Giustizia: la caccia agli "ultimi", il contagio peggiore di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 È una situazione da fiaba malefica, quella che ti trovi di fronte con il caso Cucchi. E non ha niente a che fare con il diritto e la procedura penale. Dunque: c’è un corpo martoriato di botte, lesioni, denutrizione, abbandono, complicazioni curabili ma non curate, e questo Cucchi muore per tutte queste ragioni, da solo. Ma non nel senso della solitudine, che è sempre una brutta cosa. E noi sappiamo che non può essere morto di sua iniziativa perché uno non può picchiarsi da solo, non può essere morto per denutrizione (e relative conseguenze fisiche) perché è sempre stato ospite di istituzioni (polizia di Stato, polizia carceraria, ospedale) e non può essere morto per mancanza di cure perché intorno al suo caso si alternavano ben sette medici in una rispettabile Azienda ospedaliera italiana. Adesso una sentenza d’appello, che segue una sentenza di parziale condanna, decide le seguenti tre cose: primo: Cucchi è certamente morto nelle tragiche circostanze descritte. Secondo, Cucchi è stato certamente ospite detenuto di diverse strutture pubbliche. Terzo, Cucchi è morto nelle condizioni fisiche descritte (dunque non suicida ma per grave e indotto deterioramento fisico) mentre era scortato e "assistito". Però non ci sono colpevoli. Per esempio, non uno dei medici, che erano tutti sul luogo della sua morte e responsabili del suo corpo da vivo, lo hanno visto passare da vivo a morto senza avere la minima nozione dell’evento e del che fare. Il vento gelido della morgue per pestaggio, poi per abbandono, poi per celebrazione, ultimo scandalo (sentiamo dire: "vedete? Accuse ingiuste! Siamo tutti innocenti!" frase che implica: "Adesso chiedeteci scusa") si sente in queste ore in Italia. Una cosa capisci, o almeno intravedi: l’abbandono crudele e totale che ha provato, morendo, Cucchi. E ti rendi conto che non una sola voce politica (ovvero a nome e in rappresentanza dei cittadini) si sente in giro, né dal "partido blanco" né dal "partido colorado" (federati insieme, dicono, causa "riforme") per dire che l’indignazione, ma anche lo stupore, non è sul diritto della sentenza, ma sul fatto, che si spiega solo con un rito voodoo contro il povero Cucchi. Qui mi tocca ricordare, come spesso in questi casi, che i diritti umani e civili non sono apprezzati dagli apparati politici italiani di tutti i tipi, tranne quegli strani personaggi del partito Radicale e delle sue associazioni, che in questi giorni sono riuniti a congresso e di Cucchi parlano. Come parlano, da soli, dei campi di prigionia e di abbandono degli immigrati o delle carceri. Ma del loro congresso, opportunamente, per non scomporre la grande armonia, non parla nessuno. È giusto ricordare gli immigrati accanto a Cucchi. Restiamo nella categoria dei deboli, che sta diventando gran moda mettere subito e disinvoltamente sotto i piedi. Gli immigrati, infatti, se li soccorrete costano troppo (e nessuno nelle istituzioni ha speso una parola per il lavoro solitario della Marina italiana, che ne ha salvati a decine di migliaia in pochi mesi), se arrivano vivi portano tubercolosi, nella mite visione della Lega Nord. E possono essere infetti da Ebola, nella più vigorosa descrizione di Grillo, che moralmente si è messo sul piano di Salvini, ma scientificamente è più informato. Ricordiamoci però che, proprio mentre stavo scrivendo e mentre voi state leggendo, è stato posto fine all’unico impegno internazionale davvero di pace che ha onorato l’Italia in molti anni: l’operazione "Mare Nostrum". Non ho visto invadere l’emiciclo di almeno una delle Camere da deputati o senatori decisi a denunciare che si è trattato di un delitto. All’operazione italiana di vasto soccorso a persone morenti, tra cui molti bambini e molte mamme, è infatti subentrata una molto più economica operazione di sorveglianza delle coste con bandiera europea, con un modesto finanziamento che consente di fare la guardia alle coste ma non di salvare. C’è un documento rigorosamente narrato e scrupolosamente provato su come l’Italia tratta chi sopravvive al deserto e al mare credendo di trovare rifugio nel nostro Paese. È un libretto di Donatella Di Cesare, Crimini contro l’ospitalità, (Il Melangolo). L’autrice è docente di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. Ma in questo testo esemplare è implacabile investigatrice e cronista di uno dei più malfamati "centri di identificazione e di espulsione" che il crollo della nostra cultura ha costruito come un bunker di massima sicurezza guardato da mezzi militari blindati, in località Ponte Galeria, periferia di Roma. È importante leggerlo per capire come è stata devastata la cultura italiana in alcuni suoi aspetti che il mondo riteneva tipici, e che persino l’ultimo conflitto aveva confermato: accoglienza, tolleranza e un aiuto, almeno un aiuto, ai più deboli. Ecco spiegate le botte violente, ingiuste, inspiegabili con cui sono stati accolti a un ministero di Roma gli operai di Terni in cerca di solidarietà e di salvezza per il loro lavoro. Tutti sappiamo che i poliziotti non picchiano per gusto. Ma nessuno (certo non Alfano) ha confessato da dove è venuto un ordine così incivile. E come non provare disorientamento di fronte a sindacati di polizia che, invece di difendere (come merita) l’onore della divisa, si schierano con chi picchia, come se fosse un gesto volontario dei poliziotti, e non una strategia imposta dall’alto e da altri, per ragioni che noi (e gli agenti di polizia) non sappiamo. È una brutta epidemia dei periodi peggiori, la caccia ai deboli. Come dimostrano gli eventi, questo è il contagio che dobbiamo temere di più. Giustizia: ergastolo e Opg... il silenzio degli indecenti di Francesco Lai (Componente della Giunta dell’Unione Camere penali) Il Garantista, 2 novembre 2014 Alcuni giorni fa, dalle colonne de "La Stampa", Massimo Gramellini segnalava l’assoluto disinteresse, metaforicamente descritto come il "buco nero dell’indifferenza", nel quale era caduto l’alto monito di Papa Francesco che, nel corso di un incontro con i rappresentanti dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, aveva assimilato l’ergastolo ad una "pena di morte nascosta", antitetica al rispetto della dignità umana che deve essere riconosciuto ed assicurato ad ogni essere umano, anche a colui che, avendo errato, sia stato privato di uno dei suoi beni fondamentali, la libertà. A mio parere, più che di indifferenza rispetto al richiamo rivolto dalla massima guida spirituale, potrebbe più propriamente parlarsi di "consapevole silenzio" da parte delle forze politiche titolari del potere legislativo ed esecutivo le quali, affannate nella quotidiana ricerca del consenso elettorale rimangono volutamente inerti e silenti perché, se da un lato sarebbe per loro controproducente criticare l’intervento del Pontefice, così pure lo sarebbe accoglierlo con favore, considerato che la grande maggioranza della pubblica opinione vede ancora la pena perpetua come una delle maggiori forme di sicura tutela per la propria incolumità e sicurezza E questo accade perché nella percezione comune prevale ancora forte l’idea della pena come strumento di repressione e retribuzione, di esclusione del reo dal tessuto sociale e non, come dovrebbe, di un suo graduale e meditato reinserimento. Una sorta di vendetta mascherata. La politica è ben consapevole di questo ed è molto più incline a rivolgere un corale (e strumentale) plauso al Pontefice su temi come quelli della comunione ai divorziati ed agli omosessuali o della tutela di chi è senza lavoro, certamente molto più idonei a catturare il nonsenso di una buona parte del corpo elettorale perché ritenuti l’icona di uno Stato moderno e civile, che pone al centro l’individuo e ne tutela la dignità. Se tutto questo è assolutamente vero e condivisibile mi chiedo, però, se possa dirsi davvero democratico e libero uno Stato in cui la politica agisce più sull’onda emotiva determinata da chi urla "buttate via la chiave" piuttosto che coltivare una vera e propria opera di recupero dei propri consociati che, in una parte del loro vissuto, hanno sbagliato, perché non guardare al modello norvegese, dove non esiste la pena di morte come negli Stati Uniti e dove non esiste l’ergastolo, la morte civile, come in Italia? perché non dire, dati alla mano, che in Italia i reati puniti con la pena dell’ergastolo non sono diminuiti nel corso degli anni? Immagino che di questo ne sia consapevole anche il Procuratore Nazionale Antimafia quando, a commento dell’appello del Santo Padre, auspicava che il "fine pena mai" non venisse cancellato dal nostro ordinamento. E questo, purtroppo, non è tutto. Il consapevole silenzio della politica non avvolge, difatti, solo la questione dell’ergastolo e della sua abolizione. Esso si ripercuote, con conseguenze ancor più tristi, anche sul tema degli ospedali psichiatrici giudiziari e della loro chiusura, che viene rimandata di anno in anno. È di appena tre giorni fa la notizia della relazione sul programma di superamento degli Opg trasmessa dai Ministri della Salute Beatrice Lorenzin e dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando dalla quale si apprende che, allo stato, "appare irrealistica" che possa addivenirsi alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro la data del 31 marzo 2015. Anche in questo caso, sono rimasti tristemente inascoltati gli alti richiami rivolti sia dal Santo Padre che dal Presidente della Re- pubblica i quali auspicavano che si procedesse nel più breve tempo possibile alla chiusura degli OPG, luoghi in cui la reclusione è una forma di tortura e dove gli internati si trovano a scontare veri e propri "ergastoli bianchi", Di fatto, il Governo ha ammesso che poco o nulla in questi mesi è stato fatto dallo Regioni per realizzare le nuove strutture (Rems) che garantissero ai malati psichiatrici una degenza nel pieno rispetto della loro dignità, secondo quanto stabilito sia dal decreto legge di proroga che dalla risoluzione approvata dalla Commissione Igiene e Sanità. Di fatto, aggiungo, la tutela della salute e della dignità umana rimangono vittime degli inaccettabili ed inammissibili ritardi della politica. E del suo consapevole silenzio. La chiusura di queste strutture che fanno scivolare nell’oblio chi ne viene recluso non può essere ulteriormente differita. "Si va in manicomio per imparare a morire". Così scriveva la grande Alda Merini. Una frase che i nostri politici, tutti, dovrebbero imprimere nella loro mente. Anche se, a quanto è dato vedere, preferiscono rifugiarsi nel più comodo e consapevole silenzio. Il silenzio degli indecenti. Giustizia: indagine della Commissione Ue "Italia scettica sull’imparzialità dei magistrati" di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2014 Un’indagine della Commissione Ue misura la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario. Eurobarometer Justice in the Eu, rapporto della Commissione europea del novembre 2013, si fonda su un numero limitato di interviste telefoniche nei Paesi membri e monitora il gradimento del sistema giudiziario, confrontando l’esito dei sondaggi. Il quadro emergente è sconsolante. In generale, la fiducia degli italiani nello Stato come garante della legalità, nell’affidabilità del ricorso alla giustizia, nella comprensione delle decisioni è nettamente inferiore alla media europea. Illuminanti alcune risposte: il 79% pensa che lo Stato non adotti un’efficace politica anticorruzione (rispetto al 62% europeo), il 52% è convinto che il giudice non sia imparziale (a fronte del 32%), il 53% non trova giusta la sentenza (contro il 37%). Quanto alla cronica lunghezza del processo penale, la durata media è di 8 anni e 3 mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi (fonte: IV Rapporto PIT Giustizia 2012). Anche la percezione del rischio criminalità da parte dei cittadini si aggrava, aumentando di 5 punti rispetto all’anno precedente; nel 2014, il 31% delle famiglie risponde positivamente. I picchi nel Lazio (40,8%) e in Lombardia (36,9%); il pericolo viene avvertito più nel Nord-Ovest (33,4%) che nel Meridione (28,1%). Eppure il trend dei reati è in diminuzione: gli omicidi fanno registrare nel 2013 il tasso più basso dall’Unità d’Italia. I numeri, si sa, vanno presi con le pinze. Le cifre sono certe e non manipolabili, la loro lettura non univoca. Se il consumo di carne in una determinata area decresce, la spiegazione immediata è la crisi economica che drena risorse per la domanda. Ma non è detto che sia esatta, potendo rinvenirsi la causa in un contingentamento dell’offerta, o in psicosi collettive di infezioni alimentari. Analogamente, il sentirsi meno sicuri non è sinonimo di incremento della criminalità. E tuttavia emblematico del clima di paura in cui si vive. Difficile scoprirne l’origine, che condiziona (ormai in modo automatico e inconsapevole) la ritualità quotidiana. Sul banco degli imputati è il degrado diffuso, il quale genererebbe nel cittadino la convinzione dell’assenza di regole, e dunque del rischio criminalità. In altri termini, il disordine urbano, l’illegalità rappresentano nell’immaginario collettivo fattori criminogeni. Questa interessante spiegazione, nota come Windows Broken Theory (per l’appunto, le finestre rotte del quartiere metaforicamente scelte come simbolo negativo), ha origine in un esperimento risalente ma attuale, condotto dall’Università di Stanford. Consistito nel lasciare due auto identiche incustodite in zone rispettivamente malfamate e signorili. L’aspetto sbalorditivo non è tanto nell’intuitivo esito: la prima, smontata pezzo per pezzo, a differenza della seconda, neppure toccata, ma nella variante introdotta; rotto il vetro dell’auto nel quartiere di lusso, subì lo stesso trattamento di furti e vandalismi. Statistiche da non sottovalutare, specie se le riforme del governo Renzi sono annunciate numerose e dagli effetti dirompenti. Accanto al legislatore, che dovrà tradurle in norme chiare e affidabili, non vanno prese sotto gamba dalla magistratura, che - indipendentemente dalla verità oggettiva - deve fare i conti con un crescente senso di sfiducia dell’opinione pubblica. Trasversale, anzi ancora più negativo tra gli addetti ai lavori. Una ricerca condotta nel 2013 dall’Università di Bologna e dalle Camere Penali, intervistando un campione di avvocati penalisti, consegna risultati disarmanti. In maggioranza schiacciante sono convinti della discrezionalità dell’azione penale, dell’uso distorto della custodia cautelare, della pressione del Pm durante gli interrogatori. E invocano la separazione delle carriere Pm - giudice (97,1%), dichiarando di perdere buona parte del tempo in attesa di colloqui o di udienze. E sottolineando la necessità di un’effettiva terzietà del giudice, per evitare procedure di riparazione degli errori giudiziari costati allo Stato 600 milioni di euro in venti anni. Giustizia: caso Cucchi, tutti gli incredibili errori che l’hanno portato alla morte di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 novembre 2014 Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. I militari dell’Arma scrissero che era nato in Albania ed era senza fissa dimora. La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato. Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era "nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora"; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la "mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti". Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che "il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari"; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però - che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente - non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico. Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice - e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte -, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento - con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto - Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi "ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante", come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo - o non solo - l’ultima sentenza. Giustizia: "Stefano Cucchi non si è suicidato" di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 novembre 2014 La sentenza. Il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, scrive al quotidiano La Stampa. "Insufficienti le prove di responsabilità individuali". Ma il Dap è "soddisfatto". La sorella di Stefano: "Per fermarmi devono uccidermi". "Il giudice penale, ed è esattamente quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta, deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali ed in caso contrario, quando la responsabilità non è provata "oltre ogni ragionevole dubbio", deve assolvere. Questo è il suo compito, per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità". Il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, interviene direttamente contro la "gogna mediatica" a cui sarebbero stati sottoposti i suoi colleghi e difende così - in una lettera inviata a La Stampa, in risposta alla rubrica di Massimo Gramellini - la sentenza d’Appello di venerdì scorso che ha assolto per insufficienza di prove tutti gli imputati nel processo per la morte, da detenuto, di Stefano Cucchi. "Dall’assoluzione non consegue che "Cucchi si sarebbe ucciso da solo", scrive il magistrato correggendo il giornalista. Una tesi che però rischia di farsi largo in alcuni sindacati di polizia - penitenziaria e non - che da due giorni si sfidano e si rincorrono sul terreno del corporativismo, con esternazioni a difesa dei colleghi dai toni marcatamente vendicativi. Ma la sentenza che assolve i tre agenti (come i sei medici e i tre infermieri) perché, come dice lo stesso Panzani, "non si ritiene provata la responsabilità" individuale degli imputati, fa tirare un sospiro di sollievo anche al reggente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano. Pur comprendendo "il dramma dei familiari" e "l’amarezza per la sentenza", Pagano esprime "soddisfazione per l’assoluzione del nostro personale, pensando all’angoscia vissuta da loro, e dai loro congiunti, per un’accusa così grave e così infamante". Una sentenza che "scioglie un peso assai gravoso da sopportare per un Corpo di Polizia che opera quotidianamente per affermare i principi di legalità in una realtà difficile e pericolosa quale è quella del carcere". Eppure il problema resta. "Stefano Cucchi era un ragazzo sano, nel giro di sette giorni, dopo essere stato arrestato per le leggi proibizioniste sulle sostanze stupefacenti, lo Stato italiano lo ha restituito morto. Da ragazzo sano a un morto", riassume efficacemente la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, pasionaria del garantismo e grande sostenitrice delle lotte della polizia penitenziaria. "Perché è morto Stefano Cucchi? Se lo chieda lo Stato italiano. È una vergogna che non ci sia ancora il reato di tortura", conclude Bernardini intercettata a Chianciano dove si svolge il XIII congresso del suo partito. Sull’introduzione del reato di tortura e del codice identificativo per gli agenti, insiste anche il Movimento 5 Stelle. "È sulla legge che bisogna intervenire - scrive il senatore Vito Crimi, a proposito della sentenza Cucchi - Alle forze dell’ordine non abbiamo mai fatto mancare il nostro sostegno, e certo non verrà meno oggi, né domani". Ma, aggiunge Crimi, il Parlamento "può e deve fare". Per esempio anche "aumentando la formazione degli agenti per la gestione delle emergenze, e delle situazioni critiche", o introducendo "protocolli di gestione dei fermati che non consentano a mele marce isolate di rovinare vite umane". Di Stefano Cucchi però - del simbolo che può diventare nell’ambito di una lotta per la democratizzazione delle forze dell’ordine e dello Stato - non a caso hanno paura alcuni sindacati di polizia. "Mi devono uccidere per fermarmi", promette Ilaria Cucchi. Ieri, il giorno dopo della sentenza tanto inaspettata, "mi sono svegliata - dice - con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma. Non ce l’ho con i giudici di appello ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini, cosa che chiederò al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone per assicurare alla giustizia i colpevoli della morte di mio fratello, perché due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato". Ilaria: per fermarmi mi devono uccidere Le lacrime e la rabbia di ieri lasciano oggi il posto alla determinazione, "mi devono uccidere per fermarmi". È ripetendosi queste parole che oggi si è svegliata Ilaria Cucchi, all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Anzi, Ilaria va oltre: "Mi sono svegliata con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma". È combattiva e propositiva, questa donna magra e minuta. Non si è mai arresa, e non lo farà adesso. Parla dei prossimi passi che farà con l’avvocato, "il ricorso in Cassazione e anche la Corte europea. Non è finita qui. Se lo Stato non sarà in grado di giudicare se stesso, faremo l’ennesima figuraccia davanti alla Corte europea". Ma una cosa la mette subito in chiaro: "Chiederò al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone - annuncia - di assicurare alla giustizia i colpevoli della morte di mio fratello, perché due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato, come ha detto in aula ieri il mio avvocato. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro". È un fiume in piena Ilaria Cucchi: "Tante volte ho attaccato il lavoro dei pm e sono stata molto criticata per questo, anche in aula dai difensori. Oggi ho l’ulteriore prova che avevo ragione". A Stefano il Comune di Roma vuole intitolare una via o una piazza, come ha indicato una mozione approvata alcuni giorni fa dal Consiglio comunale all’unanimità: "È un gesto che apprezzo tantissimo - commenta Ilaria - e ringrazio il gruppo di Sel e i tanti che sono dalla nostra parte. Ma il mio grazie va anche al sindaco Ignazio Marino", che ieri si è detto "senza parole" pur rispettando la sentenza. Non porta rancore, "non ce l’ho con i giudici di appello - conclude Ilaria Cucchi - ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini. Sono molto motivata". Pagano (Dap): rispetto per vicenda ma sentenza ci scioglie da un peso "Il processo per la morte di Stefano Cucchi è stato vissuto da tutta l’Amministrazione penitenziaria con una grande sofferenza. Capisco e rispetto il dramma dei suoi familiari, comprendo anche l’amarezza per la sentenza, ma non posso non esprimere soddisfazione per l’assoluzione del nostro personale, pensando all’angoscia vissuta da loro, e dai loro congiunti, per un’accusa così grave e così infamante". Luigi Pagano, reggente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, commenta così all’Adnkronos la sentenza di secondo grado che vede assolti medici e agenti coinvolti nella vicenda della morte di Stefano Cucchi. "La sentenza di appello - prosegue Pagano - che conferma l’assoluzione in primo grado per i nostri agenti, scioglie un peso assai gravoso da sopportare per un Corpo di Polizia che opera quotidianamente per affermare i principi di legalità in una realtà difficile e pericolosa quale è quella del carcere". "E non è un caso - conclude il reggente del Dap - che sin dal primo momento abbiamo sostenuto con la massima trasparenza e lealtà il lavoro della magistratura affidandoci, senza riserva, a quali fossero gli esiti". Cappellano Regina Coeli: c'è un dovere di verità L’amarezza di padre Trani, c’è un ragazzo morto la famiglia ha diritto di sapere. La sentenza che ha assolto tutti gli imputati nella vicenda di Stefano Cucchi lascia grande amarezza anche in chi tutti i giorni vive la situazione delle carceri cercando di alleviare le pene dei detenuti. Padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli, afferma all’Adnkronos: "la famiglia di Stefano ha diritto a conoscere la verità. Cercare la verità è un dovere. C’è un ragazzo che è morto, ma ancora non c’è stata nessuna risposta". Un’amarezza e un senso di sconforto espresso dalla famiglia di Cucchi e da tutte le persone che lottano da anni con la famiglia di Stefano. "Ci sono due elementi da registrare - afferma il cappellano di Regina Coeli. Il fatto che sia morto un giovane e il fatto che lo Stato dovrebbe prestare attenzione alla salute dei cittadini. Dalla giustizia, dagli uomini ci si aspetterebbe attenzione, invece abbiamo avuto la morte". Fatte queste premesse, padre Trani evidenzia che "una risposta di verità non significa condannare persone che magari sono innocenti. Ci sono stati due giudizi, per ora, contrastanti. Mi auguro che ci sia più attenzione: la famiglia ha diritto di conoscere la verità sulla morte di Stefano". Giustizia: "è vero, qualcuno l’ha pestato… purtroppo non sappiamo chi è" di Sara Menafra Il Messaggero, 2 novembre 2014 Il presidente della corte di Appello di Roma, Luciano Panzani, difende l’operato dei suoi giudici che due giorni fa hanno assolto tutti gli imputati del processo per la morte di Stefano Cucchi: "È chiaro che se Cucchi ha avuto delle fratture non se le è certo procurate da solo e che è stato picchiato. Ma non siamo in grado di dire cosa sia accaduto. I giudici condannano solo quando è stato fugato ogni ragionevole dubbio". E aggiunge: "Capisco il senso di amarezza dei parenti, è un sentimento comprensibile". "Tutte le volte che un processo si chiude con un’assoluzione, le vittime provano un senso di amarezza perché ritengono che non sia stata fatta giustizia. Ma io, come cittadino, mi sento più tranquillo a sapere che nel dubbio dell’insufficienza di prove, i magistrati hanno scelto di assolvere". Il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, proprio non vuole accettare le polemiche seguite alla sentenza sulla morte di Stefano Cucchi. Almeno non per quello che riguarda il collegio del suo tribunale che ha deciso di assolvere tutti gli imputati per insufficienza di prove. A Roma da pochi mesi dopo una lunga carriera a Torino, ieri mattina, letti i giornali, ha deciso che era giusto dire la sua. Presidente, le polemiche sono state molte. Ma un’assoluzione così ampia per insufficienza di prove è davvero normale? "Capisco il senso di amarezza delle vittime, è un sentimento comprensibile. So bene che Cucchi non si è ucciso da solo, ma non è per questo che si possono condannare delle persone se non è stata raggiunta la prova". Stefano Cucchi è entrato sotto la custodia del lo Stato .sulle sue gambe e ne è uscito morto, passando anche nelle aule del tribunale. Non è possibile che nel giudicare i magistrati abbiano avuto un’accortezza in più? "È chiaro che se Cucchi ha avuto delle fratture non se le è certo procurate da solo e che è stato picchiato. Ma non siamo in grado di dire cosa sia accaduto. E faccio notare che la corte di assise che ha giudicato sul caso è composta in maggioranza da cittadini comuni. Se c’è un caso in cui la giustizia è davvero espressa in nome del popolo è proprio quando a decidere è una corte di assise. Ma per condannare ci vogliono le prove e se un giudice ritiene che la prova non e stata raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio deve assolvere. Nessuna gogna mediatica, se non vogliamo perdere più di quanto abbiamo già perso". Potrebbe esserci qualcosa di sbagliato nell’impostazione dell’inchiesta? "Non lo so, non voglio entrare nel caso concreto che sarà analizzato ancora in Cassazione. Credo però che il nostro sforzo debba ora essere evitare che ci siano altri casi come quello di Stefano Cucchi. Ogni parte dello Stato deve portare il proprio contributo affinché non ci sia più la possibilità che qualcosa vada storto nella detenzione di un cittadino". Ci spieghi meglio come. "Per esperienza ritengo che quando si verificano delle anomalie, come nel caso estremo di un detenuto che muore, o le procedure non sono state sufficientemente determinate o ci sono state deviazioni dalle regole fissate. Come magistrato mi auguro che le procedure siano modificate nel segno della totale trasparenza di ogni passaggio nel corso della detenzione. Anche se devo dire, più in generale, che tutti i tagli che sono stati fatti in passato nella sanità, nella giustizia e tra le forze dell’ordine non aiutano la tutela del cittadino. Il sistema è molto provato". Dunque una sentenza giusta? "Come cittadini dobbiamo essere soddisfatti. Sarebbe peggio una condanna che va incontro alle esigenze dell’opinione pubblica e delle vittime. In dubbio pro reo è un principio cardine". Ha parlato con il collega D’Andria, il presidente del collegio che ha emesso la sentenza? "No e in ogni caso non credo che la cosa debba essere oggetto di interesse mediatico. Il collega D’Andria come tutti noi sa bene che una sentenza emessa non è più nella disponibilità del giudice ed è abituato a distaccarsene". Giustizia: "io, medico, trattata come un aguzzino…. se fu picchiato non morì per quello" di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 2 novembre 2014 Per il medico internista presso la struttura protetta del Sandro Pertini la Corte d’Assise d’Appello ha annulla la sentenza di primo grado, che l’aveva condannata a un anno e quattro mesi. La sentenza non l’ha ascoltata. Era fuori mentre la Corte d’Assise d’Appello annullava la sentenza di primo grado, che l’aveva condannata a un anno e quattro mesi, e la dichiarava, invece, innocente. Una decisione che ha saputo, tramite il suo avvocato, Giovanni Luigi Guazzotti, pochissimi istanti dopo. Stefania Corbi, medico internista presso la struttura protetta del Sandro Pertini, fa ancora fatica a parlare. "La sensazione principale è quella della fine di un incubo che va avanti dal 2009. Da quando è iniziata questa vicenda ho letto e sentito di tutto. Per un periodo mi vergognavo persino di dire come mi chiamavo. Hanno parlato di un reparto, il mio, simile ad Auschiwtz e di noi medici come degli aguzzini che fanno crepare la gente nei letti. Il tutto senza mai venire a vedere come lavoriamo". Ecco, dottoressa, come lavorate? "Da noi ci sono situazioni che in un reparto normale non esistono. Ma per me lavorare lì è stata una scelta. Sono stata io a voler curare i detenuti. Invece, di punto in bianco, sono diventata un aguzzino, non un medico che invece è quello che sono ". La sentenza di primo grado l’aveva condannata. "È stata come la continuazione dell’incubo. Le cose che c’erano erano le stesse per cui oggi sono stata assolta". Ma lei ricorda Stefano Cucchi? "Certo. Lo vidi il 18 e il 21 ottobre sera, poche ore prima che morisse". E come era? "Molto magro". Ma dopo cinque anni di indagini e di processi, lei che idea si è fatta? Di cosa morì? "Inutile dire che ci ho pensato giorno e notte. La verità è che non lo so. Il 21 insistetti per fargli una flebo, lui non voleva. Mi promise che l’avrebbe fatta la mattina dopo. Mai avrei pensato che non avrebbe superato la notte". Lei crede che nel suo reparto siano stati commessi degli errori? "Mi ci sono tormentata, ma secondo me il suo quadro clinico non era a rischio". Crede che sia stato picchiato? "A pensarci adesso credo di sì. Io avevo segnalato in cartella alcune ecchimosi. Non penso però che siano state le percosse a causare la morte". Quindi di cosa è morto? "Secondo me di un’aritmia. Ma questa è solo una mia opinione e lascia il tempo che trova". Giustizia: Raffaini, lo scrittore pestato in galera "stavo per fare la stessa fine di Stefano" di Veronica Tomassini Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 Il comandante iniziò a picchiarmi forte, con un manganello, una due tre dieci volte. Perdevo la pipì per le botte, caddi a terra nella mia pozza di urina. Poteva essere morto, ucciso da nessuno. Lorenzo Raffaini, 44 anni, di Malonno, Valcamonica. Finalista di Masterpiece, talent dedicato agli scrittori, in onda lo scorso anno su Rai3. Forse lo ricorderete. Ma dobbiamo retrocedere ancora, fino al 1999, quindici anni fa. Siamo nella casa circondariale di Sondrio. Lorenzo Raffaini deve scontare in carcere un residuo di pena. "Avevo trent’anni. Mi bucavo, vivevo come un clochard. Sono andato in galera per reati legati all’uso di eroina. Non era la prima volta, ero stato fermato alla guida di un furgone rubato e se non ricordo male per falsa identità. Era l’estate del 1999, in carcere, a Sondrio, era arrivata una partita di hashish tramite un nuovo arrestato che l’aveva con sé". Poi che è successo? Le guardie lo vennero a sapere e, durante i colloqui, costrinsero i parenti a spogliarsi, compresa mia nonna di 80 anni e la figlia del cuoco del carcere e protetto del comandante. Il cuoco pensava che l’hashish fosse entrato per colpa nostra, mia e di un altro detenuto. Ci diede dei "figli di puttana infami" e ci sfidò durante l’ora d’aria. In carcere, se ti tieni le parole equivale a confermare ciò che dicono e poi non esci più, il clima diventa invivibile. Ne nacque una piccola rissa carceraria in cui non ho preso nemmeno un pugno. Invece chi la picchiò? Vengo trascinato dalle guardie al piano terra dove c’era un corridoio, con gli uffici e l’infermeria. Lì, mi aspettava il comandante e una decina di agenti, indossavano scudi e caschetti, con in mano i manganelli. Mi hanno fatto spogliare completamente nudo, ho dovuto togliere anche le collanine. Mi hanno fatto girare con le mani alzate e appoggiare contro una porta di ferro, con su il viso premuto. Non dimentico il colore di quella porta, era azzurra. Il comandante, solo lui, sotto gli occhi degli agenti, iniziò a picchiarmi forte, con un manganello, una due tre dieci volte. Perdevo la pipì per le botte, caddi a terra nella mia pozza di urina. Pensavo di morire. Sentivo la sua voce che mi urlava: "Bastardo, le teste calde come te..." e altre cose di questo tipo. Il comandante continuava a colpire, sulla schiena, sui reni, sui fianchi, sulle giunture. Poi smise. Mi ordinò di alzarmi, raccogliere i miei vestiti. Così ho fatto. Attraversai le due file di agenti, disposte in questo corridoio, schierate alle pareti, ero sempre nudo, e mentre passavo ricevetti ancora calci. Mi condussero in infermeria, c’era un medico, mi pare fosse una donna (ricordo appena). Comunque il medico mi chiese dove avessi ricevuto quelle botte. Chiese: le hai prese qua dentro? Dietro di me c’erano le guardie e il comandante, il terrore di essere riportato di là in corridoio e di essere ammazzato mi fece dire, senza pensarci due volte, che non mi aveva toccato nessuno. Il medico mi mostrò una carta che dovevo firmare; in quella carta si dichiarava che eventuali segni (ne avevo sulla schiena e sulle parti coperte dai vestiti) erano prodotto di lesioni, procurate da me stesso. Perché non ha mai denunciato questo pestaggio? Perché era la mia parola contro la loro. Non c’erano altri testimoni. C’eravamo io, le guardie penitenziarie e il comandante. Avevo paura di ritorsioni anche. È arrivato addirittura a desiderare la morte. Ero un uomo distrutto, moralmente, fisicamente. Sono stato cinque giorni in isolamento. Rigiravo tra le mani la cinta dell’accappatoio. Volevo uccidermi. Decisi di scrivere una lettera a mio figlio per spiegare le ragioni del mio gesto e mentre scrivevo mi colse la calma, volevo vivere. Ha raccontato la sua storia in un romanzo, il pestaggio, il carcere. Sì. Uscirà per Bompiani. Spero che questa mia testimonianza possa servire. La scena del pestaggio l’ho raccontata nel romanzo sì, è tutto vero, è la mia vita. Ne ho letto qualcosa anche a Masterpiece, davanti ai giurati. Pensavo che succedesse qualcosa nell’opinione pubblica, pensavo che scandalizzasse qualcuno. Mi sorprese invece la reazione, il silenzio che ne seguì. Oggi come sta? Non mi buco più, sono sposato, ho quattro figli. Sono devastato dai dolori però, ho le giunture fragili, alcune vertebre spostate. Poteva andarle peggio, poteva finire come Stefano Cucchi... Sì, anche io potevo essere morto, ucciso da nessuno, proprio come Stefano. Giustizia: quanto valgono 22 anni in carcere da innocente? di Nicola Biondo Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 Caso Alkamar. Il 5 novembre Giuseppe Gulotta ritornerà in un tribunale per il risarcimento. Un segreto di Stato ha fottuto la vita a un uomo. Lo ha torturato per fargli sputare una falsa verità. Lo ha trasformato in un capro espiatorio. Lo ha costretto a vivere per trentasei anni con il marchio del mostro e per ventidue in una cella. Giuseppe Gulotta ne aveva diciotto quando è stato macellato per proteggere qualcosa di indicibile, una strage di carabinieri in Sicilia ad Alcamo Marina in provincia di Trapani. Oggi ne ha cinquantasette. Il 5 novembre lo Stato che lo ha prima condannato e 36 anni dopo assolto proverà a guardarlo in faccia, per valutare - se è possibile - quanto vale una vita triturata da un segreto di Stato. Giuseppe ha bevuto la cicuta che la giustizia italiana gli ha imposto, non è scappato all’estero, ha aspettato una vita per ritornare a vivere. È la storia perfetta per un noir. Una scena del delitto contraffatta, i falsi colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica, il movente che deve rimanere nascosto. Da semplice muratore di provincia è diventato una delle tante vittime della lunga trattativa tra Stato e poteri criminali, mafia ed eversione. Gennaio 1976. Due carabinieri vengono uccisi in una caserma chiamata Alkamar. Dopo settimane di inutili rastrellamenti - in cui finisce anche Peppino Impastato - un ragazzo con evidenti problemi psichici viene fermato con una pistola. La Sicilia diventa così Guantánamo. Un branco di lupi in divisa capitanato dal colonnello Giuseppe Russo fa vomitare fuori - con pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, - la verità sulla strage a quattro ragazzini, di cui due minorenni, e tra questi Gulotta. Caso chiuso. Un anno dopo Russo viene ucciso da Cosa nostra e diventa un’icona dell’antimafia. Anche qui la verità, come quella su Alkamar, non deve essere svelata. La sua squadra, la stessa di Alcamo, ripete lo scempio: a finire dentro, dopo indicibili sevizie, sono tre pastori analfabeti. Sedici anni dopo saranno dichiarati innocenti. Perché? Alkamar - il segreto di Stato che fotte Gulotta e altri tre innocenti - è una terra di confine, incredibile voragine in cui le divise di mafia e Stato, di buoni e cattivi, diventano irriconoscibili. Intorno a essa muoiono giornalisti come Mario Francese - che prova a ricostruire non solo gli affari dei corleonesi ma anche gli aspetti più controversi della figura di Russo - come Rostagno alla ricerca dei segreti di Stato in terra trapanese e muore Impastato. Alkamar ricostruisce la storia di un manipolo in divisa che in nome dello Stato falcia chiunque osi avvicinarsi ai confini tra mafia e Stato. Sono le gesta di Russo - torturatore di ragazzini e secondo svariate testimonianze mai smentite in rapporti con gli esattori mafiosi Salvo e con il boss di Cinisi Badalamenti, usati come confidenti - quelle del suo fido maresciallo Scibilia, autore delle torture di Alcamo, finito poi nel Ros che tratta con Vito Ciancimino. Quelle di Antonio Subranni il successore di Russo oggi sotto processo per la trattativa con i boss nell’estate del 1992 che definì Impastato "terrorista". Alkamar ha inghiottito vite e verità. Nemmeno la disclosure voluta da Renzi sui documenti dei Servizi riesce a bucare quel segreto. La Cassazione ha stabilito che i processi agli innocenti di Alkamar sono stati viziati non da un errore giudiziario ma da una frode processuale. I carabinieri hanno inventato prove, ne hanno nascoste altre, e i giudici ci sono cascati. Cosa dovevano proteggere? Alcuni dei torturatori sono ancora vivi e impuniti: in Italia è possibile senza i reati di depistaggio e tortura. Oggi Gulotta, vittima dei metodi mafiosi di uomini di Stato, aspetta l’ennesimo verdetto della sua vita. Lo fa in silenzio. Come il silenzio che le istituzioni gli hanno riservato dopo l’assoluzione e 22 anni di carcere da innocente. Nessuno lo ha mai chiamato, nessuno gli ha mai chiesto scusa. Nessuno è Stato. Amen. Giustizia: anche l’imputato Bossetti ha diritto al diritto di Astolfo Di Amato Il Garantista, 2 novembre 2014 Prima di riflettere sulla notizia, immaginate di stare una intera settimana senza poter scambiare parole, sentimenti, sfoghi con nessuno. C’è da impazzire! Per Bossetti le settimane sono state 19. Oltre quattro mesi. Un tempo certamente reso ancora più pesante dal dover far fronte alla accusa che lo sovrasta. In molti stati degli Usa la possibilità di isolamento in carcere è stata bandita come una forma di detenzione crudele e di tortura, contraria ai diritti umani, alla dignità della persona e al valore rieducativo della pena. E noto e documentato clinicamente il rischio di crollo psicologico, specialmente per le persone incensurate, durante i primi giorni di detenzione, con la comparsa di gravi forme di autolesionismo fino al suicidio. Né la circostanza che si tratti di carcerazione preventiva muta la sostanza degli effetti dell’isolamento in carcere. Anzi, lo stato di incertezza che caratterizza la carcerazione preventiva, ogni carcerazione preventiva, rende ancora più difficile reggere, sul piano psicologico, la condizione di isolamento. Che, è inutile girarci intorno, finisce con l’essere, oggettivamente, una forma di tortura, al di là delle intenzioni e delle motivazioni che l’hanno determinata. È finita, dunque, per Bossetti la tortura costituita dall’isolamento in carcere, pur continuando quella costituita dalla carcerazione preventiva Va fatto, allora, un bilancio di questo tempo passato. Indubbiamente si tratta di un tema reso estremamente delicato dalla odiosità del delitto per il quale Bossetti è indagato e dalla circostanza che gli inquirenti hanno in mano un elemento di accusa estremamente pesante: la presenza del Dna di Bossetti sugli indumenti della povera Yara. Detto questo, vi sono due considerazioni da fare. La prima è che non può escludersi che il Dna sia giunto sugli indumenti di Yara non per contatto diretto, ma perché portato da un oggetto (Bossetti ha dichiarato di perdere abitualmente sangue dal naso). La seconda è che la odiosità del reato, proprio perché implica ima pena maggiore, dovrebbe far aumentare e non diminuire le garanzie. Fatte queste premesse, diventa inevitabile registrare alcuni dati di fatto. Il primo è che Bossetti ha retto alla tortura dell’isolamento. Non può, certo, questa essere ima prova di innocenza. Ma la debolezza psicologica in cui l’isolamento fa sprofondare, associata al senso di colpa, costituisce di regola una molla potentissima per la confessione. Tanto potente che, in questi casi, si rischia che vi sia la confessione anche di ciò che non è stato commesso. Il secondo è che, nonostante la meticolosità con cui le indagini sono portate avanti, non sono emersi elementi ulteriori di prova a carico di Bossetti, idonei a vivificare e confermare l’elemento costituito dalla presenza del Dna. Anzi, come ha messo in evidenza su questo giornale Tiziana Maiolo, con una analisi esemplare per lucidità e rigore, si è assistito allo stillicidio di notizie su presunti indizi, poi ogni volta smentiti dai fatti. Colpisce, in particolare, che non si siano trovati riscontri né con riguardo all’omicidio in sé, né con riguardo alla personalità deviata che avrebbe dovuto avere Bossetti per commettere quel reato. E allora? Innanzi tutto le ragioni della carcerazione preventiva, come da tempo sta sottolineando Tiziana Maiolo, perdono consistenza ogni giorno che passa. Poi, l’orrore per il delitto bestiale di cui si discute non può e non deve impedire che si guardi al giudizio con la pacatezza della ragione. Il rischio di un errore, in un senso o nell’altro, è altissimo. Giustizia: otto mesi in cella e sapevano che ero innocente, la mia incredibile vicenda di Nello Stranges Il Garantista, 2 novembre 2014 Nel febbraio del 2009 volevo comprare una macchina, una Mercedes, e cedere la mia Fiat Croma. Ho dovuto girare un bel po’ per trovare un concessionario che mi facesse una permuta per una macchina usata. Un mio cugino (Salvatore Delfino ex comandante in pensione della Polizia Venatoria Provinciale) saputo della mia ricerca, mi accompagnò presso una concessionaria di Gioiosa Jonica di proprietà di Loccisano Giulio, suo parente per parte della moglie. Avendo ricevuto rassicurazioni in merito alla permuta della mia Fiat Croma, ho raggiunto un accordo che prevedeva l’acquisto di una Mercedes E220 per 30.000 euro di cui 15.000 Finanziati e 15.000, ricavati dalla permuta. Il 21 marzo il Loccisano mi chiamò dicendomi che l’auto era arrivata. Aggiunse però che era subentrato un problema: non avendo ancora venduto la Croma, dovevo anticipare 20.000 euro anziché i 15 concordati per poter avere la macchina con l’impegno che i 5.000 euro me li avrebbe restituiti dopo la vendita della permuta. In buona fede acconsentii, mi feci prestare 5000 euro e li consegnai al Loccisano, La macchina però, contrariamente ai patti, era arrivata senza targhe. Mi propose di utilizzare temporaneamente la sua targa prova per un paio di giorni. Un paio di giorni che diventarono 20. Nei giorni successivi avevo avuto problemi con la targa prova persino con la Polizia Stradale che voleva sequestrarmi l’auto. Chiamai il Loccisano manifestando tutta la mia collera chiedendo che mi consegnasse le targhe dell’auto. Riconsegnai la targa e attesi 15 giorni per le mie, A giugno mi chiese di recarmi a Gioiosa per il passaggio di proprietà della Croma che aveva venduto. Pensai che finalmente avrei recuperato i soldi che mi doveva ma, con mia grande delusione, mi disse che avendo figlio e moglie con problemi di salute, non poteva restituirmeli, mi chiese invece di dargli una mano a vendere qualche auto cosi avrei recuperato i miei soldi. Così ho portato numerosi clienti per acquistare delle auto che però non andarono mai a buon fine. Per recuperare i mie soldi mi recai spesso presso la concessionaria del Loccisano quando andavo giornalmente a Bovalino per lavoro come responsabile della protezione civile regionale. Nel mese di luglio quando, stanco dei continui rinvii, pretesi dallo stesso un assegno anche posdatato. Mi fece un assegno senza intestarmelo con scadenza 10 settembre che girai ad un rivenditore di motori marini dì Gioia Tauro. Chiuso il rapporto per l’acquisto della macchina, e rimasto comunque con il Loccisano in buoni rapporti di amicizia, iniziava per me la più grande tragedia della mia vita. Nel periodo parallelo a quello della lunga trattativa all’acquisto della mia macchina, il Loccisano era indagato per traffico di stupefacenti con altre persone della jonica. Alla luce dì questa inchiesta, Il 14 luglio 2011 scattò un’operazione della Procura di Reggio denominata Crimine Tre, alle 4 del mattino con metodi quasi terroristici, venni prelevato da 10 uomini incappucciati e portato alla caserma dei carabinieri di Reggio Calabria, unitamente ad altri coimputati venni messo prima alla gogna mediatica dei giornali e telegiornali e poi trasferito al carcere di Reggio Calabria. Dopo 3 giorni di isolamento fui interrogato dal Gip Santoro e alle domande postemi in riferimento all’accusa risposi chiarendo tranquillamente l’enorme equivoco nel quale erano incappati. In sostanza, avevano scambiato la mia disavventura con il signor Loccisano in un rapporto di interscambio di messaggi e notizie relative ai traffici di droga di cui il Loccisano era accusato senza tenere conto volutamente del reale, chiarissimo e legittimo contenuto delle telefonate. L’accusa infatti, ha utilizzato contro di me solo il semplice contatto telefonico, un diabolico ragionamento basato solo su suggestive supposizioni: la parola "probabilmente" veniva ripetuto all’infinito nelle affermazioni a mio carico. Per supportare tutto il teorema, chi ha indagato ha volutamente e magistralmente manomesso alcune telefonate cambiando le date sui brogliacci (manomissione censurata anche dal tribunale del riesame). Il Gip durante l’interrogatorio mi ha fatto spiegare in modo dettagliato la mia storia con il Loccisano e alla fine rivolgendosi al mio avvocato disse: "Se Stranges dice la verità mi porti i documenti relativi a quanto afferma, se corrispondono al vero li valuterò positivamente", L’avvocato in virtù di quanto dichiarato dal Gip evitò il ricorso al tribunale della libertà e presentò dopo circa un mese un’istanza di scarcerazione corredata da tutta la documentazione. Dopo una settimana arrivò la drammatica quanto ridicola risposta del Gip che riassumo in poche righe: "Lo Stranges effettivamente nell’interrogatorio di garanzia ha detto la verità, ma nulla toglie che lo stesso abbia potuto commettere altre attività illecite". Con questo perfido ragionamento non sapevo più a quel punto neanche di cosa ero accusato e come difendermi. In carcere per 8 mesi ho abbaiato alla luna la mia innocenza, ho vissuto in una cella 5 metri x 4 con altre 14 persone con un bagno e senza acqua calda, facevamo la doccia scaldando le bottiglie di plastica fuori dalla finestra, circondati da scarafaggi, zecche e con il pavimento di cemento rustico. In quel periodo sono caduto dalle scale lesionandomi il bacino, mi sono rotto la mano cadendo dallo sgabello, non potendo prendere i miei farmaci per l’ipertensione ho subito un grave peggioramento che mi ha causato pesanti complicazioni di tipo cardiaco, ho sofferto di depressione riconosciuta anche dal psichiatra del carcere e oggi sono costretto a continue cure presso l’ufficio di igiene mentale dell’Asp di Rc. Il 18 Gennaio del 2012 mi fissarono la data del tribunale del riesame. In quella sede i miei avvocati, M. Gemelli e A. Alvaro, riuscirono a far emergere le ingiustizie commesse nei miei confronti, e il primo marzo il collegio del tribunale emise una sentenza che Imponeva la mia immediata scarcerazione sostenendo che non solo non c’erano le condizioni per il trattenimento in carcere ma addirittura censurando le motivazioni dell’arresto. Tra le tante frasi usate una è eclatante, "le prove delle procura a carico dello Stranges sono state letteralmente frantumate dalla difesa". Il 4 ottobre del 2012 iniziò il processo con rito abbreviato che ha visto trionfare la mia innocenza con formula piena senza nemmeno l’opposizione del pm Dott. Sirleo che nel frattempo fortunatamente aveva sostituito i titolari dell’inchiesta che erano due paladini della giustizia e nonostante sapessero perfettamente della mia innocenza nel formulare le richieste durante l’arringa avevano avuto il barbaro coraggio di chiedere nei miei confronti una condanna a 13 anni. Oggi, economicamente in ginocchio, gravemente ammalato, provato fisicamente e moralmente, mi sforzo di gridare al mondo cosa significa essere vittima della malagiustizia. Aspetto che chissà quando mi risarciscano con dei soldi che sicuramente mai potranno restituirmi la serenità della mia vita perduta. Spero che la mia storia contribuisca a far capire quanto il popolo Italiano sia tutto in libertà provvisoria, quella libertà che in mano ad una magistratura malata può trasformarsi improvvisamente in un incubo. Concludo volgendo un pensiero a quanti dietro 4 mura (tantissimi) soffrono con l’assenso silenzioso di molti la mia stessa drammatica situazione. Avellino: ad Ariano Irpino detenuto salernitano tenta di impiccarsi, salvato dagli agenti www.salernotoday.it, 2 novembre 2014 La denuncia di Sarno (Uil-Pa Penitenziari): "Sono mediamente 1.500 ogni anno i tentati suicidi in cella. Fondamentale il lavoro della polizia penitenziaria". Paura questa mattina, intorno alle 10.30, nella terza sezione del carcere di Ariano Irpino dove un detenuto salernitano di 25 anni, M.F., ha tentato di impiccarsi nella sua cella. Tempestivo l’intervento di un agente della polizia penitenziaria in servizio di sorveglianza, che sollevando il corpo del giovane e tagliando la corda gli ha salvato la vita. Il ragazza da circa 15 giorni era stato trasferito nella casa circondariale avellinese dal carcere di Eboli. Ora è ricoverato nell’infermeria della struttura per valutare le sue condizioni fisiche. Ma sull’ennesimo tentato suicidio, da parte di un detenuto, interviene il segretario generale della Uil-pa Penitenziari, Eugenio Sarno: "Quotidianamente, tra indicibili difficoltà operative e indegne condizioni lavorative, le donne e gli uomini della polizia penitenziaria non solo assicurano la sicurezza all’interno delle nostre prigioni ma sono costantemente impegnati a salvare vite umane". "Anche oggi ad Ariano Irpino - spiega - la professionalità del personale di servizio ha impedito che la già lunga lista di suicidi in cella (32 nel 2014) si potesse sinistramente allungare. Sono mediamente 1500 ogni anno i tentati suicidi in cella, e negli ultimi dieci anni la polizia penitenziaria ha salvato circa 6mila detenuti in extremis dai loro tentativi di evadere dalla vita.Nel giorno in cui le cronache riportano con enfasi le polemiche per l’assoluzione degli agenti accusati della morte di Stefano Cucchi ci piacerebbe leggere anche di queste vite salvate di cui nessuno da conto. Purtroppo dopo la parziale assoluzione della Corte Europea sulle infamanti condizioni detentive in Italia, sembra essere scemato qualsiasi interesse verso l’universo penitenziario che, invece, continua a rappresentare quella vergogna nazionale già sottolineata dal presidente Napolitano. Di qui la stoccata al Governo: "Tra l’altro i tagli delle risorse del Governo Renzi non aiutano certo a recuperare la dignità del lavoro penitenziario e la civiltà della detenzione". Per il segretario generale della Uil-pa Penitenziaria "non possiamo che essere grati alle donne e agli uomini dei baschi azzurri che in silenzio armati di umanità, tolleranza e professionalità, impediscono , come riconosciuto anche dal Ministro Orlando, il definitivo collasso del nostro sistema carcerario pagando un alto tributo di sangue considerato che dal 1 gennaio ad oggi nelle nostre carceri si sono verificati 314 episodi di aggressione in danno di poliziotti penitenziari, 134 dei quali hanno riportato prognosi superiori ai 5 giorni". Catania: quattro giovani detenuti curano la manutenzione del verde nel parco comunale www.cataniaoggi.com, 2 novembre 2014 Il sindaco di Catania Enzo Bianco ha sottolineato il proprio apprezzamento per il progetto denominato "Verde in Libertà", finalizzato alla realizzazione di lavori di giardinaggio da parte di giovani detenuti in un parco comunale. L’adesione al progetto - che si concretizzerà entro breve con interventi di manutenzione nel Parco degli Ulivi di via Sebastiano Catania - era stata deliberata dalla Giunta comunale il 28 ottobre scorso. Successivamente è stato siglato un accordo di programma della durata di due mesi tra i rappresentanti dell’Assessorato all’Ecologia del Comune, dell’Istituto Penale per Minorenni di Catania e della Cooperativa sociale Prospettiva Futuro. "Proprio la Cooperativa - ha spiegato l’assessore al Verde Rosario D’Agata - aveva ottenuto un finanziamento per l’inserimento lavorativo di giovani detenuti maggiorenni ospiti dell’Istituto Penitenziario per minorenni di Catania e assegnati al lavoro esterno, per la realizzazione del progetto ‘Verde in Libertà’. Questi giovani, quattro in tutto, sono stati individuati dall’Istituto Penale per Minorenni di Catania, diretto dalla dottoressa Maria Randazzo, che si è occupato di tutte le autorizzazioni al lavoro all’esterno. Noi, come Assessorato all’Ecologia, abbiamo accolto l’idea identificando un’area in cui svolgere il progetto, che è a costo zero per il Comune". I giovani, secondo l’accordo, si occuperanno di interventi di piccola manutenzione al verde, alle attrezzature e alle opere che ricadono nel Parco degli Ulivi. La Cooperativa Prospettiva Futuro, presieduta da Francesco Silvestro, si occuperà anche di coprire gli oneri assicurativi e previdenziali. Modena: Alsippe; un tentativo di rivolta in carcere sventato dalla Polizia penitenziaria www.modenatoday.it, 2 novembre 2014 Qualche giorno fa il Sant’Anna è stato interessato da un tentativo di rivolta. Alcuni detenuti, per motivi di vario genere, hanno inscenato una protesta che rischiava di finire in tragedia se non fosse stato per la professionalità e la preparazione del reparto di Polizia penitenziaria modenese. Ad innescare la protesta è stato un detenuto magrebino, il quale rivendicava il diritto di essere ascoltato tempestivamente dal Direttore del carcere che casualmente aveva incontrato poco prima all’interno dell’Istituto. Non vedendosi accontentato il detenuto faceva rientro nella propria camera detentiva ubicata presso il Terzo Reparto e dopo qualche minuto si presentava davanti al corpo di guardia del reparto con la bocca cucita e si cospargeva il corpo con dell’olio di semi con l’intensione di darsi fuoco. Nel contempo, sull’onda del disordine imbastito, altri detenuti iniziavano una vera e propria rivolta sbattendo sui blindi del Reparto, e per finire dulcis in fundo, un altro detenuto magrebino armatosi di lametta tentava di aggredire il Comandante del Reparto che nel frangente si era recato sul posto per ristabilire personalmente l’ordine e la sicurezza nell’Istituto al fine di tutelare l’incolumità del personale ivi operante. Solo l’elevata abilità operativa e le spiccate conoscenze professionali dimostrate nell’occasione, così come in altre, dalla Polizia Penitenziaria coordinata dal Comandante di Reparto Commissario Mauro Pellegrino, ai quali va la nostra più sincera ammirazione, ha fatto si che in poco tempo sia stato ristabilito l’ordine in istituto sedando la sommossa posta in essere. Questa Organizzazione Sindacale, alla luce dei fatti verificati, grida a voce alta l’esigenza di istituire nell’istituto modenese un Reparto detentivo a regime chiuso per i soggetti più facinorosi e difficilmente gestibili, soggetti taluni, con disturbi psichiatrici. Non è pensabile che il personale di Polizia Penitenziaria debba essere impegnato a risolvere questioni che da straordinarie stanno diventando di giorno in giorno ordinarie. A parere di questa O.S. il regime aperto deve essere concesso a chi dimostra realmente di avere una buona e regolare condotta rispettando le norme che regolano la vita penitenziaria, e non deve di contro essere la Polizia Penitenziaria a dover rimediare, di volta in volta, a quelli che sono gli errori gestionali da parte dei vertici di questa Amministrazione, che forte della preparazione e della dedizione del Personale che amministra, in parte non si interessa delle ripercussioni che il "regime aperto" possa avere. Questa O.S. si auspica che gli eventi accaduti smuovano le coscienze di qualcuno, facciano aprire gli occhi a quella che è la realtà, ed ognuno, per quanto di competenza, inizi a prendere seri provvedimenti affinché agli onori della cronaca non si debba parlare più di tragedie sfiorate, restando comunque consapevoli di quelli che sono i rischi del mestiere. Il Vice Segretario Regionale Alsippe, Luigi Miggiano Catanzaro: lo sport entra in carcere, presentato progetto dell’associazione "Andiamo" di Francesco Iuliano www.catanzaroinforma.it, 2 novembre 2014 Lo sport entra in carcere. Lo fa con il progetto dal titolo "Sport insieme" promosso dall’associazione "Andiamo" e rivolto alla popolazione carceraria dell’Istituto "Ugo Caridi" di Catanzaro. L’iniziativa avviata con il patrocinio della Fondazione Calabria Etica e con la collaborazione degli assessorati allo Sport della Regione Calabria, del Comune di Catanzaro, dell’Amministrazione provinciale, del Comitato provinciale Coni, del Comitato Regionale Figc-Lnd, Fipav, Fbl e Anolf è stata presentata nel corso di una conferenza stampa allestita nel sala conferenze dell’Istituto cittadino. Con il direttore Angela Paravati, anche il presidente dell’associazione Francesco Gualtieri, il presidente del Cra Calabria Figc, Saverio Mirarchi, il presidente di Calabria Etica Pasqualino Ruberto. Un progetto che prevede, oltre all’organizzazione di corsi specifici di calcio, basket e pallavolo anche l’organizzazione di seminari e convegni/incontro con la partecipazione attiva dei detenuti. "Un’idea che ci è subito piaciuta - ha commentato Angela Paravati. Lo sport, in un ambiente com’è il carcere, aiuta ad abbassare le tensioni e aiuta a fare gruppo. Come istituzione abbiamo l’obiettivo di rieducare il detenuto ma per fare questo occorre che ci siano le condizioni senza le quali è difficile pensare che il detenuto possa migliorare". Il direttore ha quindi spiegato l’importanza di una corretta informazione anche su quella che è da definire una sana alimentazione da affiancare alla pratica sportiva. "C’é una richiesta considerevole di acquisto di prodotti a base di proteine da parte dei detenuti. Richieste che il più delle volte non sono accompagnate dalla consapevolezza della necessità di assumerli senza considerare eventuali danni o benefici che gli stessi possono apportare". Primo appuntamento, con molta probabilità, a fine novembre con l’organizzazione del primo incontro. Tra le proposte del direttore Paravati, anche quello di organizzare corsi per l’abilitazione ad allenatori e arbitri di calcio Un’occasione per i detenuti, di avere un contatto reale con quella che è la società civile. "Sport insieme - ha spiegato Francesco Gualtieri - vuole essere un volano di integrazione per quanti, in questo particolare momento, vivono un periodo di difficoltà. Il programma che abbiamo deciso con il direttore Paravati, riteniamo sia coinvolgente ed interessante considerata la varietà delle iniziative". Interessanti le proposte arrivate anche dal presidente della Figc, Saverio Mirarchi che, dopo aver ribadito quanto la Federazione che rappresenta sia interessata ad incentivare il gioco del calcio, ha sottolineato come "il calcio sia da considerare senza esitazioni, un’agenzia educativa di assoluto rispetto. Poter essere d’aiuto e di conforto al detenuti di questo Istituto, non può che farci piacere e accrescere la nostra esperienza in questo settore". L’incontro è stata l’occasione, per il direttore Paravati, per rimarcare come molte istituzioni della società civile, ancora stentino a manifestare la loro vicinanza ad una realtà complicata e difficile com’è quella della vita all’interno di un carcere. "È difficile che qui venga qualcuno, e parlo di politici o rappresentanti delle istituzioni, se non quando c’è da testimoniare sulla disumanità in cui vivono i detenuti. Tutto questo è triste" . Taranto: "Fuori…gioco!", la Fondazione Taras dona le maglie di allenamento ai detenuti www.lavocedimaruggio.it, 2 novembre 2014 Il 30 ottobre 2014, presso la Casa Circondariale di Taranto, alla presenza dell’Avv. Giuliano De Stratis, Presidente della Aps "Fuori…gioco!", del Presidente dell’Aps Fondazione Taras, Avv. Gianluca Mongelli e del consulente legale della Fondazione Avv. Carlo Raffo, si è tenuto un incontro con i detenuti che partecipano al progetto "Fuori…gioco!", di cui la Fondazione Taras è partner. Il progetto prevede delle lezioni sul diritto sportivo, allenamenti ed infine la partecipazione della squadra dei detenuti al quadrangolare di calcio contro la squadra degli Avvocati, quella dei Magistrati e quella della Polizia Penitenziaria. In particolare, nell’ambito della lezione di ieri, tenuta dall’Avv. De Stratis, avente ad oggetto il Fair-play e più in generale l’analisi delle problematiche del calcio italiano, è stato possibile presentare ai detenuti il ruolo e la mission della Fondazione Taras, illustrare i concetti di partecipazione e supporto alla società, soffermarsi sull’importanza della cura del settore giovanile, valorizzare l’idea di un calcio sempre più vicino alla gente. Infine, è stata presentata la maglia che la Fondazione Taras donerà alla squadra dei detenuti per i loro allenamenti, in vista del quadrangolare che si svolgerà presso lo Stadio Erasmo Iacovone nel prossimo mese di dicembre. L’iniziativa è stata particolarmente apprezzata dai presenti e costituisce un piccolo contributo offerto della Fondazione Taras nell’ambito di una encomiabile iniziativa sociale volta a promuovere forme di aggregazione e reinserimento nella società, attraverso i valori del calcio e la passione dei tifosi che ne costituiscono l’anima. Immigrazione: il Cie di Gradisca d’Isonzo non deve essere riaperto di Michele Migliori (Segretario Associazione Radicale Trasparenza è Partecipazione) Il Piccolo, 2 novembre 2014 Destano particolare sorpresa, seguite immediatamente da preoccupazioni, anche istituzionali, le dichiarazioni del Prefetto di Gorizia Vittorio Zappalorto che ha affermato alla stampa che i richiedenti asilo arrivati nelle settimane scorse a Gorizia "non hanno diritto ad essere riconosciuti né come profughi né come rifugiati". Non ci risulta che il dottor Zappalorto abbia avuto l’occasione di incontrarli uno per uno, ma, se anche l’avesse fatto, non spetta a lui stabilire lo status individuale delle decine di persone che abbiamo incontrato nei giorni scorsi. L’organo incaricato a stabilire se i richiedenti asilo abbiano titolo e possibilità per esser riconosciuti tali in base alla Convenzione sui rifugiati del 1951 è la commissione territoriale dopo attento e approfondito studio. Attento e approfondito studio che non deve esser vittima di esternazioni istituzionali come quelle del Prefetto. Il Prefetto, che come si sa ha il doppio incarico di commissario per il Mose di Venezia, dovrebbe esser particolarmente prudente nel rilasciare dichiarazioni a mezzo stampa, glielo impone il suo ruolo di rappresentare il Governo di Roma in città e quindi di garante della legalità costituzionale. Il nostro ordinamento interno, nonché gli obblighi internazionali derivanti dall’aver ratificato decine di trattati internazionali in materia di diritti umani, impongono il rispetto di norme e procedure precise. Gli stati d’animo individuali non possono appartenere alla sfera pubblica. Ci pare invece piuttosto urgente l’avvio di una collaborazione o coordinamento tra istituzioni locali al fine di garantire trattamenti umani e non degradanti delle centinaia di persone che ormai si trovano sul territorio di Gorizia. A oggi, grazie alla Provincia e al generoso apporto di decine di volontari, si è riusciti a gestire una situazione difficile, è irragionevole ipotizzare che questo stato di cose possa permanere ancora per molto. Infine, in un momento in cui Governo e Parlamento decidono di limitare il trattenimento di cittadini extra-comunitari nei Centri di identificazione de espulsione, ci è sembrato del tutto inopportuno pensare ad una riapertura del Cie a Gradisca, anche solo per ospitare i rifugiati nel territorio. Droghe: la polizia irrompe al Congresso dei Radicali e porta via le "canne" di Lorenzo Misuraca Il Garantista, 2 novembre 2014 Appena Rita Bernardini ha tirato fuori le bustine di marijuana per consegnarle ad Andrea, malato di Sla, hanno fatto un balzo sul palco e gliele hanno strappate di mano. Gli agenti del commissariato di Chiusi non hanno perso l’occasione per dimostrare come la legalizzazione della cannabis sia ancora un tabù radicato nel nostro paese. Anche quando, come è successo ieri al Congresso dei radicali, è al centro di un’azione di disobbienza civile per accendere i riflettori sulle decine di migliaia di italiani che pur avendo il diritto di curarsi con terapie a base di cannabinoidi, sono costretti a rivolgersi al mercato illegale, a causa di procedure contorte e medici obiettori. Il segretario dei radicali ha gridato: "Arrestateci, come fate ogni giorno con migliaia di consumatori". Pannella ha lanciato una frecciata al premier: "Ci sono le telecamere, ma lui no, come mai?" Si sono arrampicati sul palco della sala congressi dell’Hotel Excelsior di Cianciano, con una solerzia degna dei gendarmi con i pennacchi di Bocca di rosa, e hanno strappato dalle mani di Rita Bernardini la sacca con dentro le bustine di cannabis. Gli agenti di polizia del commissariato di Chiusi, hanno regalato così la giusta visibilità a una battaglia che da anni i radicali italiani conducono accanto ai malati italiani che vogliono, e dovrebbero, potersi curare come prevede la legge, usando cannabinoidi per alleviare le loro sofferenze. Sono malati di Sla, di sclerosi multipla, pazienti oncologici, e persone affette da altre malattie gravi, che nell’uso del Thc, il principio attivo della marijuana, trovano conforto. Alla fine della sessione mattutina della terza giornata del congresso dei radicali italiani, la polizia è intervenuta mentre il segretario portava a termine l’azione conclusiva della III disobbedienza civile sulla cannabis terapeutica, cedendo simbolicamente le bustine di marijuana provenienti dalle diciotto piantine coltivate da Marco Pannella, dalla presidente Laura Arconti e dalla stessa Bernardini, ad Andrea Trisciuoglio, affetto da sclerosi multipla e segretario dell’Associazione Lapiantiamo Cannabis Social Club Racale, vicino Lecce. L’intervento degli agenti, a dire il vero un po’ grottesco, è arrivato dopo che Bernardini aveva intro- dotto la sua azione spiegando la campagna a favore della legalizzazione della canapa, e di sostegno e di impegno concreto per aiutare le persone che ne hanno bisogno ad accedere ai farmaci cannabinoidi. I radicali chiedono che sia reso effettivo l’accesso ai farmaci oggi solo teoricamente consentito dalla legge Turco del 2007. "Oggi, - spiega Bernardini - solo alcune decine di malati, di fronte alle decine di migliaia di persone che ne hanno bisogno, riescono ad avere accesso a questi farmaci tramite le asl. Lo stato italiano importa dall’Olanda il bedrocan, il farmaco in questione. A un malato di Sla ne servono 2 o 3 grammi al giorno. E l’Italia lo paga 35 euro al grammo. Significa che a un malato servono 70 euro al giorno per potersi curare". E i tanti che se lo fanno prescrivere senza copertura da parte del sistema sanitario della Regione (sono poche quelle che coprono le spese, come Puglia e Toscana) va incontro a una scelta obbligata: o spendere migliaia di euro al mese per evitare atroci sofferenze, oppure rivolgersi al mercato delle mafie, o in tanti casi assumere morfina, una sostanza che, se assunta a lungo, arreca effetti molto negativi alla persona. Marco Pannella è intervenuto dicendo che "La non violenza è questo: lottare per far rispettare allo Stato le proprie leggi. Credo che nei prossimi 2/3 anni noi otterremo a livello mondiale la legalizzazione". Quando Rita Bernardini tira fuori le bustine, il funzionario balza sul palco e le afferra. Inizia una contrattazione per la consegna. I radicali passano la parola a Trisciuoglio, che dice: "Qui non stiamo parlando di persone che si fanno le canne, ma di persone malate, che hanno tumori a grappoli, cefalee fortissime, che stanno per morire. Qui stiamo facendo un’associazione a delinquere per questo". "Lapiantiamo", fondata da Trisciuoglio assieme ad altri malati, è un’associazione che da alcuni anni conduce una coraggiosa battaglia di disobbedienza civile per ottenere una reale accesso alle terapie a base di cannabinoidi per tutti gli italiani che ne hanno bisogno. Incuranti della richiesta di lasciare almeno che le bustine vengano simbolicamente consegnate nelle mani di Andrea, gli agenti portano via le bustine "per analizzarle", mentre Pannella si chiede come faranno ad essere sicuri che le bustine controllate non vengano sostituite con altre. "Io sono finito in galera perché mi accusavano di aver fumato cannabis e poi ci sono voluti tre anni per accertare che non era vero". Rita Bernardini grida al microfono: "Da 30 anni chiediamo di essere arrestati perché sia fatto nei nostri confronti quello che ogni giorno viene fatto ai privati cittadini, che vengono arrestati per coltivazione di cannabis. Vogliamo che le leggi dello Stato siano applicate e siano vive. Quindi ci aspettiamo che dopo aver accertato che il principio attivo è quello della cannabis, tornino qui e ci arrestino come i migliaia di ragazzi che finiscono in galera tutti i giorni". Tra le grida rivolte ai poliziotti e gli applausi al tavolo dei relatori, Marco Pannella ha preso parola per tirare qualche stoccata al presidente del Consiglio: "Mi pare proprio che non ci sia, sta dappertutto, ci sono le televisioni, e non c’è Matteo Renzi, manca proprio qualcosa qua". E poi, facendo riferimento alle paure di una dismissione del partito radicale, dopo la sua dichiarazione di voler richiedere la tessera Pd, rassicura tutti i presenti: "Questo è il congresso radicale - scandisce al microfono - ha precedenti e ha un avvenire. Avanti radicali!". Oggi sono attese le conclusioni di Marco Pannella e le elezioni dei nuovi componenti del Comitato nazionale. India: un film per non dimenticare Elisabetta e Tomaso, gli italiani da 4 anni in carcere di Francesca Rosso La Stampa, 2 novembre 2014 Una vicenda incredibile, una storia di calcio e di amicizia, e tra poco un film dal titolo "Più libero di prima" sulla vicenda di Tomaso Bruno in carcere in India da oltre 1600giorni insieme alla torinese Elisabetta Boncompagni. "Hanno rinchiuso il mio corpo in carcere, ma la mia mente è libera e il mio cuore vola con lei". Scrive in una lettera da Varanasi Tomaso. Lui di Albenga, e lei di Torino, sono condannati all’ergastolo senza prove per la morte del compagno di lei, Francesco, 4 anni fa. In attesa di una sentenza della Corte Suprema dopo viaggi, avvocati, ricorsi e rincorse. Ora il regista Adriano Sforzi, classe 1978, vincitore del David di Donatello con il corto "Jodi delle giostre", sta girando un film. Per non dimenticare una storia che può capitare a chiunque di noi. Si chiama "Più libero di prima". Per realizzarlo ha chiesto appoggio a due produttori: Stefano Perlo di Ouvert a Torino e Ivan Olgiati di Articolture a Bologna e ha lanciato un crowd-funding. Obiettivo raggiunto: sono stati raccolti oltre 12.000 euro per una nuova spedizione in India e raccontare i giorni prima della sentenza definitiva. "Conosco Tomaso - racconta Sforzi - da quando eravamo bambini. Albenga è la città di mia mamma anche se io sono un circense da 8 generazioni e ho sempre girato. All’inizio pensavo fosse uno scherzo, poi la vicenda è diventata troppo grande. Non sapevo come affrontarla. Leggendo le sue lettere ho trovato la chiave per il film. Era già tutto lì. Come canta Vasco "le canzoni sono come i fiori, basta coglierle. Io faccio solo da tramite". Il film è un romanzo di formazione: racconta di un ragazzo anticonformista, perennemente insoddisfatto che entra in carcere e diventa un uomo senza odio e rancore, in pace con se stesso, capace di tranquillizzare genitori e amici. Una comunità "Non è un film di inchiesta o denuncia- prosegue il regista-mala trasformazione di una persona. Intorno a lui i genitori, l’associazione "Alziamo la voce" che ha fatto magliette, concerti, raccolte fondi e Albenga che è diventata una comunità". Tomaso ed Elisabetta sonoincarceredapiùdi4anni,da aprile a ottobre la temperatura sfiora i 50 gradi e a volte manca la corrente. Non hanno accesso al telefono o a Internet, possono solo comunicare tramite lettere. C’è da chiedersi cosa tiene Tomaso ancorato alla realtà? "Il calcio - il tono di Sforzi si scalda. I genitori comprano tutti i giorni la Gazzetta dello Sport e ne spediscono pacchi da 150. Tomaso legge e commenta con 3 mesi di ritardo, come se fossimo al baretto la domenica pomeriggio. Lui è interista, io sampdoriano. Ero il suo allenatore di calcio all’oratorio. Ora la realtà è ribaltata, è lui che Educa me a resistere". Marina, la madre di Tomaso è una donna straordinaria. Da quattro anni vive mezza vita in Liguria e mezza a Varanasi. Una nuova strana vita. È fiduciosa e aspetta la sentenza fissata per l’11 novembre dopo i recenti slittamenti dovuti al compleanno di Gandhi e alla festa di Diwali e a un fascicolo che scivola sempre troppo in fondo alla pila deicasi. "Vado a trovarlo 3 volte la settimana - racconta Marina - e gli porto le notizie. Lui non sa nulla. Sta bene, è sereno e positivo e dice "è inutile arrabbiarsi, ci facciamo solo del male". La Farnesina e l’ambasciatore stanno facendo il possibile, ma il film è un’occasione per aiutarci a tenere viva l’attenzione sul caso". Quando uscirà il film? Per Sforzi non ci sono dubbi: "Quando Tomaso ed Elisabetta saranno a casa". Vietnam: dissidente; il governo usa i detenuti politici come merce di scambio nei negoziati www.asianews.it, 2 novembre 2014 Nguyen Van Hai: "Non sono stato rilasciato, ma deportato". Egli non ha potuto salutare la famiglia e gli amici. E lancia un appello alle diplomazie internazionali, perché trattando con il Vietnam "mettano la democrazia e i diritti civili" come precondizione ad accordi. Gli hanno imposto di firmare un documento in cui chiedeva "perdono" per le sue (presunte) attività di "propaganda contro lo Stato", poi lo hanno cacciato a forza a bordo del primo volo per gli Stati Uniti, con i soli vestiti che aveva indosso all’uscita di prigione. Così il governo vietnamita ha "graziato" e rilasciato il blogger e attivista Nguyen Van Hai, meglio conosciuto con il soprannome di Dieu Cay, condannato a 12 anni di prigione nel settembre 2012 per aver promosso attività sovversive. In realtà, più che un rilascio dovuto a un atto di clemenza, egli conferma in un’intervista all’Ap che si è trattato di un provvedimento governativo di "espulsione" e "deportazione" per un lungo esilio in territorio americano. Al momento di uscire di prigione, il 62enne Nguyen Van Hai ha opposto una ferma resistenza e si è rifiutato di firmare il documento presentato dalle autorità; egli ha sempre rivendicato la propria innocenza e anche all’ultimo ha voluto ribadire di non aver commesso alcun crimine. Hanoi non ha voluto lasciargli alcuna alternativa, se non quella di abbandonare il proprio Paese per un esilio forzato negli Stati Uniti. "Mi hanno portato dalla prigione all’aeroporto internazionale di Hanoi" racconta all’Ap, "scortandomi fino al velivolo. Non mi hanno lasciato vedere i miei familiari prima della partenza. Non si può parlare di rilascio. Se mi avessero restituito la libertà, avrei potuto tornare a casa invece di andare all’aeroporto, senza salutare famiglia né amici". Al momento della scarcerazione, avvenuta il 21 ottobre scorso, Hanoi ha parlato di rilascio per "motivi umanitari". E un portavoce del Dipartimento di Stato afferma che è stato lo stesso Dieu Cay a voler viaggiare negli Stati Uniti. Nguyen Van Hai accoglie con favore il rilascio di alcuni detenuti politici dalle carceri vietnamite negli ultimi tempi, ma esprime forti dubbi sulle motivazioni alla base dei provvedimenti. Non è ammissibile, afferma, che il governo vietnamita usa i prigionieri politici come "merce di scambio nei negoziati diplomatici". Mi auguro, aggiunge, che tutti i governi che trattano con Hanoi "mettano la democrazia e gli altri diritti civili come condizione" assoluta da rispettare. Da tempo in Vietnam è in atto una campagna durissima del governo contro dissidenti, blogger, leader religiosi (fra cui buddisti), attivisti cattolici o intere comunità come successo nella diocesi di Vinh, dove si è assistito a ripetuti attacchi contro vescovo e fedeli. La repressione colpisce anche singoli individui, colpevoli di rivendicare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto dei diritti civili dei cittadini. Solo nel 2013, Hanoi ha arrestato decine di attivisti per crimini "contro lo Stato", in base a una norma che gruppi pro diritti umani bollano come "generiche" e "vaghe". Egitto: parteciparono a nozze gay, in 8 condannati a oltre 3 anni di carcere Agi, 2 novembre 2014 Tre anni e mezzo di carcere per aver partecipato a un matrimonio tra gay. È la pena inflitta a otto persone da un tribunale egiziano che aveva imbastito il processo sulla base di un filmato delle nozze apparso sui social network. La corte di Qasr al Nil, al Cairo, aveva accusato i condannati di "istigazione al libertinaggio e ad azioni contro la pubblica" e gli imputati erano stati perfino sottoposti a ispezioni fisiche, dalle quali, ha riferito una fonte della sicurezza, è emerso che "non sono omosessuali". Le ispezioni effettuate riportano alle mente il triste trattamento riservato alle manifestanti di piazza Tahrir da parte dei militari al tempo di Mubarak, nella primavera del 2011, per verificare che queste fossero vergini. Il procuratore generale, Hisham Barakat, ha definito le immagini nel filmato "vergognose, riprovevoli, un’offesa a Dio". La legislazione egiziana non punisce esplicitamente l’omosessualità ma si limita a indicare un reato il "libertinaggio", definizione che però spiana la strada a interpretazioni elastiche da parte di una magistratura addestrata, spesso, all’osservanza della sharia. Lo scorso 25 settembre un altro tribunale egiziano aveva condannato per "libertinaggio" sei uomini a due anni di carcere e ai lavori forzati e ad aprile erano state sanzionate con pene dai tre agli otto anni di carcere condotte "devianti e immorali" di uomini che avevano relazioni omosessuali. Iran: tenta di assistere a gara volley, cittadina britannica condannata a un anno di carcere Agi, 2 novembre 2014 Un tribunale iraniano ha condannato ad un anno di carcere una britannica di origine iraniana che aveva tentato di assistere ad una partita di pallavolo maschile, violando le leggi del Paese che proibiscono alle donne di assistere ad eventi sportivi maschili. Lo ha comunicato l’avvocato della donna all’agenzia Ilna. Ghoncheh Ghavami, 25 anni, studente di legge all’Università di Londra e laureata alla Scuola di Studi orientali ed africani nella capitale britannica, fu arrestata insieme ad altre donne il 20 giugno mentre manifestava all’esterno dell’impianto sportivo e rilasciata su cauzione poche ore dopo. Qualche giorno più tardi Ghavami tornò al commissariato per richiedere alcuni oggetti personali che le erano stati sottratti durante l’arresto, ma fu ammanettata di nuovo con l’accusa di "propaganda contro lo Stato" e fu rinchiusa nella prigione di Evin, a nord di Teheran. Secondo diversi media britannici, ad ottobre aveva iniziato uno sciopero della fame durato 14 giorni, ma le notizie sono state smentite dalle autorità iraniane. Il 14 ottobre è stata giudicata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran, la cui sentenza è stata resa nota oggi. Siria: Fronte al Nusra; accordo preliminare per liberazione militari libanesi prigionieri Nova, 2 novembre 2014 Il Fronte al Nusra, gruppo armato della guerriglia siriana legato ad al Qaeda, ha annunciato che è stato raggiunto un accordo preliminare con le autorità di Beirut per arrivare alla liberazione dei militari dell’esercito di Beirut da loro detenuti. Il gruppo jihadista ha reso noto che le autorità libanesi avrebbero dato il loro via libera alle tre proposte avanzate tramite i mediatori qatarioti per arrivare alla liberazione dei militari catturati ad Arsal lo scorso agosto. Il mediatore qatariota, Ahmed al Khatib, è tornato ieri ad Arsal dopo aver informato le autorità di Beirut delle tre richieste dei jihadisti. Il Fronte al Nusra chiede la liberazione di diversi detenuti legati al proprio gruppo presenti nelle carceri libanesi e in particolare che i jihadisti stranieri detenuti in Libano vengano consegnati alle autorità turche.