Giustizia: "Stati generali" del carcere, il primo invito sia per i detenuti di Francesco Lai (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 26 novembre 2014 Una riflessione culturale sul sistema sanzionatorio e sulla funzione della pena. Dovrebbe essere questo il principale elemento ispiratore degli Stati generali sul carcere che si terranno il prossimo anno, come ha confermato il guardasigilli Andrea Orlando in occasione del suo intervento ai simposio giuridico su "Vent’anni di democrazia in Sudafrica", tenutosi presso la Corte costituzionale. In realtà saranno molti gli spunti di riflessione su cui dibattere. L’assise dovrebbe svolgersi nella prossima primavera. E rappresenta un’eccezionale opportunità per porre le basi, finalmente, a una riforma del sistema carcerario degna di tale nome, organica e di sistema. Per essere davvero tale non potrà che prendere le mosse dall’amara constatazione che, nonostante i numerosi interventi legislativi succedutisi negli ultimi quarant’anni, l’espiazione della pena in Italia continua a essere troppo spesso un momento di afflizione e sofferenza (morale e talvolta fisica) per chi la subisce e non, come dovrebbe, lo strumento volto al recupero di chi ha sbagliato e al suo reinserimento nella collettività. Nonostante la popolazione carceraria sia negli ultimi tempi diminuita, i dati ci dicono che il numero dei morti all’interno degli istituti non accenna a diminuire. È notizia recente quella del suicidio di un giovane detenuto all’interno del carcere di Firenze Sollicciano, l’ultimo di una lunga e triste sequela. Agli Stati generali parteciperanno tutti coloro che ruotano intorno all’universo carcerario e che quotidianamente operano all’interno degli istituti, La loro testimonianza sarà importante per meglio enucleare le numerose e svariate cause di criticità del sistema (sovraffollamento, strutture vecchie e obsolete, assistenza sanitaria inadeguata, solo per citarne alcune). E anche per ottenere un positivo contributo in ottica riformatrice. Occorre capire se all’incontro parteciperanno anche coloro che sono i veri protagonisti della vita carceraria, ossia i detenuti. Tale auspicio è stato espresso alcune settimane fa da Carmelo Musumeci, il detenuto-scrittore che sconta l’ergastolo presso il carcere di Spoleto e che, in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha invitato quest’ultimo ad inserire nell’elenco dei partecipanti agli Stati generali anche coloro che più di tutti vivono il mondo carcerario, alcuni dei quali, i condannati alla massima pena, si trovano a dover scontare una "pena di morte bianca", quale è, nei fatti, l’ergastolo. Di certo le riflessioni di Musumeci (che da tempo combatte una personale battaglia) per l’abolizione dell’ergastolo, e il percorso da lui compiuto durante la sua esperienza carceraria, potranno essere utili anche a quei detenuti che in carcere sono solo di passaggio e che un domani riacquisteranno la libertà. A proposito di ergastolo, noi coltiviamo la speranza e nutriamo il profondo convincimento che gli Stati generali sul sistema penitenziario possano essere l’occasione in cui discutere concretamente, al riparo da pregiudizi ideologici, della sua definitiva eliminazione dal nostro ordinamento. Il tema della abolizione della pena perpetua viene riproposto con sempre più frequenza e trova via via maggiori consensi, il che non può che farci ben sperare. Oltre all’accorato appello rivolto alcune settimane fa dal Santo padre in occasione di un incontro con i rappresentanti dell’Associazione internazionale di Diritto penale, nel quale l’ergastolo era stato assimilato ad una "pena di morte nascosta", ci piace richiamare le parole del professor Umberto Veronesi che, oltre a sostenere come la massima pena sia "antiscientifica" perchè il male non ha origine nell’uomo ma nell’ambiente che lo circonda, si dice pronto a scendere in piazza per la sua abolizione. Senza dimenticare che il numero dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo in Italia non è diminuito nel corso degli anni. Non sfugga, inoltre, che si fa sempre più strada, tra le funzioni a cui la sanzione penale dovrebbe assolvere, quella della riconciliazione tra autore del crimine e vittima, rispetto alla quale, evidentemente, l’ergastolo si colloca agli antipodi. Ben vengano dunque gli Stati Generali, affinché di carcere non si parli più e solo in chiave propagandistica o per risolvere contingenti problemi di sovraffollamento ma per dare finalmente attuazione al precetto costituzionale che descrive la pena come momento di graduale recupero del reo. E non della sua eliminazione. Giustizia: quei dubbi sugli "8 euro" di risarcimento che non hanno fondamento di Michele Passione (Camera Penale di Firenze) Il Garantista, 26 novembre 2014 Convegno fiorentino dello scorso fine settimana. Titolo: "Delitti e pena: 250 anni dopo Beccaria. 11 fallimento del carcere". Il tema di una delle sessioni, a cui chi scrive ha avuto il privilegio di prendere parte insieme con Luciano Eusebi, Silvia Cecchi, Gherardo Colombo e Carlo Renoldi, era "Quale pena". Non è dunque inutile interrogarsi, anche sulle pagine di questo giornale, su quale sia lo stato di salute del carcere italiano, dopo i recenti interventi normativi successivi alla sentenza Torreggiani. Il 24 settembre la Terza sezione della Suprema Corte ha depositato una sentenza, la numero 39159, che stabilisce come "collocare animali (nella specie, delfini) in ambienti inadatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità e delle condizioni tecniche, integra la sottoposizione a comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche dell’animale, punita dall’articolo 544 ter del Codice penale, in quanto forma di maltrattamento di animali". Dunque un delitto. E nemmeno la più lieve fattispecie di quelle previste all’articolo 727 del codice, che punisce proprio la "detenzione degli animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze". Il giorno dopo, con due distinte decisioni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato irricevibili una serie di ricorsi proposti per violazione dell’articolo 3 della Convenzione da alcuni detenuti in carceri italiane. I giudici di Strasburgo, pronunciatisi all’unanimità, hanno ritenuto (retroattivamente) che non sussistessero le condizioni di ricevibilità dei ricorsi seppur presentati prima dell’entrata in vigore dei nuovi rimedi. Di più. La Corte ha affermato, pur riservandosi la possibilità di riesaminare in futuro l’effettività dei rimedi domestici, che essi possano dar luogo a ristori adeguati per il pregiudizio patito. Quanto ai rimedi risarcitori, notevolmente inferiori a quelli che la Corte normalmente riconosce, e per di più previsti (come quelli compensativi) in misura fissa, i giudici hanno ritenuto la congruità dello strumento introdotto dal legislatore di urgenza, a condizione che le decisioni dei giudici nazionali siano rapide, motivate, ed eseguite con speditezza. Così, mentre Strasburgo tira il fiato, restituendo al mittente legittime richieste avanzate da anni dai detenuti, il diritto pretorio si propone, sul punto, con provvedimenti che, lungi dal presentare le caratteristiche di effettività di cui all’articolo 13 della Convenzione, finiscono col creare soluzioni ancor più sconcertanti. E infatti, accanto a letture costituzionalmente e convenzionalmente orientate (provenienti dagli uffici di Sorveglianza di Padova, Genova, Spoleto, Bologna, Bergamo, Verona), altri magistrati hanno dichiarato inammissibili i ricorsi, ritenendo che il pregiudizio patito debba assumere i caratteri della perdurante gravità ed attualità, sino al momento dello scrutinio. Sul punto, se è agevole rilevare come il rimedio risarcitorio sia conseguente alla violazione dell’articolo 3 della Cedu (uno dei quattro core rights assolutamente inderogabili previsti dalla Convenzione) nei confronti di soggetti detenuti o internati, e dunque appaia fuorviante, in subiecta materia, la valutazione del pregiudizio (per ipotesi, la tortura, anch’essa riconducibile all’articolo 3) secondo parametri di minor o maggior gravità (non esistono infatti trattamenti inumani e/o degradanti, o peggio ancora torture, che siano "più o meno gravi"), appare evidente come il riferimento al risarcimento per "il richiedente che ha subito il pregiudizio" non possa che tener conto anche di situazioni pregresse, e ciò malgrado un’autorevole dottrina e un magistrato di Sorveglianza di Alessandria abbiano perfino sostenuto, sulla base dell’articolo 11 delle preleggi, che il rimedio di nuovo conio non valga se non dal giorno della pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale (28 giugno 2014). Non a caso, i reclami continuano ad arrivare negli uffici di Sorveglianza, la cui mole di lavoro, e il tempo occorrente per il disbrigo delle istruttorie richieste, non farà che rallentare le decisioni dei magistrati, con buona pace di quanto richiesto da Strasburgo. Così, "a causa delle incertezze e lacune del testo normativo, dei gravi contrasti giurisprudenziali, della complessità delle istruttorie e della assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli uffici di Sorveglianza", il comitato esecutivo del Conams (Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza) lo scorso 13 novembre si è rivolto al ministro, chiedendo (tra l’altro) "l’interpretazione autentica del dettato normativo"(?) "o una sua modifica". E chiedendo inoltre, questa volta opportunamente, che i rimedi risarcitori siano altrimenti e diversamente fruibili anche per gli ergastolani e gli internati. E allora, posto che una visione moderna e costituzionalmente orientata della pena, nel suo costante dinamismo, impone di assicurare che in ogni momento (legislativo, giurisdizionale ed esecutivo) essa sia espressione del rispetto dei valori fondanti per la quale è stata prevista, emessa ed eseguita, lo stato dell’arte si rivela tutt’affatto consolante. Vale la pena ricordare in ogni caso come la Corte abbia condannato l’Italia non solo per violazione dello spazio minimo disponibile per ogni detenuto, come invece accaduto nel 2009 con la sentenza Sulejmanovic, ma tenendo conto di un quadro di insieme, che tutt’oggi deve essere considerato. Deve altresì ricordarsi che in questa materia la Corte di Strasburgo ha da tempo affermato che valga la regola inversa al principio dell’affermanti incubit probatio, per l’ovvia ragione che le informazioni necessarie al decidere non sono nella disponibilità del reclamante, ma dell’Amministrazione. Sarà dunque necessario per noi avvocati continuare a visitare le carceri italiane, co-me ha sempre fatto l’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, consentendo l’emersione dello stato dell’arte e proponendo alla politica risposte concrete, frutto della conoscenza della materia e delle circostanze verificate. Se vale l’assunto, un po’ abusato, secondo il quale la civiltà di un popolo si misura dalla condizione delle sue carceri, nessuno potrà rendersi complice di nuove ingiustizie. Giustizia: carcere "inumano", per avere il risarcimento non serve l’attualità della lesione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2014 Se il carcere è "inumano" risarcimento retroattivo, in caso contrario il rimedio sarebbe svuotato di senso. Il rimedio della riduzione di pena e del risarcimento pecuniario per le condizioni di detenzione scatta anche quando la lesione non è più attuale. È questa la lettura del nuovissimo articolo 35 ter della Legge penitenziaria fornita dall’Ufficio di sorveglianza di Bologna con ordinanza dell’8 ottobre. Il provvedimento introduce una delle primissime interpretazioni della norma entrata in vigore da poche settimane per fronteggiare le conseguenza della sentenza Torreggiani con la quale l’Italia venne sanzionata per la situazione drammatica di invivibilità delle nostre carceri. I giudici bolognesi sottolineano che si è già manifestato un primo orientamento secondo il quale perché ci sia riduzione di pena (il primo rimedio previsto dall’articolo 35 ter) è necessario che il pregiudizio sia attuale, che cioè esista all’epoca della presentazione della domanda e anche al momento della decisione; in caso contrario la competenza non sarebbe neppure più del giudice di sorveglianza, ma piuttosto del giudice civile. Tuttavia, osserva l’ordinanza, l’articolo 35 ter disciplina "letteralmente, esattamente e tassativamente l’ipotesi in cui il risarcimento è accordato dal tribunale ordinario, ossia quando, expressis verbis, il pregiudizio subito afferisca a custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare o quando sia intervenuta l’integrale espiazione della pena". L’azione davanti al giudice civile è proponibile dopo la cessazione della pena, entro 6 mesi, e la decisione non è reclamabile. Ne consegue che nessuno "sconto" è possibile se la violazione è stata sì commessa, ma è anche cessata. Una strada che i giudici bolognesi non seguono. Anche perché, tengono a mettere in evidenza, la lesione sarà pure terminata, ma lo è solo provvisoriamente, come è agevole constatare nell’attuale regime della detenzione. È infatti frequente che periodi caratterizzati da violazioni del trattamento umanitario dovuto ai detenuti siano alternati a momenti in cui la gravità non è così marcata, "sintomatica dimostrazione di una non stabile volontà dell’amministrazione di assicurare una condizione carceraria autenticamente e continuativamente aderente ai criteri stabiliti dall’articolo 3 della convenzione Edu". Di conseguenza, perso atto della costante variazione nel tempo delle presenze dei detenuti in cella, solo con difficoltà i reclami dei detenuti possono riguardare una violazione attuale al momento della domanda e della decisione, tenuto conto dei tempi necessari per l’istruttoria e lo svolgimento del giudizio. Allora, conclude l’ordinanza, ancorare e limitare la tutela offerta dal magistrato di sorveglianza al parametro dell’attualità della lesione "e non al pregiudizio subito in costanza di espiazione di pena attuale" porta nella sostanza a svuotare la portata della novità introdotta dal legislatore. Giustizia: Orlando; per velocizzare il processo risolverlo prima che arrivi dal magistrato intervista di Fabrizio Roncone Corriere Style Magazine, 26 novembre 2014 Andrea Orlando è un ministro della Giustizia determinato e sicuro. Un politico esperto e prudente. Un uomo pignolo che sa essere gelido. La riforma più complessa e importante del Paese è affidata a questo ex ragazzo della Fgci di La Spezia che, a 45 anni, ha una biografia importante: fu scoperto da Piero Fassino che nel 2003, all’epoca segretario diessino, lo volle nella sua direzione; Walter Veltroni lo nominò poi portavoce del neonato Pd; Pier Luigi Bersani lo spedì a fare il commissario nella palude napoletana; Enrico Letta gli affidò il ministero dell’Ambiente. Aneddotica scarsa: era nelle strade di Genova durante i tremendi giorni del G8, il taglio dei suoi abiti è impeccabile. Iniziamo con questa domanda: può provare a spiegarci la riforma della giustizia al di là degli slogan e delle polemiche sulle ferie dei magistrati? Vent’anni di battaglie campali su questa materia hanno fatto quasi del tutto perdere dì vista le sacrosante esigenze dei cittadini e del sistema Italia di far funzionare il servizio giustizia, un bene comune. E un buon servizio, perché sia tale, ha bisogno di essere certo nelle sue regole e nel suo funzionamento. La filosofia alla base della riforma si muove da questa consapevolezza: serve una giustizia più veloce ed efficace. Il che significa, ad esempio nel civile, selezionare la domanda e specializzare la risposta. Risolvere quindi preventivamente i conflitti evitando che arrivino di fronte al giudice laddove non è necessario. Allo stesso tempo sappiamo che oltre a norme nuove servono risorse e investimenti nel personale e nell’informatica. Responsabilità civile dei magistrati: l’Europa ci chiede di cambiare da anni... L’Europa in verità ci dice che i cittadini italiani non sono tutelati da eventuali gravi errori che la magistratura compie nell’applicazione del diritto comunitario. Quello che dobbiamo chiederci noi è se lo siano per l’applicazione di quello interno. E mi pare di poter dire, a quasi 30 anni dal varo della legge Vassalli, che questo sistema di tutela non ha funzionato. Il punto di partenza è chiaro: come risarcire il cittadino per un grave errore e poi come corresponsabilizzare il magistrato che ha eventualmente causato questo errore, tutelando il principio dell’indipendenza della magistratura. Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel primo governo De Gasperi, subito dopo la guerra, varò indulto e amnistia: lei ha mai pensato a simili provvedimenti? Lo stesso presidente Napolitano chiese interventi di genere "togliattiano"... L’amnistia di Togliatti servì a chiudere una guerra civile. Oggi eventualmente servirebbe ad affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Guardiamo i fatti. Dopo l’ultimo indulto del 2006, questo Paese si è trovato ad affrontare una drammatica emergenza di sovraffollamento carcerario, generato da leggi che hanno incrementato il ricorso al carcere come pena. Io non sono ideologicamente contrario a questi provvedimenti, ma mi chiedo se non sia il caso di affrontare le cause del sovraffollamento piuttosto che i suoi effetti. Capisco, ma insisto; non crede che indulto e amnistia possano essere soluzioni concrete e rapide per il risolvere il dramma del sovraffollamento delle carceri? La prima emergenza che ho affrontato è stata esattamente quella del sovraffollamento. Ricordo che a maggio sull’Italia pendeva il rischio di una pesante condanna, anche economica, della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ci siamo messi al lavoro, abbiamo puntato sulle pene alternative, sugli accordi con le regioni per i detenuti tossicodipendenti, il Parlamento ci ha dato un grande aiuto approvando leggi che hanno permesso di allentare un eccessivo utilizzo della carcerazione. I primi effetti possiamo vederli: siamo passati da quasi 70mila detenuti agli attuali 54mila e la Corte di Strasburgo ci ha evitato l’onta della condanna. Questo ovviamente non significa che non ci sia ancora tantissimo lavoro da fare. Il Pd, dal giustizialismo a volte sfrenato degli ultimi anni, è diventato garantista grazie al mutamenti d’identità imposti da Matteo Renzi al partito? Non direi che il Pd sia stato sfrenatamente giustizialista, il clima di contrapposizione costante, di assedio alla giurisdizione ha sicuramente ridotto gli spazi per il senso critico. L’ambizione di ridare centralità e autonomia alla politica, stimolata anche da Renzi, consente oggi un approccio nuovo: la giustizia come grande infrastruttura democratica piuttosto che come terreno di scontro. Corruzione, piaga per l’Italia. La legge Severino deve essere modificata e in molti sollecitano una revisione della materia… La legge Severino ha introdotto importanti novità nel campo della prevenzione alla corruzione, attività che ruota attorno all’Autorità Nazionale Anticorruzione oggi guidata da Raffaele Cantone. Si può discutere su come correggerla dopo la prova dei fatti, anche se al momento non c’è alcun progetto di modifica. Torniamo alla riforma; per anni s’è detto che non si poteva mettere mano alla giustizia perché la presenza di Silvio Berlusconi avrebbe inquinato il dibattito. Eppure oggi Berlusconi ha assunto una nuova centralità. Quanto pesa il patto del Nazareno sui riformatori, ministro? Le ricordo che la centralità di Berlusconi si è rafforzata anche a seguito della decisione di altre forze politiche di non partecipare al percorso delle riforme istituzionali. Saranno modificate o abrogate le famose leggi ad personam volute dai governi Berlusconi? Ricorda? Falso in bilancio, legge ex Cirielli... Il rafforzamento del reato del falso in bilancio è uno strumento necessario per rafforzare la lotta alla corruzione, dare trasparenza al mercato, contrastare le infiltrazioni criminali nell’economia. Per questo è stato associato a un nuovo reato, l’auto-riciclaggio. L’ex Cirielli è già stata modificata in una parte significativa dal Parlamento lo scorso anno e noi prevediamo di rivedere i meccanismi di prescrizione. Trattativa Stato-mafia: il presidente Napolitano costretto a subire un interrogatorio. Alcune procure fanno politica? Nella mia veste di ministro della Giustizia mi sono ripromesso di non commentare mai un procedimento in corso o una sentenza, anche la più controversa per l’opinione pubblica come è recentemente successo nella dolorosa vicenda del caso Cucchi. Come cittadino, non posso che applaudire la levatura politica di Giorgio Napolitano che con grande umiltà e deferenza per le istituzioni ha scelto una condotta che ha replicato con i fatti a inaccettabili attacchi alla sua persona. Lei, all’interno del Pd, apparteneva alla corrente dei cosiddetti Giovani Turchi, poi è diventato ministro: cosa pensa degli atteggiamenti di Renzi che, nei confronti della minoranza (bersaniani, dalemiani, cuperliani) è spesso sprezzante? Renzi ha rotto molti schemi... in alcuni casi era necessario, in altri avrei forse modulato diversamente i toni. Ultima domanda: lei, per carattere, sembra molto diverso dal premier. Timido, riservato, mite, Renzi la definì "un po’ doroteo". Conte riuscite ad anelare d’accordo? Guardi, io sono meno mite di quello che sembro... Renzi comunque ha sempre rispettato il mio lavoro così come io ho sempre assicurato la massima collaborazione alla squadra di cui lui è il capitano. Si è enfatizzata molto quella battuta, che tale resta. Tanto più per uno come me, che non si vergogna di essere stato iscritto al Partito Comunista Italiano. Giustizia: riforma della prescrizione, ma non si può stare sotto processo per tutta una vita di Paolo Moretti (Presidente della Camera Penale di Parma) Il Garantista, 26 novembre 2014 Interrompere la prescrizione dopo il rinvio a giudizio o il primo grado, come si ipotizza ora, vuol dire ipotecare a tempo indeterminato il destino della persona imputata. Le cronache di questi giorni, sull’onda emotiva per la sentenza della Cassazione sul caso Eternit, ci consegnano tante parole in libertà sul tema della "prescrizione". C’è chi, come il premier Renzi, l’ha definita un incubo. Chi ne chiede la totale abolizione. Chi, come il presidente Grasso, ricorda di invocarne da 15 anni la totale riforma. Chi ritiene si tratti di un male tutto italico prodotto dalla decadenza del nostro Paese (e in particolare dalla cosiddetta legge ex-Cirielli del 2005). Chi ancora dice sia un ignobile espediente nella disponibilità di avvocati azzeccagarbugli per garantire l’impunità ai malandrini. Qualcuno è giustificato dal fatto di ignorare l’argomento; qualcun altro, invece, fa il finto tonto e rincorre gli umori della piazza alla ricerca di facile consenso. Nessuno comunque che voglia affrontare la questione con raziocinio e, se possibile, con un minimo di nozione di causa. I dati parlano Mettiamo allora alcuni punti fermi per sgomberare il campo da equivoci. La dichiarazione di prescrizione nel processo Eternit non ha nulla a che vedere con la morte delle centinaia di vittime. Il reato dichiarato prescritto dalla Cassazione era un disastro ambientale commesso tra gli anni ‘50 e il 1986 (quasi 30 anni fa!), data di chiusura degli stabilimenti. Il processo per gli omicidi dolosi conseguenti alla produzione dell’Eternit, il cosiddetto Eternit-bis, deve ancora iniziare. E i reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo sono imprescrittibili. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, dal 2005 ad oggi, ossia dopo l’entrata in vigore della ex-Cirielli, il numero di prescrizioni si è drasticamente ridotto, passando da 210mila nel 2005 a 110mla nello scorso anno. Sempre secondo tali dati, quasi il 70% delle prescrizioni si verifica nella fase delle indagini preliminari, ossia prima ancora che un processo abbia inizio, quando il fascicolo è nella totale disponibilità del pm e della polizia giudiziaria, senza che la difesa possa svolgere alcun tipo di interferenza. D’altra parte, anche nel corso del processo, ogni rinvio richiesto dalla difesa per qualsiasi ragione determina per legge la sospensione del termine di prescrizione. Come dire, per la durata del rinvio il tassametro non corre. Detto questo, non c’è dubbio che ogni processo che si conclude con una dichiarazione di prescrizione sia una sconfitta per la Giustizia. Ciò non di meno, la prescrizione (genericamente intesa) è istituto universalmente previsto da qualsiasi ordinamento fin dai tempi del diritto romano, perché universale è l’esigenza di regolare i rapporti giuridici all’interno di una qualsiasi società in funzione di quella ineludibile coordinata umana che è lo scorrere del tempo. Decorso un certo numero di anni, ciascuno deve poter essere certo di non dover essere chiamato a rispondere di azioni coniugate al passato remoto. Anche con riferimento all’eventuale commissione di reati, questa è la ragione principale della prescrizione. Certo, possiamo discutere su quanto siano adeguati gli archi temporali necessari per determinare l’estinzione dei singoli reati, ma questa è cosa diversa dal liquidare il problema affermando in modo rozzo che "chi ha sbagliato deve pagare". In Italia, il termine massimo di prescrizione varia in ragione della gravità del reato: per un "vaffa" è di 7 anni e mezzo; per uno spaccio di stupefacenti è di 25; mentre i reati puniti con l’ergastolo, così come per convenzione internazionale i crimini contro l’umanità, non si prescrivono mai. Eccezion fatta per questi gravissimi reati, ogni persona deve poter contare sul fatto che, trascorso un certo numero di anni, cala definitivamente il sipario sul passato. Peraltro, in particolare nel settore penale, la funzione della prescrizione non si riduce solo a questo. L’applicazione di una pena, per "retribuire" effettivamente la commissione di un reato e favorire la rieducazione del condannato (come vorrebbe quella che, a ragione, definiamo la Costituzione più bella del mondo), non può intervenire ad una distanza temporale irragionevole dal fatto, perché colpirebbe una persona che, nel frattempo, è divenuta "altra". Chiunque capisce che punire oggi un cinquantenne per aver guidato senza patente oppure per aver rubato in un supermercato quando aveva 16 anni sarebbe operazione priva di ogni senso. Inoltre, la prescrizione svolge indiscutibilmente anche una funzione di pungolo nei confronti del processo, favorendone la celebrazione in tempi ragionevoli (come pure imporrebbe la nostra Costituzione). Senza la mannaia della prescrizione i processi italiani, che già sono tristemente noti in Europa per la loro intollerabile durata, si trascinerebbero ancora più a lungo. E poi, quale attendibilità si potrebbe riconoscere a testimonianze su episodi verificatisi magari decenni prima? Come si potrebbe decidere della libertà di una persona sulla scorta dei ricordi annacquati nella memoria dei testi dall’abnorme tempo trascorso? Insomma, il tempo è una dimensione con la quale ogni vicenda umana deve necessariamente misurarsi. Compito della politica è quello di fornire le coordinate adeguate e i mezzi necessari per la celebrazione dei giudizi, perché lo scandalo non è la prescrizione, ma che un processo possa durare 20 anni. Abolire la prescrizione sarebbe come pensare di potersi curare la febbre buttando via il termometro. Prevederne la sospensione con l’inizio del processo, o anche solo con la pronuncia della sentenza di primo grado, significherebbe ipotecare a tempo indeterminato i destini della persona imputata, lasciandola nella totale incertezza sul proprio futuro. Significherebbe, soprattutto, ignorare la realtà. Perché non si ferma il carro di Kronos. Giustizia: suicidi nelle carceri, un fenomeno preoccupante ma in diminuzione di Concetto Alota Libertà, 26 novembre 2014 In Italia i detenuti che si tolgono la vita dentro le celle è nove volte di più rispetto al resto della popolazione, con una media di 59,9 l’anno. Un indicatore del tasso dell’invivibilità del sistema carcerario. Ma la situazione può essere cambiata: formando gli agenti, lavorando in rete con le Asl, migliorando le condizioni di vita tra le sbarre Riprendiamo il nostro breve viaggio nel mondo carcerario dell’Italia dei diritti civili; un momento dedicato al grave e allarmante fenomeno dei suicidi in carcere e nella totalità dei morti tra le celle degli istituti penitenziari italiani. Le cifre sono davvero allarmanti, oltre ogni ragionevole dubbio e secondo i dati ufficiali del Ministero di Giustizia, dall’anno duemila al 16 novembre del 2014 i suicidi tra le sbarre delle carceri in Italia sono stati 839, e a ben vedere il fenomeno è in netto calo rispetto agli anni passati; infatti, nell’anno 2014 i suicidi sono stati inferiori rispetto alla media ponderale riportata indietro fino all’anno duemila, con solo trentotto casi che nel 2013 segnava quarantanove suicidi, mentre la media tra i sessantuno del 2000 e i sessanta del 2012, tocca il massimo in assoluto nell’anno 2009 con settantadue suicidi, registrando una media annuale del periodo di 59,9. Ma come va nelle carceri di altri Stati? Risale al 2010 l’ultimo confronto statistico tra l’Italia, i paesi europei e gli Usa. Fatta dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero di Giustizia, del Consiglio d’Europa e dell’U.S. Department of Justice - Bureau of Justice Statistics, l’elaborazione prende in considerazione il periodo 2005-2007. In questo triennio, in Italia, il tasso di suicidi nelle carceri è stato pari a dieci casi ogni dieci mila detenuti (salito a 11,2 nel 2009 e 2010), mentre in Europa è stato di 9,4 casi e di 2,9 negli Usa. Di primo acchito la situazione italiana potrebbe sembrare non peggiore di altre: in paesi come Francia, Gran Bretagna o Germania avvengono più suicidi, pur avendo un numero di detenuti simile a quello italiano. Secondo il documento, però, il punto non sta nei numeri, quanto nel confronto tra la situazione dei suicidi dentro le carceri e quella fuori dai muri di cinta. E da questa fotografia emerge che mentre in Inghilterra dentro le carceri ci si uccide cinque volte di più che fuori; in Francia tre volte di più; in Germania e in Belgio due volte di più, mentre in Finlandia il tasso è lo stesso, in Italia la popolazione detenuta ricorre al suicidio nove volte di più rispetto a quella libera, passando da 1,2 a 9,9 casi ogni dieci mila persone. Questa distanza tra la situazione esterna e quell’interna mostra, secondo il rapporto, il criterio di ‘vivibilità’ dei vari sistemi penitenziari. Negli Usa, trent’anni fa, il tasso di suicidi tra i detenuti era simile a quello europeo di oggi. Poi, nel 1988, il Governo istituì un Ufficio adibito alla prevenzione del fenomeno, con uno staff di 500 persone incaricate alla formazione del personale penitenziario. Il risultato è stato che in poco meno di venticinque anni il tasso dei suicidi all’interno delle carceri statunitensi è crollato del 70%, assestandosi a circa un terzo di quello italiano o europeo. Del suicidio in carcere si è occupata anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità proponendo nel 2007 un documento sulla prevenzione. "Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti e un eventuale fallimento di questo mandato può essere perseguito a fini di legge", si legge nel documento. Ma l’Oms sostiene che è "possibile ridurre il numero di suicidi in ambiente carcerario" e struttura il piano d’intervento su alcune direttrici: l’addestramento del personale carcerario; lo screening della persona che entra in carcere; l’osservazione attenta dopo. il suo ingresso e la gestione dello screening; la comunicazione tra personale carcerario sulla persona a rischio; l’intervento sociale; la cura e l’attenzione per l’ambiente e l’architettura, così che le celle siano ‘anti-suicidio’; il trattamento psichiatrico. Così che "se avviene un tentativo di suicidio - dice il Rapporto - il personale deve essere addestrato a proteggere l’area e a prestare pronto soccorso al detenuto nell’attesa dell’arrivo del personale medico interno e/o esterno". E ancora, "tutto il personale deve essere addestrato all’uso delle attrezzature di rianimazione, che devono essere rapidamente accessibili. Ogni membro del personale deve essere a conoscenza del da farsi in caso di un tentativo di suicidio". In caso di suicidio riuscito, invece, "devono essere attuate procedure specifiche per documentare ufficialmente l’evento e per fornire un riscontro positivo finalizzato al miglioramento delle attività future di prevenzione del suicidio". In generale, l’Oms rileva che i detenuti hanno tassi di suicidio fino a 7,5 volte più elevati rispetto alla comunità e che "le persone che infrangono le regole portano con sé diversi fattori di rischio e tra di loro il tasso di suicidio continua a essere più elevato, rispetto a chi non infrange le regole, anche dopo la scarcerazione". Per questo, "è proprio quando questi individui vulnerabili sono all’interno dell’istituzione carceraria, e quindi raggiungibili, che andrebbero trattati". E infatti, dice l’Oms, dove i programmi di prevenzione dei suicidi sono stati avviati i casi sono diminuiti. Il primo passo in questo senso è l’individuazione di un profilo che definisca situazioni e gruppi di persone a rischio. Ad esempio, i detenuti in attesa di giudizio che commettono il suicidio in carcere sono generalmente maschi, giovani (20-25 anni), non sposati, alla prima incarcerazione, arrestati per crimini minori, spesso connessi all’abuso di sostanze. Solitamente al momento dell’arresto sono sotto l’effetto delle sostanze e commettono il suicidio nelle prime fasi o addirittura ore della loro incarcerazione, a causa dell’improvviso isolamento, dello shock dell’incarcerazione, della mancanza d’informazioni e delle preoccupazioni per il futuro. I detenuti condannati che si uccidono, invece, sono più grandi (30-35 anni) e, colpevoli di reati violenti, hanno passato un certo numero di anni in carcere. Spesso, questi suicidi sono preceduti da conflitti con altri detenuti o con l’amministrazione, con la famiglia, da separazioni o questioni legali. In generale, il tasso di suicidio dei detenuti è più elevato tra quelli che hanno pene lunghe da scontare, in conseguenza al fatto che l’incarcerazione non solo rappresenta la perdita della libertà e dei legami familiari e sociali, ma è anche paura per il futuro, frustrazione ed esaurimento fisico e nervoso. Molti detenuti si uccidono durante la notte o nel fine settimana, quando il personale è più scarso, ma anche il tipo di alloggio incide e chi è posto in celle singole o in isolamento o in particolari regimi di detenzione rischia di più. Secondo il rapporto dell’Organizzazione, le persone rinchiuse che si sono uccise avevano elementi comuni tra loro: l’assenza di supporto sociale e familiare, precedenti comportamenti suicidi, malattie psichiatriche e problematiche di natura emotiva. Spesso sono state vittime di bullismo, di conflitti con altri detenuti o di sanzioni disciplinari. A dicembre 2011 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria italiano e l’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari hanno dedicato una pubblicazione al fenomeno del suicidio in carcere, dal titolo "La prevenzione dei suicidi in carcere. Contributi per la conoscenza del fenomeno". Nel lungo documento, parlando delle direttive dell’Amministrazione penitenziaria in materia di prevenzione dei suicidi, si legge che "ancora oggi non si può parlare di un sistema di prevenzione perfettamente strutturato". Diversi sono i motivi, come "l’annosa questione delle risorse umane e della loro scarsa consistenza o il progressivo e imponente aumento della consistenza della popolazione detenuta ma, soprattutto, del suo forte turn-over e delle sempre maggiori fragilità strutturali. È, quindi, decisamente interessante che un corso di formazione diretto a funzionari di polizia futuri responsabili di reparti che operano negli istituti penali, approfondisca e inviti a riflettere sul suicidio in carcere". Nello stesso tempo, però, "rispetto a qualche anno fa, la situazione è migliorata nel senso che oggi si può contare su una serie di contributi scientifici di varia natura e provenienza sicuramente maggiore e articolata. Il mondo accademico, alcune Organizzazioni non governative e la stessa Amministrazione hanno prodotto conoscenze utili per affrontare il fenomeno dell’autolesionismo in carcere in generale e attivare, in particolare, la prevenzione del suicidio". Oltre alla formazione, però, serve la comunicazione. Secondo la pubblicazione del Dap, infatti, la prima strategia per adottare gli strumenti dell’Oms "è quella di una buona integrazione dei servizi. Amministrazione Penitenziaria, Asl, operatori degli enti locali e del volontariato devono poter svolgere la propria attività in un contesto caratterizzato dagli strumenti tipici del lavoro di rete, con momenti sia formali sia informali di controllo e scambio di informazioni e conoscenze. La presenza di servizi in rete consente, di fatto, di moltiplicare le occasioni di ascolto e d’intercettazione del disagio, oltre a rendere omogenei e tra loro congruenti gli interventi possibili, potenziandone l’idoneità e l’efficacia". Altro capitolo sono le morti nel totale, tra suicidi e quelli naturali dentro il carcere e che nella media ponderale dal gennaio del 2000 a novembre dell’anno in corso si attestano sui 168,5 casi l’anno. Giustizia: salute in carcere, le emergenze sono epatite B e C e disturbi psichiatrici di fabio di todaro La Stampa, 26 novembre 2014 Allarme dagli specialisti di malattie infettive del Policlicnico Tor Vergata di Roma: "Ammalarsi in quei luoghi è più facile che altrove; se non si curano e contengono le patologie, prima o poi, verranno trasportate all’esterno". "L’emergenza sanitaria nelle carceri è rappresentata dalle epatiti B e C", suona l’allarme Massimo Andreoni, direttore dell’unità operativa di malattie infettive al Policlicnico Tor Vergata di Roma. "Due decessi su cinque in carcere avvengono per suicidio", segnala Emilio Sacchetti, ordinario di psichiatria all’Università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria. Al netto dei numeri, le dichiarazioni fotografano la situazione sanitaria nelle carceri italiane. Ammalarsi, in questi luoghi, è più facile che all’esterno. Quasi un paradosso, se si pensa che nel corso della detenzione si potrebbero intercettare le malattie e curarle, impedendone la diffusione. Ma evidentemente ciò non accade. Così, una volta che il detenuto abbandona le strutture, il rischio che le patologie infettive si propaghino all’esterno è concreto. Se il problema del sovraffollamento è comunque meno conclamato rispetto a sei mesi fa (54.252 sono oggi i detenuti in Italia) e il numero dei posti letto nelle carceri (49.400) è in aumento, l’emergenza è tutt’altro che conclusa. Al primo posto, tra i disturbi più diffusi, ci sono quelli psichiatrici. "Molti li hanno già prima di finire in cella, dove non vengono curati - afferma Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano -. L’assistenza è scarsa e manca uno screening che valuti chi rischia di suicidarsi. Nelle carceri i detenuti trovano tutto ciò che serve per togliersi la vita o anche solo per provarci. Capita infatti che alcuni siano i cosiddetti "suicidi per sbaglio": si compiono dei gesti per attirare l’attenzione e si finisce per perdere la vita". Disturbi dell’umore, di personalità e stati d’ansia sono le patologie più ricorrenti tra i detenuti. A oggi l’assistenza è garantita da alcuni psichiatri dei distretti di salute mentale che svolgono parte delle proprie ore di lavoro nelle strutture detentive. Nulla che basti, però, a favorire un percorso di inserimento nei servizi specializzati una volta terminato il periodo di pena. Per questo l’idea di creare un osservatorio sulla salute nelle strutture penitenziarie mette d’accordo gli psichiatri - ancora in attesa di capire cosa accadrà a partire dall’1 aprile, quando saranno chiusi gli Opg - e gli infettivologi, alle prese con problemi di ben altra natura: come la diffusione dei virus dell’epatite B e C e dell’Hiv. I dati sono preoccupanti. Oltre la metà delle persone detenute risulta venuta a contatto con il virus dell’epatite B, anche se coloro che risultano portatori attivi di malattia si attestano intorno al 5-6% dei presenti. I test di screening cutanei sulla tubercolosi, che non rilevano la malattia attiva ma permettono d’identificare i portatori dell’infezione che, notoriamente, la manifestano quando si abbassano le difese immunitarie, risultano 15-20 volte superiori alla popolazione generale e, tra i detenuti stranieri, oltre la metà risultano positivi. Ciò si verifica anche in ragione di alcuni discutibili divieti posti dall’Italia: in primis quelli contro l’ingresso nelle carceri di preservativi e siringhe monouso, da utilizzare per i tatuaggi. Non sono da trascurare nemmeno i numeri relativi ad alcune malattie croniche, come ipertensione e diabete, conseguenza di stili di vita sedentari e di diete poco salutari. Giustizia: Pagano (Dap); impegno Polizia Penitenziaria per contrasto a violenza su donne Adnkronos, 26 novembre 2014 "Scarpe rosse" anche dietro le sbarre. Perché la violenza contro le donne si combatte gestendo psicologicamente chi è responsabile dei maltrattamenti. "I reati contro le donne meritano una particolare attenzione, ma questo è anche un problema culturale che non si risolve solo con l’introduzione del reato del femminicidio: serve un’educazione alle relazioni e al rispetto per l’altro", dice all’Adnkronos il reggente del Dap, Luigi Pagano, presentando il convegno-dibattito "La violenza contro le donne: il ruolo dell’Amministrazione penitenziaria e del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’attività di contrasto", che si tiene oggi alle 14 presso la casa circondariale Regina Coeli, con la partecipazione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Il comitato per le pari opportunità della Polizia penitenziaria - spiega Pagano - ha voluto dedicare in questa Giornata internazionale contro la violenza sulle donne un momento di riflessione organizzando questo dibattito che sarà centrato in particolare sulla gestione dei detenuti sex-offender. Simbolicamente l’appuntamento si tiene nel carcere di Regina Coeli, dove c’è un programma che segue questo tipo di reati, programmi che sono attivi in molti altri istituti di pena sul territorio nazionale". "Affrontiamo il problema dal punto di vista del trattamento ai detenuti che commettono violenza contro le donne - prosegue Pagano - con il contributo scientifico degli esperti che guidano i gruppi dal punto di vista terapeutico ma va sottolineato anche il ruolo della Polizia penitenziaria e degli operatori dell’area del trattamento che contribuiscono alla realizzazione e di questi specifici programma, sia sotto l’aspetto del trattamento che della sicurezza". Rimarca il reggente del Dap: "Il convegno è una buona occasione per fare il punto sulla situazione, dando il nostro contributo per la Giornata contro la violenza sulle donne, ma è bene precisare che il tema è di tale drammatica quotidiana urgenza che richiede una riflessione e un impegno continuo e costante e non essere circoscritto alle iniziative, seppure importanti, che si organizzano in questa giornata". Minuto silenzio carcere Marassi di Genova Anche i detenuti del carcere di Marassi hanno osservato stamattina un minuto di silenzio contro la violenza sulle donne aderendo all’iniziativa lanciata da "Zonta Says No", creata da Zonta Internazional in collaborazione con il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, l’associazione "Ovale oltre le sbarre onlus" e la Federazione Italiana Rugby. Un minuto di silenzio, simbolo del rispetto e dell’attenzione verso le donne, sarà osservato anche su tutti i campi di rugby di ogni ordine e grado nelle giornate di campionato del 6 e 7 dicembre. La campagna "Zonta says no", promossa da Zonta International ha come obiettivo il miglioramento della condizione femminile nel mondo, per ribadire che la violenza contro le donne non è un problema solo delle donne. Giustizia: Mambro e Fioravanti, la richiesta di risarcimento è persecuzione di Laura Arconti (Membro Direzione Radicali Italiani) Il Garantista, 26 novembre 2014 Se c’è una cosa al mondo che detesto con tutta me stessa, è la mania italica del complottismo e del sospetto. Eppure a volte accade qualcosa che ti trascina per i capelli, ti obbliga a metter mano - ed attenzione - a ciò che avevi sempre cercato di scansare. Si sa, il nostro è un popolo di arlecchini, di voltagabbana, di casacche bicolori pronte all’uso. Si sa, non abbiamo mai terminato una guerra con gli stessi alleati con cui l’avevamo iniziata. Si sa, non uno solo è stato chiarito, degli avvenimenti luttuosi che hanno cambiato la vita di generazioni (il fascismo, la guerra, i tradimenti, le deportazioni, le foibe, e poi le stragi degli anni del terrore): i "misteri italiani" sono una tradizione intatta nei secoli. Abbiamo assistito, desolati ed inermi, a processi lunghi due, tre decenni, descritti da cronisti e testimoni con lunghe "rivelazioni" che di volta in volta ipotizzavano diversi percorsi di indagine; abbiamo letto, per piazza Fontana come per Peteano, per piazza della Loggia, l’Italicus e la stazione centrale di Bologna, di una serie di "piste": la pista libica, la pista palestinese, l’ipotesi di una vendetta di questo o quel gruppo eversivo per l’arresto o l’uccisione di qualcuno, e sempre col sospetto di una connivenza da parte di poteri dello Stato, dei Servizi, di quelle istituzioni che sono lì per difendere i cittadini e salvaguardare l’ordine interno. Un ipotetico marziano, sceso dal disco volante, sentendosi raccontare tutto questo resterebbe sbalordito; noi no, noi abbiamo ingoiato tutto, ci abbiamo perfino fatto l’abitudine. Sui giornali abbiamo letto brani delle lettere di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse: "dunque, non una, ma più volte furono liberati, con meccanismi vari, palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione". (Aldo Moro, lettera dal covo delle Br indirizzata a Flaminio Piccoli). Francesco Cossiga (che nel 1980 aveva dichiarato di matrice fascista la strage alla stazione di Bologna) alla fine del periodo di sua presidenza della Repubblica affermò - il 15 marzo 1991 - di essersi sbagliato a definire "fascista" la strage di Bologna e di essere stato "male informato dai servizi segreti". Il 21 aprile scorso il premier Matteo Renzi ha annunciato con enfasi supponente la decisione di desecretare gli atti delle stragi che dal 1969 al 1984 hanno insanguinato l’Italia, e di trasferirli all’Archivio di Stato: era presidente del Consiglio da pochi mesi ed aveva aperto la stagione degli annunci roboanti. Le anime candide come me hanno pensato che finalmente ciascuno di noi avrebbe potuto togliersi almeno un paio dei tanti dubbi dei quali ha tanto sofferto in passato. Ebbene, si tratta di un faldone, con 63 documenti e le date 1950-2004, che porta la dicitura "documentazione riguardante piazza Fontana, Peteano, piazza della Loggia" e contiene poche notizie tutt’altro che segrete, già date dai quotidiani. "È tutto qui, quello che esce dagli archivi segreti?", chiede Italia Brontesi per il Corriere della Sera a Manlio Milani presidente della Casa della memoria. "Si fa fatica a pensare che ci sia solo quello. A mesi di distanza arriva soltanto un pacchetto di documenti" risponde Milani. Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni e una delle animatrici della Rete degli archivi per non dimenticare ha parlato di "bluff, visto che in sette mesi dall’annuncio sono stati resi pubblici solo documenti marginali". Restiamo dunque in compagnia di tutti i segreti, nostri ed altrui, tanto ci siamo abituati, cercando di dimenticare tutto: il dolore dei famigliari delle vittime, il livore vendicativo di certi di loro, la stanchezza profonda di quei due che erano giovanissimi al tempo della strage di Bologna ed ora sono persone mature, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Hanno scontato una lunga pena, saldando i conti con la giustizia; da anni lavorano con "Nessuno tocchi Caino" contro la pena di morte nel mondo; hanno confessato i delitti di cui si sono riconosciuti colpevoli e per i quali hanno scontato l’intera pena, ma hanno sempre detto che fra quelli non c’è la stazione di Bologna. Tutto questo non ha più alcuna importanza, perché quei due, come tutti noi, dopo tanti anni non sono più le stesse persone di allora, e non è legittimo perseguitare una persona per quello che è stata e non è più. Perché, allora, la grottesca sentenza che è stata emessa in nome del popolo italiano dalla terza Sezione civile del Tribunale ordinario di Bologna nella persona del Giudice Francesca Neri? La sentenza riguarda la causa civile di primo grado iscritta al n. 5116/2013 , promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal ministero dell’Interno contro Valerio Giuseppe Fioravanti e Francesca Mambro, ai quali viene ingiunto di pagare una cifra tanto enorme quanto ridicola, superiore ai due miliardi di euro, per danno erariale provocato allo Stato, perché i fatti loro imputati hanno "provocato conseguenze oggettivamente devastanti, su persone e cose, e provocato nella popolazione un diffuso senso di insicurezza per la propria incolumità". Non basta, la sentenza sottolinea anche il danno all’immagine dell’Italia verso l’estero: "da parte delle altre nazioni viene vista come uno Stato in lutto, vulnerabile rispetto all’azione di gruppi estremisti, incapace di difendersi da quelli che sono dei veri e propri nemici interni dello Stato". E per completare l’opera, il giudice Neri conclude: "Ormai, a distanza di 34 anni, può dirsi che tale evento sia rimasto impresso in modo indelebile nella coscienza collettiva della nazione, come un vero e proprio danno permanente". Nessuno, che sia in retti sensi, può immaginare che due cittadini comuni possano rispondere ad una simile richiesta risarcitoria, che risulta perciò non solo ridicola ma soprattutto inutile. Dunque, ci si chiede: perché questa sentenza ? Non è una domanda di natura etica, non è un quesito giuridico: siamo di fronte ad una questione nettamente politica. Questa sentenza è un avvertimento, è un messaggio segreto diretto a qualcuno. Non certo a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che hanno detto tutto ciò che sanno ed ora tacciono, un po’ per prudenza e molto per sfinimento interiore. Di "avvertimenti" io non m’intendo, non ne so, ma ho l’abitudine di riflettere, e di pormi domande. La promessa pubblicazione di documenti segreti non sta avvenendo, e un giudice a Bologna chiede una cifra spropositata a due persone che nulla possiedono se non la propria vita e quella della loro figlia, sicché questi due avvenimenti, invece di provocare semplicemente una risata omerica, determinano una grande notorietà sulla cronaca quotidiana, in poche ore diffusa universalmente. Non si può evitare di chiedersi: a chi è diretto l’avvertimento? Diceva Giulio Andreotti: "A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca". Giustizia: l’avvocato Rosalba Di Gregorio "Provenzano ancora al 41bis? vendetta inutile" di Lorenzo Lamperti www.affaritaliani.it, 26 novembre 2014 "La mafia di oggi non è nemmeno nipote di quella di 20 anni fa". Rosalba Di Gregorio, l’avvocato di Palermo costantemente "dalla parte sbagliata" (prendendo in prestito il titolo del libro che ha scritto con Dina Lauricella sulla strage di via D’Amelio), fa il punto sulle condizioni del suo assistito Bernardo Provenzano, sul processo Stato-mafia dopo la deposizione di Napolitano, sull’evoluzione (o involuzione) di Cosa Nostra e sulle minacce di nuovi stragi in una lunga intervista. Avvocato Di Gregorio, negli scorsi giorni si è parlato molto di quanto detto dal pentito Galatolo a proposito della preparazione di un attentato ai danni del pm Di Matteo. Lei crede davvero ci possa essere il rischio di un ritorno alle stragi da parte di Cosa Nostra? C’è da dire che, come dato storico, non ci sono mai stati preavvisi delle stragi. Dalla strage di via Pipitone Federico a quelle di Capaci e via D’Amelio, per non parlare delle successive sul continente, non c’erano mai stati avvertimenti. Chiaramente questo non significa nulla in termini fattuali, mi limito solo a segnalare l’anomalia. Ma la Cosa Nostra di oggi è paragonabile a quella di allora? Non c’entrano nulla. Oggi ci sono aggregazioni sul territorio che somigliano molto vagamente a Cosa Nostra. L’organizzazione è del tutto diversa, sin dall’arresto di Riina non esiste più la Commissione Provinciale, che solitamente decide gli attentati, né capi mandamento eletti secondo le regole mafiose, così come non esistono divisioni mandamentali. Tutti i capi mandamento detenuti non hanno nominato successori, come si è evinto già sin dai dialoghi dell’ex procuratore antimafia Vigna coi detenuti. Per chi conosce il fenomeno da tempo è evidente che i personaggi di oggi non sono neanche nipoti di quelli di allora. L’idea che si ha normalmente Cosa Nostra è dunque antiquata? Cosa Nostra si evolve, o si involve, non è un’associazione cristallizzata. Il fatto che ci siano tanti gruppi criminali che si auto-referenziano e che si spacciano in continuazione per congregazioni delle quali non hanno più nemmeno l’odore non significa che si può stare sereni. Anzi, dal punto di vista dell’ordine pubblico può essere anche peggio perché si tratta di gruppi più difficili da controllare e questo lo vediamo con l’aumento della microcriminalità. Il fatto che ci siano così tanti gruppi che si auto-referenziano rende più difficili i rapporti, diciamo così, "istituzionali"? Prima di questo bisognerebbe accertare quali sono stati, se ci sono stati, i rapporti istituzionali di allora. Avrebbe dovuto farlo il primo processo Capaci e tanti altri processi che invece non lo hanno fatto. Nel momento in cui chiedevamo di allargare l’ottica e vedere se c’erano interferenze esterne ci hanno accusato, persino con sentenze, di voler distrarre l’attenzione dai nostri clienti. L’indagine andava fatta a 360 gradi ma non è stato fatto. Oggi Spatuzza dice che nelle stragi del ‘93 c’erano presenze esterne e istituzionali anche perché, dice, "quella non era una guerra nostra. Non ci interessava buttare a terra monumenti". Era chiaro che ci fosse una matrice esterna, ma non è stata riconosciuta. Le tracce non sono state verificate 20 anni fa perché si è scelto di ridursi ai piani associativi, oggi è tutto molto più difficile. Ancora oggi si fa riferimento a Riina, e spesso persino anche a Provenzano, come ai capi di Cosa Nostra. Ma hanno davvero un’effettiva "presa" sull’esterno? Non hanno nessuna presa, per motivi diversi. Dal 2011 Provenzano è un vegetale, realtà accertata giudiziariamente dal 2012. È impossibile che un’associazione, ammesso che esista ancora, si faccia comandare da un vegetale. L’ultima perizia di Milano ha sancito definitivamente che non solo non c’è una pericolosità diretta ma non ce n’è nemmeno una indiretta. Non gliene frega più niente a nessuno di Provenzano. Se invece guardiamo al complesso delle dichiarazioni di Riina ci accorgiamo che perde colpi. In alcuni punti si autoesalta, in altri dice fesserie manifeste. Si attribuisce esecuzioni e poi scopri che sono elementi non riferibili a lui. Il tutto con l’inquietante consapevolezza di essere ascoltato e alla presenza di uno che fa l’agente provocatore. Io farei un’analisi quantomeno psicologica per capire la veridicità delle sue frasi. Nonostante Provenzano sia ridotto a un vegetale viene sempre detenuto al 41 bis e tutte le vostre richieste sono state respinte. Secondo lei perché? C’è una grossa componente della società civile, a partire da alcuni fra i parenti delle vittime di Firenze e dalla cosiddetta antimafia ufficiale, che su questo punto fanno la guerra. Si tratta di una questione di vendetta e non di Stato di diritto. Può darsi che non ci si voglia inimicare queste componenti civili a cui non è stata data una gran risposta da parte della magistratura, né dal punto di vista delle indagini o delle sentenze e né dal punto di vista risarcitorio. Può essere un mio pensiero maligno, ma credo di non sbagliare di molto. Poi c’è un’altra componente, quella di una inutile dimostrazione di forza dello Stato, che invece mostra debolezza perché l’unica dimostrazione di forza è l’applicazione della legge. Provenzano ha l’attestazione di incapacità assoluta, tutto viene notificato al suo amministratore di sostegno perché non è nemmeno in grado di dare il consenso in via scritta eppure si trova sempre al 41 bis. Il 41 bis può avere una ratio costituzionale solo quando c’è il rischio che il detenuto mandi massaggi pericolosi all’esterno o ne riceva all’interno. Ma Provenzano non dà né riceve nulla, passa tre quarti del suo tempo addormentato. Si è scelto però di mantenere una presunzione di pericolosità che viene negata pure dal tribunale di Milano. Posso anche capire le logiche politiche di questa scelta, ma non quelle giudiziarie perché il tribunale di sorveglianza non dovrebbe fare politica. Avrà avuto modo di leggere la deposizione resa da Napolitano al Quirinale nell’ambito del processo di Palermo. Che cosa ne pensa di quanto detto dal Presidente? Ci sono elementi importanti? La deposizione è stretta stretta, visto che la facoltà di sentirlo è stata limitata. L’audizione è di una chiarezza impressionante. Napolitano ha detto non solo che nel 1993 tutti avevano avuto la sensazione di un aut aut ma anche e soprattutto che dopo il blackout a Palazzo Chigi si era temuto il blackout. Si può davvero pensare che Riina o chi per lui attuò il blackout? Nessuno mi venga a dire che Napolitano pensava che fosse stata Cosa Nostra. Le sue frasi sono illuminanti e inquietanti, ma sono diverse dalla prova del reato. A proposito della lettera di D’Ambrosio però Napolitano è stato meno chiaro... L’audizione era stata disposta su quello, ma che cosa significa? Andiamo da un teste non diretto per interrogarlo su dubbi, che non sono certezze, espressi in una lettera ancorata in un frangente specifico vissuto da D’Ambrosio a Palermo in cui si era sentito con le spalle al muro. Quindi scomodiamo il presidente della Repubblica per la richiesta di chiarimenti di una sensazione sgradevole che ha provato un soggetto diverso? Mi sembra che siamo oltre ai limiti dell’interesse processuale. Piuttosto andavano approfondite altre situazioni di cui D’Ambrosio parla nei suoi interrogatori. Per esempio la morte di Gioè, definita per tre volte un omicidio ("per un lapsus") e non un suicidio. Oppure del 41 bis reale rispetto a quello sulla carta. Tutte cose che hanno un riflesso mostruoso sul processo perché se dobbiamo dire che la lettera dei parenti dei detenuti a Scalfaro comportò la sostituzione di Amato con Capriotti al Dap, fatto che secondo l’accusa portò alla revoca di alcuni 41 bis e dunque a un pezzo di trattativa, bisogna anche dire che in quella lettera i famigliari si lamentano del 41 bis non per i mancati colloqui ma perché lì si faceva tortura. Cosa verissima che tra l’altro io ho scritto nel mio libro "Dalla parte sbagliata". Se in una lettera si denuncia un regime fuorilegge che applica la tortura ad Asinara e Pianosa e Scalfaro decide di cambiare registro eliminando un pezzetto di illegalità nella gestione delle carceri bisogna definire tutto questo "trattativa". Invece di guardare la luna guardiamo il dito... Insomma, mi pare di capire che secondo lei il processo di Palermo ha un’impostazione sbagliata... Il processo ha la stessa impostazione di Sistemi Criminali, indagine archiviata diverse volte nei precedenti anni già negli anni di Caselli e poi in quelli di Grasso. Hanno ripreso tutte quelle carte che parlavano dell’eversione di destra e le hanno infilate nel processo trattativa. Hanno preso tutto quella roba e ce l’hanno piazzata qua aggiungendo le dichiarazioni di Ciancimino, poi ci hanno infilato Lima come se fosse responsabile Provenzano per ancorarsi la competenza a Palermo, altrimenti palesemente incompetente. Hanno ignorato le dichiarazioni di Giuffrè che ha detto che Provenzano voleva evitare l’omicidio di Lima. Non può essere il mandante uno che cerca di salvarti... poi Provenzano è "cascato", si è fatto l’ematoma e dunque è fuori dal processo. Di Lima dunque non ne parliamo più e si va a fare tutto un discorso sul papello, del quale aveva già parlato Brusca nel Borsellino bis. E poi mi devono ancora spiegare il reato: quale sarebbe il corpo dello Stato che sarebbe stato violentato? L’individuazione della parte offesa non ce l’ho chiara e quello sarebbe il primo elemento del reato. Tutti i boss sono stati condannati per strage: ora gli facciamo un processo perché in quelle stragi c’era un momento di violenza? Provenzano avrebbe fatto violenza per aver fatto arrestare Riina? A parte che è tutto da dimostrare, ma anche se fosse dove sarebbe la violenza? Al massimo meriterebbe una medaglia. E vogliamo poi parlare dei 41 bis non prorogati da Conso? Se si va a vedere non è stato rinnovato a quattro ladri di galline, a nessuno di quelli che avrebbero trattato è stato tolto. Quindi Riina avrebbe fatto la guerra per far togliere, in esecuzione del papello, il 41 bis ad altri? A me pare che l’impostazione sia spesso incompleta e illogica. Per lei è corretto utilizzare la definizione "trattativa Stato-mafia"? È sbagliata perché presuppone l’esistenza di piani paralleli che si incontrano in una sorta di tavolo. Il problema qua è diverso: bisogna individuare i pezzi di Cosa Nostra e devi individuare lo Stato. Non puoi processare lo Stato, devi individuare i singoli soggetti e assegnarne le responsabilità precise. Provenzano è stato condannato per le stragi del 1993 nonostante la testimonianza di Brusca secondo la quale era contrario alla strategia stragista. Dunque secondo le sentenze e gli atti fino a prova contraria Riina e Provenzano sono la stessa cosa, com’è che ora nel processo di Palermo si dice che lo fa arrestare? Allora un momento, significa che in mezzo c’è qualcos’altro che non hanno mai voluto accertare. Si è tirato fuori che Provenzano è nemico di Riina. Io posso essere pure d’accordo, tanto che ho cercato di dimostrarlo, ma finora loro avevano sempre sostenuto che Provenzano e Riina erano un blocco unico. Ora come mai hanno cambiato idea, perché l’ha detto Ciancimino? Mi viene da ridere... Quanto è difficile arrivare alla verità sul "terzo livello"? Mi pare molto complicato che dopo 20 anni ci si possa arrivare. Bisogna chiedersi come mai 20 anni fa tutto ciò è stato impedito. All’epoca è stato deciso di occuparsi prima dell’ala militare, per altro sbagliandola visto che il Borsellino bis faceva piangere. C’è stata un’intromissione a monte per evitare di arrivare alla verità? Io me lo chiedo. Tornando a Provenzano e al 41 bis, com’è oggi la situazione nelle carceri? La situazione nelle carceri è tremenda per qualsiasi detenuto, non solo per Provenzano. Non solo violiamo le convenzioni internazionali, violiamo proprio la decenza minima. Otto persone nella stessa cella equivale a tortura. Ci vorrebbe un’indagine seria sulla costruzione delle carceri. Sul 41 bis la domanda diventa se oggi è un circuito che garantisce il mancato passaggio delle notizie o meno. Le limitazioni hanno raggiunto il loro scopo oppure si sta solo infliggendo limitazioni anticostituzionali? Al di là del trattamento, che resta uno schifo, abbiamo per caso consentito che attraverso il 41 bis venga attuato il Protocollo Farfalla? Viene il dubbio che il 41 bis possa essere servito per visitare i detenuti in metodi al di là della legge. Andrete avanti nel richiedere un diverso trattamento per Provenzano? Non abbiamo insistito per il differimento perché siamo consapevoli che se gli stacchi i fili al massimo sopravvive 48 ore e non voglio essere io quella che lo ammazza, che lo ammazzino loro. L’unica richiesta che abbiamo fatto, visto che non è più pericoloso nemmeno indirettamente è di trasferirlo in un reparto di lunga degenza dello stesso ospedale. Ci hanno risposto che spostandolo rischia di essere meno attenzionato, così i ricoverati in lungodegenza hanno scoperto di essere male attenzionati. Nel frattempo la richiesta a Strasburgo è pendente e il 3 dicembre ci sarà un’udienza al Tribunale di Roma dal quale non mi aspetto nulla di illuminante. Intanto si continua a tenere un vegetale nel reparto acuti con quattro guardie del corpo dotate di mitra. Il tutto a nostre spese. Giustizia: carceri gastronomiche… tra birra e panettone di Giorgia Cannarella www. gazzagolosa.it, 26 novembre 2014 Sapori Reclusi, Fuggiasco, Banda Biscotti, Galeghiotto. Hanno nomi fantasiosi, e una buona dose di autoironia, i prodotti enogastronomici realizzati tra le mura carcerarie. Un fenomeno in crescita costante che coinvolge il Nord e il Sud del Paese, spesso con punte di vera eccellenza. I prodotti carcerari sono meno spendibili degli altri nel settore sociale e per vendere, allora, si punta alla massima qualità. Ma l’ottica commerciale non è ovviamente l’unica con cui guardare alle "carceri gastronomiche". Dati alla mano, chi è impegnato in attività lavorative durante la detenzione ha, fuori dal carcere, una recidiva del 2% a fronte di una del 70% (dato ufficiale: quello reale nettamente più alto). "La privazione della libertà toglie autostima: non hai più nulla da dare né hai la forza di reinventarti la vita. Realizzare un prodotto artigianale, di alta qualità, fa riacquistare dignità". Ha idee e parole chiare Marco Ferrero, il presidente della Cooperativa Pausa Café. Nata nel 2004 nella Casa Circondariale di Torino, la torrefazione trasforma i chicchi del caffè Huehuetenango (Presidio Slow Food) in Guatemala e della Sierra Cafetalera in Costa Rica. Una produzione attenta alla sostenibilità ambientale e sociale: la materia prima è acquistata direttamente dai produttori, senza intermediari. Poi ci sono le tavolette di cioccolato fondente al 65%. E dal 2009 è nato un microbirrificio nella Casa di Reclusione Morandi a Saluzzo: 12 stili brassicoli che fanno incetta di premi. "Volevamo creare una vera e propria scuola di birrificazione, da cui far uscire professionisti formati" spiega il mastro birraio Andrea Bertola. L’ultimo arrivo da Pausa Café è il forno a legna in cui cuociono il pane, biologico e a pasta madre. Senza il problema del tempo perché qui non c’è fretta, e si seguono con calma i tempi di lievitazione e fermentazione. Tramite i canali distributivi di Coop e Eataly i prodotti Pausa Café sono arrivati anche negli Stati Uniti e in Giappone. E, grazie al Bistrò Pausa Caffè di Grugliasco, i detenuti possono continuare a seguire un percorso anche dopo il carcere. "Vedere i frutti diretti del proprio lavoro porta a vere metamorfosi", spiega Ferrero. I panettoni di Giotto non hanno bisogno di presentazioni. Circa 70.000 sfornati ogni anno, distribuiti in 200 negozi e richiesti da aziende internazionali (l’anno scorso perfino per il personale del Vaticano). All’interno del Consorzio della Cooperativa Giotto, nel carcere di Padova, lavorano circa 120 detenuti, di cui una ventina solo in pasticceria. Al Caffè Pedrocchi potreste vedere le loro millefoglie o le deliziose tortine di riso. Dall’impasto al confezionamento, tutto avviene in carcere. Molti detenuti arrivano qui senza aver mai fatto un giorno di lavoro in vita loro e imparano a dividersi le mansioni, ascoltare i superiori, rispettare gli orari. Marco ha cominciato da soli tre mesi, ma gli si legge in faccia la soddisfazione. "Il lavoro ha un ruolo centrale per noi detenuti. C’è davvero chi cambia vita. Fosse per me trasformerei tutte le prigioni in fabbriche". Con diciotto anni di carcere alle spalle, la maggior parte della sua vita l’ha passata dentro le mura. "Ma mi mancano pochissimi anni. E ho scoperto che stare in cucina mi piace. Ho parenti in Germania, penso che andrò là. Vorrei una pizzeria". Umbria: Sappe; ogni due giorni nelle carceri della regione un detenuto si autolesiona www.umbriajournal.com, 26 novembre 2014 Ogni due giorni nelle carceri umbre un detenuto si autolesiona ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo. E, ogni tre settimane, un ristretto dell’Umbria tenta il suicidio, salvato in tempo dal tempestivo intervento delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria. È la denuncia di Donato Capece, segretario del Sappe, primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri, che contesta il mancato invito e quindi la partecipazione al convegno perugino dei parlamentari del Pd "Carcere, una pena civile in un sistema giusto ed efficiente" organizzato proprio dai deputati democratici". Capece aggiunge che "a Spoleto, Perugia e Terni c’è stato il maggior numero di episodi di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): 22 in ogni istituto, cui si devono aggiungere anche i 6 di Orvieto. È a Terni che ci sono stati più tentati suicidi sventati dai poliziotti, 4, seguita da Spoleto, 3, Perugia, 2, e Orvieto, 1. Le colluttazioni sono state 12 a Perugia, 8 a Terni, 6 a Spoleto e 5 a Orvieto. 8 i ferimenti a Terni e 7 quelli a Perugia. La situazione nelle carceri resta dunque sempre allarmante. E in un anno il numero dei detenuti in Umbria è stato di neppure 150: dai 1.611 del 31 ottobre 2013 si è infatti passati agli attuali 1.443". "Al Convegno di Perugia del Pd sul carcere, dove non siamo stati invitati - dichiara il segretario - avremmo detto e fatto sapere che, per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio nelle carceri dell’Umbria e dell’intero Paese con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", aggiunge il leader del Sappe. "Ma avremmo anche detto che è sbagliato che lo Stato tagli le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi preveda (lo dice una legge voluta dal Governo in carica) un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate! A noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi si stanziano soldi per chi le leggi ha infranto e le infrange E sul calo delle presenze di carcere, il Sappe precisa: "Se il numero dei detenuti è calato, questo è la conseguenza del varo - da parte del Parlamento - di 4 leggi svuota carcere in poco tempo. Ma l’Amministrazione Penitenziaria non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere e autogestione dei reparti detentivi. Serve una nuova guida all’Amministrazione Penitenziaria, da mesi senza un Capo Dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a cominciare dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri umbre e del Paese tutto. Poliziotti che neppure vengono inviatati ai Convegni dove si parla del loro lavoro".. Marche: seduta del Consiglio regionale su attività socioculturali e artistiche dei detenuti Ansa, 26 novembre 2014 Insolita seduta aperta del Consiglio regionale delle Marche, dedicata alle attività socioculturali e artistiche svolte dai detenuti degli otto istituti di pena delle Marche, previste dalla legge regionale n. 28 del 2008. In aula, sotto la regia di Lorenzo Sabbatini, coordinatore del sistema bibliotecario carcerario regionale, letture di lettere di detenuti o di pagine scritte anche da agenti della polizia penitenziaria e dagli operatori, l’esecuzione live di "Folsom Prison Blues" sullo sfondo delle immagini della celebre visita di Johnny Cash al carcere di Folsom. E ancora, brani dedicati a rapper e musicisti rock che hanno conosciuto il carcere come Jim Morrison e Diego Calderon, poesie, video su rappresentazioni teatrali e un breve intervento di Radio Freedom, che ha raccolto le voci dei detenuti, chiuso sulle note di "La libertà" di Giorgio Gaber. Entusiasti i giovani alunni della scuola media Donatello, che assistono alla seduta dell’Assemblea legislativa. "Siamo la prima Regione d’Italia a realizzare un evento di questo tipo - ha detto il presidente Vittoriano Solazzi. L’Assemblea legislativa ha concretizzato una legge che si pone all’avanguardia e realizza un obiettivo condivisibile. Scontare una pena è il giusto tributo che viene pagato per avere commesso un reato. Ma il dettato costituzionale ci dice che la pena deve anche costituire l’occasione della riabilitazione, che occorre operare il giusto reinserimento nella società". E per il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Ilde Runsteni il carcere "deve essere visto come investimento e non come costo". Cagliari: chiude il terribile carcere di Buoncammino, ma l’alternativa è inadeguata di Damiano Aliprandi Il Garantista, 26 novembre 2014 Trecentocinquanta detenuti scortati nel nuovo istituto di Uta, che però non è ancora finito. E ufficiale. Chiude definitivamente lo storico carcere sardo di Buoncammino e i 341 detenuti che vi erano rinchiusi sono stati trasferiti nella nuova struttura di Uta. Ma sorgono i primi problemi, tra i quali l’ombra dei materiali tossici che sarebbero disseminati nel territorio dove sorge il nuovo "villaggio carcerario". Nel frattempo, per il trasferimento definitivo dei detenuti di Buoncammino, si dice soddisfatto il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Sulle carceri possiamo finalmente passare dalla fase delle emergenze imposte dal sovraffollamento ad una fase più propositiva e di programmazione che riguarda la gestione del numero dei posti disponibili". A scortare i pullman con i carcerati è stato utilizzato un ingente numero di mezzi della polizia penitenziaria, della polizia di Stato, dei carabinieri e del personale della polizia municipale. "È un’operazione storica, molto complessa e delicata - ha detto all’Ansa il Questore di Cagliari Filippo Dispenza - tutto è coordinato dal Capo di Gabinetto della Questura di Cagliari. Abbiamo pianificato tutto nei minimi particolari nelle scorse settimane e soprattutto durante l’ultima, con un Comitato ordine e sicurezza pubblica in Prefettura e più riunioni tecniche in Questura". Oltre ai mezzi di terra si sono alzati in volo anche un elicottero della Polizia e uno della Guardia di finanza "che hanno verificato il percorso facendo attenzione a eventuali turbative che potrebbero verificarsi". Il primo carcere di Buoncammino entrò in funzione nel lontano 1855. Nove anni dopo il Ministero dell’Interno decise di costruirne uno nuovo, includendo anche la vecchia struttura. I lavori, ad opera degli ingegneri Bulgarini e Ceccarelli, si conclusero nel 1897. A Buoncammino furono ospitati 600 detenuti provenienti dal carcere San Pancrazio. La posa della prima pietra del penitenziario di Uta, invece, risale al 2005. La nuova struttura carceraria però già presenta i primi problemi. A denunciarlo è la presidente dell’associazione "Socialismo Diritto Riforme", Maria Grazia Caligaris. "Restano irrisolti - afferma - i problemi nella nuova sede detentiva non ancora del tutto completata. Saranno quindi necessari diversi mesi prima che il Villaggio Penitenziario possa entrare a regime". Caligaris inoltre sottolinea che "la realtà della nuova sede penitenziaria di Cagliari - Uta, nonostante abbia impresso una svolta nella storia detentiva in Sardegna dopo poco meno di 150 anni, non può essere considerata soddisfacente e desta preoccupazioni". La mega struttura, articolata in sezioni separate l’una dall’altra e strutturata su cinque livelli, con una capienza regolamentare di quasi 600 detenuti, "risulta difficilmente raggiungibile in quanto a tutt’oggi è assente una segnaletica in grado di indicare l’esatta ubicazione del carcere in una zona peraltro destinata a iniziative industriali". Difficoltà per i familiari dei detenuti e anche per i volontari. "Detenuti, familiari, agenti di polizia penitenziaria e amministrativi - afferma sempre la presidente di Sdr - insomma vivranno ai margini della società e sarà sempre più difficile coinvolgere i cittadini di Cagliari e hinterland in attività di solidarietà e in azioni di sensibilizzazione". La denuncia è trasversale. Anche il consigliere regionale di Forza Italia Edoardo Tocco mette in luce dei forti disagi. "Purtroppo il trasferimento è stato effettuato senza un piano adeguato da parte della Regione e del Comune, con tanti familiari che hanno assistito al trasporto dei loro congiunti sui pullman per Uta, sostando davanti al carcere cagliaritano. Una pagina davvero dolorosa e difficile da dimenticare, con l’impossibilità per tanti di raggiungere il nuovo caseggiato. L’amministrazione penitenziaria, e in particolare il direttore del carcere cagliaritano Gianfranco Pala - continua Tocco - sono stati lasciati da soli nell’organizzazione del trasloco". Per l’esponente azzurro è necessario un intervento immediato. "Penso sia opportuno dare la possibilità ai parenti dei detenuti, ormai da oggi ospitati nel nuovo carcere di Uta, di poter arrivare per i colloqui settimanali nel sito. E necessario attivare da subito un bus che venga messo a disposizione dei familiari nei giorni previsti per gli incontri. Una corsa che parta dalla vecchia sede del carcere di Buoncammino, per poi raggiungere l’area di Macchiareddu in modo semplice e agevole. I parenti e gli amici potranno pagare un biglietto a costo minimo, ma si garantirà loro un servizio utilissimo. Auspico per questo -conclude Tocco - che la Regione trovi le risorse per colmare i costi di trasporto". Si aggiunge anche l’ombra dei rifiuti tossici. C’è un’inchiesta della Procura di Cagliari in corso dove intende accertare se esistano situazioni di mancato rispetto delle norme in materia di protezione ambientale. E l’area "incriminata" riguarda proprio il territorio dove sorge il Villaggio Penitenziario di Uta: c’è un’area industriale dove potrebbero essere disseminati dei materiali tossici. Se così fosse, i detenuti e la polizia penitenziaria di Uta potrebbero rischiare una contaminazione. Inoltre c’è un problema ancora irrisolto. Rimane il contenzioso tra la Regione Sardegna e il Governo in merito alla gestione dell’ex carcere di Buoncammino. Il carcere, nonostante la chiusura, rimane proprietà del Ministero della Giustizia e rischia di riaprire per ospitare i detenuti del carcere minorile e il personale della polizia penitenziaria. La Sardegna è una regione a statuto speciale e il carcere, una volta chiuso, sarebbe dovuto restare nella disponibilità delle istituzioni locali per essere adibito ad altro. Per la Sardegna, regione dove la disoccupazione è ai massimi storici, l’ex carcere di Buoncammino potrebbe diventare un’ottima risorsa economica riconvertendo la struttura in spazi di aggregazioni, attività commerciali e alberghi. Ma il governo Renzi, per il momento, non ne vuol sapere. Firenze: occorre un piano straordinario per far uscire i tossicodipendenti dalle carceri www.gonews.it, 26 novembre 2014 Marta Gazzarri, capogruppo regionale di Toscana Civica Riformista, ha scritto questa lettera aperta sulla situazione delle carceri dopo un recente suicidio a Sollicciano. Delle carceri si parla. Se ne parla spesso dopo l’evento tragico di turno. Se ne parla, a volte, in maniera ridondante. Spesso si attribuiscono in maniera semplicistica i problemi al mero dramma del sovraffollamento. Ci sono troppi pochi agenti penitenziari, certo questo è un dato importante. Ci sono troppi detenuti per strutture al collasso. Sono osservazioni che faccio da anni, dopo ogni visita alla struttura del caso. Oggi, dopo l’ennesimo caso di suicidio a Sollicciano, mi sento di parlare di carceri in un modo diverso. Chi è morto, vittima di un sistema che ha le sue lacune e che ha dimostrato essere inadeguato a garantire i diritti dei reclusi, non doveva stare lì. Chi ha perso la vita, troppo giovane, in un sabato qualunque impiccandosi nella sua cella, era un tossicodipendente. Occorre un piano straordinario per far uscire i tossicodipendenti non in comunità terapeutiche, ma in comunità di vita. Occorre ripensare responsabilmente alla depenalizzazione dei consumi perché le nostre carceri sono piene di tossicodipendenti e anche di consumatori, condannati per detenzioni di pochi spinelli. Dobbiamo farlo con urgenza ridefinendo in maniera concreta le pene e gli spazi per espiarle queste pene. La politica ha il compito di vigilare sulla salvaguardia dei diritti fondamentali dei detenuti, troppo spesso disattesi da una legislazione lenta e da un impostazione rigida che decide di non seguire l’esempio positivo che viene da altri paesi europei. Mi auguro che si acceleri su una seria riforma del sistema detentivo e delle pene e che lo si faccia adesso, prima che possa consumarsi l’ennesima morte annunciata. Lecce: scontava la pena con il braccialetto elettronico, detenuto trovato morto in casa www.quotidianodipuglia.it, 26 novembre 2014 Un uomo di 44 anni, Eugenio Cucci, di Porto Cesareo, detenuto in casa con il braccialetto elettronico, è stato trovato morto nella sua abitazione ieri mattina attorno alle 10. Il Pm di turno, Stefania Mininni, ha disposto il trasporto della salma nella camera mortuaria del "Vito Fazzi" di Lecce, dove il medico legale effettuerà l’esame cadaverico - al momento si è in attesa di sapere se sarà disposta anche l’autopsia - per comprendere le cause del decesso. Il corpo non presentava segni di violenza. Palermo: da due mesi non hanno l’acqua calda, protesta dei detenuti dell’Ucciardone www.blogsicilia.it, 26 novembre 2014 Protestano i detenuti del carcere Ucciardone di Palermo perchè da due mesi sono obbligati a lavarsi con l’acqua fredda a causa di un guasto alla caldaia che non è ancora stata riparata. Manifestano la loro protesta sbattendo le gavette contro le sbarre delle celle. Sarebbe già stato bandito un appalto per la riparazione del guasto, ma l’azienda si sarebbe tirata indietro. In stato di allerta gli agenti di polizia penitenziaria. Catania: il quartier San Berillo aspetta il restyling, al lavoro anche 17 giovani detenuti www.blogsicilia.it, 26 novembre 2014 Saranno diciassette giovani detenuti nel carcere minorile di Bicocca ad occuparsi di alcuni interventi edili nel fatiscente quartiere di San Berillo Vecchio da sempre simbolo di quel degrado a pochi passi dagli uffici di Corso Sicilia e dalle attività del centro storico di Catania. Si tratta di una collaborazione che rientra nell’ambito di un piano, approvato dal Ministero della Giustizia di reinserimento sociale di giovani che hanno subito una condanna penale e sono detenuti o in regime di semilibertà. Oggi l’assessore comunale all’urbanistica Salvo Di Salvo con il presidente e il direttore dell’Ente Scuole Edile di Catania, Giuseppe Piana e Giacomo Giuliano, ha dato il via al corso di formazione tecnico-pratico per i ragazzi secondo il protocollo d’intesa firmato nelle scorse settimane dal Comune, l’Ente Scuola Edile e l’Accademia di Belle Arti per realizzare interventi di riqualificazione nel vecchio quartiere di San Berillo. Dopo la formazione, dal 16 dicembre prenderà il via il cantiere di lavoro che verrà attivato direttamente nelle viuzze di San Berillo principalmente con opere di recupero riguardanti rifacimento di intonaci esterni esistenti su pareti di edifici privati, associati a interventi sul colore che cureranno i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti. A coordinare e gestire le squadre di lavoratori presenti in cantiere, si prevede la presenza di almeno un operaio specializzato, coadiuvato da due lavoratori (detenuti e disoccupati) con esperienza pregressa nel settore edile, questi ultimi, con la funzione di caposquadra. Il quartiere San Berillo, che è noto alle cronache per le "lucciole" e le continue risse che esasperano gli abitanti della zona, venne ristrutturato durante l’amministrazione Scapagnini che chiuse molte "case" e realizzò diversi interventi edili come la nuova pavimentazione. Negli anni ci sono stati anche delle manutenzioni dei privati sulle proprie abitazioni, ma sono ancora tante le strutture fatiscenti e una completa riqualificazione non è mai avvenuta. Inoltre sono stati organizzati degli eventi che hanno reso vivibile e gradevole il quartiere, ma dopo le manifestazioni tutto è tornato alla "anormalità". "Ringrazio per questa lodevole iniziativa che si concretizza e che considero un esperimento positivo da ripetere l’assessore Di Salvo, i vertici dell’Ente Scuola Edile e dell’Accademia di Belle Arti. Catania ha bisogno di gesti forti e generosi come questo per ritrovarsi nel segno della crescita e del recupero sociale", ha commentato il sindaco Enzo Bianco. Alessandria: il direttore del carcere di San Michele "pronti ad abbassare il muro" di Marco Madonia www.alessandrianews.it, 26 novembre 2014 Il direttore della Casa di Reclusione di San Michele racconta in esclusiva gli sviluppi previsti per la struttura: "lavoriamo a un carcere che si occupi davvero di riabilitazione delle persone detenute, con un percorso da costruire insieme a loro e alla città". La rivoluzione riguarderà anche gli spazi interni: "sposteremo il polo universitario nell’ex isolamento e creeremo una nuova piccola ala per i detenuti più maturi e responsabili". Dopo la nostra visita all’interno della Casa di Reclusione di San Michele abbiamo incontrato per un’intervista il direttore della struttura, Domenico Arena, per parlare della rivoluzione che attende le strutture penitenziarie in Italia e le realtà cittadine. Dalla prossima settimana AlessandriaNews.it inaugurerà una rubrica mensile con le storie dall’interno del carcere, un ulteriore passo per garantire una connessione fra l’istituto di San Michele, la sua popolazione e il resto della città. Direttore Arena, lei è tornato da poco a dirigere la struttura alessandrina di San Michele. Che realtà è? San Michele è una casa di reclusione e come tale si occupa prevalentemente della riabilitazione dei condannati. Questo fa sì che abbia una popolazione di detenuti piuttosto stabile con la quale è possibile lavorare e creare progetti. La struttura è abbastanza nuova, ha qualche decina d’anni, benché non sia stata costruita nel miglior modo possibile è una realtà più sana di tante altre. Il sovraffollamento in questo momento non c’è perché siamo calati dai 430 detenuti di un anno e qualche mese fa ai 280 attuali e questo consente una diversa gestione degli spazi e dei tempi. Essendo una casa di reclusione è pensata con spazi migliori rispetto a quelli delle case circondariali: abbiamo un teatro, campo sportivo, dei laboratori. Non quanti spazi servirebbero ma più di tante altre realtà e questo ci consente di lavorare per creare attività sempre più coinvolgenti per chi si trova all’interno del carcere. Si è parlato di sorveglianza dinamica e di una rivoluzione alle porte per le carceri italiane. Cosa deve cambiare secondo il suo particolare punto di osservazione? Noi abbiamo alle spalle una brutta stagione dei penitenziari italiani perché sono stati un po’ abbandonati per alcuni decenni, sulla spinta dell’emergenza e pur con qualche eccezione positiva. L’idea fondamentale che deve stare dietro l’amministrazione penitenziaria è sì quella di custodire le persone, ma soprattutto di restituirle alla società migliori di quando sono entrate. Questo obiettivo non si raggiunge a chiacchiere ma facendo fare alle persone delle cose e facendole sperimentare in contesti e condizioni completamente diverse rispetto agli stili di vita che li hanno portati a delinquere. Noi invece in Italia negli ultimi 30 anni ci siamo occupati esclusivamente di una dimensione di sicurezza in senso un po’ segregativo, tenendo le persone chiuse, e abbiamo un po’ abbandonato quel terreno, che invece è esattamente quello della riforma del ‘75, che è un terreno di vita comunitaria. Un carcere dovrebbe essere come una piccola città all’interno della quale si costruiscono una serie di esperienze. Le persone crescono, maturano, cambiano sperimentandosi nelle attività della vita: se dentro il carcere si hanno un lavoro vero, sano e non assistito, che insegni la cultura del lavoro e il piacere di fare le cose bene, una scuola che funziona, una serie di attività sportive e ricreative, si può creare una comunità che produce delle cose. In questa sua produzione è possibile mettersi anche in rapporto con il territorio: e c’è bisogno di un intervento della città, non con spirito buonista ma con la consapevolezza che si tratta in realtà di un investimento sociale. Le persone detenute qui sono destinate a rientrare comunque in società: se si offrono possibilità per cambiare i propri stili di vita se ne ha poi un ritorno in senso sociale e anche economico, mentre se ci limitiamo a sottrarre loro la libertà di movimento e a chiuderle nelle modalità devianti alle quali sono abituati riavremo il problema moltiplicato alla fine della pena. Molto spesso quando si parla di lavoro ai detenuti le persone hanno una reazione d’indignazione, dicendo: "non c’è lavoro per noi, com’è possibile darlo ai detenuti?" La risposta è che noi non diamo lavoro ai detenuti sottraendolo al mondo esterno, il problema è che se noi non abituiamo queste persone a entrare in una cultura del lavoro ne avremo un danno sociale ed economico ancor più grave rispetto a quello attuale. Questo è il quadro ideale che sta dietro una Casa di Reclusione: poi c’è la realtà concreta. Alessandria forse fa già eccezione rispetto ad altre realtà, ma il sistema complessivo resta improntato sulle "domandine" dei detenuti per ottenere qualsiasi cosa e su un modello che crea persone in totale dipendenza e deresponsabilizzazione. Cosa cambierà ora con la sorveglianza dinamica? Quali sono le azioni concrete che metterete in essere per transitare verso un modello differente di organizzazione penitenziaria rispetto a quello attuale? È un processo molto complicato che mette in gioco tante variabili. Un prima parte riguarda la de-infantilizzazione del detenuto, nel senso che il detenuto qui è stato abituato a essere un destinatario finale: di ordini, di imposizioni, di attività, ma è una sorta di oggetto. Si tratta di restituirgli soggettività e questa cosa si fa prendendo dei reciproci impegni. Si chiede alle persone, ai detenuti che sono in grado di farlo (perché non tutti sono uguali esattamente come succede nella società normale), di cominciare a prendere impegni concreti, anche a seconda degli strumenti culturali che si hanno a disposizione. Solo così si può costruire un percorso che renda questi impegni sempre più gravosi, ma in contropartita offra degli spazi di autonomia e di costruzione delle attività da svolgere all’interno della struttura sempre più interessanti e importanti. L’altro capo di questa matassa riguarda l’organizzazione del personale: se noi pensiamo di riprodurre modelli di sicurezza ormai antichi, che si basano sul fatto che una persona debba restare chiusa in quel posto e che noi la guardiamo continuamente, non riusciremo a mettere insieme questo modello innovativo. Noi però abbiamo una carta da giocare: la straordinaria ricchezza dei tanti enti che si occupano dei detenuti. Penso agli istruttori professionali, ai medici, agli operatori del Sert, ai professori di scuola, ai volontari. Se riusciremo a mettere a fattor comune tutte le conoscenze che questo mondo ha, e fare rete fra loro, avremo un modello di sicurezza che non si basa più su un aspetto meramente repressivo o di contenimento fisico, ma fondato invece su una conoscenza profonda delle persone. Qualche esempio? All’interno della sorveglianza dinamica una delle idee è che ci sia un gruppo multi professionale che vada a vedere cosa succede in questa "città" che è la Casa di Reclusione durante la giornata e incontri gli abitanti di questi spazi, che sono i detenuti, impegnati nelle diverse attività, avendo una conoscenza profonda delle storie che hanno alle spalle. Si tratta di passare da un approccio repressivo a uno preventivo. È sicuramente una rivoluzione culturale. Chi è stato abituato, a partire dai direttori negli ultimi 20 anni, a pensare alla sicurezza come a quella cosa che si occupa staticamente dell’immobilità delle persone deve riorganizzare tutti i processi lavorativi. La contropartita di questa rivoluzione è che diventa molto più interessante e molto più gratificante lavorare. La differenza fra l’immagine un po’ stantia dell’agente di polizia penitenziaria che apre e chiude 100 volte al giorno la serratura come nella canzone di De André e un operatore sociale che ha competenze raffinate di conoscenza delle persone e dei processi che accadono è abissale, e lavorare in quel modo invece che nell’altro fa una grande differenza. Di che tempi stiamo parlando? Abbiamo appena finito un primo step di formazione e stiamo parlando di qualcosa che un po’ abbiamo già sotto i nostri occhi, nel senso che in questo San Michele è sempre stata una realtà piuttosto all’avanguardia. Non dappertutto però: il polo universitario è una struttura per esempio che si è già posta in questa logica. Chi monta di servizio lì sa che non è tanto importante guardare le persone ma capire le situazioni. Entro la fine dell’anno contiamo di aprire una nuova sezione che dovrà essere uno spazio "a trattamento avanzato". L’obiettivo è che funzioni proprio secondo questa logica e che inglobi in sé il meglio delle esperienze che si sono fatte in questo carcere, come ad esempio la gestione del panificio, che è una piccola oasi di un lavoro di qualità che nulla ha a che vedere rispetto al carcere repressivo così come spesso si è abituati a immaginarlo. Questa nuova ala prenderà il posto che ora è del polo universitario, a sua volta spostato nell’ex area dedicata all’isolamento (ora ristrutturata ad hoc): anche in questo caso è un bel salto di qualità, anche simbolico. Lì ci sposteremo quei detenuti (in tutto questo spazio conterà una quindicina di posti ndr) che si trovano nella scala più alta dell’impegno, quelli che hanno più capacità di autonomia, perché l’idea è quella di costruire un carcere che disegni un percorso: si entra in uno step zero dove vengono rispettati i diritti, vengono svolte attività iniziali e si cominciano a stabilire delle relazioni con la struttura e man mano si prosegue in un percorso e si salgono i gradini di una scala sociale che è prima di tutto una scala di consapevolezza. Diciamo che al top di questo percorso ci sono persone quasi pronte per poter sperimentare un rapporto con l’esterno che non è ancora di libertà ma di osmosi con l’ambiente cittadino. Ovviamente dobbiamo fare i conti con i limiti architettonici e quindi forse non avremo mai un carcere che funzioni tutto così ma l’ambizione è che nell’arco del 2015 si ottenga un carcere che per ben oltre il 50% funzioni così. Anche la nuova rubrica che inaugureremo in collaborazione la prossima settimana con l’obiettivo di raccontare delle storie dei detenuti e del personale fa parte della costruzione di un rapporto con l’esterno… È un’altra opportunità per abbassare il muro di cinta che separa l’interno con l’esterno e far conoscere a tutti quanta ricchezza umana c’è all’interno del carcere, quali storie complicate e dolorose ci sono, ma anche episodi buffi, divertenti e insospettabili. Non è solo una questione di curiosità: noi speriamo sia un seme gettato. Io immagino infatti che tutto questo percorso di rinnovamento non possa partire attingendo solo alle risorse del carcere, e non mi riferisco solo alle risorse economiche: c’è bisogno di un patrimonio di idee, intelligenze e passione che viene da fuori e che assume che il carcere sia un pezzo del territorio anche capace di produrre delle cose per la città e i suoi abitanti. Anche in questo caso, in conclusione, facciamo qualche esempio… Penso a un volontariato che si occupi del carcere che vada oltre le necessità quotidiane materiali dei detenuti per strutturarsi invece come un volontariato tematico: una persona ha delle particolari abilità in ambito artistico? Penso possa fare il referente per i laboratori artistici dei detenuti. Ha una particolare competenza in ambito educativo? Allora potrà aiutarci a ragionare con gli enti scolastici che lavorano qui nel fare progetti che richiedano sempre più ai detenuti offrendo un’offerta formativa sempre più importante. Questo volontariato, che è solo la punta dell’iceberg di un territorio che al di là delle collaborazioni istituzionali può dare tanto e sa dare tanto a questo carcere, è un tema cruciale. Non si può cambiare il carcere solo dall’interno, è fondamentale che la collettività sul territorio se ne faccia carico: raccontare cosa siamo significa al contempo chiedere all’esterno di interessarsi a cosa rappresentiamo oggi e cosa potremo essere domani. Catanzaro: delegazione Sappe in visita al carcere, poi anche a Castrovillari e Rossano Ansa, 26 novembre 2014 "I dati al 30 ottobre scorso ci dicono che nel carcere di Catanzaro sono detenute 561 persone rispetto alle 468 che c’erano un anno fa, mentre a Castrovillari e Cosenza sono meno dell’anno scorso: 115 a Castrovillari, dove erano 215, e 234 a Cosenza rispetto ai 282 del 2013". Lo afferma, in una nota, il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), Donato Capece che visiterà oggi il carcere di Catanzaro assieme al vice segretario nazionale Giovanni Battista Durante e dal segretario regionale Damiano Bellucci. "Disomogenea - prosegue Capece - è anche la percentuale dei detenuti tossicodipendenti: si passa dal 23% dei detenuti di Castrovillari al 12% di Catanzaro mentre a Cosenza sono meno del 10%. E la quotidianità penitenziaria in questi tre istituti fa registrare costanti eventi critici: come i tentati suicidi sventati in tempo dai nostri agenti (due a Catanzaro ed uno a Cosenza nei primi sei mesi del 2014) e gli atti di autolesionismo (otto a Catanzaro, quattro a Castrovillari e 6 a Cosenza dal primo gennaio al 30 giugno di quest’anno). È del tutto evidente che queste criticità incidono negativamente sulla vita dei reclusi ma anche e soprattutto sulle condizioni di lavoro dei nostri poliziotti, uomini e donne quotidianamente impegnati con professionalità, abnegazione e senso del dovere nelle carceri. Per questo sarò tra loro, in questi giorni, per ringraziarli a nome del Sappe per quello che fanno". Da Catanzaro la delegazione del Sappe si sposterà in serata nella sezione di Rossano dell’Associazione nazionale dei poliziotti penitenziari in congedo Anppe, mentre domani sarà nel carcere di Castrovillari e giovedì in quello di Cosenza. Capece e la delegazione incontreranno i poliziotti in servizio nelle tre strutture detentive e porteranno loro i saluti e la vicinanza del primo sindacato della Polizia penitenziaria. "Un atto doveroso - afferma Capece - verso chi vive il carcere 24 ore su 24, rappresentando lo Stato e spesso essendo dimenticato dalla stessa Amministrazione penitenziaria, nella prima linea delle sezioni detentive. Negli ultimi vent’anni anni, la Polizia Penitenziaria italiana ha salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio e agli oltre 125mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo". Imperia: Sappe; il 27 sit-in di protesta contro indifferenza istituzioni a problemi carcere www.riviera24.it, 26 novembre 2014 La data è fissata: 27 novembre alle ore 9,30 davanti al carcere di Imperia si raduneranno sotto le bandiere del Sappe - Sindacato autonomo polizia penitenziaria - i colleghi della provincia di Imperia per manifestare pacificamente contro l’indifferenza di chi non ha o non vuole dedicare attenzione alla Polizia Penitenziaria di Imperia. L’estrema decisione - riferisce il segretario regionale Michele Lorenzo - proviene da una serie di eventi verificatisi nell’ultimo periodo che ci hanno condotto alla decisione di questa pubblica protesta. Imperia sta vivendo uno stato di abbandono da parte della nostra amministrazione regionale. L’aver spostato il vice comandante in un’altra sede, l’assenza di un direttore, una carenza di organico specialmente nel ruolo femminile e degli ispettori, non hanno trovato la giusta attenzione da parte di chi ha il dovere istituzionale di pensarci, a questo si aggiunge - aggiunge la segreteria Sappe di Imperia - un aumento degli ingressi dei detenuti dovuta alla chiusura del Tribunale di San Remo. Non è tollerabile accettare detenuti durante le ore notturne quando diminuisce ulteriormente l’organico dei poliziotti. "La Polizia Penitenziaria di Imperia negli ultimi mesi ha effettivamente vissuto situazioni di criticità estrema. Anche se abilmente fronteggiate dal personale hanno comunque determinato un aumento del livello di allerta, già di per se quotidianamente elevato". Non riusciamo a spiegarci - apostrofa il Sappe - come mai ciò che abbiamo continuamente segnalato ai vertici regionali, anche riportato dalle varie testate giornalistiche, non hanno sortito alcun effetto restando inalterato, anzi per alcuni versi peggiorato, l’andamento dell’istituto dal punto di vista dell’organico e dell’organizzazione. Autovetture vecchie e non funzionanti hanno determinato che la Polizia Penitenziaria pur di garantire la propria presenza esterna, abbia utilizzato la propria autovettura, carenza delle poliziotte, in alcuni casi si è costretti a richiamare personale femminile dalle ferie per poter assicurare il controllo all’ingresso del carcere. Poliziotti penitenziari trasferiti e non rimpiazzati, il verificarsi di eventi critici derivanti dalla popolazione detenuta, mette una serie ipoteca sulla gestione della sicurezza. Basta un ricovero ospedaliero di un detenuto che il sistema sicurezza vacilli. Un istituto che nel 2014 ha registrato 96 eventi critici tra i quali un tentato suicidio salvato dalla tempestività del personale e ben 36 ricoveri ospedalieri urgenti. Dati questi che non possono essere letti con superficialità se pensiamo che si riferiscono ad una popolazione detenuta di circa 90 ristretti. Eppure la storia negativa dell’istituto dovrebbe essere giustificativa per rafforzare invece che indebolire la Polizia Penitenziaria di Imperia. Larino (Cb): scoperto "scambio di scarpe" con della droga durante il colloquio in carcere www.primonumero.it, 26 novembre 2014 Un 56enne, incensurato, originario di Napoli, è stato sorpreso da un agente della Polizia penitenziaria mentre scambiava le scarpe da tennis con all’interno all’incirca 80 grammi di droga durante un colloquio con il figlio 35enne, detenuto nella casa circondariale frentana e prossimo alla scarcerazione. L’uomo è stato arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti. "Normalmente - ha spiegato il comandante della Polizia penitenziaria, Francesco Maiorano - siamo abituati a sequestrare durante i colloqui quantitativi più piccoli scambiati dai congiunti che occultano la sostanza stupefacenti in bocca o nel vestiario. In questo caso il quantitativo supera la media dei sequestri effettuati finora". Era andato a trovare il figlio, detenuto nel carcere di Larino. Durante il colloquio, è avvenuto il "passaggio" di scarpe: il 56enne ha ceduto le sue con nascosti all’interno 83 grammi di hashish, nell’incontro con il 35enne prossimo alla scarcerazione, che sta scontando una condanna per droga. L’uomo pensava di non essere notato, in quanto in quel momento nella sala c’erano anche altri familiari, anche loro impegnati nei colloqui con altri detenuti. Lo scambio non è passato inosservato all’ispettore della Polizia penitenziaria Mario Ciccotelli, che ha subito proceduto con la perquisizione, dalla quale sono saltati fuori i panetti di sostanza stupefacente occultati nelle scarpe da tennis attraverso una modifica della suola. L’intervento, avvenuto all’interno della casa circondariale di contrada Monte Arcano, si è concluso con l’arresto del 56enne, come spiegato in conferenza stampa, la mattina di martedì 25 novembre, dal comandante della Polizia penitenziaria Francesco Maiorano. Il 56enne originario di Napoli e incensurato dovrà rispondere di spaccio di sostanze stupefacenti. La posizione del figlio è al vaglio del magistrato, per lui non risultano provvedimenti. "Da quando sono a Larino - ha osservato il responsabile della Polizia penitenziaria - è la prima volta che troviamo la droga all’interno di scarpe scambiate. È chiaro che questo è un metodo utilizzato anche all’interno di altri istituti ed è abbastanza notorio. Per questo il personale è sensibilizzato alla massima attenzione su ciò che accade durante il colloquio tenendo conto anche di questa problematica". I controlli all’interno del carcere diretto da Rosa La Ginestra, che attualmente ospita circa 210 detenuti, continuano. "Normalmente - ha spiegato Maiorano - siamo abituati a sequestrare durante i colloqui quantitativi più piccoli scambiati dai congiunti che occultano la sostanza stupefacenti in bocca o nel vestiario. In questo caso il quantitativo supera la media dei sequestri effettuati finora". Rieti: "Carcere verde", le pratiche ambientali come opportunità di riscatto per i detenuti di Ambra Notari Redattore Sociale, 26 novembre 2014 Gli scarti organici del carcere di Rieti saranno trasformati in compost, fertilizzante da utilizzare per la realizzazione di orti e serre. Il risparmio economico e ambientale di un progetto pronto per essere riproposto in tutti i penitenziari italiani. Ridurre i rifiuti della casa circondariale di Rieti coinvolgendo in prima persona i detenuti per risparmiare a livello economico e ambientale: con questo scopo nasce "Carcere verde", un progetto portato avanti dalla Provincia di Rieti con City Net, azienda che si occupa di igiene urbana, e Achab Group, rete di comunicazione impegnata sui temi ambientali. Alla base del progetto - che punta a diventare un modello da estendere a livello nazionale -, la corretta gestione degli scarti organici alimentari, la loro valorizzazione e il loro reimpiego. Il rifiuto organico prodotto dalla mensa carceraria, infatti, rappresenta il 30/40 per cento del totale. Grazie a ‘Carcere verde’ sarà trasformato in compost: la compostiera elettromeccanica Big Hanna - arrivata da pochi giorni al carcere - trasformerà direttamente in loco lo scarto della preparazione dei pasti e gli avanzi di cibo in compost riutilizzabile. Il processo di compostaggio è naturale, senza impiego di additivi chimici e completamente automatizzato. Il fertilizzante ottenuto potrà essere impiegato all’interno del carcere per la realizzazione di orti e serre, dove i detenuti avranno l’opportunità di coltivare frutta e verdura per il consumo interno e, magari in futuro, anche per creare una linea di prodotti biologici da mettere sul mercato. "Oltre agli aspetti educativi e sociali, il compostaggio di comunità è una pratica che riserva notevoli vantaggi anche dal punto di vista ambientale - spiegano i promotori del progetto: l’impatto ambientale del rifiuto è praticamente azzerato, e le emissioni di CO2 equivalente, legate ai trasporti di questa tipologia di rifiuto, si riducono drasticamente, dato che il trattamento avviene sul posto e non prevede trasporti a distanza". Si stima che per ogni tonnellata di materiale compostato sul posto, si ottenga un risparmio in emissioni di CO2 equivalente in atmosfera, pari a 461 kg. Attraverso questo progetto, l’amministrazione penitenziaria potrà anche beneficiare di riduzioni sulla tariffa rifiuti. "Carcere verde" dovrebbe partire a inizio 2015, ma sono già stati avviati una serie di incontri finalizzati alla sottoscrizione di un protocollo di intesa per la formazione del personale interno, la manutenzione della compostiera e il monitoraggio. Torino: "Ognuno ha la sua legge uguale per tutti" studenti e detenuti fanno teatro insieme www.diregiovani.it, 26 novembre 2014 Annullare i pregiudizi e gli stereotipi sulla giustizia e sul valore rieducativo della pena è l’obiettivo dell’iniziativa "Ognuno ha la sua legge uguale per tutti", un evento teatrale proposto dal regista Claudio Montagna e dalla Compagnia Teatro e Società che si terrà da oggi al 28 novembre presso il teatro della Casa Circondariale di Torino. L’iniziativa è realizzata nell’ambito del progetto Varianti dell’Esilio da Teatro Società con il sostegno della Compagnia di San Paolo che sostiene diversi progetti all’interno degli istituti penitenziari. "La pena inflitta a un detenuto, secondo quanto afferma il dettato della nostra Costituzione, non deve rappresentare soltanto una sanzione bensì tendere alla riabilitazione - spiegano gli organizzatori. Questo percorso di emancipazione non si conclude nell’individuo, ma offre vantaggi in ultima analisi all’intera collettività". "Continua lo straordinario sforzo che ci vede impegnati e partecipi al progetto teatrale nei luoghi di detenzione - ha spiegato l’Assessore alla Cultura, Turismo e Promozione della Città di Torino, Maurizio Braccialarghe. Realizzare un ponte tra la comunità civile e le persone recluse consente di portare avanti una riflessione sul tema della giustizia e della restituzione che la finzione teatrale ci aiuta a compiere. Quest’anno il coinvolgimento di giovani studenti insieme ai detenuti ci consentirà un ulteriore passo avanti rispetto a quelli finora compiuti". Nelle quattro serate, un gruppo di 15 detenuti e un gruppo di 15 studenti universitari della Facoltà di Giurisprudenza e degli Istituti di scuola secondaria di II grado di Torino porteranno al centro della scena le ragioni di chi condanna, quelle di chi assolve mettendole a confronto con le leggi dello Stato e con il punto di vista del pubblico. Mentre un gruppo improvviserà brevi storie di illeciti, l’altro gruppo - senza averle conosciute prima e diviso in due fazioni contrapposte - dovrà condannare o assolvere. Attraverso momenti teatrali, saranno proposti casi reali, tratti dalla vita quotidiana. A un esperto di diritto è invece lasciato il compito di chiarire di volta in volta ciò che la Legge dispone, fornendo uno strumento in più per comprendere la forza della norma giuridica e il suo rapporto con i valori e il sentire comune. "È diffusa - spiega il regista Claudio Montagna - una propensione proprio da parte dei più giovani a giudicare pesantemente i comportamenti devianti. Ma chi giudica poi sa accettare fino in fondo le regole? Su questo interrogativo e per approfondire il significato di alcune risposte al questionario, abbiamo costruito il confronto. L’obiettivo è quello di far emergere e cogliere dal vivo, com’è nostra consuetudine, abiti mentali e atteggiamenti che spesso destano stupore non per fornire risposte ma per stimolare piuttosto una conoscenza critica e la maturazione del senso civico". Il progetto ha inoltre previsto incontri mirati con i detenuti, al termine di una ricerca avviata nei primi mesi del 2014 dalla Cattedra di Sociologia Giuridica e che ha coinvolto 336 studenti delle scuole superiori e universitari e 100 detenuti presso la casa circondariale Lo Russo e Cotugno. Secondo quanto è emerso dallo studio - dedicato ad approfondire tra i vari aspetti il rapporto con la legge e le conseguenze della violazione - di fronte a situazioni concrete il principale riferimento per i comportamenti degli individui non sia sempre rappresentato dalla legge ma da norme di carattere sociale o morale. Gli studenti intervistati tendono ad identificare come reati comportamenti che percepiscono come particolarmente gravi e nei quali sembra che essi riescano ad identificare con facilità un danno e una vittima. Parma: oggi detenuti e studenti visionano insieme il cortometraggio "Fuga d’affetto" di Marta D’Auria www.riforma.it, 26 novembre 2014 Alcuni giorni fa abbiamo parlato del cortometraggio "Fuga d’affetto", prodotto finale del laboratorio "Fare cinema in carcere… libera la bellezza". Il laboratorio ha visto la partecipazione di 25 detenuti nelle sezioni di Alta Sicurezza 1 e 3 degli Istituti Penitenziari di Parma, condannati a pene ostative (esclusi cioè dalle misure alternative al carcere), che hanno scritto il soggetto, e diversi studenti del liceo artistico Paolo Toschi di Parma che ne hanno curato la regia e le riprese. Oggi dalle 13 alle 15 presso il carcere di Parma per la prima volta si incontreranno i detenuti della sezione di Alta Sicurezza 1 e gli studenti del liceo Toschi per vedere insieme "Fuga d’affetto". L’incontro è stato preparato dalla Cooperativa Sirio, promotrice del progetto, dall’area giuridico-pedagogica, con il supporto della Polizia penitenziaria, e realizzato grazie alla disponibilità della direzione del carcere. "Per i ragazzi e per i detenuti sarà un primo importante momento di confronto - dice Giuseppe La Pietra, responsabile del progetto per la coop. Sirio e membro della commissione "carceri e giustizia" della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). La cooperativa, impegnata nell’inserimento socio-lavorativo delle persone che provengono dalla marginalità sociale, come il carcere, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere socialmente e culturalmente vivo il dialogo tra il carcere e il territorio di Parma. In questo percorso la scuola assume un ruolo importante". Studenti e detenuti vedranno insieme il film a cui seguirà un dibattito. "I detenuti sono contenti ed emozionati di potersi confrontare con i ragazzi - prosegue La Pietra. Alcuni di loro sono un po’ in ansia per le domande che i ragazzi potrebbero rivolgere loro, anche se riconoscono che questa modalità offre a tutti la possibilità di conoscersi meglio". Saranno presenti all’incontro anche il direttore, alcuni agenti della polizia penitenziaria, gli educatori e qualche volontario. In conclusione La Pietra torna a sottolineare il valore educativo, formativo e culturale di incontri come quello che avverrà domani nel carcere di Parma: "Un conto è parlare astrattamente in classe dell’articolo 27 della Costituzione, il quale al comma 3 recita che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", un altro conto è discuterne con chi vive la realtà della detenzione sulla propria pelle, è riflettere con chi vive - come nel caso dei condannati a pene ostative - l’affettività individuale ristretta. Credo che veramente il cortometraggio offra spazi e momenti di riflessione che aiutino tutti noi a crescere e imparare insieme". Lanciano (Ch): i detenuti della Libertas Stanazzo battono le Fiamme Azzurre nel "derby" www.divisionecalcioa5.it, 26 novembre 2014 E nella Casa Circondariale di Lanciano venne il giorno del derby. Per il campionato di Serie D della Delegazione Territoriale di Vasto, detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria si sono trovati di fronte in un campo di calcio a 5. Ha vinto la Libertas Stanazzo, squadra composta dai detenuti e che quest’anno sta partecipando a un campionato federale nell’ambito del progetto "Mettiamoci in gioco" di Lnd-Cr Abruzzo, Divisione Calcio a cinque e Ministero della Giustizia. Sconfitte le Fiamme Azzurre Lanciano, squadra invece formata interamente da guardie carcerarie. La Libertas è andata in vantaggio con Cristiano al 14’, con una palla rubata in fase difensiva e appoggiata facilmente in porta. Di Fiorillo il raddoppio della squadra di Paolucci. Nel secondo tempo, il gol del 2-1 di Scopece, seguito però dalle reti di Fiorillo e Russo, che hanno portato il risultato sul 4-1. Inutile la doppietta per le Fiamme Azzurre di Di Rocco, perché ancora Fiorillo ha fissato il punteggio sul 5-3. Ma al di là del risultato del campo, a vincere è stato lo sport che si è ancora una volta dimostrato strumento di integrazione, all’insegna dei valori della correttezza e del fair play. Immigrazione: al massimo 90 giorni nei Centri di Espulsione, in vigore le nuove regole www.stranieriinitalia.it, 26 novembre 2014 Taglio drastico del tempo di permanenza nei Cie, che finora poteva arrivare a 18 mesi. Per gli ex detenuti, il limite scende a 30 giorni. Da diciotto a tre mesi. Sei volte in meno. Di tanto scende il tempo massimo di permanenza dietro le sbarre per chi ha l’unica colpa di essere in Italia senza un permesso di soggiorno valido. Il taglio è previsto dalla legge europea 2013bis (161/2014) in vigore da oggi. Sarà sempre il giudice a convalidare e prorogare la permanenza degli stranieri irregolari nei Cie, ma "il periodo massimo di trattenimento dello straniero all’interno del centro di identificazione e di espulsione - recita la nuova legge - non può essere superiore a novanta giorni". Scaduto quel termine, lo straniero che non è stato identificato e rimpatriato andrà lasciato libero. La nuova legge interviene poi anche su uno degli aspetti più critici dei Cie, cioè il passaggio al loro interno di ex detenuti stranieri che hanno scontato la pena in carcere, ma per i quali bisogna ancora terminare le procedure di identificazione per rimpatrio. D’ora in poi, "lo straniero che sia già stato trattenuto presso le strutture carcerarie per un periodo pari a novanta giorni può essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di trenta giorni". L’abbassamento dei tempi di permanenza nei Cie è stato chiesto per anni dalle organizzazioni umanitarie, anche alla luce dei risultati dell’innalzamento a 18 mesi introdotto nel 2011. L’efficacia delle espulsioni, infatti, non è aumentata (effettivamente rimpatriati meno del 50% dei trattenuti), ma nei Cie sono aumentate le tensioni, quindi le rivolte, e la disperazione, quindi gli atti di autolesionismo. Immigrazione: Antigone; rimettere in libertà migranti detenuti illegittimamente nei Cie Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2014 Assieme all’Asgi sono stati predisposti dei modelli per la presentazione delle istanze, disponibili sul sito www.associazioneantigone.it. Nelle scorse settimane la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il provvedimento che riduce il tempo di permanenza nei Centri di Identificazione ed Espulsione dei migranti, da 18 mesi a massimo 90 giorni. Permanenza ulteriormente ridotta per coloro che, prima di essere condotti nei Cie, hanno passato un periodo superiore ai 90 giorni in carcere. Per loro la permanenza massima sarà di 30 giorni. A seguito di questa nuova disposizione normativa, molti dei migranti attualmente presenti nei Cie potrebbero ancora in questo momento essere trattenuti in maniera illegittima. Per questo motivo sono stati predisposti dei modelli - uno in collaborazione con Asgi, uno della sola Antigone - attraverso i quali i migranti possono presentare un’istanza di riammissione in libertà. "Si tratta di una legge importante" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili. "Speriamo ora si arrivi nel più breve tempo possibile a liberare tutte le persone indebitamente recluse in quei luoghi indegni, di sofferenza, che sono i Cie. Stati Uniti: libero dopo 39 anni nel braccio della morte, l’afroamericano Jackson è innocente di Marco Cinque Il Manifesto, 26 novembre 2014 La sua è stata la più lunga detenzione della storia del sistema giudiziario Usa. Per una volta si può finalmente parlare e scrivere di pena capitale senza l’angoscia di dover raccontare l’ultima camminata dell’ennesimo dead man walking di turno. Si tratta della vicenda dell’afroamericano Ricky Jackson che, condannato all’età di appena 18 anni, vide la sua vita precipitare in un buco di cemento e acciaio di un metro e mezzo per tre, nell’abisso senza ritorno del braccio della morte dell’Ohio. Difeso da uno dei soliti avvocati d’ufficio e giudicato in maniera sbrigativa nell’ennesimo "processo farsa" che tocca immancabilmente a minoranze, poveracci e diseredati d’ogni sorta, Jackson finì negli ingranaggi del braccio della morte grazie alla falsa testimonianza del dodicenne Eddie Vernon. Lo stesso Vernon, recentemente, ha però ritrattato, ammettendo d’aver incastrato Jackson senza aver mai realmente assistito all’omicidio di Harold Franks, consumatosi nel 1975 a Cleveland. Il teste chiave della vicenda, ora 53enne, ha infatti confessato d’aver mentito, inizialmente per compiacere le autorità, poi in seguito ha continuato a mentire per evitare una denuncia per spergiuro. Le imputazioni furono terribili, Jackson venne accusato, assieme ad altri due "complici", di aver pestato a morte e sciolto nell’acido la vittima, ma l’unica testimonianza, che purtroppo permise di sbattere un innocente in cella con una condanna alla pena capitale, è ora finalmente crollata. Nel castello accusatorio a carico di Jackson, oltre quella testimonianza, non sono mai emersi né fatti, né testimonianze, né prove che coinvolgessero gli accusati. Quindi adesso, oltre alla posizione legale di Jackson, saranno rivisti anche i casi degli altri due accusati per l’omicidio di Franks, cioè Ronnie e Wiley Bridgeman e probabilmente verranno istituiti nuovi processi. Da quando la pena di morte nell’Ohio è stata temporaneamente sospesa, in seguito ad alcune esecuzioni capitali malriuscite, come quella del 53enne Dennis McGuire, che spirò davanti ai suoi figli dopo un’orribile agonia di 15 minuti dovuta alla sperimentazione di farmaci mai provati prima, la condanna per Jackson è stata commutata in ergastolo. Nonostante ciò, a Jackson è spettato comunque il triste primato di essere il condannato a morte rimasto prigioniero più a lungo in tutta la storia del sistema giudiziario statunitense, cioè ben 39 anni. Lunedì 24 novembre è stato un giorno che sembrava non dovesse mai arrivare, quello in cui si sono finalmente aperte le porte del carcere per Ricky Jackson. Durante l’udienza che aveva preceduto la liberazione, il procuratore Timothy McGinty aveva dichiarato che "lo Stato era pronto a inchinarsi" di fronte all’evidenza dell’innocenza di Jackson. Purtroppo però uno Stato così pronto a "inchinarsi" e ad ammettere i propri errori non è altrettanto solerte nel risarcire adeguatamente coloro che ha ingiustamente condannato e deprivato di ogni libertà, di ogni dignità e della loro stessa vita. Secondo il "Centro di informazione sulla pena di morte", dal 1973 ad oggi, Jackson sarebbe ormai la 148esima persona a essere ritenuta innocente dopo la condanna, nonché la quinta solo nel corso di quest’anno; ma del destino che tocca questi esseri umani poco si dice e si sa: una volta "liberi", gli ex abitanti dei mattatoi di Stato hanno dovuto fare i conti con matrimoni distrutti, discriminazioni nel mondo del lavoro, sospetti da parte dei vicini di casa. Per non parlare del trauma emotivo che si porteranno dentro per tutto il resto delle loro vite. Molti ex detenuti, infatti, hanno grandi difficoltà persino a compiere gesti apparentemente semplici come, ad esempio, aprire una porta, perché per decenni c’è stato qualcuno che lo ha fatto per loro. La cosa paradossale è che molti Stati hanno speso milioni di dollari per far condannare a morte degli innocenti, i quali, una volta liberati, hanno potuto beneficiare solo del ridicolo rimborso di 200 dollari, cioè la somma prevista per tutti i detenuti al momento del rilascio. L’unico risarcimento degno di nota toccò a Peter Limone, un ex condannato a morte che dopo 33 anni passati nel braccio denunciò e riuscì a far condannare da un tribunale di Boston nientedimeno che l’Fbi, costringendola a sborsare la cifra record di 102 milioni di dollari. La vicenda di Jackson si aggiunge ad altri casi emblematici che hanno segnato positivamente, almeno negli esiti finali, molte vicende giudiziarie statunitensi, come quella del pugile nero Rubin Carter, alias Hurricane, per il quale si celebrarono canzoni, libri e film. O quella di Anthony Graves, liberato dopo aver passato 18 anni nel famigerato braccio della morte di Livingston, in Texas, grazie all’impegno profuso dall’insegnante Nicole Casarez e dai suoi studenti di giornalismo. Più dura invece si fa per quei detenuti che sono anche prigionieri politici ed emblemi di popoli discriminati e repressi, come Mumia Abu Jamal e Leonard Peltier, cioè un afroamericano e un nativo americano: malgrado decenni di proteste e mobilitazioni planetarie, purtroppo molto difficilmente rivedranno la libertà, a meno che non vengano candidati e premiati con un Nobel per la pace. Nel frattempo, per fare qualcosa di concreto, utile ed efficace, le Nazioni unite potrebbero invece assumere e trasformare in testimonial globali sia Ricky Jackson che tutti gli ex condannati che lo vogliono: chi meglio di loro potrebbe raccontare cos’è, davvero, la pena di morte? Gambia: l’ergastolo per atti omosessuali diventa legge, arrestati 4 giovani dall’Associazione Radicale "Certi Diritti" www.radicali.it, 26 novembre 2014 L’arresto di 4 giovani omosessuali ieri in Gambia è la prima concreta conseguenza della decisione del presidente del Gambia, Yahya Jammeh, di firmare, il 9 ottobre scorso, la legge che punisce gli atti di "omosessualità aggravata" con la pena dell’ergastolo. L’omosessualità era già punita con 14 anni di prigione, ora elevati alla pena dell’ergastolo per tutti coloro che siano trovati colpevoli di più di un atto di omosessualità, che siano siero positivi o che abbiano avuto un rapporto omosessuale con un minore di 18 anni, un disabile, una persona sotto effetto di stupefacenti o che siano genitori o tutori della persona con cui hanno avuto un rapporto omosessuale. Yuri Guaiana, segretario dell’Associazione Radicale Certi Diritti, dichiara: "La dizione "omosessualità aggravata", chiaramente mutuata dalla famigerata legge ugandese recentemente abrogata dalla Corte Costituzionale di quel Paese, accomuna indebitamente l’omosessualità all’incesto e alla pedofilia usando il diritto come una clava ideologica contro una parte dei propri cittadini. Il presidente Jammeh dovrebbe imparare da Paesi africani come il Botswana la cui Corte Suprema ha recentemente stabilito che la libertà di associazione, assemblea ed espressione non può essere ristretta ad un ristretto gruppo di persone, sostenendo anche i diritti delle persone Lgbti. Il presidente Jammeh ha scelto invece di umiliare il suo Paese con una legge che viola apertamente trattati internazionali, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, che pure il Gambia ha sottoscritto".