Telefonate d’amore di un uomo ombra tra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2014 L’amore dona la libertà a chi ama. (Diario di un ergastolano: www.carmelomusumeci.com). Ormai ci siamo, mancano pochi giorni all’evento: la redazione di Ristretti Orizzonti per portare umanità e affetti nelle carceri italiane ha lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, la nostra classe politica e il mondo cattolico la redazione di Ristretti orizzonti ha organizzato, per il primo dicembre 2014 nel carcere di Padova, un convegno su questo argomento. Ed ho pensato, per fare sapere come sono importanti i colloqui e le telefonate per i prigionieri, di rendere pubblici altri brani del mio diario di ergastolano condannato alla Pena di Morte Nascosta (come la chiama papa Francesco) che scrivo tutti i giorni da ventitré anni di carcere. Citerò le telefonate degli anni che ero detenuto in Sardegna e che per ovvi motivi di distanza e finanziari non potevo usufruire di colloqui. E le telefonate, una a settimana e della durata di soli dieci minuti, erano l’unico mezzo che avevo per continuare a stare al mondo. Buona lettura. 5/05/2004 Ho telefonato a casa, ho parlato con mia figlia, l’altra settimana non l’ho trovata, e adesso mi sento più felice di Dio. 15/07/2004 Oggi ho telefonato ed un mio amico, che sta nella cella vicino al telefono, mi ha detto che quando telefono a casa, dopo, mi brillano gli occhi dalla contentezza. 21/07/2004 Ho telefonato, ma non ho trovato i miei figli, Mirko era a lavorare e la mia bambina a Modena con delle sue amiche. Penso sempre intensamente a loro. E come un vampiro vivo un poco della loro vita. 26/10/2004 Ho telefonato a casa ed ho saputo che mi hanno fissato l’ultimo esame il giorno 4 novembre e l’incontro con il professore per la tesi il giorno 11. E così sono sicuro che farò tutte le ore di colloquio di novembre. Sono contento e felice perché fra pochi giorni vedrò i miei figli alla faccia del Ministero di (in)Giustizia che mi ha deportato qui in Sardegna lontano dai miei familiari. 9/12/2004 Ho telefonato a casa e sono arrabbiato. Mia figlia mi ha fatto un telegramma il giorno 4 dicembre ed a tutt’oggi non mi è arrivato. Ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che la posta di Nuoro ha dei problemi per il maltempo. La cosa a me sembra strana sia perché i problemi del maltempo non riguardano la città di Nuoro ma i paesini della provincia e sia perché i telex si fanno con i fax quindi che c’entra il maltempo. Con questa posta ci risiamo, sempre i soliti problemi. 25/12/2004 Ho telefonato a casa ed ho parlato con tutti i miei familiari. I sentimenti in carcere o ti rendono forte o debole o tutte e due le cose. Ci sono dei momenti che mi sento la persona più felice del mondo, molto di più di quelli che sono fuori come quando sento l’amore dei miei figli e della mia compagna. 19/01/2005 Ieri ho telefonato a casa ed ho parlato con la mia bambina, appena le ho dato la notizia che forse avrei fatto lo sciopero della fame per protestare contro il ritiro del computer le si è incrinata la voce e si stava mettendo a piangere, ho deciso di lasciare perdere. Non me la sento di darle dei dispiaceri anche per una causa giusta come lo studio, userò altri mezzi per protestare. 7/04/2005 Ho telefonato a casa, la mia famiglia mi manca tanto… per fortuna fra pochi giorni sarò a Firenze per la discussione della tesi e li potrò vedere. 2/06/2005 Ieri sera ho telefonato a casa e mi sono emozionato perché mia figlia mi ha fatto la sorpresa di farmi trovare il suo fidanzato. E così dopo due anni l’ho potuto conoscere almeno per telefono. Fra la fidanzata di mio figlio ed il fidanzato di mia figlia la famiglia mi si sta allargando. Per fortuna tutti e due non hanno nulla da ridire che sono in carcere e mi accettano così come sono. In passato ho sempre avuto una paura folle che le mie condizioni di ergastolano avrebbero potuto influenzare e danneggiare le scelte affettive dei miei figli. Invece, sono un papà felice e questo non certo grazie a me ma ai miei figli. 9/06/2005 Ieri ho telefonato a mio figlio e alla sua compagna. Dovevo telefonargli sabato ma avevo voglia di sentirli subito ed allora ho anticipato i tempi. Hanno letto tutti e due questo diario e mio figlio mi ha preso affettuosamente in giro rimproverandomi che scrivo poco di lui, ma tanto di mia figlia. 22/06/2005 Ho telefonato a mio figlio ed alla sua compagna. Gli ho confidato che sono in punizione e mi sono sentito confortato. Mi hanno mandato le foto della casa dove abitano e vedendo dove vivono riesco a pensarli meglio e a sentirli ancora più vicini al mio cuore. In isolamento si pensa molto ed oggi pensavo che sono 14 anni che non mangio a tavola con mio figlio. E credo che sia stupido scontare la pena in questa maniera e proibire queste piccole abitudine di vita familiare. 1/07/2005 Ho telefonato a casa ed ho parlato con mia figlia ed il suo fidanzato. Mi hanno trasmesso felicità. La voce della mia bambina spirava gioia e serenità. In passato mi si è sempre stretto il cuore ad immaginare la vergogna, il malessere e l’imbarazzo per i miei figli di avere il proprio padre in carcere. Ed ho pensato spesso alle bugie che in questi anni sono stati costretti a dire per nascondere la verità ai compagni di gioco e di scuola per non sentirsi diversi. 9/07/2005 Ho appena telefonato e mio figlio e l’Erika mi hanno detto che diventerò nonno. Sono felicissimo. E ora ho un motivo in più per continuare a vivere da uomo ombra. 14/07/2005 Ho telefonato alla mia compagna. E per l’arrivo del nipotino mi ha detto le solite cose comuni che si dicono in questi casi: sono giovani ed è presto. Io però sono contento. Ed in tutti i casi io sono dalla parte di mio figlio perché in amore non si fanno mai calcoli. 20/10/2005 Ieri era ho telefonato a mia figlia. Sono felice, abbiamo fatto la pace. Avevamo bisticciato perché lei s’è messa in testa che mi vuole fare da genitore e devo sempre fare quello che dice lei. È l’anima della mia vita, insieme a mio figlio, è l’unica gioia della mia vita. 8/12/2005 Ieri sera ho telefonato a mio figlio e mi sto accorgendo che è cresciuto ed ormai ragiona come un uomo adulto. Sono sicuro che sarà un padre migliore di quello che sono stato io. Poi ho parlato con la sua compagna. Ormai le voglio bene come se fosse una figlia, mi ha confidato che Lorenzo si muoveva nel pancione. Poi oggi ho avuto la bella notizia che mia figlia s’è laureata e sono tanto orgoglioso della mia bambina. 14//12/2005 Ho telefonato alla mia compagna, abbiamo parlato dei nostri figli. L’ho sentita felice della laurea di mia figlia e del nipotino che sta arrivando. Sono fortunato a parte la libertà non mi manca nulla per essere felice, ma mi manca però la libertà per fare felici loro. 21/12/2005 Ho telefonato a mio figlio e all’Erica e mi sentivo che avrei trovato la mia compagna che per parlare qualche minuto con me è arrivata fino da Viareggio. Chissà perché nella vecchiaia mi sembra di volerle ancora più bene. E provo tanta rabbia che il Ministero di (in)Giustizia mi tiene in un carcere così lontano da loro. Probabilmente questi burocrati, o uomini in nero, sono invidiosi della felicità e dell’amore che ho e che forse loro non hanno nelle loro famiglie. Forse la loro vita deve essere più infelice della mia. 25/12/2005 Nonostante la rabbia che sto provando contro il direttore perché per tutto questo tempo mi hanno fatto intendere che la mia richiesta di esame era stata inoltrata … ho passato un Natale abbastanza sereno. Ieri sera ho telefonato ed ho trovato tutta la famiglia riunita e mi hanno trasmesso affetto e amore. A volte penso che questo direttore ama la sofferenza che infligge ai detenuti. 18/01/2006 Ho telefonato ai due piccioncini, tutte e due sono in dolce attesa ed ormai manca un mese all’arrivo della cicogna. 8/02/2006 Ho telefonato a casa. La mia compagna mi ha raccontato il lieto evento. L’Erika è stata brava, (è coraggiosa e forte come la mia compagna) ma mio figlio non è stato da meno perché ha assistito al parto ed ha tagliato il cordone ombelicale. Il bambino sta bene ed è bellissimo ed io sono felice. 22/02/2006 Ho telefonato a casa, ho parlato con la mia compagna, non ho trovato mia figlia, mi manca terribilmente, proseguirà gli studi universitari a Milano e sono preoccupato dalla distanza ma contento che continua a studiare. 8/03/2006 Ho telefonato a casa e dopo tanto tempo ho trovato la mia bambina e sono felicissimo. Ho sentito dalla sua voce che se anche ora ha il fidanzato, il cane e studia all’università di Milano mi vuole ancora tanto bene. Ho riso da solo tutta la serata pensando che al telefono mia figlia ha detto al cane: "Rajo senti c’è il papà". 17/03/06 Ieri sera ho telefonato a mio figlio e all’Erika. Con l’arrivo di Lorenzo li sento ancora più felici ed io lo sono per loro. Mirko mi ha sentito parlare piano al telefono, in isolamento il telefono è in sezione senza nessuna riservatezza, ed allora gli ho detto che ero in punizione ma per fortuna non è come mia figlia e non mi ha rimproverato. 6/04/06 Ieri ho telefonato ma non ho fatto in tempo a dire tutto quello che volevo, quando si telefona il tempo passa ad una velocità folle. In questi giorni sono un po’ triste ma in carcere per le feste questo è normale, fra poco è Pasqua ed il desiderio di vedere la mia famiglia è più forte. 20/04/2006 Ieri ho telefonato al mio figliolo e all’Erika ed ho sentito di nuovo Lorenzo ma questa volta non miagolava l’ho sentito proprio urlare. Spero di vederlo ed abbracciarlo presto. 26/04/2006 Ho telefonato a casa, ho sentito di nuovo Lorenzo al telefono. La prima volta mi sembra di sentire il miagolio di un gattino, la seconda quello di un gattone, invece questa sera mi è sembrato di sentire un ruggito di un leone. 1/05/2006 Ieri sera ho telefonato a mio figlio e ci ho trovato anche mia figlia e mi hanno fatto sorridere perché, come quando erano piccoli, bisticciavano per prendere il telefono. Ora hanno un concorrente in più, mio nipotino Lorenzo. Quello che sogna la moglie di un detenuto Il Mattino di Padova, 24 novembre 2014 "All’inizio del prossimo anno, il parlamento di Algeri prenderà in esame la creazione all’interno delle carceri di aree riservate in cui i prigionieri potranno intrattenersi alcune ore con i rispettivi coniugi. Ne parla il quotidiano algerino "Echorouk, che spiega come questa pratica sia già realtà nella maggior parte dei penitenziari arabi. Il ruolo di avanguardia nel settore spetta all’Arabia Saudita, che già nel 1978 riconosceva e applicava quello che viene definito il diritto alla privacy legale" (notizia Adnkronos, 12 novembre 2014). L’Italia sarà pure un Paese civile, avanzato, democratico, ma sulla questione degli affetti delle persone detenute può imparare, e molto, da Paesi probabilmente meno democratici, ma sicuramente più civili con le famiglie dei carcerati. I Paesi arabi, per esempio, non hanno nessuna paura a permettere i colloqui intimi. E non ne hanno molti Paesi dell’Est Europa, come racconta la testimonianza di un detenuto lituano, in carcere a Venezia. Ma oggi vogliamo pubblicare anche un sogno, un sogno straordinariamente lucido e profondo della moglie di un detenuto, perché le sue parole forse possono toccare qualche cuore e non lasciare del tutto indifferenti. Pensavo che il mio Paese fosse tra gli ultimi, oggi scopro che è più innovativo di altri Nel mio paese, la Lituania, il problema dei colloqui intimi tra detenuti e famigliari non c’è mai stato. Da noi, ancora molti anni fa, i famigliari potevano venire una volta ogni tre mesi a trovare il loro caro detenuto per tre giorni interi, giorno e notte avevano a disposizione una stanza grande adibita a soggiorno e una camera per dormire. Adiacente c’era una cucina condivisa, separata da una porta, per cucinare con le famiglie di altri detenuti. Ciò permette alle famiglie di restare unite malgrado la detenzione del capofamiglia e di poter passare insieme del tempo importante per i figli che magari, essendo piccoli, non possono capire o conoscere il motivo per il quale il proprio padre non vive più con loro. Così si diminuisce quel senso di abbandono che assale i bambini non vedendo l’altro genitore con costanza. Se questo avveniva già nel passato, immagino che oggi le condizioni siano notevolmente migliorate vista l’importanza che il mio Paese riconosce a tutto ciò, ed in maniera particolare al problema della lontananza dei propri cari per chi sta in carcere e quindi delle difficoltà che riguardano l’unione famigliare. Saša 30 Febbraio 9999: approvata la riforma sul "carcere affettivo" Il governo ha approvato oggi la nuova riforma del sistema carcerario, contro le ipocrisie e il populismo di alcune correnti politiche, che sembravano voler bloccare qualunque cambiamento, solo fino a qualche anno fa. Invece, alla fine di un confronto durato poche settimane, si è arrivati all’approvazione. Tempi strettissimi, dettati dall’inaspettata mobilitazione dell’opinione pubblica, che nei mesi precedenti era scesa in piazza e davanti agli istituti di pena italiani, al fianco di ex detenuti e familiari di persone ristrette, per chiedere a gran voce un cambiamento deciso e forte, nell’interesse di tutti. "Vi sbagliate, non è un problema che riguarda solo i detenuti. Noi persone libere, che non abbiamo e forse non avremo mai a che fare col carcere, abbiamo il dovere di interessarci a questo argomento, esattamente come la moglie o la madre di un detenuto". Così rispondeva una donna, sotto al carcere di Poggioreale, alla domanda dei giornalisti "Perché vi mobilitate per un problema che non vi riguarda?". Davanti ai cancelli di San Vittore, Regina Coeli, Le Vallette, fino alle carceri delle città più piccole, folle più o meno grandi manifestavano, affinché si prendesse una decisione su come riformare il sistema di esecuzione penale. Un’opinione pubblica inaspettatamente agguerrita, stanca di un carcere che fosse solo un contenitore in cui riversare ingenti somme pubbliche, vuoto di contenuti e sovraffollato, dove si obbligavano le persone a trascorrere la somma di millenni di pene, in inutile ozio. "Ci riguarda, perché chi è detenuto non è uscito per sempre dalla società civile. Presto o tardi, vi farà ritorno e la rabbia, la sottomissione, l’odio che si respirano in carcere, hanno da sempre restituito a noi, come società, persone apparentemente disciplinate, ma cariche di rancore, che non temono più il carcere. Noi siamo qui a manifestare principalmente per la nostra sicurezza!". Una delle norme approvate oggi, riguarda il tema dell’affettività in carcere. Per decenni si è pensato che la pena dovesse incarnare alla lettera il nome che portava, trasformandosi in una sofferenza, se non addirittura in un’agonia. A questo scopo, si erano bandite dal trattamento delle persone detenute tutte le attività capaci di produrre gioia, poiché ritenute dannose ai fini della rieducazione e si sono resi illegali l’amore e l’affetto, in ogni loro forma: tra uomini e donne, tra padri e figli, tra figli e genitori, tra fratelli, tra amici. Per anni si sono accettate come necessarie pratiche disumane come colloqui vigilati, sotto lo sguardo di polizia o telecamere; trasferimenti disciplinari, a centinaia di chilometri di distanza dalla famiglia; telefonate rare, brevi e registrate; visite dei parenti ridotte al minimo necessario, sia per quantità, che per qualità e così via. In tempi di crisi, il provvedimento che è contenuto nella nuova legge e da cui ci si aspetta il cambiamento maggiore, è anche quello che richiederà i costi di attuazione più bassi: l’amore. Nei prossimi mesi, una commissione studierà i casi di detenuti allontanati dalla famiglia, in modo da organizzare trasferimenti mirati, allo scopo di riavvicinare i detenuti ai loro cari. A questo, che è il presupposto, si aggiungeranno tutta una serie di novità, che avranno lo scopo di incentivare le visite dei parenti, rendendole meno moleste (lunghe attese, perquisizioni, burocrazia) e più intime. Verranno attrezzati degli spazi interni al carcere, dove le famiglie che ne faranno richiesta, potranno riunirsi, come in una vera e propria casa e ricostruire quei legami affettivi, che fino ad oggi il carcere aveva scrupolosamente reciso. Non meno importante, sarà la nuova configurazione del personale di polizia penitenziaria. Fino ad oggi l’addestramento di questo corpo è stato spiccatamente militare, basato principalmente sull’obbedienza gerarchica, che regolava tanto il rapporto tra poliziotti, quanto tra poliziotti e detenuti, visti più come esseri ubbidienti, che pensanti. Stato di fatto che la nuova legge vuole rovesciare, prevedendo una formazione più umana della polizia. Un percorso sicuramente impegnativo e ambizioso, quanto necessario, per trasformare la polizia penitenziaria, da semplice organo di controllo e vigilanza, in figura chiave nel recupero della persona detenuta. La migliore gestione umana dei detenuti coinciderà con l’allentamento graduale del controllo, per poter guardare all’amore e all’affettività con occhio meno sospettoso, anche se dentro un carcere. Peccato solo che il giorno 30 Febbraio non esista e che il 9999 sia un modo elegante per dire "mai"… Ma è proprio così che deve finire? Emanuela, moglie di un ragazzo detenuto Giustizia: Operazioni Farfalla e Rientro, ascoltato dal Copasir l’ex Capo Dap Tinebra La Repubblica, 24 novembre 2014 Dopo l’audizione saltato dell’ex direttore del Sisde, Mario Mori, ascoltato l’ex capo del Dap, Giovanni Tinebra. L’origine delle operazioni partono proprio da un accordo tra Tinebra e Mori, che ha rifiutato di sottoporsi all’audizione, spiegando "Siccome l’operazione Farfalla fa parte del processo sulla trattativa, la mia intenzione è parlarne in quel processo e non voglio anticipare le mie mosse in un’altra sede". Il Comitato sta svolgendo un’indagine conoscitiva su due operazioni "Farfalla" e "Rientro" promosse da Sisde e Dap circa dieci anni fa per avvicinare alcuni boss detenuti al 41 bis. Il Copasir avrebbe già dovuto ascoltare Tinebra lo scorso 29 ottobre alla Camera, sede dove normalmente si riunisce il Comitato, ma l’audizione era saltata per ragioni di salute dello stesso Tinebra. Il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, guidato da Giacomo Stucchi, ha così fatto tappa a Catania per l’audizione dell’ex capo del Dap - dal 2001 al 2006 - Giovanni Tinebra, attuale procuratore generale di Catania, proprio nell’ambito dell’indagine sulle due operazioni Farfalla e Rientro. Lo scorso ottobre il Copasir è andato avanti con le audizioni, ascoltando per circa tre ore Maria Monteleone e Erminio Amelio, i due pm romani che hanno aperto un’inchiesta anni fa sulle operazioni svolte da Sisde e Dap, nella quale sono indagati l’ex capo del servizio ispettivo del Dap, Salvatore Leopardi e l’ex direttore del carcere di Sulmona, Giacinto Siciliano. L’accusa rivolta ai Leopardi e Siciliano è di aver girato ad agenti del Sisde informazioni ottenute da colloqui segreti con Antonio Cutolo, un ergastolano camorrista, senza condividere le notizie con le procure competenti. Proprio nell’ambito di questo procedimento l’agente del Sisde Raffaele Del Sole aveva opposto il segreto di Stato, che nel 2011 era stato confermato dall’allora premier Silvio Berlusconi, di recente revocato dall’attuale premier. Giustizia: Anonymous attacca sito del Sindacato Sappe "in carcere 1.000 morti di Stato" Ansa, 24 novembre 2014 Attacco degli hacker di Anonymous al sito internet del Sappe, sindacato della polizia penitenziaria. "Violati - annunciano - i database della polizia penitenziaria: pubblicate centinaia di dati personali, mail, allegati. Nulla risarcirà il dolore dei familiari delle vittime di Stato, tuttavia con questa azione Anonymous li stringe metaforicamente a sé cercando almeno di costringere le forze dell’ordine, pecore sanguinarie in divisa alla trasparenza". Anonymous ricorda che dal 2002 al 2012 ci sono stati quasi mille morti nelle carceri italiane e chiede "una legge contro la tortura da parte delle forze dell’ordine, che tuteli, al contrario di quanto avviene oggi, chi si trovi sotto la custodia degli agenti". Da parte sua Donato Capece, segretario generale del Sappe, parla di "attacco assurdo e ingiustificato, un lungo sproloquio su eventi drammatici che vengono strumentalizzati per fini tutt’altro che di verità, giustizia e trasparenza. Gli hacker parlano di cose che non sanno, soprattutto senza conoscere i fatti e i dati oggettivi: si guardano bene dal dire che negli ultimi vent’anni le donne e e gli uomini hanno sventato oltre 17mila suicidi di detenuti in carcere e sono intervenuti tempestivamente negli oltre 125mila atti di autolesionismo di altrettanti detenuti". "Non saranno questi attacchi anonimi e vigliacchi - prosegue Capece - a fermare la nostra attività per rendere il carcere una casa di vetro trasparente, perché noi non abbiamo nulla da nascondere. Certo, è significativo che abbiano colpito noi e non altri. È evidente che, se ti schieri, vai incontro a dei rischi. Noi siamo impegnati per rivendicare la dignità e la valorizzazione sociale della Polizia Penitenziaria e non ci spaventano questi attacchi informatici". Firenze: detenuto tossicodipendente di 30 anni si impicca nel carcere di Sollicciano La Nazione, 24 novembre 2014 Si è tolto la vita impiccandosi dietro le sbarre, e a scoprirlo è stato il suo compagno di cella. Nella notte tra sabato e domenica un trentaquatrenne, originario di Gavorrano, in provincia di Grosseto, che era rinchiuso nel settimo braccio del carcere di Sollicciano, si è ucciso. L’uomo aveva appena concluso il percorso di disintossicazione con il metadone. Sabato sera prima della ritirata notturna, non aveva partecipato alle due ore di socializzazione previste dal regolamento carcerario di Sollicciano, e aveva preferito rimanere nella sua cella da solo. Poi, durante la notte, la tragica scoperta del compagno di cella, a cui lo legava una lunga amicizia, nata addirittura sui banchi di scuola. "Il fatto, successo l’altra notte a Sollicciano, che segue di pochi giorni il suicidio di una donna di trent’anni che lascia tre figli, è la riprova che i tossicodipendenti non possono stare in carcere. Il progetto tra Regione e Provveditorato servirà a portare fuori cinquanta-sessanta di loro: seguiranno un percorso riabilitativo che prevede anche un avviamento professionale". A parlare così è Eros Cruccolini, Garante dei detenuti, nominato dal sindaco di Firenze, Dario Nardella. "Quando un tossicodipendente muore in carcere è una sconfitta per tutti - prosegue nella sua analisi Cruccolini. È inutile fare tanti giri di parole, i tossicodipendenti in carcere non ci devono stare. Per sperare in un loro recupero, questi soggetti debbono essere costantemente impegnati, sia intellettualmente che materialmente, e questo in carcere è possibile sono in minima parte. Rimanere inattivi li rende più facile preda dell’ansia e dell’incertezza per il futuro". Poi Cruccolini parla anche di quello che le istituzioni stanno già facendo per i tossicodipendenti dietro le sbarre. "Il Sert, grazie alla convenzione con il Provveditorato, sia dentro che fuori dal carcere, sta già facendo un buon lavoro - conclude il Garante dei detenuti. Il lavoro è dignità, occorre che gli enti locali facciano più gare rivolte alle cooperative di tipo B, di cui possono far parte questi soggetti". Firenze: il Garante Eros Cruccolini "i tossicodipendenti non devono restare in carcere" di Massimo Vanni La Repubblica, 24 novembre 2014 Ci dobbiamo porre il problema, i tossicodipendenti non devono stare in carcere". È il "memento" di Eros Cruccolini, garante dei detenuti di Firenze dallo scorso agosto per volontà del sindaco Dario Nardella. Tossicodipendenti e carcere non devono andare a braccetto: "Lo sappiamo tutti che il carcere non rieduca e c’è per fortuna la strada intrapresa dalla Regione Toscana, che è un progetto-modello". Cioè l’accordo col ministero e un totale di 5 milioni di euro per portare fuori oltre 50 detenuti con diagnosi di tossicodipendenza: "È un primo passo ma proprio la drammatica serie dei suicidi ci dice che è la direzione giusta". Dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta, di tossicodipendenti ne entrano molto meno. Ancora oggi però, ricorda il garante dei detenuti di Firenze, sono circa 200 le persone in cura al Sert di Sollicciano. Un processo al quale anche i Comuni e gli enti pubblici sono chiamati a dare il loro contributo, secondo il garante fiorentino: "Si devono prevedere gare con il concorso di cooperative di tipo B, che possono assumere soggetti svantaggiati fino al 50% della forza lavoro, tra cui ex detenuti. Sarebbe un netto cambio rotta". Perché lo scopo non cambia: "Portare fuori dal carcere i tossicodipendenti rappresenta un’inversione di tendenza rispetto alla carcerazione. E anche io come garante, così come Franco Corleone che si occupa del livello regionale, ci dobbiamo porre il problema", insiste Cruccolini. Quando un detenuto si toglie la vita, com’è accaduto per la quinta volta in questo anno ieri, è in fondo una sconfitta per tutti: "L’inattività è il primo elemento che crea e amplifica l’ansia nel carcere. E per questo dobbiamo riuscire a creare occasioni di formazione perché si pensi il meno possibile al proprio futuro e perché, una volta fuori, si possa tentare di trovare un lavoro senza chiedere sussidi pubblici". Purtroppo spesso l’inattività invece è la regola e va anche di pari passo con il sovraffollamento. "L’obiettivo deve essere quello di fare entrare meno persone in carcere, affidandole a progetti che prevedano sanzioni riparatorie efficaci e credibili per la vittima e che favoriscano anche il ripensamento del danno fatto da parte del colpevole", è per il garante regionale dei detenuti Franco Corleone l’obiettivo generale da perseguire. Per il sovraffollamento le cose adesso vanno un po’ meglio, i numeri scandalosi di qualche tempo fa adesso si sono attenuati. Fin quasi ad essere allineati con le effettive disponibilità: in Toscana la popolazione detenuta ammonta a 3.367 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 3.345, sono i dati forniti appena qualche giorno fa al convegno "250 anni dopo Beccaria", che si è tenuto proprio nel palazzo regionale. "Il carcere non rieduca", è l’amara constatazione di Cruccolini. E anche per questo si sta aprendo un dibattito in alcuni paesi europei. Per esempio nel Regno Unito, dove è stata avanzata la proposta di mettere al bando il carcere femminile. Di trovare delle pene alternative per le donne che si rendono responsabili di delitti. Quante sono le donne detenute oggi in Toscana? Circa 110, tra Firenze, Pisa e Lucca, secondo gli ultimi dati aggiornati. "Sono per aprire il dibattito anche da noi, sono per discutere di strutture alternative per le donne", sono state le parole della consigliera regionale del Pd Daniela Lastri durante il convegno sul carcere. Il dibattito sulle detenzioni alternative si sta ormai imponendo. E coinvolge sempre più un paese come l’Italia, nella cui impalcatura giuridica non esiste ancora il reato di tortura. Per adesso di concreto in Toscana c’è il progetto regionale del superamento degli Opg, cioè degli Ospedali psichiatrici giudiziari: "Prevediamo di fare un centro non più carcere, ma una clinica psichiatrica con misure rafforzate di sicurezza, supportata da quattro centri territoriali, quasi una sorta di casa-famiglia", ha spiegato l’assessore toscano alla sanità Luigi Marroni. Un altro passo importante. Che richiede però risorse e investimenti da parte del pubblico. Cagliari: detenuti trasferiti, nel carcere di Buoncammino luci spente dopo oltre 150 anni Adnkronos, 24 novembre 2014 Prima notte a luci spente dopo oltre 150 anni nel carcere di Buoncammino a Cagliari dopo il trasferimento di ieri a Uta (Cagliari) dei circa 350 detenuti reclusi nello storico carcere cittadino, che è entrato a far parte, in quasi due secoli di attività, nella storia della città e delle cronache giudiziarie della Sardegna. Quello di ieri è stato il più imponente trasferimento di detenuti mai effettuato in Italia e quella appena trascorsa la notte più buia per Buoncammino: spente le luci dei bracci destro e sinistro, dei corridoi, e silenzio assoluto sul colle più alto di Cagliari. Nessun panno steso alle grate delle celle, nessun parente dei detenuti sul colle a "gridare", come si dice in gergo, il loro saluto ai parenti reclusi. Una operazione che ha coinvolto tutte le forze di polizia sotto il coordinamento della questura, due elicotteri che sorvegliavano il percorso, tre pullman della penitenziaria hanno iniziato a fare la spola tra Cagliari e Uta alle 7 del mattino. Sedici i viaggi per trasferire i 334 reclusi, con operazioni che si sono concluse intorno alle 14,30 con gli agenti della polizia penitenziaria (i rinforzi sono arrivati da tuta Italia) con la copertura, con un panno blu, della storica targa sotto il civico "19" di viale Buoncammino, "Ministero della Giustizia- Casa Circondariale Cagliari". L’ultimo a lasciare la struttura il direttore del carcere Gianfranco Pala, che come fece nel 1998 quando chiuse l’Asinara, ha portato personalmente il tricolore nella nuova struttura penitenziaria di Uta. Per Cagliari si chiude un’epoca, due secoli di storia di una delle strutture carcerarie più imponenti d’Italia, dalla quale mai nessuno è riuscito ad evadere. Per ora l’Amministrazione penitenziaria trasferirà alcuni uffici e probabilmente un’ala del vecchio carcere ospiterà l’istituto minorile di Quartucciu (Cagliari), che sarà chiuso. Ma in città è aperta la soluzione all’utilizzo futuro della struttura. Si apre invece la storia di Uta, una struttura iniziata nel 2005 che potrà ospitare 581 detenuti, con ampi spazi aperti, teatro, impianti sportivi, sala per socializzare, un moderno centro clinico e un’ampia cappella. Ancora da ultimare la sezione riservata al 41-bis. Cagliari: Tocco (Fi); il trasferimento dei detenuti a Uta crea disagi a parenti in visita Ansa, 24 novembre 2014 "Il trasferimento dei detenuti da Buoncammino al nuovo complesso penitenziario di Uta sta creando non pochi problemi ai congiunti degli stessi reclusi. Il nuovo presidio è molto distante da Cagliari. Per questo non è per nulla facile raggiungere il caseggiato di Macchiareddu per i tanti parenti". Lo denuncia il consigliere regionale di Forza Italia Edoardo Tocco, che annuncia un’interrogazione urgente al presidente della Regione Francesco Pigliaru e al sindaco di Cagliari Massimo Zedda. "Purtroppo il trasferimento è stato effettuati senza un piano adeguato da parte della Regione e del Comune - spiega, con tanti familiari che hanno assistito al trasporto dei loro congiunti sui pullman per Uta sostando davanti al carcere cagliaritano. Una pagina davvero dolorosa e difficile da dimenticare, con l’impossibilità per tanti di raggiungere il nuovo caseggiato. L’amministrazione penitenziaria, ed in particolare il direttore del carcere cagliaritano Gianfranco Pala - continua Tocco, sono stati lasciato da soli nell’organizzazione del trasloco". Per l’esponente azzurro è necessario un intervento immediato. "Penso sia opportuno dare la possibilità ai parenti dei detenuti, ormai da oggi ospitati nel nuovo carcere di Uta, di poter arrivare per i colloqui settimanali nel sito. È necessario attivare da subito un bus che venga messo a disposizione dei familiari nei giorni previsti per gli incontri, Una corsa che parta dalla vecchia sede del carcere di Buoncammino, per poi raggiungere l’area di Macchiareddu in modo semplice ed agevole. I parenti e gli amici potranno pagare un biglietto a costo minimo, ma si garantirà loro un servizio utilissimo. Auspico per questo - conclude Tocco - che la Regione trovi le risorse per colmare i costi di trasporto". Torino: detenuti-volontari, in Provincia fioccano le convenzioni tra Enti e Tribunale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 24 novembre 2014 A oggi, nella provincia di Torino, si contano centotrenta convenzioni stipulate tra il tribunale torinese, il Centro servizi per il volontariato della provincia e l’Associazione Aib Sant’Antonino dove il grande protagonista è l’affidamento dei detenuti a lavori di pubblica utilità. Un’attività, non retribuita, a favore della collettività da svolgere presso Enti pubblici oppure presso Enti o Associazioni di assistenza sociale o volontariato convenzionati che in alcuni casi sostituisce altra più grave pena, oppure consente l’applicazione di un beneficio rispetto alla pena detentiva e viene disposto dal Giudice su richiesta dell’imputato. La violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del Lavoro di Pubblica Utilità può comportare il ripristino della pena sostituita, o la perdita del beneficio subordinato alla prestazione del Lavoro di Pubblica Utilità. Ma l’esperienza dell’Associazione Aib Sant’Antonino racconta un’altra storia: su 12 esperienze di lavori di pubblica utilità sei sono diventati volontari per la vita segno che se no profit e giustizia collaborano, ecco che può arrivare l’effettiva svolta costituzionale: la funzione di rieducazione della pena. I numeri, infatti, sono andati via via sempre crescendo: ci sono 2736 condannati che, dal 1° gennaio 2011 ad oggi, hanno svolto lavori di pubblica utilità a fronte di 130 convenzioni stipulate dal settembre 2010 in poi, secondo un andamento esponenzialmente crescente: se, infatti, a dicembre 2010 non c’erano ancora convenzioni attive, si è passati a 50 a febbraio del 2012 crescendo fino alle 130 odierne. Ugualmente in due anni i posti disponibili, sono diventati dal 2010 al 2012 230, fino ai 447 attuali. "Dati importanti", conferma Francesco Gianfrotta, Presidente reggente del Tribunale di Torino, "che testimoniano come questa misura, il lavoro gratuito per la collettività, sia una strada corretta verso l’obiettivo di evitare la pena detentiva per soggetti che, per il tipo di reato commesso o per le loro caratteristiche personali, possono far ben sperare in una riabilitazione. Dobbiamo cominciare a ragionare in un modo diverso da quello in cui siamo stati abituati a ragionare per anni", conclude Fabrizio Gianfrotta, "la pena detentiva non è l’unico sistema, in particolare quelle brevi sono puro costo perché non riescono a svolgere la loro funzione primaria, definita dall’art. 27 della Costituzione, cioè la restituzione di una persona diversa che abbia riflettuto sulla propria situazione e sul proprio reato". Esperienze positive, quindi, nei racconti diretti di associazioni e volontari: "A oggi", racconta Stefano Lergo, capo squadra Volontari Aib Sant’Antonino, "su 12 soggetti che hanno scontato la pena presso la nostra associazione, ben sei sono diventati volontari effettivi della squadra, che ha così superato le 30 unità. Alcuni poi, che nulla sapevano di volontariato e di protezione civile, hanno portato in associazione altri famigliari e conoscenti, consentendoci così un più sereno e naturale ricambio generazionale, che nel mondo del volontariato contemporaneo non è così scontato. Nessuno di loro", spiega ancora Stefano Lergo, "aveva idea di cosa fosse il volontariato, così abbiamo lavorato per far comprendere il senso di appartenenza alla squadra, l’affiatamento, la necessità di operare uno a tutela dell’altro. Durante un’emergenza, infatti, non si può improvvisare e l’efficacia o meno dell’azione di squadra deriva dall’operato di ogni singolo uomo". E in effetti ci sono casi in cui l’esperienza è diventata scelta di vita. Come è accaduto nel caso di Andrea (il nome è di fantasia), 27 anni, un anno di servizio: "Un’esperienza stimolante", la definisce, "tanto da proseguire la mia attività come volontario anche una volta concluso il periodo imposto dalla sanzione che è durato circa un anno, da inizio 2013 a febbraio 2014. Lavorare nell’ambito della Protezione civile è un impegno duro e gravoso, anche fisicamente, ma credo sia un’opportunità per me oltre che un servizio per il mio territorio, quindi, appena mi sarà possibile, questa attività continuerà a fare parte della mia vita". D’accordo anche Giorgio R. 40 anni per il quale "il volontariato non è stato vissuto come una condanna ma come un’opportunità di fare qualcosa di costruttivo per il territorio in cui vivo". Macomer (Nu): la Cisl denuncia "silenzio preoccupante sullo smantellamento del carcere" di Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 24 novembre 2014 Macomer, il segretario della Fp-Cisl Mustaro rilancia la questione smantellamento. "Il personale vive nell’incertezza e i finanziamenti arrivano col contagocce". Nonostante le assicurazioni del ministro della Giustizia, che ne aveva temporaneamente bloccato la chiusura, un’agonia silenziosa sta segnando la parola fine sul carcere di Macomer. Giorgio Mustaro, segretario della Cisl Funzione pubblica di Nuoro, richiama l’attenzione sul processo strisciante di smantellamento della struttura, che praticamente muore di inedia. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha stretto i rubinetti e a Macomer non arrivano neppure le risorse necessarie per il funzionamento minimo dell’istituto. Il personale vive nell’incertezza di una situazione che non si capisce dove andrà a parare. "Sul carcere di Macomer - scrive in una nota il segretario della federazione Funzione pubblica della Cisl di Nuoro - è calato un silenzio preoccupante. Dopo la manifestazione popolare della scorsa estate davanti all’istituto e le rassicurazioni del ministro della Giustizia Orlando sulla sospensione del decreto di chiusura, emesso il 28 maggio scorso, nulla è dato sapere sulle reali intenzioni dell’Amministrazione penitenziaria per la struttura di Bonu Trau. I circa 100 lavoratori, fra personale civile e di polizia, ai quali nei mesi scorsi è già stato chiesto il gradimento per una nuova sede di servizio, attendono una parola chiara dopo tre anni di agonia". Mustaro è convinto che il "lento smantellamento" del carcere di Macomer sia in corso da diversi anni. "Fino ad arrivare a queste settimane - prosegue - nelle quali dal Provveditorato di Cagliari arrivano i finanziamenti con il contagocce. Somme talmente scarse che è persino difficile sostituire una lampadina. Le garanzie ricevute nei mesi scorsi al Ministero dalla delegazione guidata dal sindaco, accompagnato dalla Regione e dai parlamentari nuoresi, avevano portato una ventata di ottimismo, tanto da far dichiarare a più di uno che il carcere non avrebbe chiuso, e comunque Macomer non avrebbe perso né la struttura, né i livelli occupativi. Ma il silenzio di questi mesi e le voci poco confortanti che arrivano da Roma fanno pensare al peggio". Il sindacalista spiega che a Macomer opera il Nucleo regionale cinofili antidroga "che in questi anni ha dato risultati molto positivi, collaborando anche con le altre forze dell’ordine di tutta l’isola". Smentisce poi con i dati l’affermazione secondo la quale la struttura sarebbe inadeguata, poco sicura e quindi da chiudere: il muro di cinta, in cemento armato, ha un’altezza minima di 9 metri con almeno 50 telecamere. "È stato realizzato - scrive - un sistema antintrusione e anti-scavalcamento modernissimo. Le celle sono 46, ognuna delle quali, in caso di bisogno, può ospitare sino a tre detenuti. Quindi la capienza regolamentare di 92 posti può, all’occorrenza, arrivare anche a 110-115 presenze". Oristano: sanità in carcere, difesa dell’Asl 5 dopo dichiarazioni di Maria Grazia Caligaris La Nuova Sardegna, 24 novembre 2014 Il direttore generale della Asl 5 di Oristano, Mariano Meloni, interviene sulla situazione della sanità penitenziaria nel carcere di Massama, in particolare per ciò che riguarda le cure odontoiatriche, dopo le recenti dichiarazioni pubbliche rese della presidentessa dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" Maria Grazia Caligaris. "La dottoressa Caligaris definisce "paradossale" che la Asl, per consentire al professionista privato di utilizzare la propria dotazione strumentale, gli richieda una fideiussione di 25 mila euro ed una remunerazione del 30 per cento rispetto al costo della prestazione - afferma il manager Meloni. Ebbene, è necessario spiegare che tali risorse servono a remunerare l’utilizzo di un bene pubblico, il riunito odontoiatrico, da parte di un privato, l’odontoiatra, che per tale uso incassa un corrispettivo". Il manager dell’Asl ricorda in una nota che "Il 30 per cento del costo della prestazione non solo serve ad ammortizzare i costi per l’acquisto dell’attrezzatura odontoiatrica (acquistata e installata dalla nostra Asl nel carcere di Massama nel marzo 2014, corredata e in perfette condizioni, in sostituzione di un macchinario vecchio ed obsoleto), a garantirne la manutenzione e l’assistenza tecnica periodica obbligatoria ed a sostenere il costo dell’infermiere assistente di poltrona. Tale valore (il 30 per cento rispetto al costo della prestazione) è uguale a quanto richiesto dall’Asl 5 agli stessi medici dipendenti che svolgono attività intramoenia con l’uso di attrezzature elettromedicali di proprietà dell’Azienda". Secondo Mariano Meloni "appare inoltre singolare che, mentre ci si indigni per le garanzie che la Asl richiede nell’utilizzo privato di un bene pubblico, non ci si interroghi sulle tariffe praticate dal libero professionista che opera in carcere, con costi che sono a carico dei detenuti, per comprendere se siano in linea con quelle praticate sul mercato". "Per il resto - conclude il direttore generale Mariano Meloni - siamo sempre stati disponibili a superare eventuali criticità all’interno del carcere e a rinforzare, nel perimetro delle nostre competenze e responsabilità, la sanità penitenziaria". Trapani: nel carcere consegna di 5 attestati per "addetto alla preparazione e cottura cibi" www.trapaniok.it, 24 novembre 2014 Con la consegna di 5 attestati di "addetto alla preparazione e cottura cibi" ad altrettanti detenuti, si è concluso presso le Carceri di San Giuliano l’omonimo Corso di Formazione Professionale organizzato dall’Ente di Formazione Professionale Engim sede di Trapani. Il Corso tenuto dal docente Giuseppe Sanfilippo decano degli insegnanti con i suoi 30 anni di attività all’interno delle carceri, ha previsto la preparazione di un menù finale valutato da una Commissione formata dalla Presidente Caterina Maria Pia Porto e dai componenti: Valveri Valentina, tutor Rallo Anna Luisa e dal Presidente dell’Engim dott. Mariano La Plena. Il menù che è una riscoperta dei piatti del nostro passato ha previsto: Trittico alla contadina con salsa tartara, lasagne verdi all’emiliana, aggrassato di lacerto con patate noisette e infine la crostata S. Giuliano - con kiwi e chicchi di melograno. I 5 detenuti che hanno raggiunto il traguardo dell’attestato che potrà essere loro utile per un futuro reinserimento nella Società, sono: Aliseo Francesco, Bertolino Francesco, Caponata Rosario, Tallarita Paolo Luca e Vadalà Antonino. Nell’occasione è stata inaugurata la Sala banchetti, annessa alla cucina che è stata dedicata al Prof. Sanfilippo in segno di riconoscenza per la sua trentennale attività svolta all’interno delle carceri. Padova: in carcere la fumeria degli agenti, alloggio di servizio usato per assumere droghe di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 24 novembre 2014 La stanza della perdizione era nell’alloggio di servizio, all’interno del carcere Due Palazzi, di Paolo Giordano, 40 anni, agente di Polizia penitenziaria. Lì si ritrovavano abitualmente le sei guardie, tutte quelle indagate, per assumere cocaina e per fumare delle canne. Era un ritrovo abituale, fuori dall’orario di servizio, ma comunque dentro il perimetro del carcere. Era una sorta di "base logistica", una fumeria dell’oppio. Lo stupefacente lo portavano a turno, l’agente Pietro Rega o i suoi colleghi coinvolti. Gli incontri erano settimanali, a volte la frequenza era maggiore. A far entrare la droga, che poi gli stessi vendevano pure ai carcerati, non avevano nessun problema. Nessuno controlla un agente penitenziario che entra nel carcere dove lavora. La stanza della perdizione viene citata dagli stessi indagati, interrogati nell’ambito dell’inchiesta "Apache" del luglio scorso che ha portato all’arresto di 15 persone: 7 in carcere e 8 agli arresti domiciliari (di questi sono 6 gli agenti della Penitenziaria, 2 in cella e 4 ai domiciliari); 32 le perquisizioni, 9 delle quali ad agenti carcerari. A vario titolo devono rispondere di concorso in corruzione aggravata e traffico di droga. Gli inquirenti scoprono che dentro le celle arrivava di tutto, dai telefonini alle sim card, dalla droga, ai film porno. Bastava pagare le guardie che si avvalevano della collaborazione di detenuti compiacenti. Si poteva ordinare di tutto, dalla cocaina al cellulare con traffico illimitato. I parenti del detenuto, secondo gli inquirenti, pagavano le guardie. In particolare a tirare le fila c’era Pietro Rega, 47 anni, assistente capo, responsabile del quinto piano della Casa di reclusione era lui la mente dell’operazione. Proprio Giordano, forse schiacciato dalle sue responsabilità, coinvolto direttamente nell’inchiesta della Squadra mobile nel luglio scorso si è tolto la vita tagliandosi la gola con una lametta da barba. In quello stesso alloggio dove il gruppetto si ritrovava ad assumere stupefacente. Ha deciso di farla finita una settimana prima dell’interrogatorio, già programmato. Si doveva trovare di fronte al magistrato Sergio Dini, che coordina l’inchiesta sul carcere assieme al procuratore capo Matteo Stuccilli. Giordano era soprannominato "il poeta", "il pittore" o semplicemente "l’assistente pornostar". Oltre che far arrivare in carcere eroina, metadone e subutex (un oppiaceo), droghe che assumeva, distribuiva filmini hard realizzati in casa. Poche settimane prima di Giordano si è tolto la vita il detenuto Giovanni Pucci, 44 anni, elettricista di Castrignano dei Greci (Lecce). È stato trovato morto impiccato nella sua cella poche ore dopo l’interrogatorio. Lo stesso pm Dini ha chiuso una inchiesta che riguarda altri due agenti penitenziari, Giandonato Laterza, 31 anni e Angelo Telesca, 35 anni, pure loro coinvolti nell’indagine Apache. Il 25 ottobre 2013 Telesca danneggiava il distributore di sigarette della tabaccheria di via Montà 453, di proprietà di Fedora Reho per prendere delle "bionde". Il collega Laterza, presente ai fatti, non interveniva. Telesca inoltre è accusato di concussione: aveva costretto la Reho a ritirare la querela, promettendole i soldi del danno. "È anche nel tuo interesse accettare" le aveva poi detto mostrandole i 190 euro che le avrebbe dato in seguito. Questa indagine, ovviamente non ha nulla a che fare con quella, più complessa e più grave dello spaccio di droga all’interno del carcere. L’udienza preliminare sarà il 19 marzo 2015. Porto Azzurro (Li): detenuto fuggito dopo permesso-premio è stato arrestato in Romagna Il Tirreno, 24 novembre 2014 Nicola Cassano, di 46 anni - evaso il 18 marzo 2013 dal carcere di Porto Azzurro, dove era detenuto per una rapina e l’omicidio di un maresciallo dei Carabinieri, Marino Di Resta - è stato arrestato sabato 22 dalla polizia in un ristorante di Bertinoro (Forlì-Cesena), dove era a pranzo con altre persone. Cassano, originario di Melfi (Potenza), aveva un documento falso ma non è riuscito ad ingannare gli agenti: la pena che stava scontando a Porto Azzurro sarebbe finita nel 2020. Il 18 marzo 2013, al terzo giorno di un permesso premio, non era rientrato in carcere: da allora la Polizia lo cercava, anche a Melfi. L’uomo, indagato nel Potentino per associazione per delinquere di tipo mafioso, ha trascorso la latitanza spostandosi spesso: gli investigatori stanno cercando di ricostruire i suoi movimenti. Da mesi, però, gli agenti della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Potenza e quelli della mobile di Forlì-Cesena indagavano per rintracciarlo. Le indagini sono state coordinate dalla direzione distrettuale antimafia di Potenza. L’assassinio del maresciallo Di Resta avvenne a Pescara il 16 settembre 1996: dopo la rapina ad un rappresentante di gioielli, il sottufficiale dell’Arma intervenne ma i tre rapinatori lo ferirono mortalmente con otto colpi di pistola, alcuni sparati mentre Di Resta era già a terra. Un complice di Cassano era a sua volta evaso dal carcere dove era detenuto: fu arrestato in Puglia tempo dopo. Milano: teatro è libertà… così il carcere di San Vittore ha conquistato il "Piccolo" di Anna Spena Vita, 24 novembre 2014 Intervista a Donatella Massimilla, la regista che da anni lavora all’interno del carcere milanese, e che è riuscita a portare i suoi attori sul palco del Piccolo Teatro milanese. Uno spettacolo indimenticabile. Piccolo Teatro Studio strapieno. Applausi che non finivano mai. Ieri sera a Milano, la seconda replica dello spettacolo di San Vittore Globe Theater ha emozionato ed entusiasmato il pubblico. Merito di quella decina di attori e soprattutto di straordinarie attrici detenuti che hanno dato vita a un evento in cui la loro vita e gli spezzoni poetici di tre grandi spiriti come Alda Merini, Giovanni Testori e William Shakespeare, si mescolavano in un unico flusso teatrale. Vero deus ex machina di questa esperienza è Donatella Massimilla, classe 1961, romana, attrice e regista di teatro, è a capo della direzione artistica del Cetec, centro europeo teatro e carcere, che da oltre 15 anni realizza progetti di teatro nel sociale. Si è formata con Grotowski e con la compagnia del Living Theatre. Quando è nata la passione per il teatro? C’è stato un memento preciso in cui hai pensato: si, è questa la mia strada? Ho iniziato ad interessarmi al teatro molto giovane. Frequentavo una scuola di teatro e a 15 anni ho conosciuto Giovanni Testori, ho visto il suo Macbetto. All’università, a Roma, ho frequentato la scuola di drammaturgia di Eduardo. Poi mi sono spostata al Dams di Bologna. Per seguire Grotowski sono andata a vivere a San Arcangelo di Romagna. Lì ho cominciato a lavorare per il teatro di strada. Da quel momento non solo ha iniziato a sgomitare in me la consapevolezza di voler essere un’artista, ma soprattutto è nato forte il desiderio di fare teatro all’interno di una comunità. Perché hai scelto di lavorare per e nelle carceri? Anche il carcere è una comunità. Avevo bisogno di lavorare su storie di vita, drammaturgie vere e stare con le persone in un luogo altro: ecco il luogo di reclusione è un non luogo. Il laboratorio e il tempo dedicato con amore e passione a questa pedagogia invisibile fatta sui vissuti delle persone mi ha permesso di riscrivere e portare in scena anche opere teatrali importanti caricate però di un significato nuovo: quello della libertà. Il teatro è la libertà dei detenuti? Assolutamente si. Quando un detenuto si esibisce su un palcoscenico l’indulgenza del pubblico lo rimette in libertà. Abbiamo sempre fatto dei gruppi di teatro assolutamente liberi in cui le persone non vengono selezionate ma sono loro che scelgono noi. Secondo me si crea una sorta di necessità, lo fanno perché lo ritengono un linguaggio importate. Fare teatro vuol dire lavorare su se stessi. La cosa di cui vado molto fiera è che attraverso il teatro abbiamo costruito un ponte tra "dentro" e "fuori". I detenuti con cui ho lavorato hanno usato l’arte come formazione sia della vita personale che lavorativa: tantissime detenute sono diventate attrici professioniste, o lavorano nei ristoranti perché, come è avvenuto nel carcere di San Vittore, hanno frequentato laboratori di cucina. Perché San Vittore è un luogo importante per te? Per me rappresenta un cerchio che si chiude: sento che con lo spettacolo San Vittore Globe Theatre, liberamente ispirato a Shakespeare, Testori e ad Alda Merini. Con i cori del Macbetto portati in scena dai detenuti abbiamo pienamente dimostrato che dall’arte parte la metamorfosi per cambiare vita. Poi a San Vittore lavoriamo con il reparto Le Navi dove vengono trattati i detenuti con tossicodipendenze, è chiaro che per questi casi ancora più delicati ci vuole un’attenzione e un grado di sensibilità più alto, cerchiamo di tenere le persone con noi per percorsi più lunghi. Hanno veramente bisogno della nostra piena disponibilità. Asti: il teatro in carcere aperto agli spettatori esterni, detenuti al lavoro per le scenografie di Valentina Fassio La Stampa, 24 novembre 2014 Quando il carcere non è solo sinonimo di detenzione, il teatro diventa strumento di rinascita e formazione. Gli esempi sono più d’uno. Nel carcere di Volterra è nata la Compagnia della Fortezza, il laboratorio teatrale della Casa di reclusione di Porto Azzurro porta in scena le Novelle di Verga. Si recita nel carcere di Aosta e a San Vittore. Forse non tutti lo sanno, ma il carcere di Quarto, con la sua lunga storia di attività e iniziative rivolte ai detenuti, s’inserisce a pieno titolo in questo percorso virtuoso. Con impegno e volontà, grazie all’aiuto della Compagnia di San Paolo, la Casa circondariale ha fatto rinascere il suo teatro: sarà inaugurato oggi con lo spettacolo "Veder l’erba dalla parte delle radici", su iniziativa della direzione e dell’associazione Lajolo. Liberamente tratto dall’opera di Davide Lajolo, a cura di Sylvia Menozzi e Aldo Delaude, lo spettacolo aveva debuttato con successo ad Asti Teatro, ma oggi è un’altra storia. Interpretato dallo stesso Delaude "Veder l’erba dalla parte delle radici" andrà in scena con l’inserimento di voci fuori campo dei detenuti. E non solo: il progetto scenografico di Raffaele Iachetti è stato realizzato all’interno del carcere. "Oggi è la vera inaugurazione del teatro di Quarto, rimasto chiuso per 20 anni, trasformato in magazzino, e finalmente riaperto - racconta l’attore Delaude - Un traguardo raggiunto grazie all’impegno di molte persone come la direttrice Elena Lombardi Vallauri, la responsabile dell’area educativa Anna Cellamaro, il comandante dell’istituto Leonardo Gagliardi". Oggi la sala ha a disposizione 100 posti (ma diventeranno almeno 150), con le poltrone donate da Cristina Garetti del Cinema Nuovo Splendor. Da quattro anni impegnato in diverse iniziative all’interno del carcere, Delaude guarda avanti: "Il futuro inizia oggi e gli obiettivi sono più d’uno. Prima di tutto aprire al pubblico per aggiungere questo spazio agli altri teatri cittadini, in modo che possa diventare palcoscenico per spettacoli e concerti ma anche sala prove per compagnie del territorio. In questi anni mi sono reso conto di come i detenuti restino affascinati dal teatro e da questo mondo d’attori. Ne ho avuto conferma nella preparazione dello spettacolo: hanno assistito alle prove e, prima ancora, hanno letto il libro da cui è tratto lo spettacolo". La rinascita del teatro porta con sé un nuovo progetto, già finanziato dalla Compagnia di San Paolo. "Rivolto ai detenuti - spiega Delaude - sarà un corso per attori ma anche per formare tecnici, fonici, macchinisti e le professionalità che ruotano attorno alla macchina teatrale. Un modo diverso per avvicinarsi al mondo del lavoro". Con un’idea: "La messa in scena di un’opera teatrale con detenuti attori". Venezia: in carcere il "Cantica delle donne", con la compagnia ferrarese Balamòs Teatro www.estense.com, 24 novembre 2014 Domani, martedì 25 novembre, alle ore 16, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca a Venezia, nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi e in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la compagnia ferrarese Balamòs Teatro presenta lo spettacolo "Cantica delle donne". "Cantica delle donne - istantanee per una storia quasi universale" è uno spettacolo diretto da Michalis Traitsis, con le donne detenute dell’Istituto Penitenziario Femminile di Venezia, la collaborazione dell’attrice e musicista Lara Patrizio e il contributo artistico di Patrizia Ninu. "In tutto il mondo il 25 novembre è giornata di iniziative di varia natura per sensibilizzare, ricordare, mobilitare, denunciare - afferma la compagnia -. Ci siamo interrogati se questo abbia un senso, per il rischio di mettere a posto coscienze o di solidarizzare solo per un giorno, per la convinzione che ogni giorno dovrebbe essere quello giusto per essere dalla parte dei diritti e contro ogni discriminazione. Noi non abbiamo risposte, se non il bisogno di esserci comunque e di provare, attraverso poesie e canti di donne, a ritrovare un senso, ogni giorno. Anche con il nostro provare a pensarci e sperimentarci realmente insieme, attraverso il teatro. Perché forse la più grande forza del teatro è quella di trasformare il dolore in poesia. E di restituirci e restituire bellezza". Immigrazione: Gorizia, Lampedusa del Nord-Est dove un prete si occupa dei clandestini di Emanuele Boffi Tempi, 24 novembre 2014 Sono arrivati a centinaia attraverso il confine, per lo più afghani che chiedono asilo politico. E se le istituzioni tergiversano, la Caritas prova ad affrontare l’emergenza. Quando il 29 ottobre hanno fatto aprire il grosso lucchetto che serrava il portellone posteriore del camion, gli agenti della polizia di frontiera di Tarvisio (Udine) si sono trovati davanti agli occhi trentatré facce asiatiche. Si trattava di sette pakistani e ventisei afghani. Raggomitolati uno sopra l’altro, stavano stipati in uno spazio angusto senza cibo né acqua. Il passeur, un cittadino romeno di 28 anni, è stato arrestato e per i trentatré stranieri sono state avviate le procedure per riconsegnarli alle autorità austriache. È ormai da mesi che sul confine con l’Austria si "gioca" a rimpallarsi i clandestini. L’8 novembre la polstrada di Amaro (Ud) ha arrestato due siciliani che cercavano di far entrare in Italia quattro siriani. Il 16 novembre quattro cittadini afghani che viaggiavano a bordo di un treno proveniente dall’Austria sono stati fermati e denunciati. L’8 novembre a Coccau (Ud) sono stati fermati altri trenta clandestini. Ancora pachistani e afghani che cercavano di raggiungere il nostro paese. E l’Italia ha cercato di rispedirli in Austria, invano. Perché, semplificando un po’ grezzamente, le norme dicono che chi identifica i clandestini, poi se ne deve occupare. Dall’inizio dell’anno, da Coccau ne sono passati circa 500 e di questi circa la metà hanno chiesto asilo politico. E questo solo per stare ai casi da noi conosciuti e degli ultimi mesi. Ma quanti altri sono entrati? Chiariamo una cosa: se l’Austria non fa nulla per fermarli, è anche vero che alcune di queste persone sono entrate in Europa da Lampedusa, poi hanno girovagato per il Vecchio Continente chiedendo asilo qua e là e, infine, sono tornate in Italia. Altri, salvati dalle acque del Mediterraneo dall’operazione Mare Nostrum, sono stati prima portati a Taranto, poi hanno fatto perdere le loro tracce e, infine, respinti da qualche paese del Nord Europa, sono tornati in Italia. Così, poiché i trattati internazionali impongono che un richiedente asilo non possa ritornare nel paese dove ha chiesto rifugio e che poi ha abbandonato, arrivano da noi. E poiché a Gorizia è attiva l’unica commissione che esamina le domande dei richiedenti asilo di tutto il Triveneto, è da inizio dell’anno che la città ospita qualche centinaio di afghani. Alcuni l’hanno ribattezzata con un’iperbole la "Lampedusa del Nord-Est", ma il paragone è improprio sia per i numeri, sia per il non piccolo particolare che non vi sono state vittime. Gli afghani arrivano via terra, soprattutto a bordo di camion, dopo lunghi viaggi attraverso i Balcani. Uno, si racconta, è giunto legato sotto un furgone. Molti provengono dall’Inghilterra dove la stretta sull’immigrazione li ha spinti fuori dal paese. Perché arrivano in Italia? Il prefetto di Gorizia, Vittorio Zappalorto, esasperato dalla situazione e dalle pressioni politiche, ha detto recentemente in un’intervista che "gli afghani giunti a Gorizia più che profughi sono furbi". Non solo: il prefetto, che è anche commissario straordinario a Venezia, dove trascorre cinque dei sette giorni della settimana, se l’è presa con la "commissione per i richiedenti asilo che dovrebbe smetterla di fare il loro gioco facendo spendere un sacco di soldi allo Stato". Quattrini spesi male, ha fatto intendere, per gente che "ha le carte di credito in tasca". Le cose non stanno esattamente così. Da anni l’Afghanistan vive in una situazione di instabilità politica a causa dei talebani e della guerra. Non è un caso che da trentatré anni sia il paese al mondo con la più alta percentuale di rifugiati e richiedenti asilo. Secondo l’Unhcr sono circa 2,6 milioni di persone in 82 paesi diversi. In media, nel mondo, un rifugiato su cinque proviene dall’Afghanistan e il 95 per cento di loro risiede in Iran e Pakistan. In Europa il primato dell’accoglienza è detenuto dalla Germania, che di solito è la meta anche per coloro che transitano dall’Italia. Resta il fatto che da inizio anno a Gorizia ne sono arrivati moltissimi, e il flusso non pare arrestarsi. Ma anche qui la storia va raccontata per intero perché dice molto di cosa accada in Italia dopo le chiacchiere dei talk show e i proclami politici. È, infatti, da gennaio che gli afghani sono arrivati a Gorizia e il primo e unico ad occuparsene, mentre le istituzioni chiudevano un occhio sperando che la buriana passasse in fretta, è stato don Paolo Zuttion, responsabile della Caritas. Don Paolo, a differenza dei sindaci e delle autorità preposte, non si è voltato dall’altra parte. E quando il prefetto ha rilasciato quell’intervista, lui, che di quelle persone se ne occupava da dieci mesi, ha commentato sarcastico che se avessero avuto le carte di credito in tasca non si capiva perché, allora, si fossero ridotti a bere l’acqua dell’Isonzo per dissetarsi. La verità è che quelli di loro con qualche spicciolo in saccoccia sono provenienti dal Nord Europa, dove hanno racimolato qualche euro con lavoretti saltuari. Gli altri non hanno altro che i loro vestiti. Don Paolo non ha ricette per risolvere il problema. Ha solo cercato di dare una mano a chi ha bussato alla sua porta. A questi uomini che avevano creato una tendopoli sulle rive dell’Isonzo ha dato una sistemazione nelle canoniche e nelle proprietà degli enti ecclesiastici. Ad aprile ha aperto loro le porte del Nazareno, una struttura a Gorizia di proprietà delle Suore della Provvidenza. A settembre - cioè dieci mesi dopo che sulle sponde del fiume bivaccavano gli afghani in condizioni disumane per il freddo, le piene del fiume e i cinghiali - finalmente qualcosa si è mosso. È stata prima aperta e poi chiusa dalla Provincia una tendopoli (ribattezzata "Campo Francesco" in onore del Papa), è stato allestito un ex capannone per dare almeno un tetto ad alcuni, è stato trovato un alloggio in un hotel a una quarantina di loro. Il 22 settembre la diocesi ha stipulato una convenzione per il Nazareno con la Prefettura e il consorzio Il Mosaico. E solo l’11 novembre il ministero dell’Interno ha trasferito un centinaio di afghani da Gorizia a Bresso, in Lombardia. Per quasi un anno tutti hanno chiuso gli occhi e, solo quando la situazione è diventata insostenibile ed è finita sui giornali, le istituzioni hanno cominciato a occuparsene. Ma, fino ad allora, nessuno pareva curarsi degli afghani, aiutati anche dal fatto che, fino ad oggi, non c’è stata alcuna segnalazione di danni a cose o persone imputabili alla loro presenza. Se non fosse stato per il direttore della Caritas e per qualche persona di buon cuore (anche nelle istituzioni e nell’azienda sanitaria locale, questo va riconosciuto) la situazione avrebbe potuto essere ancor più tragica e, magari, scapparci il morto. Immaginatevi, poi, le polemiche. Invece, in attesa dei tempi biblici dell’elefantiaca burocrazia italiana che ci mette mesi per vagliare una richiesta d’asilo, in attesa che lo Stato si decidesse a stanziare qualche euro, in attesa che, insomma, una soluzione piovesse dal cielo, un sacerdote tuttofare e qualche amico riunito attorno al consorzio Mosaico hanno messo energie, tempo, pazienza e soldi non per risolvere definitivamente la situazione, ma almeno per affrontarla. È già qualcosa rispetto a chi tiene le braccia conserte e i pugni in tasca. Mauritania: arresti, torture e lotte sempre più diffuse per la libertà degli schiavi di Bianca Senatore La Repubblica, 24 novembre 2014 La testimonianza di Jcoub Diarra, militante dell’Ira, Initiative de Resurgence du mouvement Abolitionniste, che lotta contro lo stato di oppressione del regime di Mohamed Ould Abdel Aziznel nel Paese Gli schiavi sono haratin, il gruppo etnico che rappresenta il 40 per cento della popolazione, hanno la pelle nera e subiscono ogni forma di sopruso fisico e psicologico. "Quello che sta accadendo in questi giorni in Mauritania è molto grave". La preoccupazione traspare da ogni parola di Jcoub Diarra, militante dell’Ira, Initiative de Resurgence du mouvement Abolitionniste, che lotta contro la schiavitù nel Paese. L’11 novembre scorso, nove attivisti del gruppo, tra cui il presidente Biram Ould Dah Ould Abeid, sono stati arrestati dalla polizia governativa senza un’accusa specifica e per giorni e giorni di loro non si sono avute notizie certe. Secondo le uniche informazioni, alcuni di loro sono stati torturati e ora sono in cattive condizioni di salute, ma le cure mediche sarebbero state negate. Incatenati e torturati. "So cosa sta succedendo - racconta Jacoub - perché ci sono passato. Nel 2012 anche io sono stato arrestato, portato in prigione e massacrato di botte, ma i poliziotti non si limitano a questo. I prigionieri politici come noi vengono legati con delle catene strette ai polsi e alle caviglie e vengono torturati con l’acqua fredda e le scosse elettriche. È bruttissimo sapere che i miei amici stanno subendo questo ora". Jacoub è stato il braccio destro del presidente dell’Ira Biram, un uomo ormai noto a livello internazionale per la sua lotta contro la schiavitù in Mauritania, tanto che nel 2013 ha ricevuto il Premio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ora si trova in uno dei centri di detenzione di Rosso, circa 220 km dalla capitale Nouakchott, insieme a Brahim Bilam Ramdhane, vicepresidente dell’Ira e proprio ieri è riuscito a trasmettere un messaggio fuori dalla prigione. Gli altri prigionieri. Degli altri, invece, non si è saputo niente fino a giovedì. Inizialmente, gli agenti del commissariato locale non hanno rivelato la destinazione degli altri arrestati, nonostante le richieste delle famiglie, preoccupate anche per lo stato di salute di un membro dello staff, che ha bisogno di iniezioni giornaliere. Poi le pressioni dalla comunità hanno spinto il commissario a comunicare il luogo di prigionia. L’ultima ad essere stata arrestata è la portavoce dell’Ira Mariem Cheikh, prelevata con la forza dagli uffici e portata nella prigione femminile di Nouakchott dove è stata incatenata e ha subito violenze fisiche molto dure. "Non ci permettono di vederli - hanno detto alcuni parenti dei detenuti - e non ci dicono nulla, anche se sappiamo che alcuni di loro stanno male. Chissà se e quando li rilasceranno". La schiavitù del XXI secolo. In Mauritania ci sono circa 700mila persone costrette a vivere alle dipendenze di un padrone ed è un numero enorme, soprattutto se si considera che il Paese ha poco meno di 3 milioni e mezzo di abitanti. Gli schiavi sono haratin, il gruppo etnico che rappresenta il 40 per cento della popolazione, hanno la pelle nera e subiscono ogni forma di sopruso fisico e psicologico. Ultimamente, però, qualcosa nella società mauritana sta cambiando: molti stanno cominciando a ribellarsi e a scappare via, proprio come hanno fatto Yargh e Said, di sette e dieci anni, alle dipendenze di una famiglia bianca. Il più piccolo faceva lavori domestici, prendeva l’acqua alla fontana, raccoglieva legna, mentre il più grande faceva commissioni e portava a pascolare i cammelli. Una notte sono scappati con l’aiuto degli attivisti dell’Ira e si sono trasferiti nella capitale dove ora vanno a scuola e sognano di diventare grandi. La protesta si diffonde e preoccupa. "Quella della protesta diffusa è una deriva che il Governo non vuole - spiega Ivana Dama, attivista dell’Ira Italia - perché sa che se dovesse crescere il movimento di protesta non potrebbe più fermarlo. Ecco il motivo degli arresti e delle violenze indiscriminate". Ma il timore del capo dello Stato Mohamed Ould Abdel Aziz è anche politico. Il presidente dell’Ira Biram, infatti, si era candidato alle ultime elezioni del 2013 e, nonostante i brogli elettorali, si è comunque guadagnato un 10% di consensi diventando un personaggio ancora più scomodo. Eppure, dopo gli arresti di martedì scorso quasi tutti i partiti politici mauritani hanno condannato il gesto e chiesto chiarezza. "Ora aspettiamo - dicono gli altri attivisti dell’Ira - e ci teniamo pronti, perché la nostra lotta, pur pacifica che sia, continuerà sempre più forte". Myanmar: il numero dei prigionieri politici, nonostante le promesse, è ancora in aumento Alessandro Graziadei www.unimondo.org, 24 novembre 2014 Del processo di democratizzazione che il Myanmar sembrava aver intrapreso da quando la Lega Nazionale per la Democrazia, il principale partito d’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi, era stato ammesso dalla Giunta militare alle elezioni nell’aprile 2012, non sembra essere rimasto molto. Il presidente ed ex generale Thein Sein alla guida del nuovo Governo militare-civile aveva promesso la liberazione di tutti i detenuti per reati di coscienza entro la fine del 2013, ma in realtà, ancora una volta, è stato più retorico che concreto. Il numero di detenuti è aumentato e sembra destinato a salire. La denuncia arriva dagli attivisti di Assistance Association for Political Prisoners (Aapp - Burma), uno fra i più importanti gruppi della dissidenza in Myanmar a operare in favore dei detenuti politici. In un loro report i leader del movimento riferiscono che al momento "vi sono almeno 84 detenuti politici sparsi nelle carceri del Paese; al contempo, vi sono altri 122 attivisti a processo con accuse di natura politica". Il rapporto, che si basa su dati raccolti sino alla fine di agosto, prevede inoltre che "il numero dei prigionieri politici è destinato a crescere nell’ultimo periodo di questo 2014". Secondo quanto riferito da Tate Naing attuale segretario di Aapp, già leader della rivolta studentesca nel 1988 e condannato a tre anni di carcere nel 1990 per attività politiche, la crescita nel numero di arresti e condanne per reati di natura politica è in larga misura da attribuire all’uso della controversa Sezione 18, inserita nella Legge quadro sul diritto di assemblea e processione pacifica. Si tratta di una norma ad hoc per colpire l’attivismo politico e, a dispetto degli emendamenti approvati nel giugno scorso, essa concede troppo margine di manovra alle autorità". "Il presidente Thein Sein ha promesso di liberare tutti i dissidenti - ha dichiarato Khin Cho Myint, portavoce del gruppo Aapp - e ha detto anche che non ci sarebbero stati più prigionieri politici entro la fine del 2013. Sono trascorsi 11 mesi, ma in realtà il numero continua a crescere e continuano ad esserci migliaia di altri cittadini birmani a rischio carcere". Solo la scorsa settimana l’attivista 52enne Htin Kyaw è stato incriminato in tutte e 12 le divisioni di Yangon nelle quali ha marciato a inizio anno, nel contesto di una campagna di protesta contro l’esecutivo. A suo carico l’accusa di "disturbo dell’ordine pubblico" per aver "distribuito volantini", rischia ora una condanna a 11 anni di carcere per proteste anti-governative. La sentenza di condanna contro il dissidente lo ha reso un simbolo: a dispetto delle sbandierate riforme politiche, economiche e sociali dell’esecutivo semi-civile, in carica dal 2012 dopo decenni di dittatura militare, in realtà il dissenso viene ancora oggi punito in maniera sistematica. Un portavoce di Amnesty International riferisce che Htin Kyaw ha solo espresso la propria opinione, senza violare alcuna legge: "Gli sforzi incessanti delle autorità birmane di silenziare le voci critiche devono cessare subito" e le accuse a suo carico sono una "farsa". Ma i prigionieri politici non sono l’unico argomento sensibile per il Governo. Da venerdì 18 novembre gli studenti birmani minacciano una protesta su scala nazionale, se il governo non promuoverà riforme nel settore dell’istruzione. In particolare, essi chiedono di emendare la legge quadro sull’educazione, che proibisce ai giovani delle superiori e delle università di promuovere attività politiche e limita di fatto la libertà accademica. "Dopo quattro giorni consecutivi di marce e manifestazioni per le vie di Yangon, capitale commerciale del Myanmar, sfidando peraltro i divieti delle autorità, i leader studenteschi hanno concesso due mesi al governo per rispondere alle loro richieste" ha riferito AsiaNews. Ad oggi il sistema educativo e scolastico è ancora legato al vecchio dominio della dittatura militare: le materie e i curriculum scolastici sono sotto lo stretto controllo delle autorità ed è vietata ogni forma di attività politica. Fra i punti al centro della controversia, la possibilità, finora negata, di utilizzare anche le lingue locali e i dialetti negli Stati in cui vivono le minoranze etniche, unita alla possibilità di formare sindacati studenteschi. Nei giorni scorsi la protesta dei giovani ha toccato anche la porta orientale della famosa pagoda di Shwedagon, un luogo simbolo per il Myanmar, dove la Nobel per la pace Suu Kyi ha tenuto il primo discorso pubblico nel 1988. Dal luogo di culto hanno inoltre preso il via le proteste dei monaci del settembre 2007, represse nel sangue e nel terrore dalla giunta militare. In risposta, il ministero birmano dell’Istruzione negli scorsi giorni ha diffuso un comunicato in cui afferma che la legge "garantisce libertà accademiche" e che le rivendicazioni degli studenti, fra cui la formazione di sindacati, "possono essere oggetto di revisioni normative". La minaccia, lanciata dagli studenti, di estendere a tutta la nazione le proteste allarma le autorità birmane, sempre molto preoccupate della loro immagine all’estero. Ecco perché in questo momento per Naing è importante che l’attenzione delle Cancellerie occidentali, convinte a torto che il problema dei prigionieri politici, dei diritti umani e della democrazia in Myanmar sia già risolto, rimanga alta. "La pressione internazionale sul governo birmano affinché mantenga le promesse e onori i propri impegni, avvertono i leader del movimento, è essenziale per promuovere le libertà civili e continuare il cammino di riforme". Anche e soprattutto, in vista delle elezioni generali e presidenziali del 2015 che potrebbero portare, se sarà accolta una petizione dell’opposizione, il Nobel Aung San Suu Kyi alla presidenza. Per il momento però senza la rimozione del veto militare, non sarà possibile ottenere alcuna modifica costituzionale non gradita ai militari e la petizione per avere libere elezioni, assieme al futuro democratico del Paese potrebbero nuovamente finire archiviati.