Giustizia: il "pacchetto Gratteri" nelle mani di Renzi, pene più pesanti per il 416-bis di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2014 Una riforma con 95 articoli di legge modificati tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario. Oltre cento pagine con articolati di legge scritti come se dovessero essere già discussi e approvati in Parlamento. In altre parole, quel che lunedì scorso Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, ha presentato al premier Matteo Renzi, è un sistema organico di nuove regole in grado di incidere in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità organizzata. Gratteri, a capo di una Commissione insediata a Palazzo Chigi proprio con questo scopo il 30 luglio, in meno di quattro mesi ha ultimato il lavoro e la conferma è giunta ieri dallo stesso magistrato nel corso di un convegno sull’usura all’Università di Firenze. Le materie sulle quali la Commissione Gratteri ha inciso sono molte, a partire dalla proposta di inasprire le pene per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (articolo 416 bis del codice penale) e "rivedere" il reato di voto di scambio politico mafioso (416 ter). In buona sostanza l’intento è quello di tagliare la testa (oltre che la manovalanza) delle mafie e recidere il cordone ombelicale con la politica, senza le quali non esisterebbero. Sul fronte dell’inasprimento delle pene la Commissione Gratteri suggerisce al Governo (e di conseguenza al Parlamento) di porre fine all’assurda disparità di trattamento con l’articolo 74 del Dpr 309/90 che punisce con la reclusione non inferiore a 20 anni chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Per i promotori, gli organizzatori e coloro che dirigono l’associazione mafiosa, invece, l’articolo 416 bis prevede la reclusione da 9 a 14 anni e, se l’associazione è armata, la pena per i promotori va da 12 a 24 anni. Il paradosso, come ha spesso sottolineato Gratteri, è che molto spesso i capi dell’organizzazione criminale non commettono i "reati fine", con la conseguenza di essere condannati per il solo reato associativo ed essere dunque pronti a ritornare alla piena attività criminale dopo pochi anni di carcere. Nonostante l’approvazione di una recente modifica legislativa (legge 62 del 17 aprile 2014) sembra destinato a tornare sotto i riflettori il voto di scambio politico-mafioso (articolo 416 ter). La nuova normativa prevede che chiunque accetta la promessa di procurare voti in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La legge, già oggetto di dure critiche in fase di approvazione, come ha scritto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Calogero Gaetano Paci, fino a pochi mesi fa a Palermo, "è oggetto di ulteriori strali a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 36382 depositata il 28 agosto 2014, con cui è stata annullata con rinvio la sentenza della Corte di appello di Palermo che aveva condannato l’ex europarlamentare Antonello Antinoro". Tra le tante modifiche della Commissione Gratteri anche il trasferimento del controllo della polizia penitenziaria dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) al ministero della Giustizia. Giustizia: cancellare la prescrizione? Sarebbe una follia da Paese incivile di Vincenzo Vitale Il Garantista, 28 novembre 2014 Dopo la sentenza della Cassazione che ha dichiarato prescritti i reati del caso Eternit di Casale Monferrato, si risollevano voci che chiedono la riforma della prescrizione, soprattutto nel verso di un suo deciso ridimensionamento. La stessa Associazione nazionale magistrati propone o l’abolizione pressoché totale della prescrizione oppure, in alternativa, una sua operatività fino alla sentenza di condanna di primo grado: non oltre. In proposito, va subito stigmatizzato l’ennesimo caso italiano in cui si cerca di imbastire un ragionamento sulla scia di una forte e comune emozione (quella appunto suscitata dal caso Eternit) ma non sulla scorta di un serio approfondimento capace di portare alla luce i veri problemi. Innanzitutto, va notato che se si accettasse la proposta della Anm di bloccare del tutto la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, l’esito sarebbe di capovolgere la presunzione di innocenza - stabilita dalla Costituzione fino alla sentenza definitiva - in presunzione di colpevolezza. Solo in base a questo inammissibile rovesciamento, giuridicamente aberrante, tale blocco potrebbe essere concepibile: ma adottandolo, dovremmo vergognarci e rischieremmo di essere espulsi dal consesso degli Stati civilizzati. Non solo. Si deve anche considerare che una buona percentuale (oltre il 60%) delle sentenze di condanna di primo grado viene riformata in appello, in senso più favorevole all’imputato. Se perciò si bloccasse la prescrizione dopo la condanna di primo grado, l’effetto sarebbe quello di perseguire comunque persone che in oltre il 60% dei casi risulterebbero poi innocenti: l’erario non ne sarebbe corto felice, trattandosi in tutti questi casi di un’attività in pura perdita. Il fatto è probabilmente che tutta questa opposizione per un istituto come la prescrizione non solo è un frutto emozionale, ma nasconde un più profondo, e meno visibile, disconoscimento delle più autentiche ragioni del diritto. Ci troviamo davanti insomma a una delle manifestazioni storiche di ciò che Hegel definì icasticamente "odio per la legge" (der Hass gegen Gesetz), vale a dire l’esito dell’incapacità di coglierne il senso. Eppure il senso della prescrizione dei reati è lampante e tutti possono vederlo, anche i non giuristi, In prima battuta, sta nel fatto che la pretesa punitiva dello Stato non può essere mai eterna, senza limiti temporali che - anche se estesi - servano a controllarla ed incanalarla: lo Stato, fino a prova contraria, non è Dio. In secondo luogo, è ovvio che trascorso un certo tempo - per esempio dieci o dodici anni - dalla commissione di un certo fatto, è illusorio cercare seriamente di giudicarne le manifestazioni e il grado di colpa dei protagonisti: per parafrasare Foscolo, il tempo "traveste" ogni cosa: i testimoni non ricordano, i documenti sbiadiscono, le atmosfere e i contesti dell’epoca diventano fantasmatici, i protagonisti scompaiono. Come si può seriamente fondare un giudizio processuale su queste basi così fragili? La prescrizione ci ricorda - a suo modo - un limite insito nella condizione umana, che è ineliminabile se non a patto, appunto, di odiare il diritto e, con esso, ahimè, anche l’essere umano. Giustizia: Dambruoso, relatore legge sulla prescrizione "non si può essere imputati a vita" di Errico Novi Il Garantista, 28 novembre 2014 Stefano Dambruoso, relatore della legge sulla prescrizione: va bene interrompere i termini, ma il processo non duri all’infinito. L’Anm chiede di interrompere il "timer" della prescrizione una volta arrivati al rinvio a giudizio, o al massimo con la condanna di primo grado. L’interruzione corrisponde a prassi giurisprudenziali in uso in Paesi democratici come il nostro. È una soluzione tenuta in conto da tutte e tre le proposte di legge pendenti in commissione, e che entro quindici giorni saranno sintetizzate in un testo base. Naturalmente vanno garantiti anche i diritti dell’imputato. In che modo? Una cosa è interrompere il decorso della prescrizione sostanziale, altro è ignorare il tema della ragionevole durata del processo. Principio che va salvaguardato: innanzitutto perché non si può vivere tutta la vita da imputato, e anche perché l’Italia è già nell’occhio del ciclone per i risarcimenti ex legge Pinta. C’è una posizione chiara della Corte di Strasburgo sulla necessità di rispettare il principio della ragionevole durata. Dobbiamo coniugare le due esigenze. Pensa all’introduzione di tempi limite per le varie fasi del processo? Guardi, penso di sicuro alla difficoltà di contemperare le due posizioni. Ci arriveremo nel modo più fisiologico, cioè con l’esame che ci apprestiamo a fare in commissione. Bisogna superare la legge Cirielli, e quindi garantire un tempo più che sufficiente all’accertamento della verità. Nello stesso tempo non dobbiamo condannare la persona a una pena che si realizza già con il trascorrere un tempo indefinito nelle vesti di imputato. Chi c’è passato sa cosa vuol dire. Certo adesso l’opinione pubblica riserva a questa riforma un’attenzione enorme. E ci sarà sempre chi sarà critico. Non mi aspetto di avere chissà quale grande consenso, sul testo che andremo a elaborare. Comunque le formule per arrivare al giusto equilibrio sono quelle offerte dai vari modelli in uso in Europa. Dobbiamo eliminare quei "tappi" che rendono farraginosa la macchina processuale. Ma per alleggerire il peso delle cause si deve procedere in parallelo anche con una seria depenalizzazione. Dal Senato è in arrivo la legge sulla responsabilità civile dei giudici. L’Anm chiede di eliminare la colpa del magistrato per travisamento dei fatti e delle prove. Primo: va tenuto presente che il magistrato non è un impiegato come gli altri, ha responsabilità sulla sorte, sulla vita delle persone, e su interessi patrimoniali che spesso coincidono con la vita delle persone. Secondo: c’è ormai un’aspettativa di vedere definito l’ambito di responsabilità del magistrato, e credo sia arrivato il tempo di poterla affermare. E i limiti invocati dall’Anm? La responsabilità va limitata ai casi di dolo e a quelli in cui risultino in modo evidente negligenze inescusabili. Qualunque altro tipo di intervento, a cominciare dalle ipotesi di responsabilità diretta, pregiudicherebbero ancora di più l’efficienza della macchina giudiziaria. E attenzione anche a non creare dei meri automatismi tra presunte negligenze e responsabilità del giudice. Quindi autonomia e indipendenza delle toghe non sono a rischio. Un momento: quando dico di non creare automatismi voglio dire anche che non si deve lasciare nelle mani di ricchi gruppi criminali uno strumento con cui potrebbero contestare l’operato di un giudice. Immaginate se in un processo penale, mentre si valutano gli elementi probatori, arriva una minaccia di denuncia per responsabilità civile per presunta negligenza. Bisogna trattare la materia con il necessario equilibrio. La responsabilità non deve essere diretta e deve configurarsi solo nei casi di dolo e colpa inescusabile. Andrà riformato anche il sistema per l’elezione dei membri togati del Csm. Guardi, credo che la diminuzione dell’influenza delle correnti sia un’esigenza ben avvertita all’interno della magistratura. E penso che la soluzione di collegare il più possibile il rappresentante col territorio, con il distretto giudiziario che lo elegge, sarebbe una innovazione fondamentale. I listoni nazionali che prescindono dal territorio dovrebbero essere superati, per riavvicinare il Csm ai magistrati che vanno a votare. Giustizia: il taglio alle ferie dei magistrati potrebbe rivelarsi inefficace? di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 28 novembre 2014 I dubbi sembrerebbero fondati. Il taglio alle ferie dei magistrati, inserito nel decreto sullo smaltimento dell’arretrato civile, potrebbe rivelarsi inefficace. Taglio presentato con uno spot assai accattivante sul sito del governo: "Meno ferie ai magistrati: giustizia più veloce". Chapeau. Le scorse settimane la grande stampa, in religioso ossequio del patto del Nazareno, aveva accolto con entusiasmo l’idea che riducendo le ferie delle toghe il sistema giustizia del Paese, come per incanto, avrebbe scalato tutte le statistiche del Consiglio d’Europa in tema di efficienza e funzionalità. Un riforma, così geniale e semplice al tempo stesso, da far riflettere sul perché nessuno prima di Renzi ci avesse pensato. Il classico uovo di Colombo. Senonché, intervistato qualche giorno fa a margine di un convegno, il giudice di Cassazione Piercamillo Davigo, già punta di diamante del pool Mani Pulite di Milano ai tempi di Tangentopoli, ha confermato le nostre perplessità. E cioè che si tratta di un taglio virtuale. Un taglio avatar. Buono solo per una slide o un tweet. E non la panacea di tutti i mali che affliggono l’italica giustizia. Stando così la norma, il taglio di 15 giorni si applicherebbe solamente ai magistrati "fuori ruolo": a quelli che dunque prestano servizio nei ministeri, nelle Autority, nelle agenzie europee o internazionali, ecc.. Quindi i vari capi di gabinetto, capi di ufficio legislativo, il dottor Ingroia se avesse accettato l’incarico di esperto per le Nazioni Unite in tema di mafia e criminalità in Guatemala e non si fosse gettato in politica con gli esiti che sappiamo. Per la stragrande maggioranza dei magistrati, quelli che svolgono funzioni "giurisdizionali", il taglio non si applicherebbe. Questo perché l’articolo 8 bis, inserito nel decreto sul processo civile, non sostituisce l’articolo 8 della legge che regola le vacanze dei giudici. E che reca il seguente titolo: "Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato". Una normativa che resta ad oggi in vigore. Apriti cielo! L’intervento del dottor Davigo - che molti suoi colleghi vorrebbero al posto del presidente dell’Associazione magistrati Rodolfo Sabelli, non fosse altro per il linguaggio diretto e poco "politichese" con cui ha avuto il coraggio di affrontare la questione - ha scatenato mia discussione accesa. Che però avviene lontano dai riflettori. Nei corridoi dei palazzi di giustizia. Davanti alle macchinette del caffè o sulle mailing list. Fra gli addetti ai lavori. La maggioranza silenziosa dei magistrati - quella che lavora lontano dai riflettori ed è lontana dai proclami governativi che difendono a spada tratta la voluntas di Matteo, che esclude ogni altra diversa esegesi sul taglio che s’ha da fare e basta - si pone domande concrete. E cioè su come si applica la norma. Se la settimana lavorativa, ai fini del calcolo dei trenta giorni, sarà articolata sempre su sei giorni come oggi o su cinque come nel resto del pubblico impiego. O, ancora, se le ferie andranno fatte obbligatoriamente d’estate o in qualsiasi periodo dell’anno. Se la settimana bianca è persa per sempre e rimarrà un ricordo. La potenza mediatica di Renzi ha fatto passare il messaggio che i tribunali siano chiusi dal primo agosto al quindici settembre. Sbarrati. Una pacchia. Cosa di fatto non vera. Ma tant’è. C’è chi nelle newsletter riservate alle toghe fa il paragone con le forze di polizia. Dove le ferie sono in funzione dell’anzianità di servizio. Più anni, più ferie. Un carabiniere neopromosso ha meno giorni di ferie del suo colonnello. Qui invece i giorni sono uguali per tutti. Sia che si tratti dell’uditore giudiziario fresco vincitore di concorso che di un presidente di sezione di Corte di Cassazione con oltre quaranta anni servizio. Senza contare che chi entra in magistratura adesso ha oltre trent’anni di età. Il tema è molto sentito. A riprova che i magistrati, in tema di rivendicazioni lavorative e salariali, non sono poi tanto diversi dagli altri dipendenti pubblici. Su questo Berlusconi sbagliava di grosso quando fi descriveva antropologicamente diversi dal resto della razza umana. In questa diatriba, che qualcuno giura finirà prima o poi davanti a qualche Tar, il ministro Orlando ha opposto una linea difensiva del tutto particolare. Dapprima, replicando alle osservazioni di Davigo, ha affermato che tale norma era stata scritta dai colleghi di quest’ultimo cioè i magistrati. Come dire, sono problemi vostri se è stata scritta male. Poi, gettando la maschera, ha dichiarato di non dare personalmente un grosso peso in termini di efficienza alla riduzione feriale, ma di attribuirle un valore prevalentemente simbolico. Uno spot, appunto. Dichiarazione che mette una leggera ansia, perché se si attribuisce ad una azione simbolica il potere di risolvere problemi molto seri, vengono i brividi su cosa si potrà ideare in tema di prescrizione all’indomani della sentenza Eternit. Incrociamo le dita. Giustizia: Forze dell’ordine, mettiamo il numero d’identificazione… campagna e petizione di Andrea Oleandri (Associazione Antigone) Il Garantista, 28 novembre 2014 E preoccupante che i servizi di polizia nell’Unione utilizzino una forza sproporzionata in occasioni di avvenimenti o di manifestazioni pubbliche; esorta gli Stati membri a fare in modo che il controllo democratico e giudiziario dei servizi incaricati di far applicare la legge e del loro personale sia rinforzato, che l’obbligo di rendere conto sia assicurato e che l’impunità non abbia alcuno spazio in Europa, particolarmente in occasione di un uso sproporzionato della forza o di atti di tortura o di trattamenti inumani o degradanti; invita gli Stati membri ad assicurarsi che i propri agenti di polizia portino un numero di identificazione". Ad esprimersi così fu, quasi due anni fa, il Parlamento Europeo con una propria risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea per gli anni 2010 e 2011. Più specificatamente si trattava della raccomandazione generale n. 192 del 12 dicembre 2012. Era questa la seconda volta che l’Europa si pronunciava su questo tema. La prima volta fu il Consiglio d’Europa a farlo, con raccomandazione Rec (2001)10, adottata dal Comitato dei ministri il 19 settembre 2001, con la quale fu varato il codice europeo di etica per la polizia (Ceep). Nel codice, al quale gli Stati membri dovrebbero uniformarsi, si affrontano importanti questioni quali gli obiettivi delia polizia, il fondamento giuridico della stessa nello stato di diritto, il rapporto tra la polizia e il sistema di giustizia penale, le strutture organizzative, le modalità di azione e d’intervento, la responsabilità di polizia e di controllo, la ricerca e la cooperazione internazionale. All’articolo 45 si fa esplicito riferimento al riconoscimento degli agenti: "di norma, nel corso di un intervento, il personale di polizia deve essere in condizione di dimostrare il proprio grado e la propria identità professionale" . Raccomandazioni alle quali l’Italia, cosi come molti altri Paesi, non ha dato in alcun modo seguito, sia per le resistenze da parte degli stessi appartenenti alle forze dell’ordine che per le posizioni di contrasto di molti partiti. In molti paesi membri dell’Ue, infatti, etichette con i nomi o numeri identificativi non sono inserite nelle uniformi della polizia, mentre in altri, in cui sono presenti, le stesse possono essere nascoste, ad esempio durante le attività di controllo dell’ordine pubblico. Questo nonostante il codice identificativo sulle divise degli agenti rappresenti un elemento di tutela per i cittadini e per la loro libertà di partecipazione e mobilitazione, ma al contempo una forma di tutela per i molti agenti che si comportano con senso del dovere e nel rispetto dei diritti umani. Anche per smarcarsi da queste resistenze "interne", l’associazione European Democratic Lawyers ha lanciato una campagna - accompagnata da una petizione - indirizzata al Commissario europeo, alla Commissione europea e alla Sottocommissione per i Diritti umani del Parlamento europeo, che punta a convincere questi organismi a varare una direttiva che imponga agli stati membri di adottare i numeri di identificazione per gli agenti delle forze dell’ordine. La campagna ha l’obiettivo di raccogliere il numero più alto possibile di firme in tutti gli Stati membri entro febbraio 2015, quando sarà presentata alle autorità europee. La direttiva consentirebbe di scongiurare la violazione dei diritti fondamentali, garantire i diritti di difesa durante i procedimenti penali, l’indipendenza del potere giudiziario e il suo ruolo di controllo, così come bandire dalla vita di tutti i giorni l’impunità di azioni criminali dei poliziotti e dei loro superiori amministrativi e politici. Una campagna rilanciata in alcuni Paesi europei dalla piattaforma Liberties.eu di cui Antigone (e la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili sono parte). Proprio in Italia ben sappiamo quanto l’Europa possa essere necessaria per elevare gli standard di tutela dei diritti. È accaduto con la sentenza Torreggiani della Corte europea per i Diritti dell’uomo che, condannando l’Italia, ha di fatto consentito di avviare una serie di riforme in ambito penitenziario che hanno contrastato la situazione inumana e degradante che si viveva nelle carceri italiane. Sappiamo anche quanto sia difficile l’approvazione di leggi che si occupano di questi temi in Italia, La mancata introduzione del reato di tortura nel codice penale è lì a dimostrarcelo. Ancora una volta, dopo l’approvazione del disegno di legge al Senato nel febbraio scorso, il dibattito su questo tema si è anestetizzato. Per questo è importante una petizione continentale ed è importante darle forza. Per firmarla il sito è: http://police-identification-europe.org. Como: tre detenuti suicidi tra ottobre e novembre, indagini e interrogazioni parlamentari www.ilpost.it, 28 novembre 2014 Soltanto dal 12 ottobre tre persone detenute si sono uccise a Bassone: sono state aperte indagini e ci sono state due interrogazioni parlamentari. Nel carcere di Bassone, a Como, dal 12 ottobre al 19 novembre si sono suicidate tre persone detenute. I suicidi nelle carceri italiane sono un problema molto diffuso, causato dal sovraffollamento che comporta condizioni di vita molto difficili e uno scarso sostegno psicologico legato all’insufficienza di personale: tre suicidi avvenuti nello stesso carcere in poco più di un mese sono però un evento molto raro, che ha già portato a due interrogazioni parlamentari. Il primo suicidio è avvenuto domenica 12 ottobre: il trentenne cileno Cuevas Galvez si è impiccato nella sua cella utilizzando un laccio legato al letto a castello, dopo aver assistito alla messa. Galvez si trovava in carcere per spaccio di sostanze stupefacenti e furto. L’Ansa riporta che la guardia è intervenuta subito per cercare di salvarlo, ma inutilmente. Il secondo caso è avvenuto il 31 ottobre ed è quello che sta facendo discutere di più. Verso le 16 del pomeriggio il 28enne Maurizio Riunno è stato trovato impiccato con un lenzuolo alla finestra della sua cella. Riunno era stato arrestato dieci giorni prima per sequestro di persona e si trovava in carcere in custodia cautelare. Era già stato arrestato in passato ed era stato liberato poche settimane prima del nuovo arresto. Si trovava in una cella a parte riservata ai detenuti che hanno problemi di convivenza con gli altri, una specie di isolamento: nel suo caso si trattava di esigenze giudiziarie legate alle indagini ancora in corso. La procura di Como ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, una pratica necessaria per effettuare l’autopsia, che ha confermato la morte per asfissia. La famiglia è però convinta che Di Riunno non si sia suicidato, soprattutto per via di alcune lettere che aveva scritto alla compagna in cui parlava del futuro, della voglia di ricominciare una vita con lei e i tre figli piccoli, e con cui chiedeva francobolli per continuare a scriverle. La donna ha anche raccontato di aver guardato il corpo di Riunno prima dell’autopsia e di aver fotografato "un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo". Ha anche scoperto che la procura aveva sequestrato quattro lettere che aveva inviato a Riunno e una scritta da lui. La famiglia ha chiesto aiuto ai Radicali per fare chiarezza sull’accaduto, che è stato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della giustizia Orlando da Roberto Giachetti, esponente del Pd e vicepresidente della Camera. L’ultimo caso risale al 19 novembre, quando Massimo Rosa - 63enne di Erba, in provincia di Como - è stato trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere, dov’era ricoverato per motivi di salute. Nel luglio scorso Rosa aveva ucciso la madre malata, che aveva 83 anni: aveva sempre vissuto con lei e con il fratello e, come ha spiegato, progettava di uccidersi subito dopo il delitto ma aveva cambiato idea all’arrivo del fratello. Rosa era in attesa di giudizio e sarebbe stato giudicato con rito immediato. Sugli episodi è intervenuto anche Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che ha ricordato le condizioni critiche delle carceri lombarde: "dal primo gennaio al 30 giugno 2014 si erano già contati il suicidio di un detenuto, 441 atti di autolesionismo, 54 tentati suicidi, 192 colluttazioni e 56 ferimenti". Anche il senatore del Pd Luigi Manconi ha fatto un’interrogazione sul tema al ministro della Giustizia. Secondo "Ristretti Orizzonti" - una delle più importanti associazioni italiane che si occupa di carceri - nel 2014 nelle carceri italiane ci sono stati 41 suicidi. Dal 2000 nel carcere di Como si sono suicidate 15 persone. Nel dicembre del 2013 il governo ha approvato un decreto per far fronte al grave problema del sovraffollamento delle carceri che prevede, tra le altre cose, misure per il reinserimento dei tossicodipendenti detenuti e per rimpatriare i migranti, l’aumento dei giorni di "sconto" per ogni semestre di pena espiata e la creazione del garante nazionale dei detenuti, tra le altre cose. Secondo molti le conseguenze del decreto - approvato in via definitiva dal Senato nell’agosto 2014 - hanno migliorato la situazione ma non sono comunque sufficienti a risolvere definitivamente e rendere dignitose le condizioni di vita delle persone detenute. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; carcere di Uta privo di adeguata assistenza sanitaria Adnkronos, 28 novembre 2014 "Oltre 340 detenuti ristretti nel nuovo carcere di Cagliari-Uta, nonché gli Agenti della Polizia Penitenziaria, gli impiegati e gli operatori non possono contare su un’adeguata assistenza sanitaria. Solo due medici effettuano il servizio 24 ore, manca l’archivio delle cartelle cliniche, sono assenti i telefoni e i computer mentre per accedere al Centro Clinico, dove peraltro sono custoditi i farmaci salvavita, i Sanitari devono ogni volta chiedere all’area della sicurezza di aprire i varchi. In caso di emergenza non è possibile intervenire tempestivamente". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" che "ancora una volta richiama l’attenzione sulle gravi carenze nella fruizione del diritto costituzionale alla salute dei cittadini". "La realtà del Villaggio Penitenziario di Uta è cosa ben diversa da quella di Buoncammino, in numero di pazienti e in estensione di fabbricati. La presenza di due sezioni distinte per il maschile e il femminile, distanti tra loro diverse centinaia di metri, e di un Centro Clinico collegato alla sezione maschile ma isolato da cancelli non possono - sottolinea - essere gestiti da due soli medici nell’arco di 24 ore, soprattutto quando all’interno delle sezioni ci sono persone anziane, con gravi problemi cardiaci e/o con disturbi psichici che portano a gesti di autolesionismo non sempre leggeri. Senza contare gli edifici dedicati ai detenuti semiliberi e tra breve a quelli soggetti al regime del 41bis. A ciò si aggiunga il fatto che non ci sono neppure i collegamenti telefonici diretti per eventuali richieste di aiuto o per comunicare con la Magistratura di Sorveglianza". "Appare evidente che in queste condizioni si moltiplicano i rischi e l’intervento del Medico o dell’Infermiere può avvenire solo quando la situazione è diventata molto pericolosa. Basti pensare che per raggiungere le sezioni sono necessari non meno di 10/15 minuti, un tempo - evidenzia la presidente di Sdr - in cui tutto può accadere. Risulta poi assurdo che nonostante siano state fatte esplicite richieste per adeguare il sistema alle nuove necessità derivanti da una struttura dimensionata per un migliaio di persone, l’Azienda Sanitaria non abbia ancora provveduto a creare le precondizioni di agibilità. Sembra quasi che non sia stato del tutto compreso che il diritto alla salute è di rango costituzionale e che le Asl hanno ereditato la responsabilità sulla vita delle persone soprattutto quelle detenute". "Purtroppo, come più volte l’associazione ha segnalato, il trasferimento a Uta è avvenuto senza che prima sia stato testato l’intero sistema. Quello sanitario in particolare desta preoccupazione anche perché nel frattempo non si è provveduto neppure al trasloco delle scrivanie. Le visite mediche avvengono in modo approssimativo per l’assenza delle indispensabili attrezzature e diventa impossibile garantire anche le garze. È auspicabile un immediato intervento della Direzione Sanitaria ma anche dell’Assessorato regionale della Salute affinché si dispongano gli improrogabili interventi a partire dalla disponibilità di un’ambulanza anche in considerazione - conclude Caligaris - dei 18 chilometri di percorrenza per raggiungere Cagliari in una strada per molti versi impraticabile". Cagliari: Pili (Unidos); un report-denuncia dei medici in servizio nel nuovo carcere di Uta Adnkronos, 28 novembre 2014 "L’apertura del carcere di Uta è stata solo una parata mediatica che aveva solo il fine di qualche premio di produzione per qualche dirigente del Dap. La realtà è tutta un’altra. Nel carcere costato 95 milioni è il caos totale. A scendere sul piede di guerra ora sono i medici praticamente reclusi nelle celle. Con una situazione paradossale gli operatori sanitari si sono ritrovati nella condizione di detenuti. Per entrare e uscire devono chiedere l’ausilio di personale penitenziario che gli apra la porta. Reclusi nel posto di lavoro. Il report che hanno stilato è riservato ma nelle prossime ore potrebbe essere reso pubblico". Lo afferma il deputato sardo di Unidos Mauro Pili, che ha ricevuto un report riservato redatto dai medici che stanno operando nel Nuovo villaggio penitenziario di Uta (Ca). Dopo appena 4 giorni di vita del nuovo carcere alle porte di Cagliari, dove sono stati trasferiti domenica scorsa i 334 detenuti del Buoncammino di Cagliari, scoppia dunque la protesta dei medici per le condizioni in cui devono lavorare nel nuovo carcere. "La denuncia dei medici è circostanziata: tutte le camere - dice Pili, comprese quelle dei medici hanno le porte blindate con chiusure di sicurezza, come quelle dei reclusi, quindi non possono essere aperte o chiuse senza l’intervento dell’agente in servizio. Le stanze individuate, una per i due medici e una per gli infermieri, non hanno bagno nemmeno nelle vicinanze. Nell’area sanitaria non ci sono linee telefoniche della Asl, e siccome non viene permesso l’uso di computer, telefonini, tablet, i medici sono completamente isolati per 12 ore". Secondo il deputato "la mancanza di telefoni o cercapersone fa sì che in caso d’urgenza il personale sanitario o penitenziario debba chiamare a caso nei vari piani, infermerie, bracci, prima di trovare il medico col rischio anche di venir accusati di omissione di soccorso. Al personale sanitario viene richiesto di portare i propri effetti personali in buste o borse trasparenti. "Tali restrizioni - spiega Pili - vengono giustificate con fantomatici motivi di sicurezza, argomento usato per mettere a tacere qualsiasi protesta o legittima pretesa. Nel report dei medici è scritto anche che il trasferimento ad Uta è stato un evento mediatico accuratamente organizzato dall’Amministrazione Penitenziaria, al quale, però, è corrisposto il caos totale del servizio Sanitario che non sarebbe stato in grado di gestire nemmeno un evento di criticità lieve". "Le infermerie non erano attrezzate, non c’era neanche il lettino per le visite; i carrelli della terapia non erano stati preparati e lo hanno fatto gli infermieri durante il trasferimento. A tutt’oggi la situazione non è cambiata: il medico di turno ieri note - conclude il report dei medici - ha passato la notte su una sedia. Il ministro della Giustizia ha parlato di un nuovo corso. Se questa è l’alba - ha concluso Pili - siamo già al tramonto". Siracusa: dopo la maxi rissa, in carcere arrivano gli ispettori del ministero di Concetto Alota Libertà Sicilia, 28 novembre 2014 Per la maxi rissa nel carcere di Cavadonna, del 20 novembre scorso, sono scattate le polemiche a ventaglio e ora dal Ministero della Giustizia vogliono un colpevole a tutti i costi e capire i motivi, come e perché, compreso le fughe di notizie sull’accaduto e dove i media hanno riportato l’accaduto con dovizia di particolari a tutti i livelli; insomma, una testa da sacrificare, da tagliare, da incolpare nello stile classico italiano a cose accadute. Infatti, per il prossimo 5 dicembre si aspetta una visita ispettiva da parte del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (competenze per la Sicilia quello di Palermo), al fine di appurare dove si trova la falla del sistema, dopo la Direttiva Europea sulle condizioni dei nostri detenuti. Sotto accusa la "sorveglianza dinamica", che nonostante la riforma del Corpo della Polizia Penitenziaria preveda la partecipazione alle attività "trattamentali", nel corso degli anni si doveva consolidare un modo d’essere professionale fondato sul controllo-custodia dei detenuti, finalizzato prevalentemente a prevenire fatti e azioni che possono compromettere la sicurezza all’interno delle mura carcerarie, evasione, risse, aggressioni, danni, compresa la stessa incolumità personale, come i suicidi, l’autolesionismo; il tutto a vista e senza il supporto e l’uso di attrezzature elettroniche, telecamere o altro; ma la realtà è invece un autoalimentarsi di un sistema organizzativo e della gestione che colposamente, a ogni verificarsi di eventi violenti, ha il solo scopo di accertare semplicemente cosa gli uomini della polizia penitenziari abbiano effettivamente e fisicamente fatto per prevenire l’evento, in un certo senso una sorta d’indagine senza l’indagine. Un sistema, quello della "sorveglianza dinamica", che forse è stato messo in atto frettolosamente e che ha, di fatto, solo e sempre indagato sulla condotta dell’unico agente della polizia penitenziaria di sezione presente. Una sorveglianza a vista che è impossibile da effettuare e tenere sotto il controllo costante, il tutto con l’unico obiettivo e oltremodo non trasferibile e da mettere in atto con la finalità della pena stessa. Anche all’indomani della maxi rissa al carcere di Cavadonna, sott’accusa furono le disposizioni del Ministero che, accogliendo una specifica direttiva dell’Unione europea, ha disposto di attivare la sorveglianza dinamica durante il corso della giornata: "I detenuti di ogni singola sezione - spiegò Sebastiano Bongiovanni, segretario dell’Ugl penitenziari - devono essere lasciati liberi di circolare nei corridoi con le celle aperte. Questo per venire incontro alle esigenze vitali dei detenuti, che nelle nostre carceri sono costrette a vivere nelle celle in numero superiore a quelli consentiti. Accade, quindi, che le celle sono aperte alle 8 del mattino per essere richiuse alle ore 19.30. In tutto questo tempo, i detenuti possono circolare senza problemi". E nello specifico caso del carcere di Siracusa in una sezione vivono dai 100 ai 110 detenuti, sorvegliati in tutto questo periodo di tempo da un solo agente di polizia penitenziaria. "Se da un lato è diminuito il carico di lavoro per noi agenti spiegò ancora Bongiovanni - di certo è diminuita la sicurezza dell’istituto, dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. La rissa scoppiata a Cavadonna è il frutto di questo stato di cose. Non è possibile per noi controllare ogni singolo detenuto come potrebbe avvenire nel caso in cui siano ristretti nelle celle. Non solo, ma stando così a contatto, è facile che scattino scintille per un nonnulla". Nella maxi rissa di Cavadonna, vennero alle mani un gruppo di detenuti extracomunitari con un altro di catanesi. Venendo a mancare l’equilibrio, la situazione precipitò. Bastò poco, infatti, per accendere la miccia e scatenare il putiferio nella sezione "comuni". "In questi casi - spiegò ancora Bongiovanni - l’agente di sorveglianza alla sezione lanciò l’allarme. In breve tempo arrivano in sezione non meno di una decina di colleghi la cui sola presenza costituisce un deterrente per tutti i detenuti, coinvolti nella rissa". Difficile potere trovare il responsabile o i responsabili da cui è scaturita la baraonda. Ma l’indagine aperta dalla magistratura l’indomani della maxi rissa cercherà di venire a capo della situazione. "Il problema è costituito dal soprannumero di detenuti, conclude Bongiovanni. Sia a Brucoli che a Cavadonna vi sono 550 detenuti, troppi, più del doppio, per la capienza effettiva dei due istituti penitenziari". Intanto, oltre alla visita degli ispettori del Provveditorato Generale delle Carceri prevista per il prossimo 5 dicembre, una nuova sezione è in fase di completamento per essere aperta a giorni presso lo stesso carcere di Cavadonna in un plesso attiguo, dove dovrebbero essere ospitati altri cento detenuti, e con lo stesso organico di appena 250 agenti di polizia penitenziaria, contro i circa 550 detenuti che con i nuovi 100 diventerebbero circa 650, quindi coprire i turni sarà ancora più duro, se non arriveranno i rinforzi più volte auspicati da parte dei sindacati di categoria. Anche per il carcere di Noto si formularono già criticità per le vetuste condizioni del plesso, ormai vecchio, ma lì gli interessi ministeriali affrontano una condizione diversa; infatti, i detenuti-lavoratori sfornano armadietti, tavolini e sedie, come tanti altri lavori di falegnameria per il fabbisogno negli stessi istituti di pena sparsi per la Sicilia e oltre lo Stretto. Si parlò di realizzare un nuovo carcere penale nel territorio di Noto, ma dal Ministero fanno da sempre sapere che mancano i fondi necessari. E per lo "svuota-carceri" e la riforma dell’intero apparato del sistema penitenziario, in Italia è un percorso che ormai da anni sembra procedere alla cieca tra scelte assurde e incoerenti quasi al limite di una politica "criminale". Il Ministero della Giustizia in merito inviò a titolo di informativa ai sindacati uno "Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con allegato il "Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli Uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia", relativo alla spending review. E che cosa prevedeva la nuova riorganizzazione? Tagli e tagli: riduzioni dei ruoli dirigenziali, di educatori, cinque provveditorati regionali, assistenti ma anche di uffici strategici per la lotta alle organizzazioni mafiose presenti sul nostro territorio, mafia, camorra e ‘ndrangheta e anche quelle meno conosciute ma presenti, con il risultato di meno controllori, così come meno controlli delle strutture penitenziarie e di chi deve scontare la pena fuori dal carcere, con il sinistro risultato di mettere a dura prova e in pericolo la sicurezza pubblica sia all’interno delle carceri sia all’esterno, tra le strade delle città già martoriate da fatti di cronaca nera, abbastanza violenti oltre i limiti d’ogni regola civile e democratica. Avellino: il "camper della salute" dell’Asl fa tappa al carcere di Ariano Irpino www.irpinia24.it, 28 novembre 2014 Gli specialisti del Progetto Salute effettueranno la rilevazione delle condizioni di salute (e del trattamento ad esse associato) della popolazione detenuta. Grande attenzione del nuovo Direttore Generale dell’Asl Avellino il dr. Mario Nicola Vittorio Ferrante alle politiche di prevenzione sanitaria con il Progetto Salute. Diritto alla salute anche dentro le mura: i Camper del Progetto Salute dell’Asl Avellino diretta dal dr. Mario Nicola Vittorio Ferrante, stazioneranno sabato 29 novembre 2014 presso la casa circondariale di Ariano Irpino (Av). La sanità locale concretamente si prende cura di una fascia tra le più deboli della società. Gli specialisti del Progetto Salute effettueranno la rilevazione delle condizioni di salute (e del trattamento ad esse associato) della popolazione detenuta. Il tema del diritto alla salute per i detenuti acquista un rilievo etico particolare, per molteplici ragioni: in primo luogo, perché la popolazione detenuta rappresenta un gruppo ad alta vulnerabilità, il cui livello di salute, ancor prima dell’entrata in carcere, è mediamente inferiore a quello della popolazione generale. Inoltre, il principio della pari opportunità (fra detenuti e liberi) all’accesso al bene salute da un lato incontra ostacoli nelle esigenze di sicurezza, dall’altro entra in contraddizione con una pratica di detenzione che produce sofferenza e malattia. Ne consegue per tutte le autorità competenti, ad iniziare da quelle sanitarie, un dovere di sorveglianza e verifica dell’effettivo rispetto del diritto alla salute dei detenuti. Le patologie trattate e le prestazioni specialistiche programmate saranno: Melanoma, visita dermatologica. Neoplasia prostatica, visita urologica, esame Psa. Patologie cardiache, visita cardiologica, elettrocardiogramma, ecocuore. Patologie renali ,visita nefrologica, test microalbumina. Patologia tiroidea, controllo ed ecografia tiroidea. Particolare attenzione verrà data alla patologia diabetica e neurologica grazie all’introduzione di un particolare esame, la biotesiometria. Attraverso il Progetto Salute l’Azienda Sanitaria di Avellino intende fornire un originale contributo allo sviluppo di una cultura della prevenzione, che miri alla tutela, prima che alla cura, della salute della popolazione ed che sia in grado di sostenere e qualificare il rapporto fiduciario tra cittadini ed istituzioni. I Camper della Salute hanno introdotto in sanità il nuovo concetto di medicina d’iniziativa, politica sanitaria volta a intercettare gli stati patologici prima che diventino cronicità. Tutto ciò finora grazie anche al supporto e coinvolgimento dei medici di base che sono i primi referenti delle politiche di prevenzione sanitaria. Attraverso il Progetto Salute ed il Progetto Salute Plus l’omonimo team aziendale e, per esso, l’Azienda Sanitaria di Avellino ha acquisito un know how logistico organizzativo nel campo della prevenzione, tale da rendere finalmente possibile la realizzazione di stabili percorsi mirati alla tutela, prima che alla cura, della salute della popolazione. Flessibilità, disponibilità, esperienza costituiscono gli ingredienti essenziali del successo che sta riscuotendo l’iniziativa messa in campo dall’Asl Avellino e che si candida a diventare un nuovo modello cui ispirarsi per sostenere e qualificare il rapporto fiduciario tra cittadini ed istituzioni. Velletri (Rm): Sippe; carcere è al collasso… fate rientrare gli agenti dai palazzi del potere www.lanotiziaoggi.it, 28 novembre 2014 Il Sindacato Polizia Penitenziaria Sippe, ha inviato una lettera al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, al Direttore della Casa Circondariale di Velletri, al Garante dei detenuti del Lazio, al Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ai Gruppi Consiliari del Consiglio Regionale Lazio, dove comunicano che il personale aderente al Sippe presso il penitenziario di Velletri, dal 1° dicembre 2014 si asterrà dalla mensa obbligatoria di servizio, perché la grave carenza delle risorse umane e il continuo depauperamento delle stesse, costringe i poliziotti penitenziari ad eseguire turni massacranti che si pongono in netto contrasto con le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, previste dall’articolo 15 del D.Lgs. 81/2008. "A quanto pare - dichiara Carmine Olanda, segretario locale del Sippe - le varie manifestazioni di protesta del Sindacato e l’appello del Garante dei detenuti del 31 ottobre scorso, non sono sufficienti a far comprendere che al Carcere di Velletri c’è una difficile situazione che potrebbe compromettere irrimediabilmente il normale svolgimento dei servizi istituzionali". "Il carcere di Velletri - continua Olanda - presenta, dopo le carceri romane, il più alto numero di detenuti ristretti (553 al 29 ottobre) ed è secondo solo a Rebibbia per detenuti definitivi (359)". Secondo il Sippe, il datore di lavoro dovrebbe ridurre il rischio alla fonte invece, nel caso specifico del carcere di Velletri, sembra voglia indebolire lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale del lavoratore, con il rischio di aumentare le malattie e gli infortuni. La protesta scaturisce proprio dal fatto che il Dap pare abbia emesso provvedimenti di rientro nelle proprie sedi di appartenenza dei 15 distaccati ma avrebbe anche previsto un’ulteriore mobilità provvisoria in uscita di diversi poliziotti che dovrebbero essere impiegati nei penitenziari di Rebibbia e Santa Maria Capua Vetere. Insomma, secondo il Sippe, al danno si aggiunge la beffa e non si comprende come mai il Provveditorato e il Dipartimento non procedano ad emettere provvedimenti immediati di rientro in sede di tutti quei poliziotti effettivi al carcere di Velletri ma che da anni sono distaccati nei vari palazzi del potere, tra cui il Dap e l’Uepe di Latina, nonostante il penitenziario di provenienza di questo personale sia in pieno stato di emergenza. "Non siamo più disposti a tollerare scelte contraddittorie nella gestione delle risorse umane - conclude Olanda - e pertanto ci riserveremo di rivolgerci alle competenti autorità, non escluse quelle giudiziarie, a tutela della sicurezza dei lavoratori e a garanzia del servizio pubblico svolto dai poliziotti che non può subire un turbamento, alterando il tempestivo, ordinato ed efficiente sviluppo dello stesso". Vista la situazione emergenziale, il Sippe chiede il rientro immediato di tutti i distaccati nonché ogni utile provvedimento che garantisca l’ordine e la sicurezza interna e tuteli la salute dei lavoratori. Como: Sappe; la Polizia penitenziaria sventa incendio appiccato da un detenuto nigeriano Adnkronos, 28 novembre 2014 Ieri sera un detenuto straniero, di nazionalità nigeriana, imputato per i reati di furto e spaccio di stupefacenti, ha dato fuoco alla cella, bruciando tutto quello che era nella sua disponibilità: materasso, cuscino, tavolo e armadietto. Poteva essere una tragedia, sventata fortunatamente dall’intervento del poliziotto penitenziario di servizio nel reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari in servizio nel carcere. È quanto rende noto in una nota di Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che si congratula con gli agenti che sono intervenuti "con professionalità, capacità e competenza". "La situazione, a Como e nelle carceri italiane, resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", prosegue il sindacalista dei Baschi Azzurri. "E sebbene l’Italia risulti di fatto inadempiente rispetto alla sentenza Torreggiani della Corte europea per i diritti dell’uomo, il rinvio al giugno 2015 per un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal governo per affrontare il problema del sovraffollamento segna il fallimento delle politiche penitenziarie adottate dal Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Se il numero dei detenuti è calato, prosegue Capece "è la conseguenza del varo - da parte del Parlamento - di 4 leggi svuota carcere in poco tempo. Ma il Dap non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere. E allora serve una nuova guida all’Amministrazione Penitenziaria, da mesi senza un Capo Dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a partire dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere". Capece torna a richiedere un impegno del Governo per l’espulsione dei detenuti stranieri in Italia, che spesso sono tra i principali protagonisti di eventi critici in carcere. "È sintomatico", conclude il leader dei Baschi Azzurri, "che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni 90 sono passati oggi ad essere oltre 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". Padova: la confessione dell’agente; cocaina e cellulari ai detenuti? "ho mutuo da pagare" www.blitzquotidiano.it, 28 novembre 2014 Il punto debole era il quinto blocco del Due Palazzi, il carcere di massima sicurezza di Padova. Da lì entrava di tutto: cocaina, telefonini, chiavette, computer, eroina, hashish, alcol e denaro. A gestire il traffico c’era Pietro Rega, il quarantottenne capo degli agenti di polizia penitenziaria arrestato nel luglio scorso e indagato dalla procura di Padova con altri 30 fra colleghi, reclusi, familiari e pure un avvocato. Lo stesso Rega ha confessato tutto il 6 novembre in un interrogatorio choc: "È vero, ho portato in carcere pacchi con telefonini, dischetti, schede telefoniche, chiavette Usb, eroina, fumo". Tutto per soldi, naturalmente: "Per denaro e per droga - spiega lui. A livello economico sono stato per un po’ di tempo sotto, anche perché avevo il mutuo pesante. E avevo iniziato a fare uso di stupefacenti, avevo bisogno di soldi. Mi hanno offerto delle cose e…". E ancora: "Qualche volta sono andato in confusione perché è arrivato più di un vaglia e non sapevo di chi fosse - ha spiegato al pm Sergio Dini. Non conoscevo tutti quelli che mi mandavano i soldi". Roma: libri per i piccoli "detenuti" di Rebibbia, grazie alla Chiesa Valdese di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 novembre 2014 Nella sezione nido di Rebibbia c’è ora una biblioteca permanente con una collezione di 150 libri per i bambini da 0 a 3 anni, i quali condividono la detenzione con le loro madri. Il 26 novembre scorso è stata presentata nella sala Nassiria del Senato la nuova iniziativa dell’associazione "A Roma Insieme, Leda Colombini" che ha partecipato e vinto un bando finanziato con il ricavato dei fondi dell’8 per mille raccolti dalla Chiesa valdese, grazie al quale ha potuto realizzare la biblioteca per il nido di Rebibbia. Susanna Pietra, responsabile della raccolta fondi della Chiesa valdese e partner del progetto, ha spiegato che le due categorie alle quali si è rivolto il progetto, ovvero detenuti e bambini, sono al centro dell’attività della chiesa e quindi ha espresso orgoglio per aver fatto parte dell’iniziativa. È intervenuto anche Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, che ne ospitava la presentazione alla stampa. "Mentre continuiamo a fare pressioni sui legislatori perché si decidano ad applicare la legge del 2011 che stabiliva per le mamme detenute e i loro bambini l’istituzione delle case famiglie protette per evitare un oltraggio e un’afflizione nei confronti di assoluti innocenti, nel frattempo dobbiamo seguire il percorso tracciato in tanti anni da Leda Colombini dell’emancipazione dalla pena e del miglioramento delle condizioni di vita dei piccoli reclusi". Non ha fatto mancare il suo contributo concreto all’associazione il garante per l’infanzia Vincenzo Spadafora: "I dati recentemente diffusi dall’Istat sulla povertà assoluta - ha dotto Spadafora - spaventano per la loro crudezza: un milione e 400mila persone vivono nella povertà assoluta e la gran parte di questi non ha mai letto un libro nella sua vita, vivendo anche nella assoluta povertà culturale. Ben vengano, dunque, queste buone pratiche da prendere a esempio e da distribuire nelle realtà carcerarie del territorio". La biblioteca è stata appositamente studiata per uno spazio di ridotte dimensioni e multifunzionale con mobili e complementi d’arredo colorati, interamente in cartone ondulato, pieghevoli e di facile montaggio. L’obiettivo principale del progetto era quella di far scoprire da vicino alle mamme le potenzialità degli albi illustrati, attraverso letture e attività ludico-creative, da sperimentare poi autonomamente con i propri bambini, incentivando una relazione positiva tra grandi e piccoli in un contesto difficile come quello carcerario. "Il progetto - ha spiegato la curatrice Giulia Franchi - puntava prima di tutto al conseguimento di una fruizione autonoma della biblioteca da parte delle marame; nei sei incontri che si sono svolte nel nuovo ambiente, abbiamo presentato una selezione di albi accompagnata da suggerimenti per la lettura e da attività di laboratorio. La risposta che abbiamo avuto sia dalle detenute che da parte dei piccoli è stata entusiasmante e il risultato finale si può dire che sia stata la scoperta da parte delle mamme che i libri sono pezzetti di esperienza da portare per sempre con se nel percorso della propria vita". Soddisfatta anche la direttrice di Rebibbia femminile, Ida dal Grosso: "Il contatto diretto con i libri darà ai bambini la possibilità di sognare a occhi aperti, imparando dalle favole che un lieto fine è sempre possibile. Le madri, quando metteranno a letto i propri figli potranno avere un momento di vicinanza con loro aiutandoli con la lettura a superare angosce e paure che, spesso, si affacciano quando è il momento di spegnere la luce". Roma: intervista a Fabio Cavalli, referente del progetto di teatro nel carcere di Rebibbia di Giulia Esposito www.quartaparetepress.it, 28 novembre 2014 Nell’ambito dell’inchiesta condotta dal nostro giornale per indagare il rapporto tra arte e istituzione carceraria, abbiamo incontrato l’attore e regista che ha ispirato e coprodotto il film "Cesare deve morire", Orso d’Oro a Berlino, per conoscere la sua esperienza con i detenuti di Rebibbia. Fabio Cavalli è laureato in Filosofia e diplomato all’Accademia dello Stabile di Genova. Attore, regista, autore, scenografo, produttore, curatore, ha collaborato con i maggiori protagonisti della scena italiana (Enrico Maria Salerno, Franco Zeffirelli, Alberto Lionello, Maurizio Costanzo, Sandro Sequi, Mario Missiroli) e con teatri come l’Eliseo e il Quirino dei quali ha curato la programmazione di teatro sociale. Come autore ha vinto il Premio Internazionale Teatro e Scienza (1996), il Premio Lazio Teatro - Fondi La Pastora (1998), il Premio Sicilia 2001, il Premio Anima per il Teatro 2009. Fabio Cavalli è il referente artistico del progetto del teatro nel carcere di Rebibbia, a Roma, sezione Alta Sicurezza. Avviato nel 2000, il progetto è sostenuto, oltre che dalle istituzioni, dall’Associazione "La Ribalta" Centro Studi e Archivio Storico Enrico Maria Salerno. Dal 2002 dirige la Compagnia dei Liberi Artisti Associati del Carcere di Rebibbia. Nel 2011 i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno basato il loro ultimo film, Cesare deve morire, proprio sul lavoro di Fabio Cavalli con la Compagnia dell’Alta Sicurezza di Rebibbia. Il film ha vinto l’Orso d’oro alla 62a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, 5 David di Donatello tra cui Miglior Film e Miglio Produzione, ha ricevuto il Nastro d’Argento 2012 ed è stato candidato italiano agli Oscar 2012. Cosa l’ha spinta ad iniziare l’attività teatrale in carcere? Il caso. Più di dieci anni fa un amico che conosceva il mio lavoro di regista e autore mi propose di dare una mano ad un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza di Rebibbia nuovo complesso che sentivano l’esigenza di dare un senso al vuoto penitenziario attraverso il teatro. Così entrai in carcere per la prima volta. Credevo di fare qualcosa di utile per uomini che avevano sbagliato e la stavano pagando davvero cara. Ero curioso e timoroso di quella situazione tanto estranea alla mia vita e tanto complessa. Avrei avuto di fronte a me boss criminali. Entrai nel reparto e venni chiuso in una stanza con venti di loro. Provavano a mettere in scena Napoli Milionaria di Eduardo, imitando lo spettacolo visto in videocassetta. Assistetti alla prova della scena della borsa nera sotto il letto di Gennaro Iovine, con l’arrivo del commissario e la recita della veglia funebre sotto i bombardamenti americani. Nella confusione, non credo di aver mai visto tanto teatro in tutta la mia vita. Fu così che non riuscii più a staccarmi da quel mondo, da quel contesto: l’unico dove il teatro abbia ancora un senso ed una necessità primigenia. Oggi a Rebibbia abbiamo tre compagnie teatrali, una band musicale e un centro europeo di formazione sullo spettacolo che coinvolge più di cento detenuti. Nel nostro grande teatro abbiamo accolto 40.000 spettatori negli ultimi 5 anni. Il teatro si colloca fra i primi 7 a Roma per presenze di pubblico (60% di studenti delle scuole superiori). In scena abbiamo portato Shakespeare, Dante, Bruno, Cechov, Tolstoj, Eduardo, Pirandello e Aristofane per una totale di 20 produzioni. Molti dei nostri attori sono ora professionisti delle scene "libere" e molti tornano dentro per lavorare con noi. Su 380 solo 4 sono rientrati per nuove condanne. Cosa significa per Lei fare teatro in carcere? Significa dare un senso ad un mestiere, un’arte, un artigianato che ha completamente smarrito il suo senso. Una comunità di uomini che cerca riscatto attraverso la bellezza, la parola, il gesto armonico, la costruzione di un lessico "alto" ed "altro" rispetto alla subcultura d’origine, ma sempre rigorosamente valorizzando la gergalità dialettale, il suono antico della terra d’origine, nobilitato dalla parola altissima dei poeti. Questo è ciò che dovrebbe accadere in ogni teatro, "libero" o "recluso". Nel primo non accade più da tempo. Le platee italiane si svuotano (-10% di biglietti SIAE), i giovani ignorano lo spettacolo dal vivo, gli "artisti" sono ormai sempre più dei volontari che si distinguono dagli "amatori" per la presunzione di saper fare arte. Nel luoghi del disagio, al contrario, le platee si riempiono, gli spettatori si stupiscono e si commuovono, riconoscono la bellezza ed il dolore inscenati nella povertà assoluta, come qualcosa di proprio. Avviene la catarsi. Al di là delle ricadute sociali del fare teatro in carcere, al di là del principio della cosiddetta rieducazione, sui palcoscenici "reclusi" le parole dei grandi autori riecheggiano in modo nuovo, sorprendente, sorretti dalla voce e dal corpo di interpreti che sono entrati in contatto quasi fisico con i temi universali: Potere, Giustizia, Passione, Fratellanza, Tradimento, Follia, Perdono, Violenza, Onore, Riscatto, cose che noi borghesi conosciamo nella loro essenza solo dal lato del pensiero e assai poco da quello della vita. Come avviene la selezione dei detenuti da impegnare nelle attività? Quanti possono partecipare? La selezione avviene per semplice avvicendamento. Ciascuna delle Compagnie di Rebibbia non può accogliere più di una trentina di attori. Mano a mano che gli anziani escono per fine pena si liberano i posti per coloro che stanno in lista d’attesa. Come viene organizzato il lavoro laboratoriale? Si lavora sui testi: o la grande letteratura e drammaturgia di ogni tempo, o testi originali costruiti spesso con gli stessi interpreti. Si parte comunque dalla parola, dal copione, per poi, passo passo, scendere in profondità al sotto testo, alle circostanze immaginarie, alla psicofisiologia dell’atto teatrale, alla corporeità dell’uomo/attore. Quale tipologia di lavoro viene adoperata per individuare un personaggio e dare vita all’interpretazione? Esattamente il lavoro che si fa attraverso il metodo Stanislavskij con una qualunque compagnia teatrale: scavo interiore, ricerca delle circostanze immaginarie, immedesimazione. Non esiste nessuna differenza di statuto estetico o metodologico fra un lavoro "classico" e un lavoro ad impronta "sociale". Ci sono stati cambiamenti in questi anni nel Suo modo di lavorare? Ho approfondito il coinvolgimento umano; ho dovuto adeguarmi nel turnover degli interpreti; ho preso le giuste distanze e vicinanze dal contesto penitenziario (agenti, educatori, direzione…). Il grosso lavoro in carcere è soprattutto quello delle relazioni. Non è facile farsi accettare. All’inizio gli Agenti della Polizia Penitenziaria erano sospettosi e scettici. Ben presto, dopo aver assistito ad alcuni spettacoli e toccato con mano il successo popolare degli attori ed il clima rasserenato nelle celle, hanno cominciato ad apprezzare tutto quanto. Oggi sono fra i primi "fans" delle Compagnie e favoriscono in ogni modo il sereno svolgimento delle attività teatrali. I grandi cambiamenti avvengono fra i miei attori. Il teatro in generale cambia l’attitudine delle persone riguardo a se stesse e al mondo circostante. In carcere, nell’incontro con personalità dure ed incolte, la bellezza, la poesia, la memorizzazione, la ripetizione, l’esibizione sono tutti aspetti del vivere che incidono profondamente in coloro che in precedenza li avevano ignorati. Molti degli attori non conoscevano nulla del teatro, del cinema, della letteratura prima di incontrare la Compagnia. Lentamente si sono appassionati al lavoro di palcoscenico, hanno cominciato ad apprezzarne la faticosa disciplina per il carattere ludico del recitare. Hanno poi sperimentato la soddisfazione del consenso generalizzato, dell’applauso del pubblico, degli agenti di polizia, dei loro stessi compagni di cella. I loro familiari hanno cominciato presto a guardarli con altri occhi: non più semplici uomini di malavita ma uomini di spettacolo. Poi, col tempo, alcuni di loro hanno avuto successo nel mondo dello spettacolo, come liberi professionisti, e questo ha suscitato nei compagni ancora reclusi, nuove attese e nuova fiducia. Per molti di loro è avvenuta la scoperta che la vita può essere davvero arricchita dall’arte e che probabilmente non vale la pena di giocarsela nella partita a scacchi contro lo Stato, dove per lo più è lo Stato a vincere. Oggi, quei cento detenuti-attori che animano il teatro di Rebibbia N.C. si considerano, fra loro, colleghi di palcoscenico. Si sfidano, si emulano sul terreno comune dell’arte. Che tipo di relazione instaura con i detenuti? Siamo colleghi impegnati nella medesima sfida estrema dell’arte. Con molti di loro sono nate profonde amicizie. Gli spettacoli prevedono tournée? Riescono ad uscire dalle mura carcerarie? La Compagnia del Reparto G8 Lunghe Pene ha il privilegio di uscire alcune volte l’anno. I palcoscenici sono quelli dei grandi teatri della Capitale: Argentina, Eliseo e Quirino. Su cosa avete lavorato negli ultimi tempi? La Compagnia del Reparto G12 Alta Sicurezza, che dirigo, ha messo in scena Arturo Ué, ovvero Brecht a Rebibbia, un’opera in rima molto complessa. La Compagnia del Reparto G8 ha lavorato al Viaggio all’Isola di Sakhalin da Cechov e Oliver Sacks (drammaturgia e regia di Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito); la Band musicale, invece, ha portato in scena, pochi mesi fa, Omaggio a De André in collaborazione con la Fondazione Fabrizio De André, con la direzione musicale di Franco Moretti. Stiamo poi portando in carcere il progetto Segnalibro con l’Associazione Italiana Editori per creare un’impresa che produca eBook "accessibili" ai non vedenti da inserire in filiera commerciale. Offrirà formazione e lavoro intellettuale a circa 12 detenuti nel primo anno (a Rebibbia abbiamo 40 iscritti ai corsi universitari interni). Roma: progetto "Le donne del muro alto", il teatro a Rebibbia si ispira al Macbeth Corriere della Sera, 28 novembre 2014 A Rebibbia il teatro ha da tempo un suo ruolo significativo. Mentre il gruppo delle detenute attrici della sezione di massima sicurezza cercano, per il progetto "Le donne del muro alto" da realizzare con l’associazione Ananke, di trovare fondi (25 mila euro entro fine anno per non perdere anche il finanziamento della Regione Lazio) si annuncia, per domani pomeriggio nel teatro della casa circondariale in Via Majetti 70, un incontro-dibattito col pubblico e rappresentazione di "Macbeth, ovvero nessun dorma" con la regia di Giancarlo Capozzoli e la partecipazione di 30 detenuti e delle attrici performer Lucia Bricco, Pamela Del Grosso, della cantante lirica Irene Morelli, e dei musicisti Gino Maria Boschi, Marco/Ubik Bonini più l’operatrice video Martina Ghezzi. Questa messa in scena è il risultato di un laboratorio teatrale culturale iniziato a ottobre del 2013. L’idea di base è quella di promuovere dei percorsi creativi-alternativi intervenendo sulla marginalità, sull’esclusione comunicativa e relazionale determinate dalla carcerazione, al fine di un recupero e un reinserimento sociale delle persone detenute. "L’incontro con il teatro, e con l’arte in generale, può essere un modo per riavvicinare i detenuti/e ai principi fondamentali della vita, realizzando una rivalutazione dei valori, che per motivi diversi si sono persi di vista", spiega Capozzoli, citando un’affermazione di Antonin Artaud: "nella vita il teatro si sforzerà di esprimere tutto quello che la vita dimentica, dissimula o è incapace a esprimere". Lo spettacolo "Macbeth, ovvero nessun dorma" prende solo spunto dal testo classico shakespeariano, scelto perchè attraverso la poesia di Shakespeare si vuole tentare una riflessione sull’ambizione umana e sulle sue conseguenze. Si costruisce così un testo plasmato dalle esigenze e dalla personalità di ciascun attore, un testo in continua trasformazione e rielaborazione non solo da parte del regista ma degli stessi interpreti, che vi aggiungono spunti interpretativi, anche a partire dall’uso del proprio dialetto o lingua di appartenenza. "Un altro aspetto molto importante è la relazione che si instaura all’interno dell’istituzione carceraria tra gli attori-detenuti e il regista, gli attori e i collaboratori esterni che partecipano e organizzano i laboratori - racconta il regista. Si cresce insieme, e l’arricchimento è reciproco, ci si mette in relazione, e ci si confronta sulla vita. Ognuno dona ciò che può, i detenuti mettono a disposizione il proprio tempo, che non finisce mai, i loro corpi e le diverse esperienze, gli esterni la loro professionalità, la loro esperienza personale, il loro essere libere questa rappresentazione finale anche favorisce una relazione tra il pubblico esterno e i detenuti". Milano: con la Fondazione Candido Cannavò un "giorno speciale" a San Vittore di Gian Luca Pasini www.gazzetta.it, 28 novembre 2014 "Laggiù si rifugiava Candido, quella cella era per lui una sorta di ufficio mentre raccoglieva il materiale per scrivere "Libertà dietro le sbarre", il suo libro sui carcerati. Noi qui a San Vittore, a Opera, al Beccaria oltre che nell’impegno per la disabilità o il sostegno all’educazione etica e alla legalità, cerchiamo di portare avanti i progetti in cui lui credeva". Elio Trifari, direttore della Fondazione Candido Cannavò per lo Sport, spiega la filosofia dell’associazione, che alimenta il ricordo dello storico direttore della Gazzetta scomparso nel 2009, all’interno del III Raggio del carcere milanese di San Vittore. Oggi è andato in scena il primo torneo intitolato a Pier Mario Vello, segretario generale della Fondazione Cariplo, scomparso improvvisamente un anno e mezzo fa, ma anche poeta e uomo di cultura. Si è giocato sul campo di calcetto in erba sintetica che la Fondazione Cannavò, con il contributo della Fondazione Cariplo, ha realizzato nel giugno 2012 proprio al III Raggio. È una struttura riservata ai detenuti, ieri ha visto le sfide fra i St.Victory Boys, le Fiamme Azzurre San Vittore, la Fondazione Cariplo e La Gazzetta dello Sport. Il successo è andato ai ragazzi detenuti che, dopo aver piegato ai rigori le guardie carcerarie nel classico derby, hanno assistito festanti al successo della Gazzetta sulle Fiamme Azzurre che ha dato loro la certezza della vittoria finale. Il torneo Consegniamo alle statistiche i risultati del torneo Vello: Fiamme Azzurre San Vittore-Fondazione Cariplo 5-1, St.Victory Boys-Gazzetta dello Sport 7-4; St.Victory-Fiamme Azzurre 6-3 rig. (2-2), Gazzetta-Cariplo 6-2; Gazzetta-Fiamme Azzurre 3-2, St.Victory-Cariplo 3-0. Classifica: St. Victory 9; Gazzetta 6; Fiamme Azzurre 3; Cariplo 0. I protagonisti Carlo è il capitano dei St.Victory Boys: "Noi siamo felici quando si organizzano iniziative come queste. Viene gente da fuori che può vedere come noi siamo sì detenuti, ma prima di tutto essere umani. Il campo di calcetto è molto importante perché qui, quando ci alleniamo, ci sentiamo liberi, attraverso il gioco sentiamo il profumo della libertà come quando eravamo bambini". Ma il calcetto è interessante anche per le guardie: "Certo, è un’attività importante pure per noi - commenta l’agente scelto Giuseppe Fusco, capitano delle Fiamme Azzurre San Vittore -. Il calcio è aggregazione". Lo conferma anche l’assistente capo Giuseppe Cesta che è presidente della squadra: "Giochiamo spesso contro i detenuti, migliora i rapporti, possiamo farci conoscere in una veste diversa, far vedere che non siamo solo quelli che, diciamo, li opprimono per far rispettare i regolamenti". Manuela Federico è la Comandante della Polizia Penitenziaria. Tocca a lei consegnare la coppa dei vincitori alla squadra dei detenuti. "Giornate come questa sono importanti all’interno di una struttura particolare come San Vittore. Cerchiamo di promuoverle sempre. Lo sport è fondamentale sia per i reclusi sia per gli agenti. Aiuta anche l’integrazione. Non è un fatto secondario". Ma progetti così rischiano di diminuire, come ci spiega Dario Bolis, responsabile della comunicazione della Fondazione Cariplo: "Don Gino Rigoldi ha lanciato l’allarme con chiarezza: l’aumento delle tasse e l’aumento della base imponibile per calcolarle toglierà a tutte le fondazioni italiane 300 milioni di risorse ogni anno sui 900 erogati. Non è certo che non si vogliano pagare le tasse, però un taglio di un terzo significa che chi, come noi, sostiene progetti filantropici, tipo la realizzazione del campo di calcetto qui a San Vittore, si troverà a poterne realizzare di meno". Bolis ci tiene poi a ricordare Pier Mario Vello: "Lui non amava il calcio ma la montagna, però era un poeta e una giornata come questa gli sarebbe piaciuta, per l’atmosfera, per i protagonisti". Vello ha scritto, tra l’altro, libri di poesia sui migranti, qui a San Vittore avrebbe tratto altre ispirazioni. C’è molta umanità su un campo di calcetto. Modena: detenuti in scena e la Torre della Ghirlandina s’illumina contro la pena di morte Adnkronos, 28 novembre 2014 Nel weekend luce colorata sulla Torre. Sabato 29 novembre in Galleria Europa i detenuti portano in scena "Il verdetto" e la mostra "Colore ed emozione" Contro la pena di morte la Ghirlandina si illumina di luce colorata. Accadrà nelle serate di sabato 29 e domenica 30 novembre quando altre 1600 città di tutto il mondo aderiranno la campagna "Cities for Life" promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. In particolare, si concentreranno nel pomeriggio di sabato le iniziative organizzate dal Comune di Modena per confermare sostegno alla mobilitazione mondiale Città per la vita-Città contro la pena di morte nella promozione di una cultura comune del rispetto del diritto alla vita. Alla Galleria Europa, piano terra del Municipio di piazza Grande, alle 17.30 l’associazione Teatro dei Venti presenterà "Il verdetto", laboratorio teatrale con detenuti e liberi cittadini, ispirato alla storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, condannati a morte negli Stati Uniti. Per l’occasione, sarà anche allestita la mostra "Colore ed emozione", curata dall’associazione Gruppo Carcere-Città con le opere artistiche realizzate dai detenuti delle carceri di Sant’Anna e Castelfranco Emilia. L’esposizione sarà visitabile fino al 3 dicembre negli orari di apertura della Galleria. Sono 58 i paesi che ancora mantengono la pena capitale, estrema sintesi delle violazioni dei diritti umani che contraddice una visione riabilitativa della giustizia. Anche se negli anni il numero di esecuzioni è lentamente diminuito, sono ancora più di 17.800 le persone su cui pesa una condanna a morte e negli ultimi tempi la pena capitale sembra tornata in auge come deterrente contro la violenza. Per informazioni: Ufficio Politiche europee e Relazioni internazionali tel. 059.2033779. Milano: il sovrintendente del Teatro alla Scala Pereira ai detenuti "è il vostro Fidelio…" di Paolo Foschini Corriere della Sera, 28 novembre 2014 Il sovrintendente anticipa la Prima a San Vittore. E promette Turandot per Expo. "E se pensate che la storia di Fidelio si svolge tutta in un carcere, dalla prima all’ultima nota, chi più di voi può essere vicino al dramma del suo protagonista Florestan?". Alexander Pereira ci ha messo il tempo di questa domanda, ieri pomeriggio, per convincere i detenuti di San Vittore che persino una musica di Beethoven anziché di Vasco, e per giunta cantata tutta in tedesco, come quella che il 7 dicembre aprirà la stagione scaligera potrebbe anche stregarli sul serio. Sensibile da sempre al tema dei carcerati - quelli di Zurigo era stato a trovarli più volte - il sovrintendente della Scala ci teneva a incontrare di persona anche i detenuti e le detenute di San Vittore che tra dieci giorni potranno assistere alla Prima grazie alla diretta su maxischermo tra teatro e rotonda centrale del carcere. Ieri, accompagnato da Lina Sotis e dalla direttrice Gloria Manzelli, è stato con loro per quasi un’ora. E loro, una volta rotto il ghiaccio, lo hanno sommerso di domande: perché in tante opere, a differenza di questa, gli amanti alla fine muoiono? quanta gente lavora dietro il palco? perché alla Scala non fate anche il rock? Contagiato dall’entusiasmo, li ha salutati con una promessa: "Più avanti vi porterò musicisti e cantanti dal vivo. E il primo maggio, apertura di Expo, vi porterò in diretta anche Turandot". Domanda finale da Nobel: "Per maggio spero di esser fuori, posso rientrare solo per quel giorno?". Venezuela: 21 detenuti morti "avvelenati" nel carcere di Uribana durante una rivolta di Geraldina Colotti Il Manifesto, 28 novembre 2014 Aperta un’inchiesta. Per il ministero le vittime sono 13. I detenuti protestavano da due giorni contro le condizioni di vita nella prigione. Tredici detenuti morti, 21 secondo l’Osservatorio venezuelano delle prigioni (Ovp), una Ong di opposizione. È accaduto nel Centro Penitenciario de Centroccidente David Viloria, noto come Uribana, nello stato Lara (nella foto reuters). Secondo il comunicato ufficiale del ministero de Asuntos Penitenciarios, i reclusi "sono entrati con violenza in infermeria, hanno assaltato la farmacia e i laboratori e hanno ingerito farmaci di ogni tipo". In conseguenza, 145 detenuti "sono rimasti intossicati e sono stati prontamente curati". La magistratura ha aperto un’inchiesta e ha inviato un’ispezione sul posto. Anche la ministra delle Carceri, Iris Varela si è recata a Uribana ad affrontare la rabbia dei parenti fuori dal carcere. La rivolta si è verificata lunedì scorso, nelle prime ore della mattina quando, durante la conta, un gruppo di detenuti ha dichiarato di essere in sciopero della fame "per esigere la destituzione di un funzionario del Ministero che presumevano sarebbe stato nominato Direttore del centro", dice il comunicato. Poi, "hanno cominciato a rompere porte e pareti dell’area di reclusione". A mezzogiorno, funzionari del Ministero "hanno cercato intavolare il dialogo con i reclusi e persuaderli a riguadagnare le sezioni", ma alcuni detenuti che si trovavano alla porta hanno raccontato dell’assalto alla farmacia e dell’intossicazione dovuta all’ingerimento di "antibiotici, antiepilettici, alcol". I fatti registrati - aggiunge il comunicato - "non hanno alterato il regime di assoluto rispetto dei diritti umani e controllo integrale alla popolazione privata di libertà che vige nel penale, uno dei 70 centri in cui si applica il nuovo modello penitenziario che sta superando quello vecchio, caratterizzato anarchia e violazione dei diritti umani". Un modello che, in quindici anni di "socialismo bolivariano", sta cercando di recuperare il cronico sistema di abbandono in cui erano state tenute le carceri: fino al punto da costituire un vero e proprio stato nello stato, con tanto di detenuti armati e organizzati secondo direttive criminali o gerarchie di sopraffazione. Un modello basato su "prevenzione, studio e lavoro", ma difficile da realizzare: sia per le resistenze interne, il più delle volte armate che impediscono violentemente un altro indirizzo, sia per l’arretratezza e la corruzione dei funzionari. Una miscela a cui concorrono anche i ritardi processuali, spesso condizionati dalle stesse dinamiche e opacità e da chi ha interesse a soffiare sul fuoco dell’insicurezza. Per far fronte ai ritardi processuali e al mancato trasferimento dei detenuti, il governo ha disposto il trasferimento dei tribunali direttamente in alcuni carceri di riferimento e ha moltiplicato "le Procure di prossimità". Secondo il rapporto semestrale delle Ong di opposizione, nella prima metà del 2014 sono morti 150 detenuti in distinti episodi di violenza, soprattutto nel tentativo di impedire il trasferimento in altre carceri. Sempre secondo i dati delle Ong, si registra però una sensibile diminuzione delle violenze (il 14% in meno nel 2013). Nel primo semestre del 2014 - dice l’Osservatorio, la popolazione carceraria ammontava a 55.007 persone, il 64,56% delle quali in attesa di processo, 31,58% già condannato e il resto in regime alternativo. Lo sciopero era peraltro già stato annunciato nei giorni scorsi dal movimento Resistencia e dal partito Voluntad Popular, a cui appartiene il leader della destra Leopoldo Lopez. Ad amplificare l’episodio sono stati soprattutto gli avvocati di due accusati per le violenze contro il governo, scoppiate nel febbraio scorso, reclusi nel penale in attesa di processo. Si tratta di Raul Emilio Baduel (figlio di un generale arrestato ai tempi di Chavez che da tempo rifiuta le misure alternative) e di Alexander Tirado, noto come "El Gato de Aragua". Secondo i messaggi twitter dei familiari, i due avrebbero fatto parte delle proteste. Militanti che, come si può vedere dai loro siti, chiedono "la salida" (l’espulsione) di Maduro, sostenuti dalla ex deputata di estrema destra Maria Machado. Machado ieri ha reso pubblico di avere ricevuto un mandato di comparizione per il 3 dicembre dovuto all’accusa di aver attentato alla vita del presidente. Grecia: nel Centro di detenzione per migranti di Amygdaleza… benvenuti all’inferno di Ermal Bubullima www.balcanicaucaso.org, 28 novembre 2014 Violenze, ingiurie, assenza di cure mediche, condizioni di vita inumane in baracche senza acqua o luce. È il centro di detenzione di Amygdaleza, finanziato dall’Ue per accogliere migranti clandestini e richiedenti asilo. Mentre decine di famiglie di rifugiati siriani sono ancora accampati davanti alla sede del parlamento greco per richiedere una soluzione abitativa d’emergenza, 1000 dei 1600 migranti detenuti nel centro di detenzione di Amygdaleza stanno facendo, da sei giorni, uno sciopero della fame. Il centro è situato a 10 chilometri da Atene ed è stato oggetto di numerose critiche sia da parte di organizzazioni internazionali che della società civile greca. Sta girando in Italia in questi mesi "Chi ama brucia. Discorsi al limite della frontiera". È uno spettacolo teatrale il cui testo è basato su numerose interviste realizzate in seno ad un Centro di identificazione ed espulsione, Cie, in Italia. È uno spettacolo selezionato al Premio Dante Cappelletti 2013 e vincitore di La profonda crisi economica, le debolezze croniche della gestione dei flussi migratori, una cultura della violenza e dell’impunità in seno alle forze dell’ordine e la più rilevante emergenza rifugiati nel paese dalla fine della Seconda guerra mondiale rendono la situazione altamente critica. Sta inoltre per iniziare il processo ai 65 migranti che hanno preso parte agli scontri di Amygdaleza nell’agosto del 2013. Gli imputati sono accusati di gravi accuse penali. Protestavano contro la lunga durata della detenzione, per alcuni più di 25 mesi e sulle condizioni inumane a cui erano costretti. Occorre ricordare che l’attraversamento illegale di frontiere è un’infrazione amministrativa e non un reato penale e questo dimostra il carattere arbitrario, punitivo e dissuasivo di detenzioni così lunghe. Nei centri di detenzione i migranti irregolari coabitano con i rifugiati che hanno subito la guerra e la tortura, originari di paesi come la Siria o l’Eritrea. Vi sono anche minori di meno di 15 anni, che secondo l’Unhcr non possono essere oggetto di misure detentive. Torture e maltrattamenti Nel centro di Amygdaleza le condizioni detentive sono deplorabili e i maltrattamenti quasi sistematici. Secondo i migranti i colpi di manganello e gli insulti fanno parte della quotidianità e affermano inoltre che alcune tra le guardie più aggressive rivendicano pubblicamente la loro appartenenza al gruppo neonazista Alba Dorata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la morte di un giovane detenuto, Mohamad Afshaq. Quest’ultimo era un ragazzo pachistano che è morto lo scorso 6 novembre a causa di mancanza di cure. Mohamad Afshaq, asmatico, era stato ferito dalla polizia nel corso della grande rivolta che era scoppiata nel centro di detenzione di Corinto. Secondo le accuse di chi era detenuto assieme a lui, non è stato trasferito in un ospedale se non dopo essere collassato. Peggio ancora, assicurano che, alla richiesta di aiuto medico, i poliziotti avrebbero risposto: "Muori, chi se ne fotte". Qualche giorno dopo un altro detenuto pachistano è morto per una crisi cardiaca che, sempre secondo gli altri migranti, poteva essere evitata da cure mediche adeguate. I migranti affermano che tutte le volte che richiedono cure mediche ricevono come risposta calci ed ingiurie. Infine, quando riescono a consultare un medico, ricevono in cambio esclusivamente del paracetamolo, qualsiasi sia il loro stato di salute. Anche quest’ultimo sarebbe distribuito con parsimonia. I detenuti sono alloggiati in container e solo la metà di queste scatole metalliche hanno acqua corrente ed elettricità. Le condizioni di igiene sono così allarmanti che i gabinetti debordano e i migranti sono obbligati a convivere con ratti e scarafaggi (da vedere su Youtube le testimonianze video di alcuni migranti poi liberati). In un recente rapporto realizzato dopo aver visitato numerosi centri di detenzione, Medici senza frontiere ha denunciato le condizioni di detenzione che sarebbero la causa della maggioranza di malattie che colpiscono i migranti. Oltre alle malattie gastrointestinali e alla pelle, molti detenuti hanno anche gravi problemi psichici che possono condurli all’automutilazione e al suicidio. Sabato 22 novembre i detenuti di Amygdaleza hanno momentaneamente sospeso il loro sciopero della fame, dando cinque giorni alle autorità per rispondere alle loro richieste. Le autorità hanno ceduto ad alcune di queste, nello specifico alla possibilità di parlare con dei parenti al telefono più dei cinque minuti concessi sino ad ora. Si è inoltre promessa la restituzione dei cellulari e il miglioramento del cibo. Inoltre sono stati liberati 30 dei 180 migranti che erano detenuti da più di due anni ed hanno promesso di esaminare i 150 casi restanti. In un recente rapporto dell’Istituto ellenico per la politica europea ed estera si afferma che il centro di detenzione di Amygdaleza, finanziato da fondi europei e nazionali, non è stato solo molto costoso ma anche molto mal gestito dato che pochissimi tra i migranti che vi sono stati detenuti sono reintrati nei loro paesi d’origine. Stati Uniti: in carcere Baltimora boss mette incinte 4 guardie "questa prigione è mia…" www.fanpage.it, 28 novembre 2014 Secondo le indagini dell’Fbi americana il suo potere nel carcere dove era detenuto era massimo e la sua influenza psicologica era tale da soggiogare anche le guardie. Sta di fatto che il boss Tavon White è stato capace di arricchirsi anche in carcere e soprattutto di fare sesso con almeno quattro guardie carcerarie mettendole incinte. È quanto avvenuto incredibilmente in un istituito penitenziario di Baltimora, nello Stato del Maryland negli Stati Uniti. L’uomo, leader di un gang criminale locale nella quale era venerato e conosciuto con il nome di "Bulldog", stava scontando una pena a 20 anni di carcere ed era in attesa di un altro processo per tentato omicidio quando ha sostanzialmente preso il controllo della struttura. Secondo l’accusa White aveva a libro paga numerose guardie carcerarie e riusciva a guadagnare con il traffico di droga in prigione tra i 10mila e i 20mila dollari a settimana oltre a introdurre in cella cellulari e apparecchiature elettroniche. Il gangster però si era creato anche un vero e proprio harem tra cui appunto le quattro guardie, due delle quali arrivate addirittura a farsi tatuare il suo nome. A smascherarlo l’indagine dell’Fbi dopo alcune denunce. La polizia federale americana infatti attraverso l’installazione di alcune cimici ha catturato diverse conversazioni per incriminare le persone coinvolte: "Io sono la legge, questa è la mia prigione e posso contrabbandare quello che voglio qui" avrebbe affermato il boss in una conversazione con i suoi sodali. A processo oltre a Tavon White e alle donne incinte sono finite cinque guardie carcerarie, due detenuti, e un lavoratore della cucina.