Giustizia: servono riforme efficaci, non nuovi reati che nascono su spinta dell’emotività di Luigi Riello* L’Espresso, 29 novembre 2014 Montesquieu, che se ne intendeva, sosteneva che "è vero che talvolta occorre cambiare qualche legge, ma il caso è raro e, quando avviene, bisogna ritoccarle con mano tremante, con tante solennità e con tante precauzioni che il popolo debba concluderne che le leggi sono veramente sante e soprattutto con tanta chiarezza che nessuno possa dire di non averle capite". Saremo maligni, ma non ci sembra che l’insegnamento del grande pensatore francese sia stato molto seguito dal nostro legislatore, soprattutto nel settore della giustizia penale: essa è da anni un laboratorio di sperimentazioni, il che ha consentito che venissero partorite non di rado leggi "usa e getta", nate sotto la spinta propulsiva del contingente e dell’emotività, volte a risolvere casi concreti e non a servire interessi generali, pendolari tra garantismo e giustizialismo. Certo, le leggi non sono immutabili ed hanno anzi la funzione di fornire tempestive risposte alle mutevoli esigenze di una realtà storico-sociale in perenne evoluzione, ma è pur vero che si deve sapere ciò che si vuole, almeno a media scadenza. Non è un caso che mentre per la giustizia civile, il governo è riuscito a varare un decreto-legge finalizzato al dichiarato (anche se temiamo non centrato) obiettivo della velocizzazione del processo, con riferimento al settore penale, si è messa molta carne a cuocere (intercettazioni, prescrizione, falso in bilancio), ma si procederà, in linea di massima, sul binario dei disegni di legge che, si sa, non è quello dell’alta velocità. Qualcosa, invero, poteva essere realizzato con immediatezza e ci riferiamo, nel contesto del sistema delle impugnazioni, soprattutto al giudizio di legittimità, non potendosi più consentire - l’argomento è stato già affrontato da chi scrive sul "Corriere della Sera" di alcuni mesi orsono e da Giancarlo De Cataldo su "l’Espresso" numero 46 - che la Corte di cassazione, unico caso in Europa, sia letteralmente inondata da ricorsi inammissibili anche perché (talora dichiaratamente) strumentali, il che si riflette sulla funzionalità e sulla dignità dell’intero processo. Riteniamo che se è indispensabile restringere il perimetro della sanzione penale e, segnatamente, della custodia carceraria ai fatti davvero allarmanti e ricorrere, per il resto, a sanzioni amministrative ovvero a misure alternative, non si deve strategicamente rinunciare a disegnare un sistema fondato su sanzioni effettive e non uno che minacci pene virtuali. Il Presidente Renzi ha pochi giorni fa rassicurato (si fa per dire) il padre di un povero ragazzo ucciso da un pirata della strada, impegnandosi a far varare al più presto il delitto di omicidio stradale che prevedere pene più severe di quelle attuali. Bene. Ma se non cambia il sistema - che è volutamente fondato, diciamolo chiaramente, sulla non effettività delle pene - anche tale riforma rischia di restare una norma-manifesto e le pene da essa previste, al pari di quelle, nemmeno tanto basse oggi comminate, un tragico bluff. Nel settore penale, pochi patteggiano confidando nella prescrizione; in quello civile chi non paga i suoi debiti (e non di rado questo "chi" è lo Stato, sono gli enti locali, le pubbliche amministrazioni) è incoraggiato a farlo per il semplice motivo che è più conveniente pagare 120 tra dieci anni che 100 oggi. Se vi fossero paletti dissuasivi, per imputati e professionisti dell’insolvenza cambierebbe tutto. Certo, noi magistrati - che per lo più siamo le vittime e non gli artefici dello sfascio, che siamo i più produttivi d’Europa e che pur veniamo da non pochi dipinti come un’allegra brigata di sfaticati e festaioli (quante fuorviami inesattezze sulle nostre ferie!) - faremo il nostro dovere sempre, comunque e fino in fondo, ma sarebbe stupido non accorgersi del senso di frustrazione che serpeggia in modo sempre più forte tra i colleghi, anche e soprattutto tra quelli più giovani e motivati: è amaro, ma realistico affermare, parafrasando Corrado Alvaro, che la disperazione più grande che possa impadronirsi della magistratura è il dubbio che fare il proprio dovere sia inutile. Speriamo, in definitiva, che si proceda con relativa speditezza non con un riformismo arruffone fatto di operazioni di maquillage o di mirabolanti effetti speciali declamati e difficilmente realizzabili, ma serio e responsabile, rendendosi conto che una giustizia degna di uno Stato di diritto non si costruisce adeguando i principi alle emergenze, preoccupandosi più di chiudere fascicoli (il che costituisce un’operazione burocratica) che di concludere processi (che significa fare giustizia) e nemmeno assecondando con miopia politica logiche settoriali o intenti punitivi nei confronti di chicchessia, ma pensando finalmente e strategicamente agli interessi dei cittadini, tutelando i diritti e la dignità degli imputati, senza dimenticarsi delle parti offese. *Magistrato e presidente della giunta della Cassazione dell’Associazione nazionale Magistrati Giustizia: la "riforma che non c’è"? la farà un magistrato di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 29 novembre 2014 È una riforma che non c’è, quella annunciata a fine agosto dal premier Matteo Renzi con il ministro della giustizia Andrea Orlando. Non c’è perché "non è una riforma di sistema" e perché non c’è ancora nessuno "dei disegni di legge illustrati". Emilia Rossi, classe 1961, avvocato e impegnata nell’Unione delle camere penali, attacca così il governo: "Anzi semmai c’è alle viste una controriforma, a cui ha lavorato alacremente un magistrato in servizio, Nicola Gratteri", ha detto Rossi a Italia Oggi. "C’è una commissione che non si sta occupando solo degli interventi nel settore penale, per cui è stata specificamente costituita, ma sta predisponendo un pacchetto di riforme del processo". Lavora da tempo sulla giustizia penale, Emilia Rossi, classe 1961, torinese. Professionalmente, essendo avvocata da 25 anni, ma anche come impegno politico, nei Radicali per i quali è stata consigliera comunale a Torino e nella prima Forza Italia, quella liberale degli anni 90, e come impegno civico, essendo da lungo tempo attiva nell’Unione delle Camere Penali. Un profilo che ha portato Rossi a partecipare a tre diverse commissioni ministeriali sulla riforma del Codice penale e di quello di Procedura penale. Domanda. Molte commissioni, pochi cambiamenti. Risposta. Esatto, il lavoro di quegli organismi è rimasto lettera morta: niente o quasi è stato recepito. D. Gli italiani sono sensibili soprattutto al tema della giustizia penale, spinti spesso dalla cronaca. Ma si oscilla fra la richiesta di effettività della pena, di cui ci si ricorda quando scatta qualche patteggiamento, all’indignazione per la carcerazione preventiva. R. Sulla pena si parte spesso da un equivoco. D. Quale? R. L’idea che la giustizia si manifesti con la pena e solo con la pena in carcere. D. E invece? R. È un ragionamento complesso. Veda, negli ultimi 20 anni almeno, la politica ha alimentato la domanda di sicurezza proveniente dai cittadini a cui ha risposto sempre con interventi emergenziali, tutti all’insegna del "più carcere per tutti". D. L’ha alimentata perché? R. Perché è il modo più semplice e immediato per catturare il consenso. Nello stesso tempo e di conseguenza la politica ha abiurato al proprio compito, quello di intervenire nella società e risolvere i problemi, delegando tutto all’azione giudiziaria. Si è fondata cioè l’idea che le questioni di allarme sociale, di turbamento della tranquillità, di soluzione dei conflitti dovessero essere risolte con l’intervento della magistratura e in sede penale. Ecco che allora per ogni cosa che ferisce o allarma la società ci si aspetta una sentenza di condanna che porti a una pena, possibilmente in carcere. D. La domanda di carcere è aumentata, infatti... R. E nella domanda securitaria ci sta tutto, anche il carcere preventivo perché il "delinquente" deve andare in galera subito. Nel nostro Paese è inconcepibile il principio di civiltà per cui, salvo casi eccezionali, al processo si va in stato di libertà. Da questo e dall’idea che l’unica pena possibile sia la detenzione, nasce, di fatto, lo stato di degrado e di inciviltà dei nostri istituti di pena, che ha già subito la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e contro il quale si battono con voce isolata i Radicali. D. E invece? R. Occorrerebbe un processo giusto, nei tempi e nei modi, in cui la durata ragionevole non significhi abbattimento delle garanzie di difesa e dei diritti dei cittadini, imputati e vittime. E che la politica tornasse a fare il proprio lavoro anziché delegarlo ai Tribunali. D. Situazione paradossale: a questa delega alla giustizia ha coinciso, nel- lo stesso periodo, l’invasione sistematica del campo politico da parte della magistratura, regolando tutto, dall’Ilva a Taranto alla movida fiorentina, in cui sono stabiliti dal Tribunale con un’ordinanza gli orari dei locali notturni. R. Sembrano elementi contradditori, ma sono una diversa faccia della stessa medaglia. D. Spieghiamolo. R. Da una parte si alimenta l’idea che il Paese sia fatto da corrotti e delinquenti, invocando la risposta delle procure. Dall’altra si lascia che le procure si occupino di tutto, denunciando la propria incapacità a intervenire. D. Ma c’è una riforma della giustizia all’orizzonte. R. Per ora solo quella annunciata, a fi ne agosto dal premier Matteo Renzi col ministro Andrea Orlando, una riforma che non c’è. Anzi semmai c’è alle viste una controriforma, a cui ha lavorato alacremente un magistrato in servizio, Nicola Gratteri. D. Quello che Renzi ha chiamato a presiedere un’apposita commissione. R. Esatto. Una commissione che, stando alle cose che si leggono e che il dottor Gratteri ha detto pubblicamente, non si sta occupando solo degli interventi nel settore penale, per cui è stata specificamente costituita, ma sta predisponendo un pacchetto di riforme del processo. D. Andiamo per gradi. Perché quella della giustizia è una riforma che non c’è? R. Per due motivi. Il primo perché non è una riforma di sistema. Non prevede, cioè, i due punti di partenza fondamentali per la ricostruzione della giustizia nel nostro Paese: la separazione delle carriere tra i magistrati e la revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Senza questi punti di partenza ogni discorso sull’impianto delle garanzie nel processo e anche sul funzionamento della macchina giudiziaria diventa debole e si risolve in interventi di puro ritocco normativo. D. E il secondo motivo? R. Il secondo sta nel fatto che aldilà degli annunci agostani, non si sono mai visti, in seguito, i disegni di legge promessi e addirittura illustrati. Si sono persi di vista i testi, insomma. È rimasto, quello sì, un indirizzo di posta elettronica al quale i cittadini, di cui si auspicava la partecipazione, avrebbero potuto rivolgersi: rivoluzione@governo.it. D. Si voleva fare come per la "buona scuola" anche per la "buona giustizia". R. Sì, ma se non c’è neppure un testo su cui dibattere? Di che parliamo? D. Ma c’è un emendamento che reintroduce la responsabilità civile dei giudici e il disegno di legge sulla giustizia civile. R. È vero. E sulla responsabilità civile dei giudici, bisogna dare atto a Renzi, e soprattutto al ministro Orlando, di aver tirato diritto, resistendo anche alle forti pressioni della magistratura associata. Sul resto, invece, a parte l’introduzione del reato di auto-riciclaggio, ancora in discussione in Parlamento, c’è il mistero assoluto. D. Per contro avanza, come diceva, la riforma Gratteri. R. Sì l’altro ieri, a un convegno fiorentino, Gratteri ha detto che consegnerà al premier un documento articolato in oltre una novantina di punti, praticamente pronto per andare in Parlamento. D. Punti non ancora noti. R. Sì, ma intanto si può notare che un magistrato in servizio delinea una riforma della giustizia e la consegna a Palazzo Chigi escludendo Via Arenula, sede del ministero della Giustizia. D. Qualche idea di questa riforma l’abbiamo letta nell’ultimo numero di Micromega, quello presentato con il titolo esplicito: "Solo il giustizialismo ci può salvare". R. Esatto. Un titolo che dice tutto. D. Ma torniamo alle idee di Gratteri. R. Per quello che si è letto e sentito, le sue idee si basano su un principio di efficientismo, attraverso l’accelerazione del processo penale e la sua informatizzazione, per esempio. D. Perché, non vanno bene? R. L’efficienza non può essere trovata a danno delle garanzie e dei diritti dei cittadini. Si parla di limitare al massimo le impugnazioni, ridurre le possibilità di appello, abolendolo in alcuni casi, ridurre le possibilità di ricorso in Cassazione sui vizi di motivazione di una sentenza, cosicché non ci sarebbe più possibilità di correggere errori di giudizio compiuti e ripetuti dai giudici di merito. E poi si parla di ampliare l’uso della videoconferenza nei processi, oltre a quelli per reati di mafia, escludendo la partecipazione diretta degli imputati. Con gli avvocati che intervengono dai computer nel loro studio. D. Sembrerebbe la riforma dalla parte dei giudici. R. No, caso mai dalla parte dei pubblici ministeri. Le do qualche altro dettaglio. D. Prego. R. La possibilità di inserire nel fascicolo del processo denunce e atti di polizia giudiziaria senza che, invece, chi li ha formati possa essere sentito nel dibattimento: il processo diventa veloce con la mortificazione del principio del contraddittorio e della formazione della prova davanti al giudice, sancito dalla Costituzione. D. Gratteri doveva fare il Guardasigilli, si disse a febbraio, solo che Giorgio Napolitano non volle. E spuntò Orlando, scambiato però con Federica Mogherini alla Farnesina al posto di Emma Bonino. R. Il dubbio è che Renzi si sia costituito un ministro ombra che stia tentando di fare quello che ha in testa in materia di giustizia penale. D. E quale è il pensiero di Renzi in proposito? Sì è opposto i provvedimenti di clemenza ma, alla Leopolda del 2013, si pronunciò duramente contro la carcerazione preventiva ricordando il caso Silvio Scaglia (l’amministratore di Fastweb carcerato per un anno e poi prosciolto, ndr). E poi ha insistito sulla responsabilità dei giudici. R. E infatti, temo che non abbia idee chiare e che gli manchi il filo conduttore delle sue proposte di riforma: non ti puoi indignare su Scaglia e non metter mano alla carcerazione preventiva. Pare che Renzi insegua il clamore popolare e, in questo senso, non ha cambiato verso rispetto alla politica precedente. Il caso Eternit lo conferma. D. Il richiamo alla necessità di rivedere i termini della prescrizione? R. Esatto. Si sta invocando l’abbattimento dell’istituto, in sostanza. Ma la prescrizione è un postulato dello Stato di diritto, l’unica vera garanzia per gli imputati ma anche per le vittime che il processo abbia un tempo utile certo. Lo Stato deve avere un limite temporale alla sua azione e non può essere padrone del suo stesso limite. Sa come si vuol procedere? D. Mi dica. R. Facendo scattare i termini della prescrizione non da quando il fatto è avvenuto, ma da quando si iscrive la notizia di reato, cioè da quando si indaga. Oppure chiudendo il corso della prescrizione all’avvio dell’azione penale o alla sentenza di primo grado: così il processo può continuare all’infinito, con buona pace della domanda di giustizia di imputati e vittime. D. Sulla prescrizione non giova alla causa garantismo una certa politica berlusconiana in materia. R. Dice la legge Cirielli? In materia c’è stata molta disinformazione perché quella legge, per molti reati gravi, ha allungato i termini e ha ridotto il numero delle prescrizioni da quando è in vigore. E comunque, se si pensa che un certo reato sia così grave che un processo debba durare 10, 15 anche 20 anni, perché di questo si parla, si vada a modificare la singola fattispecie di reato, no? Anche perché le statistiche parlano chiaro. D. E che cosa dicono? R. Che il 70% delle prescrizioni sono dovute ai fascicoli che restano dormienti nella fase delle indagini preliminari, negli uffici delle procure. D. Non c’è anche un problema di efficienza dei singoli tribunali? R. Non è un problema di diligenza professionale, di una categoria o di un’altra. È un difetto complessivo del sistema. Che non funziona e andrebbe cambiato dalle fondamenta, catalogo dei reati compreso. D. Depenalizzare dei reati, prevedendo sanzioni amministrative o pecuniarie. R. Anche, ovviamente. D. Senta ma ora che se Napolitano, grande garantista, lascerà, a quale santo dovranno votarsi i garantisti italiani? R. Speriamo che arrivi un altro presidente con la stessa sensibilità. E comunque un altro che ha idee sane in proposito è Papa Francesco. Anzi, sa che le dico? D. Che cosa? R. Che Renzi dovrebbe potrebbe farsela fare dal Papa la riforma, anziché da Gratteri. Giustizia: il ricorso solo all’imputato, ecco perché l’assoluzione non dev’essere impugnata di Gaetano Pecorella Il Garantista, 29 novembre 2014 Non c’è alcuna contraddizione in chi da un lato si oppone alla abrogazione dell’appello nell’interesse dell’imputato, e dall’altro reclama che sin escluso l’appello del pm in caso di assoluzione in primo grado. Sgombriamo il campo da un falso problema: la parità dalle parti. Il primo nodo da sciogliere è l’apparente contraddizione in cui sembra cadere chi da un lato si oppone alla abrogazione dell’appello nell’interesse dell’imputato, e dall’altro reclama che sia escluso l’appello del pm in caso di assoluzione in primo grado. Sgombriamo il campo da un falso problema: la parità delle parti. La parità delle parti è un principio estraneo ai poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato. L’articolo 111 della Costituzione ha elevato la parità delle partì a rango costituzionale soltanto in relazione al contraddittorio. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 26/2007, ha letto il principio di parità delle parti come una specificazione dell’art. 3 Cost. Ha scritto: chi negasse alla parità delle parti il ruolo di un connotato essenziale dell’intero processo, "finirebbe per attribuire al principio di parità dell’art. 111, una valenza derogatoria dell’art. 3". La tesi è del tutto errata: l’art. 3 ha riguardo a situazioni in cui non è consentita una disparità dì trattamento in relazione a talune qualità della persona: sesso, razza, lingua, ecc. Tutto ciò lo ha scritto, in altra occasione, e a tutela del pm, la stessa Corte costituzionale. Con la ordinanza n. 286 del 10.7.2003 ha dichiarato manifestamente infondata la questione riguardante la mancata previsione della soccombenza dello Stato in caso di assoluzione dell’imputato così motivando: "La tesi del rimettente non ha alcuna rispondenza nei lavori preparatori dai quali con nettezza risulta che il principio della parità delle parti trova la sua concretizzazione nell’eguale diritto alla prova e nella regola che questa deve formarsi in contraddittorio, ma non comporta che i poteri e i mezzi di cui le parti sono dotate debbano essere gli stessi, essendovi invece, a questo riguardo, nel processo penale una naturale asimmetria che può essere bensì attenuata, ma non eliminata, collegata com’è, allo ius puniendi che solo allo Stato può spettare". Ci sono almeno due ragioni che sorreggono il diritto ad un secondo grado di giudizio da parte dell’imputato condannato, e che non valgono per il pm in caso di assoluzione. La prima trova il suo fondamento nell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti umani, del 1966, e entrato in vigore nel 1976, in base al quale: "Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge". In caso di condanna in secondo grado, in riforma dell’assoluzione, nessun giudice riesamina "l’accertamento della colpevolezza", e cioè il merito. Non vi è analoga garanzia per il pm. La seconda ragione si ricollega direttamente al diritto di difesa riconosciuto in Costituzione. Così sì è espressa la Corte nella sentenza n. 98 del 1904: mentre "il potere di impugnazione riconosciuto in via di principio all’imputato quale esplicazione del diritto di difesa e dell’interesse a far valere la propria innocenza non può essere sacrificato in vista delle finalità deflattive cui si affida la previsione del giudizio abbreviato", tale riconoscimento non ne comporta "uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie dì intensità pari a quelle assicurate all’imputato dall’art. 24 della Costituzione, il quale non riguarda l’organo di accusa. La configurazione dei poteri del pubblico ministero rimane perciò affidata alla legge ordinaria, che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 della Costituzione. D’altronde non può disconoscersi come la vigente disciplina preveda, in alcune fasi del procedimento penale, talune posizioni di vantaggio per l’organo d’accusa, il che non fa apparire irragionevole che il legislatore, per realizzare a pieno il diritto di difesa costituzionalmente garantito e ristabilire la parità processuale, munisca in altre fasi l’imputato di altri poteri cui non debbano necessariamente corrispondere simmetrici poteri per il pubblico ministero, fatte salve ovviamente le posizioni a questi costituzionalmente garantite ai fini del complessivo assolvimento delle sue attribuzioni". La Corte ha quindi sancito espressamente una disparità tra le parti rispetto al diritto ad impugnare, disparità che ha le sue basì nella stessa Costituzione: "la diversità dei poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all’imputato e al pubblico ministero è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro assicurata dagli articoli 24 e 112 della Costituzione". Solo una obiezione potrebbe ancora farsi: l’appello dell’imputato, in caso di condanna, e di successiva assoluzione, non si scontra con la regola del 111 secondo cui la prova deve formarsi davanti a un giudice terzo e imparziale, e cioè davanti al giudice che dovrà emettere la sentenza; ciò si sostiene, invece, nel caso dell’appello del Pubblico ministero nei confronti di una sentenza assolutoria. In realtà non vi è alcuna contraddizione, per il semplice motivo che la regola è stata scritta a garanzia dell’imputato, e perciò non può essere trasformata in un limite ai suoi diritti. (...) Gli input che vengono dalla Cassazione dovrebbero risvegliare il Parlamento perché stabilisca questo principio: "La sentenza assolutoria non può essere riformata in peius se coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato non abbiano sentito i testimoni e non abbiano valutato la loro attendibilità in prima persona". Che è poi quanto ha prescritto la Corte europea dei diritti dell’uomo. Giustizia: Giovanni Canzio; io ho proposto una riforma garantista, poi è arrivato Gratteri di Errico Novi Il Garantista, 29 novembre 2014 Il Presidente della Commissione ministeriale denuncia: "Ho proposto una riforma garantista, ora c’è un altro organismo consultivo che teorizza tutto il contrario". Sabelli (Anm): "per noi le modifiche del governo sono deludenti". Come spesso accade anche per la riforma del processo tutto sembra immobile per anni finché tutto sembra dover succedere nello stesso istante. I progetti di riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando si incrociano con il precipitare di alcuni fatti di cronaca giudiziaria, a cominciare dalla sentenza del processo Eternit. Ne viene fuori un’improvvisa e inedita attenzione dell’opinione pubblica per aspetti molto tecnici dell’ordinamento, qual è l’istituto della prescrizione. Con un notevole tempismo, l’Unione camere penali a sua volta organizza un convegno su "Quale futuro per il processo d’Appello". Nel corso della mattinata si avvicendano sul palco della Residenza di Ripetta a Roma alcuni esponenti di primo piano dell’avvocatura penale. Nel pomeriggio incrociano i fioretti due figure centrali nel dibattito: da una parie il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, dall’altra il presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio. Con il primo che si lamenta della scarsa incisività delle misure ipotizzate dal governo, e il secondo che denuncia i contrasti fra le proposte della commissione ministeriale da lui stesso presieduta e quelle della commissione Gratteri. Due visioni non proprio affini dal punto di vista culturale, tra le quali si propone come moderatore l’avvocato Giovanni Flora. Componente della giunta dell’Unione camere penali. Ecco una sintesi dei loro interventi. Giovanni Flora Secondo alcune posizioni che anche nel confronto parlamentare si fanno strada, abolire l’appello sarebbe l’unico modo per rispettare quei tempi del processo che l’Europa ci impone. Non capisco questa logica: se l’obiettivo è far durare meno i processi, l’uomo della strada direbbe "che senso ha, io non lo capisco". Dov’è che i processi si allungano? Nelle indagini preliminari. Anche le ultime statistiche, diffuse da questa mattina dal viceministro Costa, ci dicono che il 60-70 per cento delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari. Bisognerebbe cominciare da lì per dare al processo un impulso sulla ragionevole durata che sarebbe un impulso per evitare l’impunità ma anche per tutelare la vittima del reato. Arrivare a sentenza in tempi brevi è l’unico modo per avere la certezza della pena. La prima domanda è perché si deve cominciare proprio dal giudizio di Appello, per garantire la ragionevole durata? Rodolfo Sabelli Ragionevole durata, prescrizione e appello sono tre temi legati tra loro. Ma affrontare il tema della ragionevole durata operando sulla riforma della prescrizione o dell’Appello, è un approccio scorretto. Sì discute in effettui anche di abolizione dell’Appello. Noi in ambito associativo non abbiamo ancora elaborato un’idea definita sulla riforma impugnazioni, ma ad alcuni punti ci siamo arrivati. Di sicuro le riforme nel campo della giustizia non possono ispirarsi a criteri economicistici. Non è che si decide di escludere la re formati o in pejus, il grado di Appello o di modificare alcuni aspetti del processo civile solo perché così la è giustizia più veloce e si produce di più. La giustizia deve garantire dei diritti, e in vista di questo non si possono operare compromessi in nome della produzione. Ciò detto, io non sono contrario a modifica dell’Appello. Su questo ho un’idea diversa da altre pure diffuse, Si deve muovere da quella che dovrebbe essere la natura dell’Appello, in questo processo che è di tipo accusatorio od è dunque cambiato rispetto a quello inquisitorio. Ma c’è l’errore culturale di valutare ogni momento processuale intermedio come una fase di arresto che si oppone a fase successiva. Invece dovrebbe si dovrebbe concepire l’intero procedimento come dialogo dei giudici, fra i giudici con le parti, che giunge fino a conclusione, che è la sentenza definitiva. Dopodiché, si deve scegliere tra le due visioni dell’Appello: rinnovazione del processo, conoscere per riaccertare i fatti, o verifica di quello che e accaduto nel grado precedente? Forse è una semplificazione eccessiva che però può essere utile. La Cassazione ha affermato la necessità, per esempio, che nel secondo grado sì proceda alla nuova acquisizione della prova testimoniale qualora venga messa in dubbio l’attendibilità del testimone. Il tema della riforma dell’Appello è tra quelli all’attenzione del governo. Circolano bozze informali. E devo dire, si tratta di interventi molto limitati e poco soddisfacenti. Si riducono nel trasformare in diritto positivo il tema della rivalutazione delle prove.. Sarebbe auspicabile andare nel senso di una maggiore definizione dei motivi di Appello. Ci sono casi dì inammissibilità formale, nella bozza del governo, ma niente altro. Giovanni Flora A questo punto avrei la tentazione di aggiungere una provocazione alla domanda che ho fatto al dottor Sabelli. Sono d’accordo sul fatto che il processo, dalla fase delle indagini al giudicato, va valutato nel suo complesso. Ecco, ma se vale la presunzione di non colpevolezza, una volta che il giudizio di primo grado si conclude con l’assoluzione, vuol dire che la possibilità di condannare oltre ogni ragionevole dubbio non ha più ragione di essere, ma allora perché è deve essere contemplato l’Appello del pm? Giovanni Canzio Dobbiamo partire da un limite della riforma del processo penale, datata 24 ottobre 1989: non aver fatto la riforma delle impugnazioni. Con questo obiettivo si sono messe al lavoro la commissione Riccio nel 2007 e quella da me presieduta l’anno scorso, che ha avuto Giorgio Spangher come vicepresidente. Si è cercato di ridare un assetto ordinato a un sistema sgangherato che avevamo tutti davanti agli occhi. Nel caso della nostra commissione si era pervenuti a un articolato, non a una semplice relazione. Il nostro testo è stato in parte recepito nella bozza governativa, in parte è stato contrastato da un’altra commissione ministeriale, che si è insediata alla presidenza del Consiglio, e che a volte sembra manifestarsi quasi come un’espressione del Csm. Non voglio occuparmi specificamente di questo "contrasto", ma a me sembra che così poi si rischi di non far venire alla luce progetti articolati. D’altra parte non portare a compimento il lavoro che abbiamo condotto l’anno scorso sarebbe un’occasione sprecata per il Paese. Le cronache giudiziarie dicono che questo convegno è una scelta indovinata: dalla sentenza d’Appello sul caso Cucchi a quella, nel suo piccolo, della Corte d’Appello di Milano su Berlusconi, fino al proscioglimento per intervenuta prescrizione sul caso Eternit. Non possiamo ignorare i fatti di cronaca. Noi verifichiamo lo scarto della postmodernità tra i tempi delle indagini preliminari, e le aspettative dell’opinione pubblica. Nella fase delle indagini, con la formulazione delle ipotesi di accusa, si crea un pregiudizio mediatico. Che poi fa i conti con i tempi troppo lunghi e incerti della verifica dell’accusa. Se non riusciamo a rovesciare questa contraddizione ci troveremo in una morsa. Che è la morsa tra il diritto e la giustizia. Tra la giustizia formatasi nella mente dei cittadini e la verifica dell’ipotesi accusatoria, cioè il diritto. Dobbiamo costruire lo basi di un processo penale moderno, che riesca a coniugare da una parte le garanzie di durata ragionevole e dall’altra le aspettative della società di conoscere i fatti, persino le ansie securitarie. Oggi lo scarto tra processo mediatico e penale sta creando fratture gravi. L’accusa apre un dialogo tra con la stampa e la cosiddetta "gente". Fino a che il pm, anziché intessere il dialogo con i protagonisti del processo e lo fa con i media e con la gente, si allargherà sempre di più un nucleo opaco. Non si può approfittare della lunghezza delle indagini preliminari e dell’ipotesi di accusa che si incista nella pubblica opinione. E poi di fronte a una valutazione tardiva - e magari anche errata, perché no - muoversi sul terreno di quello che io definisco populismo giudiziario. Bisogna respingere l’ipotesi della separazione delle carriere? Bene allora, dubbiamo avere il coraggio di battere e sconfiggere queste posizioni, altrimenti sarà ineludibile la sorte dei rapporti tra pubblici ministeri e giudici, Ora vi dico che cosa ha combinato questa commissione che ho presieduto l’anno scorso. Abbiamo individuato le linee urgenti e alcuni punti fermi. Il primo di questi è preservare il doppio grado di giurisdizione. La Costituzione implicitamente ci dice che si pretende una sentenza con motivazione obbligata, e che questa riguardi il fatto e il diritto. Ma questo fatto chi lo controlla, se la Cassazione finisce per occuparsi solo delle violazioni di legge? Ci sarebbe anche un’altra strada: un sistema all’americana, che si ferma al primo grado. Ma è una scelta di fondo, e noi non siamo americani, abbiamo la nostra storia, cerchiamo di fare il conto con i principi e quello che siamo. Tra le proposte di modifica che abbiamo definito con Spangher c’è il ritorno in Appello per le archiviazioni e le sentenze di non luogo a procedere: che c’entra Cassazione? In questi casi si deve andare in Corte d’Appello. E poi attenzione, abbiamo tipizzato non i motivi d’appello ma la motivazione della sentenza di primo grado. Abbiamo ripristinato il concordato della pena in Appello. È richiesto da tutti gli avvocati. Vanno fissati dei criteri direttivi per tutti i procuratori generali. Poi abbiamo recuperato i principi della Convenzione europea sulla rinnovazione in Appello: come si fa a rivalutare la prova dichiarativa senza riassumere prova dichiarativa in secondo grado? E di fronte a un caso di sentenza "doppia conforme" di proscioglimento o assolutoria, bisogna limitare il ricorso del pubblico ministero ai casi dì violazione di legge. Perché quel fatto è stato accertato, l’accusa non può andare in Cassazione in punto di ricostruzione probatoria del fatto. Lì è in gioco la presunzione di innocenza dell’imputato. Due sentenze che hanno assolto l’imputato nel merito non possono essere equiparate a due sentenze che hanno condannato oltre ogni ragionevole dubbio. La presunzione d’innocenza deve valere anche in Cassazione. Insomma, abbiamo cercato di ripristinare l’efficienza del processo penale: senza togliere una sola garanzia all’imputato, ma solo di rendere più celere il processo, con interventi sui patteggiamenti o su quelle inammissibilità delle impugnative che possono essere valutate de plano. Abbiamo cercato di mettere insieme quello che abbiamo chiamato il garantismo efficientista. Giustizia: Viceministro Costa; intervento legislativo per chiarire norma risarcimento detenuti Il Velino, 29 novembre 2014 "In caso di permanenza di contrasti giurisprudenziali, sarà valutata attentamente l’esigenza di adozione di un intervento legislativo volto a chiarire le questioni controverse nell’ambito della nuova normativa sui risarcimenti ai detenuti". È quanto ha affermato, nella Commissione Giustizia della Camera, il Viceministro della Giustizia Enrico Costa, rispondendo all’Interrogazione a firma dell’On. Francesco Saverio Romano su alcune criticità rilevate nell’applicazione della norma. Il provvedimento, come noto, prevede misure risarcitorie e compensative in favore di detenuti e internati che siano stati sottoposti a condizioni di detenzione inumane o degradanti a causa del sovraffollamento carcerario in Italia, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Nell’Interrogazione parlamentare, sono stati evidenziati i rischi di difformità di carattere interpretativo, nell’ambito della Magistratura di Sorveglianza, della nuova normativa: si è registrato infatti un contrasto tra quanti hanno ritenuto necessario il requisito della gravità e dell’attualità del pregiudizio, quale condizione di ammissibilità della domanda, e coloro che hanno ritenuto sufficiente la sola allegazione di pregiudizio subìto per violazione della Cedu, non necessariamente in atto al momento della presentazione della richiesta. "Premettendo che si tratta di materia di stretta interpretazione, sottratta al sindacato del Ministero della Giustizia - ha detto il Viceministro, al fine di assicurare una corretta condivisione dei criteri di interpretazione derivanti dall’applicazione delle nuove norme e di individuare prassi condivise, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha promosso un tavolo di confronto tra Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza, Provveditori regionali ed un rappresentante dell’Avvocatura Generale dello Stato. In caso di permanenza di contrasti giurisprudenziali - ha comunque precisato Costa, sarà valutata attentamente l’esigenza di un intervento legislativo volto a chiarire le questioni controverse". Nel corso dell’intervento, il Viceministro ha anche illustrato le iniziative, di carattere legislativo e organizzativo, promosse dal Governo con l’obiettivo di potenziare gli uffici della Magistratura di Sorveglianza: tra queste, in particolare, l’aumento di cinque unità della pianta organica. Lazio: le Asl firmano intesa per assistenza detenuti, protocollo per nuovo modello di cura Ansa, 29 novembre 2014 Ora c’è un protocollo d’intesa per l’assistenza sanitaria ai detenuti. Lo hanno firmato le Asl Roma A, Roma B, Roma F, Roma H, Frosinone, Latina, Viterbo e Rieti hanno firmato per garantire l’assistenza ai reclusi nel territorio del Lazio. La convenzione prevede la nascita di un modello organizzativo in rete per l’assistenza. E' prevista una revisione organizzativa per i posti- letto di degenza, di Day Hospital e Day Surgery, delle tecnologie e del personale per la migliore presa in carico del paziente sia in termini di assistenza logistica sia di personale sanitario impiegato. Una novità del protocollo d’intesa è rappresentata dalla costituzione di una centrale operativa nel nuovo complesso di Rebibbia che avrà a disposizione il personale sanitario e amministrativo per gestire i diversi interventi sanitari (ricoveri, diagnostiche, visite ambulatoriali, etc.), la mobilità del medico specialista presso gli istituti, la diagnostica strumentale attraverso telemedicina, teleconsulto e teleconferenza: iniziative queste tese ad assicurare la migliore fruizione. Sarà un coordinamento tecnico interaziendale ad assicurare le necessarie azioni per definire una banca dati con le richieste di ricovero e di prestazioni ambulatoriali e per individuare le effettive risorse disponibili, i livelli prestazionali erogati e attesi, i protocolli operativi uniformi, i percorsi diagnostici terapeutici attivabili. Sardegna: Comandini (Pd); agire con maggiore decisione per risolvere il sovraffollamento di Giampaolo Cirronis www.laprovinciadelsulcisiglesiente.com, 29 novembre 2014 "La Sardegna deve andare oltre la sentenza del giorno 8 gennaio 2013 emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo che ha condannato lo Stato Italiano per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, censurando i trattamenti inumani derivanti dall’accertata condizione di sovraffollamento delle carceri". Piero Comandini, primo firmatario di una mozione urgente, insieme agli esponenti del gruppo Pd della maggioranza in Consiglio regionale, ribadisce che nonostante la condanna della Corte Europea e i vari appelli del Presidente della Repubblica la situazione penitenziaria non è cambiata e la Sardegna ha raggiunto limiti massimi, nonostante le denunce fino ad oggi nulla è cambiato per ripristinare le politiche di competenza regionale. Mentre si registra un costante aumento di reclusi sia indigeni che extracomunitari che aspettano mesi per un primo giudizio portando ad un sovraffollamento delle strutture penitenziarie, causando un collasso sulla dotazione di beni indispensabili, molte strutture rischiano la chiusura. Piero Comandini sollecita una risposta da parte del presidente del Consiglio dei Ministri, dal Ministro della Giustizia e dal Ministro delle Infrastrutture e della Salute, e precisa che "la mozione non vuole essere un atto prepotente nei confronti dell’esecutivo regionale, anzi, vuole accendere un riflettore comune sul tema, con l’obiettivo di rafforzare l’impegno e la sensibilità delle istituzioni affinché venga chiarito, all’opinione pubblica, che si sta facendo quanto possibile per verificare che il processo di riordino giudiziario, specialmente degli istituti penitenziari presenti nell’isola, metta in atto un programma di interventi immediati in grado di creare condizioni di vivibilità, ripristinare i servizi e le dotazioni dei beni di prima necessità, nonché di risolvere, nel pieno rispetto dei principi costituzionali e in via definitiva, il problema del sovraffollamento carcerario in Sardegna". Piero Comandini sottolinea che, affinché tutto possa funzionare al meglio, "è necessario potenziare il corpo di Polizia Penitenziaria e definire gli incarichi dirigenziali degli Istituti isolani attestato che, cinque Direttori gestiscono 12 Istituti comprese tre ex Colonie Penali (Mammone, Isili e Is Arenas)". Il trasferimento dei detenuti dal carcere di Buoncammino nella nuova struttura di Uta ha messo in evidenza la situazione di crisi che vive l’intero sistema carcerario, a partire da quello sanitario dove a Uta, carcere modello, attualmente ci sono solo due medici che effettuano il servizio 24 ore su 24, mancano l’archivio delle cartelle cliniche, i telefoni e i computer e, il Centro clinico dove si trovano i farmaci salva vita, non è di facile accesso, da non trascurare inoltre la mancanza di un’ambulanza e il disagio che potrebbe crearsi, in caso di emergenza, per il trasferimento di un detenuto in una dalle strutture sanitarie urbane. Piero Comandini sottolinea che "ogni discorso sulla sanità in carcere non può prescindere dalla condizione dell’uomo, per il quale il concetto di salute non può limitarsi alla mera assenza di malattia in quanto il carcere è una summa di malattie psico-fisiche". Sardegna: Sdr; familiari dei detenuti in ansia per chiusura carceri di Iglesias e Macomer Ristretti Orizzonti, 29 novembre 2014 "L’apertura del carcere di Uta, che sarà inaugurato alla presenza del vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a dicembre, coincide con l’ormai imminente chiusura della struttura detentiva di "Sa Stoia", nel territorio di Iglesias. Lo stesso destino è riservato anche all’Istituto di Macomer (Nuoro)". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso che "entro la metà del mese di dicembre è prevista la conclusione della storia dei due Istituti gemelli. Il cui destino è stato definitivamente segnato sette mesi fa da un decreto ministeriale sospeso temporaneamente ma mai annullato, nonostante le manifestazioni e le proteste di amministratori, familiari, detenuti e volontari". "La riorganizzazione ministeriale del sistema detentivo in Sardegna - sottolinea - è insomma improntata al risparmio e alla razionalizzazione dell’impiego degli Agenti della Polizia Penitenziaria. Il personale attualmente in servizio nelle due carceri sarà infatti utilizzato in buona parte per completare le piante organiche delle nuove strutture, in particolare quelle di Oristano-Massama e Cagliari-Uta, dove saranno concentrati la maggior parte dei detenuti". "È ancora incerto invece il destino dei sex offender dislocati a Iglesias. La struttura del San Daniele di Lanusei non può infatti accoglierli per il sovraffollamento. È quindi probabile che alcuni di loro vengano trasferiti a Sassari-Bancali e altri nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta. L’auspicio è che i trasferimenti avvengano - conclude la presidente di Sdr - tenendo conto della vicinanza alle famiglie e dei programmi riabilitativi in atto. La migliore sicurezza infatti è quella di azzerare la recidiva garantendo con opportuni interventi il recupero dell’individuo durante il periodo di privazione della libertà". Toscana: "I volti dell’alienazione", mostra di Sambonet per spingere chiusura degli Opg di Benedetta Bernocchi www.parlamento.toscana.it, 29 novembre 2014 Dal 2 al 18 dicembre al teatro Chille de la Balanza: 70 studi e 40 disegni. Il garante detenuti: "Opg di Montelupo sia il primo a chiudere, venga rispettata la scadenza del 31 marzo 2015". I volti trasformati dalla violenza dell’istituzione totale. Quaranta disegni e settanta studi di Roberto Sambonet raccontano il disagio mentale di chi ha vissuto in un ospedale psichiatrico. I ritratti che l’artista e designer milanese Sambonet ha realizzato tra il 1951 e il 1952 nel manicomio di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile, saranno in mostra al teatro Chille de la Balanza a San Salvi dal 2 al 18 dicembre. L’esposizione "I volti dell’alienazione", curata dal garante dei diritti dei detenuti Franco Corleone e da Ivan Novelli, è stata presentata questa mattina in Consiglio regionale. "La mostra - ha detto Corleone - vuole essere un richiamo alla responsabilità umana e civile, un tentativo di unire cultura e politica. Si vuole contribuire alla campagna per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari dove sono ancora internate meno di mille persone". "L’auspicio - ha aggiunto il garante - è che la scadenza per la chiusura degli Opg, fissata al 31 marzo 2015, venga rispettata e che lo psichiatrico di Montelupo che ancora detiene 122 internati sia il primo a chiudere". Sambonet ha trascorso sei mesi nei reparti dell’ospedale conducendo una sua personale ricognizione e ha ritratto, a china o a matita, gli internati in una serie di opere di grande intensità, tutte capaci di andare al di là del volto e mostrare pensieri, emozioni, sentimenti. Una sorta di viaggio di umana partecipazione, uno scavo nelle pieghe della malattia e della sofferenza, che fu raccolto nel 1977 nel volume Della Pazzia (M’Arte Edizioni, Milano 1977). Qui l’artista accosta ai ritratti dei malati di mente testi di autori che nei loro scritti hanno affrontato e raccontato il tema della pazzia, come Allen Ginsberg, Domenico Campana, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Edgar Lee Masters, William Shakespeare, Voltaire e altri. Corrado Marcetti della Fondazione Michelucci ha spiegato l’opera di recupero della villa medicea dell’Ambrogiana, ridotta a prigione psichiatrica e spazio dell’alienazione. "Una mostra - ha detto Sissi Abbondanza, di Chille de la Balanza - da vedere per riflettere sul senso della persona". La mostra è stata promossa dalla Società della Ragione, Onlus impegnata sui temi del carcere, della giustizia e dei diritti, umani e sociali, con la collaborazione dell’archivio pittorico Roberto Sambonet e di Stop Opg. L’inaugurazione sarà martedì 2 dicembre alle 18.30 e sarà visitabile da lunedì a sabato con orario 15-19 e domenica dalle 10.30 alle 19. Roberto Sambonet, nato a Vercelli nel 1924, importante pittore, designer e grafico, ha avuto un legame particolare con Milano. Si è formato all’Accademia di Brera e ha partecipato attivamente alla vita cittadina frequentando l’ambiente delle avanguardie artistiche, che avevano come punto di ritrovo il bar Giamaica. Partecipò all’avventura del gruppo dei Picassiani con Cassinari, Morlotti e Treccani. Tra il 1948 e il 1953 si trasferì in Brasile, dove il suo linguaggio artistico visse una maturazione molto importante, che lo condusse verso quell’essenzialità della linea che divenne tratto fondamentale della sua opera, nella pittura, nella grafica e nella produzione di celebri oggetti di industrial design. Cagliari: il nuovo carcere di Uta è "pericoloso", il ministro Orlando deve dire qualcosa di Laura Arconti (Direzione Radicali Italiani) Il Garantista, 29 novembre 2014 Prosegue il Satyagraha dei Radicali: chiedono con forza al Governo e al Parlamento il rientro nella legalità del sistema giustizia in tutte le sue parti, dai processi fino alle carceri. Marco Pannella ha ripreso io sciopero della fame, dedicando la sua azione nonviolenta al caso emblematico di Bernardo Provenzano. Un uomo ormai ridotto una larva incapace di azione e di pensiero, ma tuttora trattenuto in carcere duro, ergastolano ostativo in regime di 41 bis. Ad un governo che ogni giorno colma i canali televisivi di annunci e promesse, ad un Parlamento che non ha degnato di discussione - e forse neppure di lettura - il solenne messaggio costituzionale del Presidente della Repubblica, Marco Pannella rivolge la debolezza del suo corpo provato dal digiuno e la forza delle sue idee e della sua proposta di amnistia e indulto. Un provvedimento di clemenza appare ormai come l’unica ragionevole via per anticipare i risultati futuri delle riforme strutturali disordinatamente ed affannosamente poste in atto dal Governo per fronteggiare le continue condanne della Corte Europea per i diritti umani: sia per la eccessiva lunghezza dei processi (articolo 6 della Convenzione) che per le condizioni della detenzione, di ferocia medioevale (articolo 3 della Convenzione). Accanto a Marco Pannella tutti i militanti, raccolti nelle varie Associazioni e nelle organizzazioni costitutive del Partito Radicale - Non c’è pace senza giustizia, Nessuno tocchi Caino, Associazione Luca Coscioni, Associazione Certi Diritti e tante altre di vario tema e di comuni intenti che operano dovunque nel Paese - stanno conducendo una lotta decennale, per la ricerca della verità su periodi storici che hanno cambiato la vita di popoli interi, per l’affermazione del Diritto e dell’uguaglianza dei diritti umani e civili, in ogni parte del mondo, e l’ostinata richiesta di amnistia e indulto. Ci sono anche molti Radicali che vivono e lavorano solitari, o con pochi altri amici e sostenitori, in città o piccoli paesi spesso ostili alle idee e al metodo radicale; e da soli, in coraggiosa umiltà, ricercano notizie, rivelano gli imbrogli dei politicanti locali, diffondono informazione corretta, manifestano contro gli abusi e si fanno esempio di vita civile: cittadini e non sudditi. Mi piacerebbe nominarli tutti, ma correrei il rischio di dimenticarne qualcuno, che magari proprio in questo momento sta davanti a un carcere portando sul petto un cartello che chiede giustizia, o sta denunciando un abuso altrui dallo scranno di consigliere comunale in un piccolo comune di provincia. Come simbolo di questa militanza ignota citerò - uno per tutti - il nostro uomo a Cagliari, che quando deve comunicare una notizia importante non telefona a Radio Radicale chiedendo di essere intervistato, ma manda una mail ai compagni di Via di Torre Argentina a Roma, perché sappiano che cosa succede in periferia. 23 novembre 2014. Il compagno radicale Carlo Loi comunica via mail da Cagliari: "Evento senza precedenti in Italia, trasferiti in poche ore i 334 detenuti del carcere cagliaritano di Buoncammino alla nuovissima struttura di Uta in provincia di Cagliari". Di seguito, copia-incolla qualche riga di un articolo apparso il giorno prima su La Nuova Sardegna. Ricerco il quotidiano, e leggo che il Questore di Cagliari Filippo Dispenza non nasconde la soddisfazione e l’orgoglio per quella che egli stesso definisce una "operazione storica molto complessa e delicata": "Abbiamo pianificato tutto nei minimi particolari nelle scorse settimane e soprattutto durante l’ultima, con un Comitato ordine e sicurezza pubblica in prefettura e più riunioni tecniche in questura". La competenza per la traduzione dei detenuti è della polizia penitenziaria: l’Unione Sarda dà voce al direttore generale del provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu, che dichiara: "Un trasferimento di un numero così alto di detenuti non era mai stato fatto in Italia", e ne rivendica giustamente il merito. Il quotidiano continua con un pezzo di vago sapore crepuscolare: "L’ammaina bandiera e la copertura della targa del carcere Buoncammino è avvenuta poco dopo la partenza dell’ultimo convoglio. La bandiera è stata poi trasportata personalmente dal direttore del carcere, Gianfranco Pala, a Uta, dove ha iniziato a sventolare nel nuovo complesso penitenziario". Poi riprende vigore l’orgoglio cittadino, quando l’Unione scrive che la capienza del carcere è di 581 posti, con moderne sezioni detentive, sale socialità, spazi verdi, un teatro, una cappella e una cucina attrezzatissima con ben 500 metri quadri "dove saranno cucinati anche i piatti di questa sera: il menù prevede pasta al pomodoro, polpette al forno con fagiolini, frutta e dolce". Al di là del menu previsto per la prima sera, l’Unione Sarda ci dice che i posti disponibili nella nuova struttura sono 581, già colmati per il 57,5% dall’arrivo dei 334 di Buoncammino. Resta il 42,5% di posti liberi: esattamente 247 posti. Mentre il Ministro Andrea Orlando afferma con soddisfazione: "Sulle carceri possiamo finalmente passare dalla fase delle emergenze imposte dal sovraffollamento ad una fase più propositiva e di programmazione che riguarda la gestione del numero dei posti disponibili", io mi chiedo con preoccupazione: dove andranno a prendere i detenuti destinati ad occupare i posti liberi? Conoscendo il metodo delle deportazioni subitanee al solo scopo di "fare ammuina" dandola a bere ai controlli europei (metodo finora attuato per sgomberare le carceri più affollate) è istintivo supporre che magari quei posti saranno occupati da detenuti che hanno i parenti a Torino o a Palermo, tanto per farli soffrire un tantino di più, alla faccia della fase di programmazione vantata dal Ministro Guardasigilli. Passano tre giorni, e cominciano i guai; l’Unione Sarda titola: "Primi disagi a tre giorni dall’apertura del carcere: la struttura è molto più grande di Buoncammino e il numero di agenti di Polizia penitenziaria è insufficiente. Visite sospese e problemi per l’ora d’aria". Che cosa è successo? Le cucine sono andate in tilt (il primo giorno i detenuti hanno pranzato con pane e prosciutto) mentre il sistema automatico per la chiusura delle porte delle celle e delle varie sezioni si è bloccato per guasti al sistema elettronico. I disagi per i detenuti non si contano, comincia qualche momento di tensione. Certo non per la mancanza del promesso menu della prima sera, sostituito da qualche panino al prosciutto, ma per ben altro: le visite dei familiari sospese, l’ora d’aria in forse, per non parlare di quelle tanto vantate strutture confortevoli inutilizzate perché non ci sono uomini in misura sufficiente per la sorveglianza. Viene da pensare che questo "trasloco" sia stato fatto in fretta e furia per consentire al Ministro di vantare la validità delle sue piccole riforme, come quella contestatissima dei famosi 8 euro di risarcimento che nessuno potrà mai rivendicare per le inattuabili documentazioni richieste. Ma forse c’è qualcosa di più, e di ben più grave, sotto l’operazione frettolosa e disastrosa di trasferimento al nuovo villaggio penitenziario di quei 334 sventurati in custodia dello Stato. Sempre grazie alle informazioni trasmesse in Sede dal nostro compagno cagliaritano, apprendiamo che il giornale Casteddu online ha pubblicato, un paio di settimane fa - e quindi prima del trasferimento da Buoncammino ad Uta - quanto segue: "Le nuove notizie in merito alla presenza di materiali tossici disseminati nell’area industriale di Macchiareddu, il territorio dove sorge il Villaggio Penitenziario di Uta, stanno destando preoccupazione tra i detenuti di Buoncammino e i loro familiari per le conseguenze sulla salute. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente della associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento all’inchiesta della Procura della Repubblica di Cagliari che intende accertare se esistano situazioni di mancato rispetto delle norme in materia di protezione ambientale". L’indomani, il 15 novembre, "Ristretti Orizzonti" pubblicava più diffuse notizie sull’argomento: "Desta una diffusa preoccupazione - evidenzia Caligaris - l’avvio della verifica ambientale affidata al Corpo Forestale, anche per le caratteristiche del territorio in cui sono stati edificati i Padiglioni del Villaggio". "In prossimità delle strutture di reclusione, oltre a un impianto fotovoltaico e uno eolico e a una vasca per la raccolta dell’acqua di irrigazione, si trova - ricorda la presidente di Sdr - l’Agrolip Sarda, ex Valriso, stabilimento specializzato nello smaltimento e trasformazione degli scarti di allevamenti e macellazioni da cui si sprigionano miasmi che viziano l’aria rendendola irrespirabile soprattutto in alcuni giorni". Ci si chiede: il ministro Orlando sa tutto questo? L’Amministrazione penitenziaria lo sa? E la Regione Sardegna? E il Ministero della salute? Oppure le Istituzioni sono separate da porte stagne e non comunicano fra di loro? O, peggio: il trasferimento non sarà stato deciso in tutta fretta temendo una decisione della Procura della Repubblica di Cagliari che avrebbe bloccato l’operazione? Quale che sia il motivo di tutto questo pasticcio, se incuria, disorganizzazione, malafede o altro, resta il fatto che quei detenuti che stavano male a Buoncammino non stanno molto meglio ad Uta. E la nuova struttura rischia di rimanere inattiva e di fallire il compito, ad onta del denaro che è costata ai contribuenti italiani. Como: al carcere del Bassone c’è aria pesante, contestato il provveditore Fabozzi di Paola Pioppi Il Giorno, 29 novembre 2014 La protesta dei detenuti durante la visita di Aldo Fabozzi nella struttura dove si sono verificati tre suicidi nelle ultime settimane. La tensione all’interno della Casa circondariale Bassone, non accenna a diminuire in questo periodo. L’ultimo episodio risale a ieri, quando i detenuti hanno ripetutamente battuto sulle sbarre, in segno di protesta, durante la visita del provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi. Agitazione che è rientrata solo quando il provveditore ha incontrato un gruppo di detenuti, i quali hanno spiegato i motivi del nervosismo. Visite che sono programmate periodicamente, ma che in questo caso assumono una rilevanza maggiore e particolare, a fronte delle ripetute manifestazioni di protesta che si sono avute in queste ultime settimane, e dei tre suicidi, che hanno determinato una situazione che non si era mai verificata nel carcere comasco. Una decina di anni fa gli atti di autolesionismo, che a volte sfociavano in suicidi, avevano avuto un’impennata tra le mura della casa circondariale ma non si era comunque arrivati ai livelli attuali, con tre morti concentrate in quaranta giorni. A questo si aggiungono le azioni di protesta dei detenuti, giunte per problemi nella gestione della corrispondenza, per la presenza della direttrice durante la visita di un’associazione di volontariato che presta assistenza ai detenuti, e per altre circostanze simili. Situazione di tensione che si sta manifestando anche con i sindacati di Polizia penitenziaria, che più volte nelle ultime settimane sono intervenuti per sottolineare condizioni ritenute critiche nella gestione interna o nella soluzione di problematiche estemporanee, come l’accumulo di rifiuti speciali edilizi all’interno delle mura. In quest’ultimo caso il Cnpp - Coordinamento nazionale polizia penitenziaria - aveva scritto all’Arpa, per rendere nota la presenza di "materiali di risulta derivanti da lavori edili, tubi neon esausti, vecchie coperte materassi e altro". Tutto lasciato semplicemente all’aria aperta, senza nessuna precauzione o protezione, a circa venti metri dalla mensa di servizio del personale di Polizia penitenziaria. Due giorni fa, un detenuto nigeriano ha incendiato il materasso e altri oggetti in cella, creando il rischio di un danno ben più grave all’interno della sezione, evitato grazie all’intervento degli agenti. Ma ad attirare in modo particolare l’attenzione, sono stati certamente i tre suicidi, per quando non collegati tra di loro. Il primo, un detenuto straniero, risale a metà ottobre, seguito da quello di Maurizio Riunno a inizio novembre all’interno di una cella del reparto osservazione e da quello di Massimo Rosa, detenuto in infermeria. Tra questi, due erano avvenuti in sezioni a particolare sorveglianza e non hanno trovato una spiegazione chiara, anche se molto probabilmente sono riconducibili a sofferenze personali e non causate dalla condizione afflittiva. Inoltre, quando si è tolto la vita Riunno, era in corso un’ispezione del provveditorato per verificare le condizioni in cui era avvenuto il precedente suicidio. Episodi che si stanno manifestando in un momento in cui, dopo anni, il Bassone non vive più la condizione di sovraffollamento patita da anni. Pisa: i detenuti per i lavori di pubblica utilità, la proposta arriva da Volterra Futura Il Tirreno, 29 novembre 2014 "Coinvolgiamo i detenuti in lavori di pubblica utilità". La proposta arriva dal gruppo Volterra Futura. "Sarebbe utile presentare dei progetti concreti all’amministrazione penitenziaria - scrino dalla lista civica - per richiedere di assegnare i detenuti alla realizzazione di opere di pubblica utilità (manutenzioni etc.) con prestazioni volontarie e gratuite. Esiste un Decreto legge (il numero 78/2013) che stabilisce che "i detenuti possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’esecuzione di "progetti di pubblica utilità in favore della collettività" da svolgersi nelle pubbliche amministrazioni, enti e organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato". "Sappiamo che ci sono già una o più persone coinvolte tramite progetti regionali retribuiti, ma questo decreto consente di ampliare il coinvolgimento ad un numero maggiore di persone, con una plurima valenza, sia sociale che di pubblica utilità - continua Volterra Futura - ovvero di ovviare alla cronica carenza di personale dedicato ad esempio alle manutenzioni di aree verdi, del territorio, della viabilità e degli edifici pubblici, senza gravare sulle disastrate casse comunali e senza la necessità di ricercare finanziamenti. Nel contempo rendere questi lavori una parte integrante del percorso di reinserimento sociale e lavorativo del detenuto e che nell’immediato permetteranno di ridurre le ore di permanenza in cella. Il tutto da organizzare compatibilmente alle normative e alle esigenze di sicurezza e in modo complementare alle altre attività culturali e lavorative che già vengono svolte all’interno della struttura carceraria rendendola un’eccellenza, in particolare salvaguardando i progetti della Compagnia della Fortezza e le prospettive per il Teatro Stabile. Esistono esperienze analoghe anche in realtà vicine come Lucca. Diamoci da fare, cosa ne dice il sindaco?". Ancona: la Cna consegna ai detenuti di Montacuto gli attestati del corso per elettricista www.vivereancona.it, 29 novembre 2014 Sgravi fiscali per le imprese che assumono detenuti per il corso di elettricista. Si conclude con la consegna di quindici attestati il corso per elettricista tenuto dalla Cna di Ancona presso il carcere di Montacuto. "L’iniziativa ha un alto valore sociale - spiega Andrea Riccardi, segretario della Cna cittadina - poiché è teso ad insegnare un mestiere che sarà utile per un corretto reinserimento dell’individuo quando avrà finito di scontare la pena. I soggetti formati, grazie al diretto interessamento di artigiani della Cna che hanno svolto il ruolo di docenti esperti, potranno un domani inserirsi nel mondo del lavoro sia come dipendenti, sia come veri e propri imprenditori". Il segretario della Cna dorica precisa anche che esistono sgravi fiscali e contributi per le imprese che intendono assumere detenuti e che, chi fosse interessato, può richiedere questo tipo di agevolazioni come credito d’imposta. La Cna ha così consegnato ai detenuti di Montacuto gli attestati del corso per elettricista e sta per chiudere, sempre con la consegna di attestati di partecipazione, il corso per idraulico che si sta ancora svolgendo presso il carcere di Barcaglione. Livorno: Deputata M5S "non vendete gli animali dell’isola-carcere di Gorgona" Il Tirreno, 29 novembre 2014 L’amministrazione penitenziaria di Gorgona ha in pista una "procedura di alienazione" per cedere 165 animali. L’altolà della deputata M5S Claudia Gagnarli: a rischio il progetto di rieducazione dei 70 detenuti. La spending review colpisce anche gli animali dell’isola-carcere di Gorgona: l’amministrazione penitenziaria deve risparmiare e dal 2 dicembre mette in pista una "procedura ristretta di alienazione" per cedere "165 di questi animali, circa la metà, per un presunto risparmio annuo di 30 mila euro, rappresentato dal cibo necessario al loro sostentamento". A far scoppiare il caso è Chiara Gagnarli, deputata umbra del Movimento Cinque Stelle eletta in Toscana: l’ha fatto con una lettera aperta indirizzata ai ministri Andrea Orlando (Giustizia) e a Gian Luca Galletti (Ambiente), oltre che al premier Matteo Renzi, in cui si chiede "l’interruzione urgente della procedura". Il motivo? "Preservare il progetto di rieducazione dei 70 detenuti" presenti nel penitenziario dell’isola di Gorgona. La Gorgona è "l’ultima isola-penitenziario italiana", dice la parlamentare M5S: "Ospita uno dei pochi carceri "verdi" esistenti nel nostro Paese": i detenuti - spiega - "vivono all’aperto fuori dalle celle, e lavorano in vigna o nell’orto, curando gli animali, producendo formaggi e miele, occupandosi delle manutenzioni e della cucina". È, insomma, "una vera e propria colonia penale laboratorio": l’esponente grillina sottolinea che "dagli anni novanta" vengono portate avanti "tante iniziative, tra cui ricordiamo l’impianto della vigna, grazie alla quale, con la collaborazione dei marchesi dè Frescobaldi, si produce il bianco Gorgona, un vino apprezzato e conosciuto". Gagnarli insiste anche sul "percorso rieducativo con gli animali: bovini, suini, ovini e caprini del carcere non vengono più utilizzati per la produzione né tantomeno per la carne, ma per sviluppare attività di relazione con i detenuti, nella splendida cornice del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, coniugando quindi l’aspetto sociale, morale ed ambientale". La deputata pentastellata sottolinea che Carlo Mazzerbo, storico direttore del penitenziario, spiega che la possibilità di imparare un mestiere "fa abbassare fra i detenuti il dato della recidiva attorno al 20%, a fronte di una media nazionale stimata all´80% tra i detenuti che non lavorano". Gagnarli - che suggerisce la convocazione urgente di un tavolo di confronto "fra amministrazione giudiziaria, enti locali e eventualmente associazioni Onlus a difesa degli animali" - teme che tutto questo finisca per tradursi presto nella cessione degli altri animali mettendo "a serio rischio il successo dell’intero progetto di rieducazione che, piuttosto, andrebbe incentivato, valorizzato e diffuso all’intero sistema penitenziario nazionale". Civitavecchia (Rm): l’On. De Paolis (Sel) in visita al carcere di Borgata Aurelia www.trcgiornale.it, 29 novembre 2014 "Ieri mattina ho visitato il carcere circondariale di Civitavecchia per osservare di persona le condizioni di chi lavora e di chi è in custodia nella struttura penitenziaria della mia città". Lo rende noto il capogruppo regionale di Sel Gino De Paolis, che aggiunge: "con molta attenzione ho anche raccolto il recente appello lanciato dalla Cgil Funzione pubblica, proprio sul quel carcere, affinché le Istituzioni si impegnino a garantire il personale di polizia penitenziaria, che oggi è sottostimato e che necessita di essere implementato per garantire un servizio di qualità". "Con la direttrice Patrizia Bravetti, che ringrazio per la completa collaborazione e per la passione con cui svolge la sua funzione - spiega De Paolis - ho girato tra le sezioni e parlato con i detenuti riscontrando una situazione di massima tranquillità. Un clima sereno, facilitato da regole interne, che consentono a tutte le celle di restare aperte e permettere una certa libertà di movimento per molte ore nell’arco del giorno. È evidente che nonostante la situazione sia molto migliore rispetto a quando il carcere era classificato tra quelli di massima sicurezza (oggi il carcere ospita solo detenuti comuni), vi sono questioni che restano di primaria importanza. In primo luogo la necessità di incrementare le attività che consentono un processo di integrazione e di reinserimento nella società per i detenuti, nel 50% dei casi extracomunitari. Serve, anche attraverso piccoli interventi, mettere in atto progetti che vanno in questa direzione provando a sostenerli nel tempo e allargarli al maggior numero di persone. Per quanto di mia competenza, ho assicurato alla Direttrice l’impegno affinché alla Regione Lazio non si perda di vista quanto sia importante la mediazione culturale non solo per i detenuti, ma per tutti coloro che operano nel carcere. In questo senso raccolgo anche un’altra richiesta relativa alla necessità di avviare un percorso per rafforzare la possibilità per i detenuti di svolgere attività lavorative all’interno della struttura. Una struttura - prosegue il capogruppo di Sel - ben organizzata, che nonostante la scarsità di risorse, riesce a rendere funzionante e vivibile la vita all’interno. Da parte mia, come Consigliere alla Regione Lazio, quindi l’impegno a sostenere il lavoro che la Direttrice sta portando avanti, garantendo gli strumenti necessari, in termini sia di personale impiegato, sia in termini di risorse per i progetti di reinserimento. Faremo la nostra parte, convinti, come sempre, che la collaborazione stretta tra Istituzioni sia la chiave per migliorare la vita nelle carceri italiane". Napoli: terminato il corso di taglio di capelli e colorimetria svolto presso l’Ipm di Nisida da Ass. "Il Carcere Possibile Onlus" Comunicato stampa, 29 novembre 2014 Giovedì 27 novembre 2014, alla presenza del Presidente del Tribunale della Sorveglianza di Napoli - dott. Esposito - e del P.M. presso il Tribunale dei Minorenni - dott.ssa Imperato, si è celebrata la fine del corso di taglio di capelli e colorimetria svolto presso l’Ipm di Nisida, d’intesa con "Il Carcere possibile Onlus" e la "Confederazione artistica e tecnica del coiffeur". Salvatore De Maria, responsabile della Cat, ed i suoi partner, Francesco Bottone e Alessandro Minopoli, hanno riscontrato l’entusiasmo dei giovani detenuti di Nisida che hanno partecipato al corso. Un ragazzo marocchino si è esibito dal vivo in un esame pratico che gli ha consentito di mostrare le sorprendenti capacità acquisite, e che ha emozionato tutti i presenti. La Fashion Mix e la Xenon Group hanno rilasciato ai partecipanti un attestato riconosciuto da "Casa Artigiani" di Napoli ed hanno premiato il ragazzo che ha dimostrato di avere maggiori attitudini al lavoro offrendogli la possibile partecipazione gratuita al corso triennale Habia riconosciuto in tutti i Paese dell’Unione Europea, per il suo programma educativo Nvqs. Visto il suo successo e le concrete possibilità di lavoro che offre, l’iniziativa si ripeterà anche nel 2015, incrementando le ore di lavoro in Istituto. Reggio Calabria: "Da esclusi a cittadini", incontro volontari penitenziari al Csv Due Mari www.cmnews.it, 29 novembre 2014 Si è concluso il percorso formativo per volontari penitenziari dal titolo "Da Esclusi a Cittadini" promosso dal Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari di Reggio Calabria in collaborazione con la Caritas Diocesana Reggio Calabria - Bova, la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, il Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario), la direzione degli istituti penitenziari di Reggio Calabria ed Arghillà e i cappellani degli stessi istituti. In un momento in cui il sistema carcerario versa in una condizione di permanente emergenza a causa del sovraffollamento, delle condizioni delle strutture penitenziarie, nonché della stessa insufficienza dei percorsi di recupero e di reinserimento sociale, il volontariato è chiamato a svolgere un ruolo primario, per restituire quell’umanità e quel rispetto di cui molto spesso la detenzione priva. In risposta a questa urgenza si è inserita l’iniziativa del Csv volta a promuovere e incentivare il volontariato negli istituti penitenziari e pensata anche in continuità con il percorso sperimentale di Giustizia Riparativa che il Csv ha avviato, ad inizio del 2014, in collaborazione con l’Uepe. L’attività formativa è stata accolta con molto entusiasmo e ha registrato una grande partecipazione. Più di cento gli iscritti, ottantatre coloro che hanno partecipato fattivamente al percorso. Alcuni di questi già volontari presso gli istituti penitenziari hanno colto la possibilità per perfezionare le proprie competenze e approfondire le proprie conoscenze sulle tematiche proposte. Altri invece si sono accostati per la prima volta alla realtà del carcere. Per questi il percorso si è rivelato una preziosa occasione per scoprire la propria attitudine a questo tipo di servizio e per acquisire strumenti e competenze adeguati per lo svolgimento dello stesso. In questo percorso si sono alternate figure istituzionali, educatori, cappellani, volontari del carcere, nonché esperti delle dinamiche relazionali. Il percorso ha avuto inizio il 30 settembre con un incontro pubblico, cui hanno partecipato Mons. Antonino Iachino, sacerdote della diocesi Reggio Bova, Stefano Musolino, sostituto procuratore DDA e Maria Carmela Longo, direttrice della Casa Circondariale di Reggio che hanno raccontato della situazione attuale delle carceri e della giustizia e sottolineato l’importanza e il valore del mondo del volontariato nel recupero sociale del detenuto e nell’accompagnamento alla famiglia. Un primo momento di introduzione all’ordinamento penitenziario e alle regole del carcere è stato guidato da Emanuele Genovese, Presidente Camera Penale, Romolo Pani, direttore della casa circondariale di Palmi e Domenico Paino, Comandante della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Locri. Poi è stata la volta di due incontri dedicati ad attività laboratoriali, momenti di lavoro particolarmente apprezzati dai corsisti, che si sono potuti mettere in gioco confrontandosi con le proprie capacità comunicative e di ascolto e le varie fasi della relazione di aiuto. Entrambi gli incontri sono stati condotti da Giuseppe Pericone, Direttore del Csv dei Due Mari e Anna Rossi, dello staff del Csv. A don Silvio Mesiti, Cappellano della Casa Circondariale di Palmi e a Daniela Calzelunghe, Direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna è stato affidato il tema della famiglia del detenuto. Alberto Mammolenti, Presidente Conferenza Regionale Volontariato Giustizia per la Calabria, Emilio Campolo, Educatore Casa Circondariale di Reggio Calabria, don Francesco Megale e don Giacomo D’Anna, cappellani rispettivamente del carcere di Arghillà e di Reggio Calabria, hanno fatto da padroni di casa presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria, raccontando le proprie esperienze come volontari, come educatori e assistenti spirituali, mettendo in luce la necessaria sinergia e collaborazione tra le varie figure che si occupano del detenuto. A tirare le somme di questo breve ma intenso percorso, sono intervenuti Don Marco Scordo, nella qualità di padrone di casa dei locali sede del corso, Francesco Cosentini, Coordinatore Regionale Seac Calabria, Maria Carmela Longo, don Nino Pangallo, Direttore della Caritas Diocesana, Daniela De Blasio, consigliera di parità, Domenico Speranza educatore del carcere di Arghillà e Mario Nasone, presidente Csv dei Due Mari. Alla fine del percorso formativo, sviluppatosi in otto appuntamenti, oltre ai venti volontari già impegnati nelle diverse strutture carcerarie della provincia, sono state registrate una cinquantina di nuove disponibilità ad un impegno concreto di volontariato in ambito carcerario. Un risultato, come commenta Mario Nasone, che è andato ben oltre le previsioni degli organizzatori. Tutti gli aspiranti volontari, ora, verranno seguiti e ulteriormente accompagnati dalle figure istituzionali. Padova: telefonini, droga e sesso ai detenuti, confessione choc di una guardia di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 29 novembre 2014 La crepa era al quinto blocco. Da lì passavano telefonini, chiavette, computer, hashish, cocaina, eroina, alcolici e pure denaro. Tutto proibito, naturalmente, tutto a uso e consumo dei detenuti del Due Palazzi, il carcere di massima sicurezza di Padova considerato in Italia un’eccellenza. Perché lì, a gestire il piano, c’era lui: Pietro Rega, il quarantottenne capo degli agenti di polizia penitenziaria arrestato nel luglio scorso e indagato dalla procura di Padova con altri 30 fra colleghi, reclusi, familiari e pure un avvocato. Rega ha confessato tutto il 6 novembre in un interrogatorio choc, nel quale racconta la grande gang di guardie e di ladri: "È vero, ho portato in carcere pacchi con telefonini, dischetti, schede telefoniche, chiavette Usb, eroina, fumo". Contattava parenti e spacciatori, li incontrava, "allo stadio Euganeo quelli di Dincia (dell’Est, ndr)… a Zelarino i marocchini… a Verona gli italiani", si faceva recapitare i pacchi, li consegnava a qualche suo collega perché arrivassero nelle celle. Cellulari ai boss E nelle celle c’erano anche a un paio di capiclan della Nuova Camorra Organizzata e della Sacro Corona Unita, Gaetano Bocchetti e Sigismondo Strisciuglio, e un superdetenuto sottoposto al carcere duro, 41 bis, Domenico Morelli. Grazie ai cellulari potevano comodamente impartire ordini all’esterno. Una prassi consolidata, al punto che il giorno in cui Bocchetti rimase senza telefonino Rega si preoccupò: "Dissi a F., un detenuto : e adesso come fa Bocchetti senza telefono? F. rispose che gli aveva dato il suo. Perché F. aveva nascosto un suo telefono e l’ha venduto a Bocchetti". Già, come poteva stare il capoclan Bocchetti senza telefonino, si chiedeva il capo degli agenti. Surreale. Ma perché il coordinatore delle guardie aveva una sensibilità così spinta? "Per denaro e per droga - spiega lui -. A livello economico sono stato per un po’ di tempo sotto, anche perché avevo il mutuo pesante. E avevo iniziato a fare uso di stupefacenti, avevo bisogno di soldi. Mi hanno offerto delle cose e…". Si faceva pagare, dunque. In che modo? "Con vaglia postali o attraverso Western Union o in contanti, delle volte 200 euro, altre 300, 500, non erano delle somme fisse". Pagamenti in tilt I versamenti erano diventati così numerosi che Rega non riusciva più a orientarsi: "Qualche volta sono andato in confusione perché è arrivato più di un vaglia e non sapevo di chi fosse - ha spiegato al pm Sergio Dini -. Non conoscevo tutti quelli che mi mandavano i soldi". A volte erano i detenuti stessi a pagarlo, cash. "Venivano nel mio ufficio perché lì non c’erano telecamere, non c’era niente". Premesso che il denaro in carcere non può circolare, quando c’è bisogna nasconderlo. "I soldi li prendevano giù, nella biblioteca centrale, perché loro li nascondevano lì. F. mi raccontava che queste cose le faceva con il cuoco della cucina, che non so chi sia, ce ne sono tre o quattro…". La coca in regalo Ma i pagamenti avvenivano anche in uno dei modi più diffusi nel mondo della tossicodipendenza: cocaina o eroina. Già, le guardie "consumavano". "Mezza la portavamo e mezza la tenevamo per noi. Andavamo in camera e ci si divertiva, c’era S., c’era G., c’era M., c’era T., c’era L. … Ma andavamo anche a comprarla, 5 6 7 pezzi per uso personale. Si andava anche in quattro dagli spacciatori, alla stazione di Padova. Si pagava, si prendeva la roba e si andava in camera. Ci sputtanavamo così… Quando avevamo un po’ di grammi in mano andavamo in camera di G. e ci mettevamo a fumare. Qualche volta è capitato anche da me… Era coca era ero… Si pippava insieme… Lì si fumava e si fumava…". Talvolta quando arrivava il pacco con schede e telefonini, c’era sempre un presente per lui. "Il regalo per me era a livello di cocaina. Parliamo di due tre grammi che mi venivano lasciati". Insomma, un vero supermarket della droga, dove gli stessi agenti agevolavano il traffico. "Dopo essere stati agganciati con offerte di stupefacenti, i detenuti vengono sollecitati a commettere nuovi crimini proprio da chi dovrebbe controllarli e rappresentare lo Stato italiano", concludeva il giudice che firmò gli arresti. Un pianeta di illegalità, del tutto sconosciuto al direttore del penitenziario Salvatore Pirruccio: "Non sapevo nulla dello spaccio e dei favori altrimenti sarei intervenuto. Una brutta pagina da archiviare al più presto". I suicidi Una pagina di corruzione, di droga e anche di sangue. Dopo gli arresti di luglio, un agente e un detenuto coinvolti nell’inchiesta si sono tolti la vita. Il primo lo chiamavano "pittore" e vendeva ai reclusi filmini hard che lui stesso girava con le sue amiche. L’hanno trovato con le vene tagliate la sera prima della deposizione davanti al pm di Padova. Il secondo si è impiccato con una cintura, dopo essere stato picchiato. Lui aveva parlato e la gang non aveva gradito. Una gran brutta storia. Rega ne è consapevole: "Ho sbagliato". Torino: convegno su tema pene inumane e degradanti e rimedio compensativo risarcitorio Comunicato stampa, 29 novembre 2014 La Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo sotto osservazione l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, che recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani e degradanti". I giudici di Strasburgo, ribadendo il carattere intangibile dei diritti in questione, hanno riscontrato che il problema italiano è strutturale e che la sua soluzione richiede sforzi a lungo termine. Il rischio di sanzioni ha spinto il Governo a intervenire con i decreti legge n. 146/2013 e n. 92/2014. La comunità penitenziaria ha riservato grande attenzione all’introduzione del rimedio compensativo risarcitorio e alla sua reale portata. È questa la domanda cui cercherà di rispondere il convegno "Pene inumane e degradanti: l’effettività del rimedio risarcitorio. Applicazione, criticità, e possibili scenari della nuova disciplina dell’articolo 35ter del decreto legge n.92/2014 (convertito in legge n. 117/2014)" in programma il 3 dicembre alle 11 nella Sala Viglione di Palazzo Lascaris, in via Alfieri 14, a Torino. Al convegno - organizzato dall’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - intervengono il presidente del Consiglio regionale Mauro Laus, il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza e professore ordinario di Diritto processuale penale Laura Maria Scomparin, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino Marco Viglino, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta Enrico Sbriglia e l’avvocato Davide Mosso, referente dell’Osservatorio Carcere per la Camera penale Vittorio Chiusano. Modera i lavori il garante Bruno Mellano. Televisione: domani sera a "Report" (Rai3) il lavoro dei detenuti nelle carceri italiane Adnkronos, 29 novembre 2014 Domani, alle 21.45 su Rai3, Report propone un’inchiesta provocatoria e propositiva dal titolo "Il Risarcimento" di Claudia Di Pasquale e Giuliano Marrucci. Tutti i detenuti in salute dovrebbero essere obbligati a lavorare, perché nel lavoro c’è il loro recupero e anche quello delle spese giudiziarie, oltre a quelle per il mantenimento in carcere. Mai come in questo caso abbiamo trovato ostilità. Dai detenuti? No, dalle istituzioni. In Italia l’intero sistema penitenziario grava sulle tasche dei cittadini per circa 2 miliardi e 800 mila euro l’anno. Mantenere ogni singolo detenuto in carcere costa allo Stato, comprese le spese di sicurezza, circa 4.000 euro al mese. Sono cifre importanti che dovrebbero servire anche a reinserire nella società anche le persone che non hanno mai imparato un mestiere. Nella maggior parte delle carceri italiane i detenuti giocano a carte o guardano la televisione. E il 70% quando esce torna a delinquere. Eppure la legge dice che i condannati in via definitiva dovrebbero lavorare, anche per saldare le spese processuali, le multe, o risarcire le vittime dei loro reati. Il problema è che, sempre secondo la legge, vanno retribuiti, però i soldi per pagarli non ci sono, allora si preferisce lasciarli oziare. Perché non cambiare la legge e farli lavorare lo stesso senza pagarli visto che i detenuti devono saldare il loro debito con lo Stato? Sarebbe una partita di giro C’è poi un’altra legge che permette di impiegarli gratuitamente in lavori di pubblica utilità, come la pulizia dei parchi, delle strade, dei muri, degli argini dei fiumi o del fango delle alluvioni. Ma anche qui nulla si muove, perché dovrebbero essere i comuni a farne richiesta, ma sindaci e assessori non sanno nemmeno che esiste questa legge. Un immobilismo che alla fine vede crescere le spese dello Stato, il degrado delle carceri (perché non li impiegano nemmeno per ridipingere le celle) e i detenuti non rieducati restituiti alla società. Eppure la maggior parte dei detenuti vorrebbero lavorare, anche gratuitamente, invece di guardare tutto il giorno un muro. Gli esempi di come funziona negli Stati Uniti e nel nord Europa, dimostrano che è possibile impiegare i carcerati, con un vantaggio per l’amministrazione e per la dignità della persona. Altro tema: "Campioni d’Europa" di Emilio Casalini. Siamo la nazione con il record di procedure di infrazione aperte dall’Unione Europea. Violiamo le norme comunitarie che noi stessi abbiamo votato e che, nel 20% dei casi, non siamo in grado neppure di recepire nel nostro ordinamento. Non siamo capaci di tutelare i diritti dei disabili, dei passeggeri, persino quelli delle galline ovaiole. Nel campo ambientale siamo poi un disastro: abbiamo condanne perché un terzo del nostro Paese non è in regola con gli scarichi delle acque reflue. Spesso mancano i depuratori, e molti di quelli che ci sono funzionano male. E così rischiamo di dover pagare mezzo miliardo di euro di multa per ogni anno perché le nostre acque non sono pulite. Immigrazione: l’Europa si accampa in Africa di Carlo Lania Il Manifesto, 29 novembre 2014 Campi profughi nei Paesi di transito dove trattenere i richiedenti asilo. L’Ue vara il Processo di Khartoum. Ma resta l’incognita sul rispetto dei diritti umani. Campi profughi allestiti in Africa per accogliere quanti fuggono da guerre e persecuzioni. Nel tentativo di arginare i flussi migratori, l’Europa questa volta non alza l’ennesimo muro ma monta tende nei Paesi africani dove ogni anno transitano decine di migliaia di uomini, donne e bambini provenienti da paesi devastati da conflitti interni o retti da dittature spietate. Campi gestiti da organizzazioni internazionali come l’Unhcr e l’Oim, dove i profughi saranno accolti e, si spera, protetti adeguatamente in attesa che i paesi europei aprano loro le frontiere andandoli a prendere direttamente in Africa e sottraendoli così alle organizzazioni criminali. Per adesso si tratta ancora di un progetto sulla carta, ma è quanto prevede il Processo di Khartoum, l’accordo raggiunto tra i ministri degli Interni e degli Esteri dell’Unione europea insieme ai corrispettivi di Egitto, Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenia, Libia, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Tunisia e presentato ieri a villa Madama a Roma dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni insieme al titolare degli Interni Angelino Alfano e all’alto rappresentante Pesc Federica Mogherini. Accordo che se da una parte è positivo, perché potrebbe davvero segnare il nuovo passo da parte dell’Unione europea nella gestione dei migranti, dall’altro proprio per la vaghezza che ancora lo circonda suscita più di una preoccupazione per il rischio che i campi di cui si parla si trasformino in contenitori profughi abbandonati di fatto al loro destino. Come purtroppo già accade con alcuni campi simili già esistenti in Africa. Solo il tempo potrà dire se il Processo di Khartoum avviato ieri a Roma è davvero "un evento storico", come lo ha definito il ministro Alfano, oppure una riedizione solo un po’ più pulita del famigerato Trattato di amicizia Italia-Libia sottoscritto nell’agosto del 2008 dall’allora governo Berlusconi con il leader libico Gheddafi al solo scopo di fermare l’immigrazione verso l’Italia. Un fatto è certo: sei anni dopo quel trattato, è dal paese nordafricano che ancora una volta bisogna ripartire, perché è ancora di lì che salpa la maggior parte dei barconi che attraversano il Mediterraneo. Come ricordato ieri da Gentiloni: "Dal primo gennaio a oggi abbiamo avuto 162 mila sbarchi, contro i 40 mila dell’anno scorso. Dobbiamo essere consapevoli che il 90% di questi numeri viene dal transito attraverso la Libia", ha detto il titolare della Farnesina. Nel frattempo, però, in questi sei anni altre cose sono cambiate. Nel 2008 l’immigrazione era legata principalmente a motivazioni economiche, mentre oggi l’80% di quanti sono sbarcati lungo le nostre coste grazie all’operazione Mare nostrum sono profughi in fuga dalla guerra. Impossibile non tener conto della differenza. E anche per questo l’idea di allestire campi in cui accoglierli in Paesi dove spesso la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno solleva più di una perplessità. Tanto più che rappresentanti del governo eritreo e di quello sudanese erano tra i partecipanti della conferenza di Roma. Un modo per aprire il dialogo con realtà finora difficilmente permeabili, secondo il governo italiano. "Ma il dialogo non basta", replica il direttore dell’Agenzia Habeshia che da anni denuncia le violenze del regime eritreo, il sacerdote eritreo don Moses Zerai. "Servono garanzie, l’assicurazione da parte dei governi sudanese e eritreo di voler davvero cambiare rotta". Tutti i governi africani presenti alla conferenza hanno accettato di aprire campi nel proprio territorio e in particolare quelli - come Sudan, Sud Sudan, Niger, maggiormente interessati dal passaggio dei profughi. Una tappa importante per capire come evolverà il Processo di Khartuom, sarà la riunione che gli Statai membri dell’Ue faranno per decidere le quote di profughi da destinare a ciascun Paese. Da parte sua l’Unhcr ha chiesto un impegno per la realizzazione di quattro punti ritenuti imprescindibili: facilitare i ricongiungimenti familiari dei richiedenti asilo, un maggior numero di visti umanitari e per motivi di salute, schemi per la mobilità lavorativa e un aumento dei posti previsti per i reinsediamenti dei rifugiati. Resta poi sempre aperta la questione dei diritti umani. Significativo che mentre alla Farnesina si discuteva con i rappresentanti del governo di Asmara, a Roma ha fatto tappa la commissione d’inchiesta avviata dall’Onu per la violazione dei diritti umani in Eritrea con lo scopo di ascoltare le testimonianze degli eritrei fuggiti all’estero. Alla Camera, invece, si teneva la presentazione della campagna "Giustizia per i nuovi desaparecidos" dedicata proprio alle vittime delle traversate nel Mediterraneo, molte delle quali fuggite proprio dal regime di Isaias Afewerki che oggi proprio grazie al processo di Khartoum vede un importante riconoscimento dal parte dell’Europa. Un problema, quello relativo al rispetto dei diritti umani, che l’alto rappresentate Pesc Mogherini ha garantito ieri di aver affrontato con i rappresentanti del governo eritreo. India: Tomase ed Elisabetta, due italiani dimenticati nel limbo del carcere di Varanasi di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2014 Accusati e incarcerati nel 2010 per l’omicidio di un amico: attendono la sentenza ma al contrario dei marò il loro caso non suscita clamore Non siamo ad Alcatraz o nella prigione turca di Fuga di Mezzanotte. Certo trascorrere quasi cinque anni in un carcere indiano non è facile. Specie se, come Elisabetta Boncompagni, 42 anni, e Tomaso Bruno, 32 anni di Albenga, l’incubo è legato alla tragedia della morte di un compagno e di un amico. L’orologio del tempo ritorna alla mattina del 5 febbraio 2010 quando Francesco, il fidanzato di Elisabetta e amico di Tomaso, non si ridesta dal sonno in un albergo di Varanasi, città sacra dell’Uttar Pradesh appollaiata sul Gange, India orientale. I tre erano in vacanza e impegnati in un lungo giro. Nonostante la folle corsa in ospedale, il giovane smette di vivere dopo una crisi massiva. Tre giorni dopo quella tragedia l’ennesima mazzata cade sulla testa dei due ragazzi: "In ospedale ci hanno ritirato i passaporti - raccontano dalla prigione distrettuale di Varanasi - e detto di attendere in hotel la fase del post mortem. Sembravano tutti tranquilli. Noi, ovviamente, eravamo distrutti dalla morte di Francesco. In albergo, però, ci guardavano a vista, non potevamo uscire. Abbiamo chiesto lumi all’ambasciata e la risposta è stata "Cercatevi un avvocato qui in India perché le cose per voi si mettono male". Due giorni dopo entravamo dentro queste mura, addosso l’onta e il peso personale di un’accusa gravissima: l’omicidio di Francesco". L’autopsia, senza periti di parte, svolta da un oculista, il corpo di Francesco cremato pochi giorni dopo, un movente che non reggeva, i genitori della vittima convinti della morte assolutamente naturale del figlio e colpiti dall’accusa nei confronti dei due ragazzi. Tutto inutile. Only the brave. Solo i più audaci riescono a superare botte del genere, storie che, tanto per tornare all’inizio, le vedi solo al cinema. Elisabetta e Tomaso hanno lottato per la loro verità sin dal primo giorno trascorso dentro la prigione alla periferia di Varanasi, facendosi forza l’uno con l’altro. Hanno ancora voglia di lottare. Sarà merito anche del mito sfatato sulla durezza delle carceri: "Sia chiaro - chiariscono i due ragazzi seduti su una stuoia nel giardino del carcere che conta 1.800 reclusi nelle due sezioni, maschile e femminile - ne avremmo fatto volentieri a meno, ma se siamo arrivati fino a questo punto è perché il carcere di Varanasi conserva la sua umanità. Non pensate a secondini corrotti, militari violenti o direttori fanatici". "Qui è tutta gente perbene, animata da giustizia e senso comune. Duri con chi sbaglia, ma leali e comprensivi (in effetti entrare in carcere è stato molto semplice e senza alcuna richiesta di denaro, ndr). Poi ci sono i rapporti di amicizia e di stima con gli altri reclusi, si condivide tutto, c’è rispetto". Due anni fa la sentenza di secondo grado ha confermato l’ergastolo per Elisabetta e Tomaso, da allora attendono il parere definitivo della Corte Suprema di Nuova Delhi. In mezzo è arrivata l’unica buona notizia dal giorno della tragedia in albergo: "La Corte della Capitale ha deciso di ridiscutere e approfondire il nostro caso, per altri si va direttamente alla condanna. Un buon segno". Il verdetto si fa attendere e da mesi continua a essere rimandato. Gli ultimi due martedì si pensava fossero quelli giusti, che la Corte Suprema avesse messo il caso dei due ragazzi italiani in cima alla lista. Ora il pronunciamento potrebbe slittare al nuovo anno, visto che a metà dicembre l’attività della Corte si interrompe per due settimane: "Noi siamo tranquilli - dicono Elisabetta e Tomaso - quando arriverà la sentenza la affronteremo. È stressante questa attesa, ma c’è poco da fare". Della loro storia in Italia si parla poco, specie dopo l’intrigo internazionale legato alla vicenda dei marò - Massimiliano Latorre e Salvatore Girone - nel Kerala. Su di loro "non ci siamo fatti un’idea, ma paradossalmente l’affare marò potrebbe agevolare le nostre posizioni. Qualora arrivasse la conferma dell’ergastolo, in base agli accordi Italia-India, noi dovremmo scontare la pena in Italia. Potevamo evitare di presentare ricorso, saremmo tornati subito nel nostro Paese, ma siamo convinti della nostra innocenza e vogliamo lottare fino in fondo per vederla riconosciuta". Una guardia passa e saluta i due ragazzi di Albenga con l’ampio sorriso sotto i baffetti fini. Le giornate dentro il carcere di Varanasi passano sempre uguali. "Io mi diletto in cucina con le altre recluse e ogni sabato posso incontrare Tomaso che in questi anni mi ha dato tanta forza", dice Elisabetta. Tomaso invece si improvvisa anche giocatore di cricket, lo sport nazionale. "Inoltre aspetto i pacchi che mi mandano mia madre e gli amici, con libri e i giornali nazionali. E poi ci sono le visite, di familiari e amici e quelle inaspettate come la tua". Due rintocchi di una campanella: la visita è terminata, sollecitata da una guardia poco zelante. Tempo di augurare a Tomaso ed Elisabetta in bocca al lupo. "Ah dimenticavo - chiede Tomaso da interista sfegatato - com’è finito il derby di Milano? 1-1? Poteva andare peggio". Guinea Equatoriale: caso di Roberto Berardi, presentata domanda di libertà condizionale di Andrea Spinelli www.crimeblog.it, 29 novembre 2014 Piccolo barlume di speranza per il detenuto italiano in Guinea Equatoriale: continua la battaglia per la liberazione. Si evolve, lentamente, la situazione di Roberto Berardi, detenuto a Bata, in Guinea Equatoriale, da 23 mesi: il suo legale, l’avvocato Ponciano Mbomio Nvò, che abbiamo intervistato qualche settimana fa, ha presentato alla Corte Suprema una richiesta di libertà condizionale per il detenuto italiano. L’atto, che lo stesso legale ci aveva preannunciato nell’intervista e che vi proponiamo di seguito, fa riferimento al raggiungimento dei tre quarti della pena (2 anni e 4 mesi in totale), chiedendo l’immediata scarcerazione in libertà condizionale dell’imprenditore italiano. Nel frattempo la catena di solidarietà che continua a mitigare, per quanto possibile, la detenzione dell’imprenditore italiano, è riuscita a far avere a Roberto Berardi una lampada, dopo che i suoi carcerieri hanno deciso di tenerlo al buio (si trova già in isolamento, oramai da più di 11 mesi) e senza cibo per giorni. L’atteggiamento del direttore del carcere di Bata, e più in generale del Comando della difesa (da cui dipendono le guardie carcerarie), si mostra in tutta la sua psichiatrica bipolarità, mantenendo di fatto un’incognita costante sul destino dell’imprenditore: se da un lato gli viene concessa la visita dell’ambasciatrice italiana, dopo insistenze diplomatiche e pressioni mediatiche continue, dall’altro Berardi subisce vere e proprie punizioni per ogni "beneficio" gli viene concesso, una sorta di tira e molla che, di fatto, è anche questo parte delle torture che il detenuto subisce in carcere. Nel video in copertina vi proponiamo questa volta un’intervista realizzata nel 2009 a Miguel Eyamam Ndong, un cittadino equatoguineano che fu forzatamente sgomberato dalla sua abitazione della cittadina di Kogo: anche se di 5 anni fa l’intervista si propone come estremamente attuale, in vista della prossima Coppa d’Africa 2015, che si giocherà in via eccezionale proprio in Guinea Equatoriale, dopo la rinuncia del Marocco. Secondo alcune nostre fonti equatoguineane il governo sta procedendo in questi giorni a numerosi sgomberi forzati, in preparazione dei fasti calcistici che vedranno arrivare in Guinea uomini d’affari, delegati, dirigenti sportivi e appassionati da tutto il mondo dai primi di gennaio fino a fine febbraio: dopo la pulizia internazionale dell’immagine della famiglia presidenziale sembra quasi che il regime di Malabo abbia avviato un’operazione di "pulizia civile" nel Paese, allontanando l’estrema povertà cui vive la maggior parte della popolazione dagli occhi indiscreti di telecamere e ospiti internazionali. Australia: per Unhcr detenzione di bambini richiedenti asilo viola il diritto internazionale La Presse, 29 novembre 2014 È possibile che l’Australia violi il diritto internazionale, con la detenzione di bambini richiedenti asilo. Questo l’avvertimento dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), che ha fatto appello a Canberra e ad altri Paesi affinché mettano fine alla politica e offrano alloggi ai minorenni richiedenti asilo. Si stima che attualmente siano detenuti in Australia oltre 600 bambini migranti arrivati nel Paese via mare, ha riferito ad Abc Radio un rappresentante dell’Unhcr, Thomas Vargas, aggiungendo che il trattamento riservato dalle autorità ai bambini è inumano. "Chiediamo a tutti i governi nel mondo - ha detto Vargas - di non usare i bambini come pedine per risolvere un problema che, tra l’altro, non sarà risolto con un approccio unilaterale. Il posto dei bambini non è in carcere ed è chiaro ai sensi del diritto internazionale che gli Stati non dovrebbero detenerli. Non è umanitario ed è anche illegale secondo il diritto internazionale". Il ministro dell’Immigrazione australiano, Scott Morrison, ha affermato tuttavia che Canberra sta facendo tutto il possibile per proteggere i bambini detenuti. Il ministro ha riferito inoltre che il governo federale sta preparando un piano a lungo termine per mettere fine alla detenzione di tutti i minorenni richiedenti asilo. Il numero dei bambini detenuti, ha detto Morrison, è stato ridotto di quasi il 50% in tutto il Paese e tutti i minorenni saranno rilasciati "quando sarà approvata la legge attualmente al vaglio del Parlamento". Intanto un gruppo di celebrità australiane, tra cui l’attore Bryan Brown e l’ex capitano della squadra di cricket Ian Chappell, hanno lanciato una campagna per mettere fine alla detenzione dei bambini. Stati Uniti: il Pentagono prepara nuovi trasferimenti dal carcere di Guantánamo Asca, 29 novembre 2014 La scorsa settimana, in cinque hanno lasciato la prigione. Altri detenuti lasceranno il carcere di Guantánamo nelle prossime settimane, secondo le informazioni che il Wall Street Journal ha ottenuto da parlamentari e funzionari della Difesa statunitense. La scorsa settimana, il Pentagono ha trasferito cinque detenuti, mandando due persone in Slovacchia e tre in Georgia, grazie agli accordi stipulati con le autorità locali. Nel mese di dicembre, altri detenuti dovrebbero lasciare Guantánamo, ma non si conosce né il numero, né la loro nazionalità. "Sembra esserci un rinnovato sforzo per procedere con i trasferimenti" ha detto Laura Pitter, membro del consiglio di sicurezza nazionale per Human Right Watch, che si batte per la chiusura del centro di detenzione, promessa dal presidente Barack Obama sin dal suo arrivo alla Casa Bianca. Al momento ci sono 143 detenuti a Guantánamo, che in passato ha ospitato quasi 800 presunti terroristi. La promessa di chiudere la prigione, voluta da George W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, è stata rinnovata da Obama lo scorso anno e da allora il ritmo dei trasferimenti è aumentato. I negoziatori di Camera e Senato stanno lavorando alla possibilità di rivedere le regole per i trasferimenti, che possono essere approvati dalla Difesa solo se non pongono una minaccia significativa alla sicurezza degli Stati Uniti: la proposta della Camera, a maggioranza repubblicana, prevede restrizioni più severe, mentre in quella portata in Senato - per qualche settimana ancora in mano ai democratici, che hanno perso la maggioranza alle recenti elezioni di metà mandato - è presente un allentamento delle attuali norme. La Camera ha proposto un rafforzamento delle restrizioni dopo la decisione dell’amministrazione Obama - senza il parere del Congresso - di trasferire cinque talebani, come parte dell’accordo per il rilascio del sergente Bowe Bergdahl, prigioniero in Afghanistan per cinque anni. Il nuovo Congresso e l’arrivo di un nuovo segretario alla Difesa, dopo le dimissioni di Chuck Hagel, potrebbero rallentare, se non bloccare, i trasferimenti nel prossimo anno. Un punto, però, potrebbe mettere d’accordo repubblicani e democratici: la necessità di ridurre i costi. Secondo Pitter, ogni detenuto di Guantánamo costa agli Stati Uniti tre milioni di dollari all’anno. Comore: reportage dalla prigione di Moroni di Sergio D’Elia Segretario (Segretario di "Nessuno tocchi Caino") Panorama, 29 novembre 2014 Dall’11 al 22 novembre l’organizzazione "Nessuno tocchi Caino" e il Partito Radicale hanno lanciato una missione in Africa con l’obiettivo di ottenere voti a favore della Risoluzione Onu per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in discussione al Palazzo di vetro. La delegazione radicale, composta da Sergio D’Elia, Marco Perduca e Marco Maria Freddi, si è recata prima in Zimbabwe e nelle Isole Comore ed è stata raggiunta nel Niger, terza tappa della missione, anche da Marco Pannella, Matteo Angioli e Stefano Marrella. Nel corso della missione si sono svolti incontri coi massimi rappresentati istituzionali dei tre Paesi africani e sono state effettuate visite nelle prigioni di Niamey e Kollo in Niger e in quella di Moroni nelle Comore, sulla quale Sergio D’Elia ha scritto il reportage che segue. La prigione di Moroni è in cima a una collina all’ingresso del quartiere di Dawedju e, a vederla da fuori, non incute particolare timore tanto appare integrata nella cupa realtà che la circonda. Il grigio e il nero sono ovunque i colori prevalenti, della terra, delle strade e delle case dell’isola, dominata dall’alto dal vulcano Karthala che nel corso del tempo, con le sue eruzioni, ha cosparso tutto di lava e cenere scure come la pece. Le molte spiagge sono ormai ridotte all’osso, tanto hanno sofferto dei saccheggi di sabbia bianca fraudolentemente utilizzata nelle costruzioni. La prigione, comunemente chiamata "Moroni 2", riferimento ironico al più esclusivo hotel della capitale delle Isole Comore, è la più grande delle tre, una per isola, che i francesi hanno edificato nell’arcipelago durante il dominio coloniale. Secondo il genio militare degli architetti dell’epoca il carcere di Moroni era sufficiente a contenere un’ottantina di persone. Secondo gli standard sanitari attuali dell’Organizzazione mondiale della sanità non potrebbe ospitare più di 50 detenuti. Il 19 novembre, giorno della nostra visita, nel carcere sono stipate 221 persone, tra cui 6 condannati a morte, 8 donne e 6 minori. Il Procuratore generale delle Comore, Mahamoud Soilihi, ha autorizzato la delegazione di Nessuno tocchi Caino e del Partito radicale a entrare nella Maison d’arrêt di Moroni, "a condizione che sia rispettata la privacy delle persone detenute e l’immagine del Paese". Il richiamo ci appare subito paradossale di fronte allo stato di estrema deprivazione e promiscuità generale che connota la vita dei reclusi: i 25 condannati definitivi convivono con tutti gli altri in attesa di giudizio; i 6 condannati a morte e i 2 condannati a vita per reati violenti socializzano con ladri di polli e autori di altri piccoli furti; i 17 imputati di attentato alla sicurezza del territorio comoriano sono associati ai responsabili di appropriazione indebita di terreni e di altre piccole dispute sulla terra; i 6 minorenni sono mescolati a persone molto anziane e ai numerosi detenuti per violenza sessuale, il reato più comune; persone malate coabitano con tutte le altre apparentemente sane. Edifici in rovina Gli edifici sono in rovina totale, con perdite d’acqua ovunque che minano fondamenta e tetti, costruiti con calce e sabbia di mare, molto povera per l’eccessivo contenuto di sale. I prigionieri maschi sono stati divisi equamente in due sezioni situate una affianco all’altra con ingressi indipendenti. Di giorno, la vita dei reclusi si svolge in un piccolo cortile in terra battuta, disseminato di sassi, sacchetti e scodelle di plastica e mucchi di rifiuti. Appena entriamo, siamo assaliti da una puzza nauseabonda che viene da un rivolo di liquame che scorre a cielo aperto e dall’odore acre di legna bruciata che proviene da una cucina rudimentale posta in un angolo sotto una tettoia dove un gran fuoco alimenta un enorme pentolone nero. Il detenuto cuciniere si presenta sorridente e fiero di preparare il povero pasto quotidiano per gli oltre cento suoi compagni di sventura. Il rancio, da anni sempre lo stesso, consiste in una sola ciotola di riso e sardine che può esser l’unica risorsa alimentare per chi non può permettersi una integrazione con qualche alimento supplementare portato in carcere dai famliari. Secondo la "matricola", i minori di 18 anni detenuti nel carcere di Moroni sono 6, ma quando nel cortile dell’aria chiediamo loro di mettersi tutti da una parte lungo un muro per essere contati, se ne presentano molti di più, almeno una ventina: alcuni, come Naouirou, Housni, Nizar, Ibrahim e Mounir, sono davvero dei bambini; altri sembrano appena maggiorenni; altri ancora più grandicelli s’infilano lo stesso nel gruppo per farsi fotografare. L’unico edificio di una certa ampiezza e dignità è la "moschea" che sorge nel mezzo del cortile. È stata inaugurata nell’aprile del 2009 per portare un po’ di pace e conforto nella comunità di disperati, poveri e abbandonati che abita l’inferno di Moroni. Mohamed Assaf si atteggia a Imam, insegna il Corano e chiama alla preghiera. "Sono stato messo in prigione a luglio per spionaggio nei confronti del Presidente", dice sarcastico. Fa parte del Fronte nazionale per la giustizia, un partito islamico d’opposizione, ed è accusato di aver "fraudolentemente" registrato una conversazione tra il Presidente della Repubblica Ikililou Dhoinine e il vice Presidente Nourdine Bourhane. Le celle fatiscenti I detenuti trascorrono tutto il giorno nel cortile, dove l’unico svago è una sorta di "dama" giocata su una scacchiera di pietra con dei sassolini rotondi a fare da pedine. Di notte sfidano le leggi della fisica per sistemarsi su alcuni materassi e, soprattutto, stuoie sul pavimento di celle fatiscenti dove restano intrappolati fino all’alba. Le poche stanze singole, riservate a detenuti eccellenti o pericolosi, sono davvero minuscole e non hanno una presa d’aria né una fonte di luce naturale. L’aria potrebbe essere mossa da piccoli ventilatori personali, ma sono tutti spenti al momento della nostra visita, sebbene collegati a una rete volante di fili elettrici, usati più che altro per appendere sacchetti di plastica, poveri vestiti e panni di tutti i colori. In un camerone di tre metri per cinque, l’unico esistente nella sezione, un detenuto febbricitante e zeppo di sudore riposa da solo sull’unico giaciglio che va da un muro all’altro della cella. Al tramonto sarà raggiunto dal resto della popolazione detenuta. L’infermeria del carcere è priva di attrezzature e farmaci essenziali e, anche se le malattie infettive la fanno da padrone, non ci sono detenuti ricoverati. L’anticamera è utilizzata come dormitorio da alcuni soldati dell’esercito preposti alla custodia dei detenuti accusati di aver minato la sicurezza dello Stato. Fekkak Abdellaziz, un marocchino di 47 anni condannato a morte per omicidio "passionale", ci mostra le macchie che ha sulla pelle. "Nei molti anni passati qui dentro non sono mai stato visitato da un medico", lamenta, "chiedo solo condizioni più umane di detenzione, piccole cose, un sapone, un po’ di cibo, latte, qualche medicina e un po’ di conforto." Abdermane Abdillah, un ex sottoufficiale di polizia condannato a morte per omicidio, si proclama innocente e chiede un processo di revisione. "Ormai confido solo nell’aiuto di Dio e nella giustizia divina… Non ho più speranza in quella degli uomini." La sezione femminile Questa sezione ha due "toilette" che nessuno oserebbe definire servizi igienici. La doccia è in realtà un secchio attaccato a un rubinetto che non si sa se e quando possa erogare acqua. Per i loro bisogni notturni diversi detenuti usano sacchetti di plastica che l’indomani sono accatastati in un angolo del cortile. Le otto donne detenute sono in una piccola sezione a parte e, al nostro arrivo, forse per pudore, si ritirano tutte in una minuscola stanza e si accucciano su un giaciglio che di notte sarà il loro letto comune. La prigione non ha un parlatorio. I colloqui si svolgono sotto una tettoia all’ingresso del carcere recintata da una rete da pollaio dove detenuti e parenti siedono su panche di pietra divisi da un muretto a mezza altezza. Da diversi anni, la sicurezza di questo carcere fatiscente è affidata a una società privata, che ha un contratto con il Ministero della Giustizia. sostenere la risoluzione Onu Prima di uscire, il responsabile del carcere, il commissario Ahamada Oussouf, che indossa una camicia hawaiana, occhiali a specchio e cappello texano, ci invita nel suo ufficio, un bugigattolo di un metro per due. Il computer e la stampante sulla sua piccola scrivania sono spenti e sicuramente non funzionano. I dati essenziali sulla popolazione detenuta sono scritti col gessetto su una lavagna appesa alle sue spalle e li ha riportati a penna su un foglietto che ci consegna. "Avete visto come vivono i detenuti. Guardate ora in che condizioni lavoro io... Chiedo solo che qualcuno finanzi un corso di formazione del personale penitenziario." A sua disposizione ha solo sette agenti, tra cui tre donne, reclutati tra i ranghi della polizia e un furgoncino di pochi posti del tutto insufficiente per portare in tribunale la massa di detenuti in attesa di giudizio. Dopo l’indipendenza dichiarata nel 1975, le tre Isole Comore - Gran Comora, Anjouan e Moheli - sono state dalla Francia abbandonate a se stesse, insieme alle loro prigioni. Altre due isolette dell’arcipelago, le Mayotte, che hanno scelto di rimanere francesi, sono state ricompensate con generosi sussidi sociali, notevoli vantaggi economici e una caserma della Legione Straniera. Usciamo dalla prigione di Moroni con un senso di nausea. Non avevamo mai visto uno stato tale di degrado e desolazione in nessun altro luogo di privazione della libertà. Il suo decadimento e le disumane condizioni di vita di chi ha avuto la sventura di finirci non sono solo un fatto nazionale comoriano. Interrogano anche la coscienza del mondo "civile" e richiamano la responsabilità dell’Europa che, dopo aver un secolo fa edificato e poi lasciato in eredità carceri, forche e altri patiboli - ignoti nella tradizione africana, ha il dovere oggi di riparare, a partire dalle prigioni, almeno con un’oncia di solidarietà, donando a questo Paese un minimo di decenza civile, di dignità umana, di pietà. Venezuela: 35 detenuti morti per overdose di farmaci nel penitenziario di Uribana Adnkronos, 29 novembre 2014 È salito a 35 morti il bilancio dei detenuti morti per overdose da farmaci durante una rivolta in un carcere del Venezuela, con altre 20 ricoverati in situazione critica. La ricostruzione della vicenda è ancora confusa, con attivisti per i diritti umani e parenti delle vittime che accusano le guardie di aver avvelenato i carcerati. La procura generale ha intanto riferito di voler incriminare uno dei guardiani del carcere, Julio Cesar Perez, ma non ha chiarito sulla base di quali accuse. I fatti sono accaduti nel penitenziario di La Uribana, nel Venezuela occidentale. Nel carcere, che dovrebbe ospitare non più di 850 persone, sono rinchiusi circa 3mila detenuti. Lunedì era in corso uno sciopero della fame di protesta. Secondo quanto ha riferito William Ojeda, presidente della commissione parlamentare per le carceri, un gruppo di 145 detenuti più violenti ha fatto irruzione nell’infermeria facendo man bassa di farmaci che sono stati consumati mischiati con alcool puro. Già l’anno scorso in questo carcere sono morti 58 detenuti durante una rivolta.