducato di Toscana nel 1786, si celebra la giornata Città per la vita. Migliaia di città nel mondo, tra cui molte capitali, su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, si fermano per riflettere sul superamento della pena di morte. È un sogno realizzabile. Un possibile, nuovo, passo in avanti dell’umanità. Ma mai abbassare la guardia! Anzi. C’è uno sforzo collettivo da sostenere, per suscitare un movimento ancora più largo dei cuori e delle coscienze. La fiducia e l’impegno degli attivisti e delle tantissime persone impegnate in questa battaglia non deve essere disgiunta dalla consapevolezza delle difficoltà, la stessa vissuta da Beccaria 250 anni fa. Non può non accompagnarsi a un discorso meditato e insieme appassionato per spiegare a un mondo spaventato e spaesato che non c’è giustizia senza vita. In Asia e negli Stati Uniti soprattutto, ma non solo, c’è da conquistare le istituzioni alle ragioni della vita e dell’umanità, aiutandole a ritrovare nel rispetto della persona umana la radice profonda di ogni politica che tenda al bene comune. Occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono, in alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi. Dovunque, c’è da far crescere il senso di quanto l’altro ci sia vicino, perché, come ha affermato papa Francesco il 23 ottobre: "È diffusa la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose". Lottare contro la pena di morte è lottare per la vita. È difenderla, garantirla, erigerle attorno una rete di protezione che parli alla mente e al cuore, vincendo tanto la tentazione di credere che i problemi possano essere superati eliminando un essere umano, quanto la scorciatoia dello "scarto" dei più poveri, degli "inutili", di coloro la cui esistenza è ritenuta meno meritevole di essere portata avanti, quasi che tutti costoro siano un ostacolo a un procedere più spedito. I 250 anni passati da quando un nostro concittadino ha scelto di spendere la propria intelligenza e la propria passione a difesa della vita nei tribunali e nelle carceri, siano stimolo per continuare la battaglia, estenderla, vincerla in profondità, rispondendo così all’invito fatto a tutti dal Papa: "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà lottino per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme". Lettere: gli eventi nelle carceri in occasione dell’iniziativa "Cities for Life" dalla Comunità di Sant’Egidio Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2014 Anche quest’anno, per la Giornata Mondiale delle "Città per la Vita - città contro la pena di morte" del 30 novembre, migliaia di persone in tutto il mondo si stanno mobilitando per chiedere a una sola voce di rinunciare definitivamente alla pena capitale. Sono quasi 2000 le Città per la Vita che hanno aderito ufficialmente alla Giornata Mondiale, e molte adesioni stanno continuando a pervenire. A queste vanno aggiungendosi i tanti luoghi nel mondo dove, in assenza di un’adesione ufficiale da parte delle istituzioni, soprattutto in paesi dove ancora vige la pena di morte, comunità, associazioni e semplici cittadini hanno organizzato eventi pubblici, fiaccolate e veglie di preghiera per esprimere il proprio netto rifiuto della pena capitale. Per questo evento nelle carceri italiane sono stati organizzati delle iniziative: Carcere di Vercelli - il 4/12. Incontro con Tamara Chikunova (madre di un condannato a morte eseguito in Uzbekistan) e Marat Rakhmanov (condannato a morte liberato in Uzbekistan), incontro con 70 detenuti (maschile e femminile). Genova - Carcere di Marassi - 29/11- Testimonianza di Marat Rakhmanov, ex condannato a morte in Uzbekistan, si è salvato grazie al lavoro di Tamara Chikunova, giurista e fondatrice dell’Associazione uzbeka Madri contro la pena di morte. Il figlio di Tamara nel 2000 fu condannato a morte, si chiamava Dimitri e aveva 29 anni, l’esecuzione avvenne all’insaputa della madre che la mattina seguente si recò al carcere e seppe che suo figlio aveva subito l’esecuzione. Tamara non ha mai riavuto il corpo di suo figlio. Insieme alla Comunità di Sant’Egidio Tamara Chikunova ha salvato la vita a oltre 100 condannati a morte. Nel 2008 l’Uzbekistan ha abolito la pena capitale anche grazie al suo lavoro. Evento in teatro, detenuti attori recitano brani sulla pena di morte con 100 detenuti. Firenze - Carcere di Sollicciano - 27/11. Incontro con Suezan Bossler, familiare di vittima. Suo padre venne ucciso nel corso di un agguato nel quale anche la donna, allora adolescente, venne ferita gravemente. Ha scelto di perdonare gli aggressori e insieme all’associazione americana "Journey of hope" testimonia la forza del perdono e della riconciliazione. Evento con i responsabili religiosi, dell’Islam, ortodossi, buddisti e cristiani con 200 detenuti. Roma - Carcere di Regina Coeli - 27/11. 100 detenuti incontrano il testimone - Curtis McCarthy, ex condannato a morte, liberato perché riconosciuto innocente. Curtis ha trascorso 22 anni nel braccio della morte dell’Oklahoma, il carcere è sotterraneo. Porta nel mondo la sua testimonianza, recentemente è stato in Giappone. Napoli - Carcere di Poggioreale - 28/11. Incontro con Testimone Curtis McCarthy con 60 detenuti. Caltanissetta: suicidio di Giuseppe Di Blasi nel carcere Malaspina, la parola passa al Gip La Sicilia, 30 novembre 2014 Imputazione coatta o archiviazione per i medici del carcere di Messina che ebbero in cura il nisseno Giuseppe Di Blasi, morto suicida alla fine di dicembre del 2011 nel carcere "Malaspina"? È il nodo su cui si giocherà il braccio di ferro giudiziario a metà del mese prossimo davanti al gip Francesco Lauricella, che sarà chiamato per la terza volta a decidere se archiviare o meno l’inchiesta sulle presunte negligenze che avrebbero portato, secondo la denuncia presentata dai familiari di Di Blasi, al suicidio del loro congiunto. Il gip, che in passato aveva disposto un supplemento di indagini dando mandato alla Procura nissena di sviscerare tutti i particolari del caso, si pronuncerà sulla nuova richiesta di archiviazione fatta dal sostituto procuratore Elena Caruso ed alla quale si è opposto l’avvocato Massimiliano Bellini, che assiste la famiglia Di Blasi. Il giudice potrebbe ora archiviare il caso o anche disporre l’imputazione coatta facendo sì che si apra direttamente il processo. Giuseppe Di Blasi era stato condannato a 17 anni in primo grado per violenza sessuale su una minorenne e si impiccò nella sua cella del carcere "Malaspina" il 28 dicembre 2011; prima di essere trasferito a Caltanissetta era stato detenuto a Messina e lì, secondo l’accusa, non avrebbe ricevuto un’assistenza adeguata da parte degli psichiatri in servizio al carcere di Messina, indagati per omicidio colposo. Di Blasi soffriva infatti di disturbi di natura mentale. Una volta trasferito a Caltanissetta aveva tentato altre volte il suicidio tanto che inizialmente venne anche disposta la sorveglianza a vista, revocata il giorno prima della sua morte, ma sui fatti avvenuti a Caltanissetta l’indagine è già stata archiviata. Ora la parola torna al giudice. Brescia: errori giudiziari, in 11 anni risarciti 360 ex detenuti con oltre 3 milioni di euro di Wilma Petenzi Corriere della Sera, 30 novembre 2014 Ma chi si avvale della facoltà di non rispondere non ottiene riparazione. "Oltre ogni ragionevole dubbio". È il principio alla base del sistema giudiziario italiano, in caso di dubbio non è ammissibile una condanna. Perché spesso gli indizi che fanno finire una persona in prigione di fronte ai giudici non sono sufficienti e allora i togati non possono che assolvere. E a questo punto chi ritiene di essere stato ingiustamente detenuto può chiedere di essere risarcito per il danno subito, per il danno economico e anche per quello morale. E lo Stato, se la richiesta sarà ammessa, risarcirà l’ex detenuto, la persona tenuta in prigione per errore. Negli ultimi 20 anni lo Stato ha risarcito circa 600 milioni di euro per "errori giudiziari". E Brescia ha fatto la sua parte. Negli ultimi undici anni, dal 2004, fino al 18 novembre scorso, la corte d’appello di Brescia ha dato parere favorevole a 360 procedimenti sull’intero distretto giudiziario (oltre a Brescia, anche Cremona, Bergamo e Mantova). Mediamente ogni anno sono una trentina gli ex detenuti che ottengono il risarcimento. Le cifre, ovviamente, variano parecchio da anno a anno, dipende da quanti sono stati i procedimenti accolti e da quanto è durata l’ingiusta detenzione. È chiaro che più la detenzione è lunga e più cresce il conto per lo Stato. L’anno peggiore per Roma, guardando i dati della Corte d’appello di Brescia, è stato il 2011 quando lo stato ha dovuto saldare ben 41 persone per una somma totale superiore al milione di euro. Anche il 2013 è un anno "nero" per lo Stato: 333 mila euro per 33 errori giudiziari. Complessivamente negli ultimi undici anni lo Stato ha saldato errori giudiziari bresciani per più di tre milioni di euro, 3.420.057 euro per la precisione. La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è stata introdotta con il nuovo codice di procedura penale ed è regolamentata dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. La custodia cautelare in carcere, come recita la normativa, è considerata ingiusta quando l’imputato viene prosciolto con sentenza di assoluzione irrevocabile, quindi è giudicato innocente per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato e perché il fatto come reato non è previsto dalla legge. Chi ha subito ingiusta detenzione vanta a questo punto il diritto di ottenere "un’equa riparazione". La richiesta va presentata alla Corte d’Appello competente, che prende una decisione in camera di consiglio. La normativa ha fissato anche un tetto massimo: l’ex detenuto non può essere risarcito con una cifra superiore a 516.456,90 euro. Ci sono casi in cui la cifra versata dallo Stato non si allontana di molto dal tetto massimo, ma mediamente i risarcimenti sono ben al di sotto dei diecimila euro, se si considera che nel 2004 con 30 risarcimenti lo Stato ha versato 141.506 euro, 145 mila nel 2005 per 33 risarcimenti. I detenuti, come conferma Stefania Amato, presidente delle Camere penali di Brescia, sono informati su questa normativa e spesso non hanno bisogno dei consigli del proprio legale, ma vengono aggiornati dai compagni di cella. "L’interpretazione della norma - precisa Amato - è piuttosto restrittiva perché la riparazione non è concessa se il detenuto si è avvalso della facoltà di non rispondere, il suo diritto a stare in silenzio viene considerato una sorta di concorso alla detenzione". Prato: l’orto e gli animali per curare il disagio psichico e reinserire i detenuti Il Tirreno, 30 novembre 2014 Animal House allarga la sua attività. Ora si coltivano verdure e si producono miele e marmellate in vendita al circolo di Arci di S. Ippolito. Orti sociali e pensione per animali: tutto questo e molto altro è Animal House, associazione nata nel 2008 da un’idea di Federica Pasciuti, a San Ippolito di Galciana. Animal House affianca all’attività di pensionato per animali d’affezione, una Fattoria didattica e un progetto di agricoltura sociale che offre opportunità di inclusione per molti soggetti svantaggiati, disagiati psichici, detenuti, persone provenienti dalla marginalità e per tutti coloro che sono in una fase di formazione della propria personalità. La presidente Federica Pasciuti racconta la storia dell’associazione e annuncia: "Adesso i prodotti dei nostri orti saranno venduti anche al circolo di S. Ippolito". La sede, una colonica immersa nel verde, è di proprietà del Comune di Prato ed è stata ristrutturata grazie ai contributi del Comune stesso e della Regione Toscana. Da inizio novembre 2014 i prodotti dell’orto, che già venivano distribuiti nei mercati di quartiere, saranno presenti anche al Circolo di via Visiana 117. Ogni sabato, dalle 8 alle 13 sarà possibile acquistare direttamente dal produttore verdure fresche di stagione, miele, marmellate e altri prodotti dell’agricoltura sociale della Fattoria Animal House, che ha sede nella vicina zona di Pantanelle. "L’iniziativa - spiega Federica Pasciuti - nasce dalla volontà di offrire un servizio alla cittadinanza mettendo in relazione due realtà vicine, che trovano un collante forte nell’esperienza della cooperazione, nella capacità e nella volontà di mettere in comune sensibilità e risorse per il bene della collettività". Volterra (Pi): il Sindaco; già avviato progetto per lavoro di pubblica utilità con i detenuti Il Tirreno, 30 novembre 2014 La proposta era arrivata nei giorni scorsi dal gruppo di minoranza Volterra Futura per voce del capogruppo Paolo Paterni: "Perché non utilizzare i detenuti del carcere per i lavori di pubblica utilità?". La richiesta si era conclusa con un appello al sindaco. Oggi, Marco Buselli replica all’invito arrivato a mezzo stampa. "L’amministrazione comunale è costantemente al lavoro con l’autorità penitenziaria per l’inserimento dei detenuti in attività di pubblica utilità. Ringraziamo il consigliere Paolo Paterne - scrive il primo cittadino - per il suggerimento che però arriva un po’ in ritardo". "L’amministrazione comunale ha già incontrato due volte la direzione del penitenziario, a luglio e ad agosto, e, ultimo in ordine di tempo, questa mattina alla presenza dell’assessore Tanzini, del consigliere delegato Fidi e dei referenti dell’amministrazione penitenziaria, per effettuare a breve 2 ulteriori inserimenti - continua il sindaco Marco Buselli - restano solo da definire alcuni dettagli". Inoltre un detenuto lavora già per il Comune di Volterra da 14 mesi svolgendo attività di decoro urbano. "Il tema è tuttavia molto delicato - prosegue Marco Buselli - perché dobbiamo comunque fare attenzione a non comprimere spazi e opportunità lavorative che potrebbero aprirsi per i giovani del nostro territorio". Treviso: progetto "Diamoci Dentro", un piano per il lavoro dopo il carcere di Alessandra Vendrame La Tribuna di Treviso, 30 novembre 2014 Un lavoro dopo il carcere per i giovani con meno di 29 anni che escono dal circuito detentivo resta una montagna difficile da scalare? A fare cordata tra associazioni e istituzioni per aprire la strada, oltre al reinserimento sociale, a percorsi occupazionali esterni al carcere ci ha provato il Csv di Treviso, il Centro di Servizio per il volontariato. Dal 2011 ha gettato le fondamenta del progetto "Diamoci Dentro", il primo ad aver chiamato insieme a fare squadra ben dieci associazioni impegnate nell’ambito dell’area del penale e insieme una fila di istituzioni partner: la Caritas, la Camera di commercio, la cooperativa sociale Alternativa, la comunità Murialdo, la Casa circondariale di Treviso, l’istituto per minori di Treviso, tra gli altri istituti di detenzione l’Uepe e Usmm di Venezia, la Provincia di Treviso e l’Usl 9. Missione comune: sostenere percorsi occupazionali esterni al carcere. L’unione fa la forza. Il progetto prevedeva infatti ai nastri di partenza soltanto nove percorsi di tirocinio. Di cui sei previsti in condizione di attività protetta con l’affiancamento di un tutor. Ad essere coinvolti giovani al termine del periodo di detenzione o in esecuzione penale esterna. Ma dalle prime stime le opportunità di tirocinio hanno iniziato a prendere in largo. A far da lievito la grande partecipazione di associazioni e istituzioni ha reso possibile aumentare il tiro. All’interno del progetto sono stati seguiti ben 43 casi di percorsi occupazionali. Nello specifico 11 giovani hanno seguito un percorso professionalizzante. Con i tirocini che da nove sono passati a 25. Grazie anche all’approdo nel progetto di una fila di ben 17 aziende del territorio. Tra questi, 10 tirocini si sono svolti in realtà protetta. E i restanti 15 hanno varcato la soglia delle aziende che hanno aperto la porta ai giovani. Tirate le somme sono state 15.209 le ore svolte con tirocini della durata media di cinque mesi. Messe a disposizione anche 1.930 ore di tutoraggio. Al termine del percorso lavorativo sono state due le assunzioni dirette all’interno di un’azienda con ben 5 prosecuzioni di stage oltre la scadenza del progetto. A tirare le somme il presidente del Centro servizi per il volontariato di Treviso, Adriano Bordignon: "Questa esperienza di rete ha accolto decine di associazioni, enti pubblici e il mondo dell’impresa", ha spiegato. "Il progetto è stato voluto per dare dignità lavorativa ad una categoria speciale come quella del mondo della reclusione e della post reclusione, per aiutarli ad uscire dalla logica dello scarto e dare dignità attraverso il lavoro". Como: nuova "battitura" dei detenuti al Bassone, venerdì l’incontro con il provveditore Corriere di Como, 30 novembre 2014 Non si placa la protesta all’interno della struttura detentiva di Albate. Non sembra voler rientrare alla normalità la situazione all’interno del carcere del Bassone. Non passa giorno senza qualche segnalazione di animosità o di problemi collegati alla struttura penitenziaria di Albate. Dopo le drammatiche giornate dei suicidi (tre in un solo mese), la protesta dei detenuti con la battitura delle sbarre e l’incendio di una cella da parte di uno straniero (evento quest’ultimo potenzialmente devastante, ma che il pronto intervento di un agente della penitenziaria ha scongiurato limitando i danni), ieri la popolazione del Bassone è tornata a protestare. L’ha fatto ieri mattina, ancora con una imponente battitura (pratica che consiste nel percuotere le sbarre delle celle con ogni tipo di strumento proprio per manifestare dissenso) una volta venuti a conoscenza della presenza al Bassone del provveditore delle carceri lombarde salito appositamente da Milano per una visita alla struttura ormai da tempo al centro delle polemiche. La battitura sarebbe dunque stata organizzata proprio per chiedere un incontro con una delegazione di reclusi. Pare che l’incontro alla fine ci sia effettivamente stato nel pomeriggio di ieri, e che la protesta sia poi rientrata. Non si conosce invece il tema delle lamentele, anche se presumibilmente dovrebbe essere lo stesso delle precedenti proteste. Al centro dell’attenzione dovrebbero essere stati posti i rapporti tra i detenuti e la direzione della struttura. La popolazione del Bassone, infatti, lamentava nelle scorse settimane due problemi sopra a tutti, ovvero la difficoltà a poter telefonare e parlare con i propri familiari all’esterno della struttura, oltre che con i propri legali. I tre suicidi in serie, avvenuti a pochi giorni l’uno dall’altro, aveva poi dato fuoco alle polveri del malcontento, rendendo visibile una animosità che covava da tempo sotto la cenere. Una situazione al limite che era stata stigmatizzata anche dalle sigle sindacali della polizia penitenziaria che opera con dedizione all’interno del carcere di Albate. Busto Arsizio: sapori e storie in 50 metri… i detenuti si raccontano www.varesenews.it, 30 novembre 2014 Una bella iniziativa del carcere di Busto Arsizio: un concorso letterario interno per narrare cibi e tradizioni lontane. A sostenere economicamente il concorso la senatrice Bignami. "A tavula steva già apparicchiata ‘ppe ‘a festa e già stevano ‘e compagni miej, muglierema cu ‘e cinque figli miej, ‘neputelli miej. Solo nu posto era libbero... era ‘o posto mio". (Pasquale). C’è tanto delle vita di una persona detenuta in queste poche righe che raccontano un’atmosfera natalizia solo sognata. La lontananza, l’assenza che pesa non solo per chi è lontano ma anche per la famiglia, l’attesa di tornare. Questa è solo una frase di uno dei tanti racconti scritti dai detenuti del carcere di Busto Arsizio che hanno deciso di partecipare al concorso letterario interno "Un sapore, una storia". Un’iniziativa che si è realizzata grazie alla volontà i tanti mondi diversi: le persone detenute che lo hanno proposto, l’istituzione con il direttore e l’area educativa, il comandante e gli agenti di polizia penitenziaria, gli operatori, i volontari e le associazioni che garantiscono un ponte fra dentro e fuori, gli insegnanti, il mondo religioso con il cappellano e la suora. Tutto con il supporto fondamentale della senatrice bustocca Laura Bignami che ha sostenuto anche economicamente il progetto. In circa cinquanta hanno scritto un racconto ispirato al tema "Un sapore, una storia". Nella due pagine che ognuno aveva a disposizione sono riemersi i ricordi di un tempo: dei cannoli preparati con la mamma, della pasta con le fave così poco amata da bambino e diventata ora un dolce ricordo, dei sapori di paesi lontani così diversi dai nostri, del Natale napoletano con la famiglia numerosa. Bellissimo anche il racconto su tutti i sapori, le culture, i ricordi che affollano all’ora di pranzo e cena i cinquanta metri del corridoio del carcere: "Nessun posto in cinquanta metri racchiude tutti questi sapori e stimola così tanti ricordi come questo corridoio" scrive Elia. Una giuria composta dal comandante, dall’area educativa e da tre volontari ha scelto tra tutti i racconti arrivati quattro vincitori: primo classificato con un racconto scritto in napoletano Pasquale Buccolo, secondo Elia Scognamiglio, terzo Albert Lake e quarto Sebastiano Patti. Premio speciale a Pierino Cavicchioli. Dai racconti e dai ricordi è nato anche un calendario per il 2015: foto e testi legati al tema "Un sapore, una storia: i sapori sono le nostre radici e racchiudono storie fatte di tradizioni, sentimenti ed emozioni che ci accompagnano ovunque siamo". Padova: la dolce vita del boss Strisciuglio nel carcere a cinque stelle di Giuliano Foschini La Repubblica, 30 novembre 2014 L’ex capo è indagato. Strisciuglio godeva di numerose agevolazioni grazie alle mazzette pagate. Una pennetta usb da usare nei computer del carcere. Un telefono, con sim card sempre nuove. Sigismondo Strisciuglio, il fratello di Mimmo La Luna, ha vissuto gli ultimi anni nel carcere di Padova come fosse una delle sue case di Carbonara, il quartier generale dove ha vissuto da re indiscusso prima di essere arrestato. La vita di Strisciuglio e quella di altri carcerati del Due Palazzi, il carcere di massima sicurezza di Padova, è ora al centro di una delicatissima inchiesta della procura di Padova che vede Strisciuglio come indagato ma che ha al centro l’ex capo delle guardie penitenziaria di Padova, Pietro Rega, che consentiva al boss barese e a un altro paio di detenuti "di primo livello" - camorristi e ‘ndranghetisti - di essere in carcere ma nonostante questo di riuscire ad avere costanti rapporti con l’esterno. Non solo: nel fascicolo d’inchiesta sono finite anche una serie di richieste di permessi premio a Strisciuglio, accordati in un primo momento dal Tribunale delle Libertà ma poi ritirati dopo la forte contrarietà della procura di Padova, di Bari e poi direttamente del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (il Dap) che riescono a bloccare l’operazione. Strisciuglio è infatti considerato un detenuto ad altissimo rischio, per il suo carisma criminale e per la capacità di gestire i traffici anche lontano da Bari. Sigismondo Strisciuglio, 40anni, ha una pena che dovrebbe concludersi il 30 marzo del 2018 per associazione mafiosa. Dopo l’arresto del fratello è stato considerato dagli investigatori il leader indiscusso del clan, in particolare a Carbonara. Prima dell’arresto del 2008 nell’ambito dell’inchiesta Eclissi. Portato a Padova in carcere, doveva essere sottoposto al 41 bis ma grazie a Rega non è "duro" l’aggettivo giusto per definire la sua vita carceraria. "È vero - ha raccontato ai magistrati Rega in un interrogatorio del sei novembre scorso - ho portato in carcere pacchi con telefonini, dischetti, schede telefoniche, chiavette Usb, eroina, fumo…". In questa maniera i boss riuscivano ad avere un filo diretto con l’esterno. E Rega intascava. "Mi pagavano con vaglia postali o attraverso Western Union o in contanti, delle volte 200 euro, altre 300, 500, non erano delle somme fisse. Oppure i familiari venivano in ufficio da me, dove non c’erano telecamere". Il sistema era collaudato, tanto che Rega si preoccupava quando non riusciva a fare una consegna. Un telefonino non arrivò a un camorrista e si preoccupò molto: "Chiesi a un detenuto: e adesso come fa quello senza telefono? Mi rispose che gli aveva dato il suo: ne aveva uno che aveva nascosto e l’ha venduto al camorrista". Strisciuglio insieme con Gaetano Bocchetti, camorrista di Secondigliano, era considerato il punto di riferimento del commercio carcerario. I due avevano preso in mano la situazione svolgendo attività di intermediazione tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. Il carcere dunque come un suk. Una circostanza che Strisciuglio doveva aver capito bene sin dal principio. Per due volte, il 29 settembre e il 2 novembre del 2011, fu scoperto con la droga in tasca durante un colloquio con i familiari. Tanto dovrebbe bastare per costringerlo a rinunciare a tutti i benefici della vita carceraria. E invece, no. Da Padova gli aprono diversi crediti. Il 24 ottobre del 2011, per dire, Strisciuglio presenta l’istanza per ottenere un permesso premio. La richiesta ha una motivazione precisa: è morta la suocera e il malavitoso barese vuole presenziare al funerale. Non ce la fa. Ma comunque qualche giorno dopo arriva il via libera del tribunale: "Non avendo l’interessato potuto presenziare alle esequie della suocera - si legge nel provvedimento - visto il lontano fine pena e osservato che l’interessato non ha mai fruito di un permesso premio". Per questo "il permesso di recarsi a Ceglie del Campo presso il locale cimitero allo scopo di raccogliersi in preghiera sulla tomba della suocera Annoscia Vincenza ed eventualmente incontrare moglie e figli. Il permesso avrà durata di tre ore". Una decisione che però non va assolutamente alla procura di Padova che appella il provvedimento "rilevata l’assoluta gravità dei reati commessi (associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata alla detenzione e allo spaccio di ingenti quantitativi di stupefacente, omicidio volontario premeditato)". Ma c’è dell’altro: che bisogno c’è di fare il padre di famiglia, come sostiene il difensore nella richiesta di permesso, "se il detenuto è stato condannato alla decadenza della potestà di genitore con sentenza irrevocabile del 16 ottobre 2007"?. E poi, osserva la procura, "il permesso può essere concesso eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità... Il decesso della suocera è del 23 ottobre 2011 e le esequie sono già state celebrate... Il fatto di eccezionale gravità si esaurirebbe nel raccogliersi in preghiera nel cimitero di Ceglie del Campo davanti alla tomba dell’anziana". Nonostante questo però il tribunale di Sorveglianza insiste seppur riducendo l’ora della visita (da sei a tre) e impedendo i contatti con i familiari. Nel frattempo da Bari arriva un’informativa per segnalare il pericolo e lo stesso fa il Dap che impugna il permesso ricordando il precedente con gli stupefacenti ma soprattutto segnala i "gravi rischi per il personale di polizia penitenziaria addetto alla scorta", con pericoli per l’incolumità pubblica "in relazione a un’eventuale evasione". Alla fine il tribunale di Sorveglianza si arrende e revoca il permesso. Arriverà poi Rega ad assicurare a Strisciuglio il carcere a cinque stelle. Ancona: Sappe; detenuto in regime di Alta sicurezza a Montacuto aggredisce un poliziotto www.corriereadriatico.it, 30 novembre 2014 Violenta aggressione, ieri mattina, nel carcere di Montacuto. Protagonista un detenuto italiano, ristretto ad alta sicurezza, e il grave episodio scatena la reazione del primo sindacato della polizia, il Sappe. "Verso le 11, mentre il poliziotto faceva rientrare dal cortile dell’ora d’aria i detenuti, il ristretto ad Alta sicurezza ha improvvisamente dato in escandescenza e ha violentemente colpito l’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio, tanto da dover poi ricorrere alle cure del Pronto Soccorso" dichiara il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Quanto accaduto è il culmine di una situazione che vede il penitenziario di Ancona sommerso da tutte quelle problematiche che il Sappe ha più volte evidenziato alle autorità competenti senza però ottenere risposte e soluzioni. Eventi del genere sono purtroppo sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di polizia penitenziaria. Il Sappe esprime solidarietà al poliziotto ferito e gli augura una veloce ripresa e ritorno in servizio. Queste aggressioni sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come un congruo periodo di rigido isolamento disciplinare e l’allontanamento del detenuto in un altro carcere. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite...". "Sono anni che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a polizia di stato e carabinieri" aggiunge Capece . Mi auguro che il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo il grave episodio di Ancona, valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assuma i provvedimenti conseguenti". Ma il Sappe punta il dito anche contro il sistema della "vigilanza dinamica" e del regime penitenziario ‘aperto’ che è in atto nel carcere di Ancona: "Altro che vigilanza dinamica, autogestione delle carceri o sottoscrizione di ridicoli ‘patti di responsabilità da parte dei detenuti che sembrano essere l’unica risposta sterile dei vertici del Dap all’emergenza penitenziaria e che rispondono alla solita logica "discendente" che "scarica" sui livelli più bassi di governance tutte le responsabilità. Non a caso il Sappe da subito propose che i vari progetti sui circuiti penitenziari venissero ratificati dai vertici del Dap, dal direttore del carcere e dalla competente magistratura di sorveglianza mediante l’apposizione in calce delle rispettive firme, che diano vita, questo sì, a un "patto di responsabilità", o meglio di corresponsabilità davanti a ogni autorità giudiziaria, tra il livello di amministrazione centrale, regionale e periferico". Pistoia: Sappe; agenti della polizia penitenziaria ancora aggrediti da detenuti Lucca In Diretta, 30 novembre 2014 Il detenuto che ha aggredito gli agenti era lo stesso che a Lucca aveva scagliato un tombino contro la polizia penitenziaria. "Tutto è avvenuto nel primo pomeriggio, quando due detenuti si sono picchiati nel cortile dell’ora d’aria - spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. Gli agenti sono immediatamente intervenuti per separare i due, uno dei quali noto per avere pochi mesi fa scagliato un tombino contro i poliziotti penitenziari in un analogo episodio tra le sbarre di cui si era reso responsabile in un altro carcere toscano, a Lucca. Separato dall’altro ristretti, il detenuto straniero si è scagliato con forza e violenza contro i nostri agenti, ferendoli. Il Sappe esprime solidarietà ai poliziotti feriti e augura loro una veloce ripresa e ritorno in servizio. Ma queste aggressioni, tanto più se vedono protagonisti delinquenti recidivi, sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come un congruo periodo di rigido isolamento disciplinare e l’allontanamento del detenuto in un altro carcere d’Italia. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". "Sono anni che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri" aggiunge Capece. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo il grave episodio di Pistoia, valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assuma i provvedimenti conseguenti". Il Sappe torna a sollecitare il Governo per le espulsioni dei detenuti stranieri presenti in Italia: "E’ sintomatico che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni ‘90 sono passati oggi ad essere quasi 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". "Il dato oggettivo è però un altro - conclude il leader del Sappe: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute: 896 nel 2011, 920 nel 2012 e 955 nel 2013, soprattutto in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria. Si deve però superare il paradosso ipergarantista che oggi prevede il consenso dell’interessato a scontare la pena nelle carceri del Paese di provenienza. Oggi abbiamo in Italia 54.207 detenuti: ben 17.578 (il 33 per cento del totale) sono stranieri, con una palese accentuazione delle criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Si pensi, ad esempio, agli atti di autolesionismo in carcere, che hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita". Napoli: per ex detenuto abbraccio di tre figli, dichiarati adottabili dopo abbandono madre Ansa, 30 novembre 2014 Ha rischiato di perdere i suoi tre figli piccoli, dichiarati adottabili dal giudice dopo essere stati abbandonati dalla madre romena mentre lui era in carcere, ma grazie al supporto gratuito di due avvocati, a Natale riabbraccerà i suoi bambini. E’ una storia a lieto fine quella di Gaetano Palladino, napoletano di 33 anni, residente a San Marco Evangelista, in provincia di Caserta, che quest’anno trascorrerà festività natalizie non ricche di doni ma di sentimenti veri. Dopo essere stati abbandonati dalla madre, i suoi bambini di 6, 5 e 4 anni sono stati affidati ai servizi sociali. All’udienza sull’adottabilità non si è presentato nessun congiunto (la madre non ne voleva più sapere dei propri figli mentre Gaetano era recluso) e al giudice non è restato altro che decidere in favore della loro adozione. Appena fuori dal carcere, dopo avere scontato un anno e quattro mesi per ricettazione e vendita di cd contraffatti, Gaetano si è immediatamente adoperato per cercare lavoro, arredare casa e, soprattutto, per cercare un legale disposto a dargli una mano gratis per risolvere la questione che più aveva a cuore: i suoi figli. Fino alla sera precedente al giorno di scadenza per impugnare il decreto di adottabilità ha trovato solo porte chiuse. All’indomani il provvedimento sarebbe diventato definitivo. Alla fine, però, la buona sorte lo ha aiutato: "Si è presentato nel mio studio a sera inoltrata - dice l’avvocato Carmen Posillipo, dell’associazione Sos Diritti, che con il collega Vincenzo Della Morte si è occupato del caso di Gaetano - era tardi e sono andata via. La vicina mi ha poi chiamato, poco dopo, dicendomi che Gaetano era rimasto seduto sulla soglia del mio studio, in lacrime, disperato perché non riusciva a trovare un avvocato disposto ad aiutarlo. A questo punto ho creduto nella sua buona fede e non ho potuto fare altro che accettare". La sera stessa, i due avvocati sono tornati al lavoro. Hanno trascorso l’intera nottata a predisporre un ricorso che, in extremis, consentisse a Gaetano di riottenere l’affidamento dei propri figli. Alla fine, dopo tre lunghe camere di consiglio, la sezione Minorenni della Corte d’Appello di Napoli ha deciso di restituire i tre ragazzini (due maschi e una femmina) al papà. Gaetano, al momento, fa il dog-sitter. Spera di poter trovare presto un’occupazione più redditizia ma ora la sua priorità è quella di poter finalmente riabbracciare i propri figli. Un sogno che diventerà realtà qualche giorno prima di Natale. Prato: i detenuti-attori recitano nell’Otello di Shaspeare … col teatro ritroviamo la libertà di Alessandra Agrati Il Tirreno, 30 novembre 2014 Il collettivo Metateatro ha messo in scena nel carcere della Dogaia di Prato un’originale versione dell’Otello di Shaspeare. La regista Livia Gionfrida: "Speriamo di poter portare questo spettacolo anche fuori da questo spazio". Il campo di basket della casa circondariale di Prato come palcoscenico, un gruppo di detenuti come attori e soprattutto l’acqua, tanta, sono i protagonisti di H2 Otello, la performance teatrale realizzata dal Collettivo Metateatro. Un Otello rivisto nei contenuti e nei dialoghi, dove l’acqua è un’ ossessione, un punto di riferimento. "L’acqua - spiega la regista Livia Gionfrida - è il simbolo del femminile, ma è anche impossibile da contenere, è senza forma, come la libertà e l’amore. Del resto è un elemento che attraversa tutto il dramma: Venezia, Cipro, l’annegamento di Desdemona. Noi abbiamo dato la nostra interpretazione, ora ci piacerebbe poter portare questo spettacolo fuori dalle mura della Dogaia. "Parlare di violenza, in modo particolare sulle donne, all’ interno di un carcere è un tema forte. "Per noi che scontiamo pene pesanti - spiega l’attore che ha interpretato Brabanzio - è un momento particolare. Io sono il padre di Desdemona che viene uccisa, ho una figlia e spesso penso a lei quando recito. A quello che proverei se qualcuno le facesse male". Ma il teatro per chi non esce mai dalla casa circondariale è un modo per assaporare anche la libertà. "Fisicamente siamo in questo spazio - racconta Otello - ma con lo spettacolo possiamo uscire con la mente e sentirci un po’ liberi". C’è tempo fino al 21 novembre per prenotare un posto. Lo spettacolo è frutto di un progetto nato dall’impegno del collettivo Teatro Metropolare che da anni lavora all’interno del carcere maschile di Prato Ma la realtà è diversa, per raggiungere il palcoscenico bisogna attraversare porte, controlli, lasciare negli armadietti telefoni e tablet: 90 minuti in cui pubblico, e detenuti hanno condiviso spazio ed emozioni. Due attrici professioniste Alessia Brodo e Ilaria Cristini, e dieci ospiti del carcere che hanno interpretato un Otello in chiave moderna dove il testo si alterna con musiche contemporanee, dove per sottolineare sentimenti forti, come la rabbia, gli attori parlano nella loro lingua d’origine (cinese e rumeno), dove la donna è la vittima della violenza maschile e nello stesso tempo ne è parte fondamentale: gli attori immergeranno il viso nei contenitori pieni di acqua, prima che Desdemona muoia, per impregnarsi del femminile. "Questo spettacolo - ha sottolineato Vincenzo Tedeschi direttore della casa circondariale - è un modo tangibile per dimostrare che il carcere non è solo un luogo di detenzione e sofferenza, ma anche un’ opportunità per avvicinare la società civile al carcere, per far conoscere cosa avviene all’interno". Egitto: l’ex presidente Mubarak prosciolto dall’accusa di omicidio di 239 manifestanti La Stampa, 30 novembre 2014 L’attesa sentenza per le rivolte della primavera del 2011. Assolto l’ex ministro degli Interni. L’ex rais resta comunque in carcere per sottrazione di fondi pubblici. "Hosni Mubarak non doveva essere processato". Il verdetto del giudice Mahmud Kamel al Rashid cade come una pietra tombale sulla primavera egiziana del 2011, scatenando la protesta di alcune centinaia di persone che in serata hanno tentato di raggiungere il luogo simbolo di piazza Tahrir. L’ex rais, condannato all’ergastolo in primo grado nel 2012, è stato prosciolto oggi dalle accuse per la morte dei manifestanti nei giorni della rivolta. Assolti il suo ministro dell’Interno, Habib el Adly, e altri sei responsabili della sicurezza dell’epoca. Assoluzione per Mubarak e i figli Alaa e Gamal dalle accuse di corruzione, tra cui la vendita di gas a Israele in cui è coinvolto anche l’uomo d’affari Hussein Salem rifugiato in Spagna. La sentenza favorevole al "faraone" era nell’aria da giorni, ed è stata accolta in aula dagli applausi e dagli abbracci degli avvocati e dei fedelissimi. Mubarak ha assistito sereno, seduto nella gabbia degli imputati - occhiali scuri e capelli tinti di fresco, in apparenti buone condizioni di salute - alla lunga premessa del giudice che in aula ha mostrato il faldone di 1430 pagine, una mole di documenti che il 27 settembre aveva costretto la corte a rinviare ad oggi la sentenza. "Sono 239 i manifestanti uccisi in diversi governatorati e 1.588 i feriti", ha spiegato il magistrato, anche se le cronache di quei giorni parlano di oltre 800 dimostranti uccisi. "Accetterò qualunque sentenza", aveva detto l’ex rais entrando nell’accademia di polizia che ospitava il processo. "Me l’aspettavo, non ho mai ordinato di sparare. Finalmente il verdetto ha provato che non ho commesso reati", ha commentato una volta prosciolto al telefono con una tv semigovernativa, dalla stanza d’ospedale dove deve comunque finire di scontare una condanna di tre anni per la distrazione di fondi pubblici destinati ai restauri del palazzo presidenziale. La procura generale sta comunque valutando il ricorso in Cassazione. Partite in sordina le proteste degli anti-Mubarak sono cresciute in serata con circa 700 manifestanti che hanno tentato di arrivare a Tahrir, chiusa dalle forze dell’ordine, con slogan come "morte a Mubarak" e "abbasso i militari", respinti dai gas lacrimogeni. La polizia ha fermato 35 dimostranti. È stata la coalizione "anti-golpe" con i giovani dei Fratelli musulmani a lanciare un appello a raggiungere in strada "i rivoluzionari e le famiglie dei martiri" della rivolta del 2011. I pro-Morsi - ormai decimati dagli arresti - avevano indetto per ieri manifestazioni di massa contro l’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi e per "l’identità islamica", ma senza riuscire a mobilitare le masse, ormai stanche - osservano gli analisti - di scontri di piazza e concentrate sui problemi economici dell’Egitto. Egitto: l’ex presidente Mubarak dopo l’assoluzione "io non ho fatto proprio niente" Ansa, 30 novembre 2014 "Non ho fatto proprio niente". Così l’ex presidente egiziano, Hosni Mubarak, ha risposto a un intervistatore televisivo che lo ha raggiunto telefonicamente e gli ha chiesto se lui avesse ordinato le uccisioni dei manifestanti. La dichiarazione giunge dopo che oggi una Corte egiziana ha assolto Mubarak dalle accuse per l’uccisione di 239 dimostranti nella rivolta del 2011 citando come motivazione "l’inammissibilità" del caso a causa di un tecnicismo. Mubarak, 86 anni, è giunto in aula con occhiali scuri e un cardigan e una cravatta blu. È stato portato nella gabbia degli imputati a bordo di una barella e al termine dell’udienza è stato riportato in elicottero nell’ospedale militare in cui è detenuto. Oggi con lui sono stati assolti anche l’ex ministro dell’Interno Habib El-Adly, sei suoi collaboratori, e l’uomo d’affari Hussein Salem, amico di lunga data di Mubarak che è stato processato in contumacia. Inoltre l’ex raìs è stato assolto anche dalle accuse di corruzione che affrontava insieme ai figli Alaa e Gamal in relazione al caso dell’acquisto di alcune ville di lusso sul Mar Rosso da parte dello stesso Salem a un prezzo molto basso. Contro tutte le sentenze si può presentare ricorso in appello. I due figli di Mubarak affrontano ancora un processo separato per accuse di insider trading. Non è chiaro se Mubarak adesso sarà liberato. Quella che sta scontando al momento è una condanna a tre ani di carcere per accuse di corruzione in base a una sentenza di maggio, tuttavia l’ex raìs è in detenzione da aprile 2011 e non è da escludere che gli ultimi tre anni e mezzo possano essere considerati come periodo di pena già scontata. Da quando è agli arresti, Mubarak ha impiegato la maggior parte del tempo in ospedale a causa delle cattive condizioni di salute. Si tratta di un duro colpo per i giovani attivisti che hanno capeggiato la rivolta ispirata alla Primavera araba quattro anni fa, la maggior parte dei quali sono ora in prigione o si sono ritirati dalla politica. Probabilmente queste assoluzioni rafforzeranno la percezione che lo Stato autocratico di Mubarak sia ancora in piedi, nonostante l’Egitto sia guidato da un nuovo presidente, il golpista ex capo dell’esercito Abdel-Fattah el-Sissi che ha guidato il colpo di Stato del 3 luglio 2013 contro l’allora presidente Mohammed Morsi. "Non c’è giustizia per i poveri", ha commentato Ramadan Ahmed, il cui figlio fu ucciso a colpi d’arma da fuoco ad Alessandria durante la rivolta. "Questa è la legge di Mubarak", ha aggiunto.