Puniti a non amare di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2014 Non si può togliere la vita lasciando un’esistenza sola e senza senso né sentimento. Un paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle scuole e dalle carceri, quando le carceri siano più scuole e le scuole meno carceri. La pena deve essere un diritto, se sia condanna deve poter essere la condanna a capire e capirsi. L’ergastolo ostativo è ripugnante e indegno per una democrazia del diritto ad essere persone giuste. (Prof. Giuseppe Ferraro, Docente di Filosofia Università Federico II, Napoli). La redazione di Ristretti Orizzonti per portare umanità e affetti nelle carceri italiane ha lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. E per sensibilizzare l’opinione pubblica, la nostra classe politica e il mondo cattolico ha organizzato, per il primo dicembre 2014 nel carcere di Padova, un convegno su questo argomento (Se volete sapere di più di questa iniziativa, visitate il sito www.ristretti.org o www.carmelomusumeci.com) Ed ho pensato, per fare sapere come sono importanti i colloqui e le telefonate per i prigionieri, di rendere pubblici alcuni brani del mio diario di ergastolano condannato alla Pena di Morte Nascosta (come la chiama papa Francesco) che scrivo tutti i giorni da ventitré anni di carcere. - Ho telefonato a mio figlio ed è stato buffo parlare con lui perché si era da poco addormentato e aveva tutta la voce impastata di sonno. Sia lui che sua moglie hanno fatto nottata e quando ho telefonato dormivano tutti e due come ghiri. L’unico sveglio era mio nipotino Lorenzo ed ho parlato con lui e mi ha raccontato: Michael,( il fratellino), è fuori con la zia, mentre papà e mamma dormono, io gioco di là con la nonna. Mi ha fatto sorridere ed avevo bisogno di sorridere. - Oggi mi è venuta a trovare mia figlia. Ci hanno concesso solo due ore di colloquio. Sono stato lo stesso felice. Quando però la vedo andare via mi commuovo perché a differenza di quando arriva, la vedo andare via con il viso malinconico. - Ho telefonato alla mia compagna e quando il centralinista mi ha passato la linea, le ho detto: Pronto! Tana Lupa Bella? Qui Zanna Blu! L’ho sentita ridere e mi ha risposto. Brutto lupaccio… sbrigati a venire a casa che i tuoi figli sono grandi e ora sono rimasta sola. Vorrei tanto tornare a casa ma ormai dopo tanti anni questa più che una speranza è solo un desiderio. - Sabato mi viene a trovare Lupa Bella, Coda Bianca e mi portano Lupo Lorenzo ed ho scritto ai due direttori del carcere: Sabato 20 aprile mi viene a trovare Lorenzo, il mio nipotino di quattro anni. Ogni sua visita mi porta gioia e qualche dispiacere per lui per le lunghe attese al freddo e al gelo che spesso è stato costretto a subire. E proprio a causa di una di queste attese e della mia giustificata reazione, in passato, ho subito un rapporto disciplinare. Per evitare altri eventuali rapporti disciplinari ho detto a Lorenzo di non venire proprio la vigilia di Pasqua per evitare lunghe file fuori dal cancello del carcere anche se i bambini e gli anziani dovrebbero avere precedenza sugli altri. L’istante è consapevole dei problemi di sovraffollamento dell’istituto e ben sa che negli altri carceri la problematica è ancora peggiore e (…) comunque, l’istante si accontenta di poco e poiché nell’istituto non esiste l’area verde per i bambini, chiede di poter portare nella sala colloqui qualche matita e qualche foglio a Lorenzo per farlo disegnare. Spero che per una volta i motivi di sicurezza o altro siano messi da parte. - Per una volta i "buoni" si sono dimostrati più umani dei "cattivi" e ieri ho fatto un bel colloquio. Mi hanno fatto passare i fogli di carta e i colori che avevo chiesto così ho potuto disegnare con Lorenzo. Vedere i miei due figli insieme mi riempie sempre di gioia, sono tanto orgoglioso di loro. Sono l’unica ragione perché sono venuto al mondo e perché ancora ci sto. - Oggi è il compleanno di mio figlio Mirko. Compie ventisei anni, l’ho lasciato che ne aveva sei. Non ho potuto volergli bene come ho sempre sognato, ma continuo ad amarlo con tutta l’energia dell’universo. Il Direttore del carcere per l’occasione, in via del tutto eccezionale, mi ha concesso una telefonata straordinaria e ho appena parlato al telefono con mio figlio, sua moglie e i miei due nipotini. Sono felice perché ho sentito mio figlio felice che gli ho telefonato. - Mi mancano i miei nipotini, mi hanno dato di nuovo la forza di vivere, di lottare e sperare. Da quando sono nati la mia vita è diventata meno dura perché Lorenzo e Michael tengono compagnia al mio cuore. Una persona in carcere dovrebbe perdere solo la libertà e non l’amore invece purtroppo molti uomini e donne in questi luoghi perdono tutte e due. - Ieri ho telefonato a Lupa Bella, anche se viviamo separati da tanti anni, abbiamo sempre abitato nel solito cuore, lei nel mio ed io nel suo. A voce non riusciamo mai a dirci tutto quello che vorremmo. Abbiamo solo dieci minuti poi l’Assassino dei Sogni fa scattare un’odiosa musichetta e dopo qualche secondo la linea cade sic! - Ho telefonato a mio figlio Mirko, e mi ha passato al telefono sua moglie e i miei due nipotini che sembravano due terremoti. Urlavano e bisticciavano fra di loro e mi hanno fatto venire tanta voglia di essere con loro. Spero che questo mese me ne portino uno dei due al colloquio. Prima soffrivo il carcere per i miei figli, ora che sono grandi, lo soffro soprattutto per i miei nipotini. Chissà se vedendomi così poco riusciranno ad affezionarsi a me come sono riusciti a fare i miei figli! Questo dubbio mi fa stare male. - Ieri ho telefonato a mio figlio, a sua moglie Erika, e ai miei due nipotini Lorenzo e Michael e mi hanno fatto gli auguri di compleanno a voce. Il mio cuore è scoppiato di gioia e sono stato bene tutta la notte nel ricordare le due vocine dei miei due nipotini che mi dicevano: Buon compleanno nonno. - Oggi ho fatto colloquio con i miei familiari e mi hanno portato i regali di compleanno, tre bellissime magliette. Poi mi hanno portato tanta roba buona da mangiare e le more di bosco che mi piacciono tanto. Purtroppo, come al solito, l’Assassino dei Sogni rovina sempre tutto e ho potuto fare solo un’ora e mezzo di colloquio perché hanno fatto aspettare cinque ore i familiari fuori dalla porta del carcere. Lettera aperta al direttore del quotidiano La Repubblica, Ezio Mauro di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2014 I primi anni di carcere l’Assassino dei Sogni ti lascia il cuore, l’anima e le lacrime. Poi con il passare del tempo ti porta via tutto. E ti lascia solo l’ombra del tuo corpo. (Diario di un ergastolano) Gentile Direttore, innanzi tutto mi presento. Sono un uomo ombra (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra loro) prigioniero nell’Assassino dei Sogni di Padova (così i prigionieri chiamano il carcere) condannato alla "Pena di Morte Viva" (così è chiamato l’ergastolo ostativo che ti esclude qualsiasi possibilità di morire un giorno da morto libero). Se vuole sapere qualcosa più di me e dell’ergastolo ostativo (o come lo chiama Papa Francesco "Pena di Morte Nascosta") potrà visitare il sito www.carmelomusumeci.com. Le scrivo per domandarle, come ho fatto anche con il direttore del Corriere della Sera, perché dopo le parole del 23 ottobre alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale di Papa Francesco, "Nel Codice penale, del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta" non s’è aperto nel nostro paese nessun dibattito politico e mediatico? Eppure quando in Calabria papa Francesco ha parlato di scomunicare i mafiosi, i professionisti del carcere duro e i media hanno parlato e scritto per giorni. Anche per questo la redazione di "Ristretti Orizzonti", rivista realizzata da detenuti e volontari dal carcere di Padova, ha pensato di pubblicare per il mese di dicembre un numero speciale sulle ultime dichiarazioni di Papa Francesco, dedicandogli anche la copertina. Direttore, ho pensato di farle qualche domanda per pubblicare le sue eventuali risposte nel nostro numero speciale di dicembre. Ci sono giovani ergastolani disposti a pagare per i loro sbagli nati nel profondo sud, dove le regole per sopravvivere le devi imparare dalla strada, non dalla scuola. Ragazzi entrati in carcere giovanissimi, che non avrebbero mai immaginato di vivere l’incubo delle bande di strada e del conseguente carcere a vita. Questi ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio non usciranno mai dal carcere, se non da morti, pur avendo scontato già oltre 20 anni di pena. E molti di loro non vogliono collaborare con la giustizia per non mettere nei guai se stessi e i loro famigliari. Direttore, non crede che per loro non ha senso una pena che non ha mai fine? Io dico spesso ai miei compagni di sventura che oggi gli ergastolani ostativi ai benefici hanno molte meno possibilità di finire la loro esistenza vicino ai nostri cari di quanto avevano gli internati nei campi di concentramento nazista (è vero che però loro non avevano commesso nessun reato). Mentre loro avevano la speranza che con la sconfitta della Germania i vincitori li avrebbero liberati, noi non abbiamo nessuna speranza perché nessuno verrà a liberare noi. E la cosa più disumana è che non ci ammazzano, ma ci tengono in vita perché un ergastolano con l’ergastolo ostativo non può fare altro che prepararsi a morire. Direttore, che ne pensa? A me sembra che la conseguenza della "non collaborazione" sia una pena troppo alta e sproporzionata. Cioè il togliere i benefici ai non collaboratori mi sembra una pena enorme, perché la "non collaborazione" non è un reato. Al limite potrebbero dire: "Se non collabori dovrai fare cinque anni in più" ma è inumano dire: "Se non collabori non uscirai mai". Senza speranza non si può migliorare, ma si può solo peggiorare, come sta capitando a me perché se continuano a dirci che siamo irrecuperabili, che siamo dei mostri, che siamo cattivi, poi ci crediamo e cerchiamo di esserlo davvero. D’altronde come si può migliorare una persona con una pena che non ha mai fine? Direttore, qual è il suo parere? Direttore Ezio Mauro, grazie se avrà il tempo, la voglia e il coraggio di rispondere. Buon lavoro un sorriso fra le sbarre. Giustizia: il disagio sociale non si cura con le manette di Maria Brucale Il Garantista, 20 novembre 2014 "Tor Scemenza", il titolo dell’editoriale di Marco Travaglio su "Il Fatto Quotidiano", lasciava sperare in una riflessione misurata sulla follia che si esprime quando il disagio diventa esasperazione e l’impellenza di bisogni mai soddisfatti rende l’altro estraneo e carnefice, reo dell’incessante lottare in difesa degli stessi bisogni, della stessa mesta umanità. "Chi ha la pancia vuota è molto più giustizialista di chi l’ha piena", dice Travaglio - "e guardandosi intorno in cerca dei colpevoli, li individua negli ultimi arrivati, sentendosi sempre penultimo di qualcun altro". Sana considerazione, saggia. Questo è il germe delle esplosioni di rabbia di Tor Sapienza. Non un odio autentico, radicato nel razionale, nella lucida opposizione a un male riconoscibile, nella individuazione consapevole di un colpevole. È l’identificazione del sé e la contrapposizione con l’altro, diverso dal sé. la depauperazione dei diritti dell’estraneo appannaggio dei propri. È la polverosa cantilena del: "vengono a mangiare il nostro pane"; la squallida, grigia scena dei capponi manzoniani, legati insieme per le zampe e diretti allo stesso patibolo ma capaci solo di beccarsi l’un l’altro e di ferirsi mentre la stessa disgrazia li accomuna. Questo è il germe anche - ha ragione Travaglio - del giustizialismo. Non dell’amore per lo giustizio, non dell’aspirazione alla legalità! Del giustizialismo. E il giustizialismo è un fenomeno malato. Un’esasperazione, anch’esso: la ricerca di un colpevole, uno, ad ogni costo; la possibilità di puntare il dito contro un male, la distruzione del quale offra l’illusione che una soluzione c’è. Ma l’individuazione del male è figlia adottiva della stessa tara: l’irrazionalità della pancia vuota. Quando le pance sono vuote è a loro che si deve parlare, le menti sono sopite, stanche, distanti. Gli istinti dominano, impellenti, rabbiosi e chiedono una gogna alla quale scagliare i propri sassi. E a loro parla Travaglio e offre pronto ristoro. Il nirvana è lo stesso di sempre, cerbero, il tintinnar di manette, pianto e stridore di denti. Purificazione. Il disagio sociale ha un volto: approda alla Camera la legge "salva ladri", così la definisce. Una legge che tende a moderare l’abuso della carcerazione preventiva e che, in sé, e mera espressione di principi costituzionali dal valore assoluto seppur trascurati al punto da costringere il legislatore ordinario a una specificazione ed a un chiarimento. Una legge della quale non ci sarebbe bisogno, in realtà, ove di quei principi fondamentali venisse fatta corretta e coerente applicazione, La misura cautelare in carcere è, infatti, nel nostro ordinamento estrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Per dirlo con le parole di Papa Francesco: la carcerazione preventiva, "quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto", costituisce "un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità". E ancora: "Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte". Ed è solo una patina di legalità che sorregge la custodia in carcere quando al giudice che dovrebbe applicarla appare chiaro che la pena eventualmente irrogata in caso di condanna dovrà essere sospesa (una delle ovvietà introdotte dalla "salva ladri"). Che senso avrebbe mettere in carcere chi ancora deve essere giudicato se una volta dichiarato colpevole con sentenza deve essere scarcerato? La legge specifica il principio di residualità secondo cui la custodia cautelare in carcere può essere irrogata quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. Per i reati più gravi le soglio di accertamento delle esigenze cautelari rimangono immutate mentre, per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice debba indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. Qualora i vincoli imposti a chi è ristretto agli arresti domiciliari vengano violati, viene disposta la custodia in carcere. Una legge, dunque, quella che approda alla Camera che, assai lontana dal tare rivoluzioni normative, offre delle linee guida di adattamento a parametri costituzionali preesistenti e forse mai adeguatamente osservati. Una legge, pertanto, necessaria a fronte di due dati: la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri tutt’altro che risolta dalle normative di urgenza, blanda e inefficace risposta alla sentenza Torreggia-ni e alle sonore bacchettate inferte e promesse dall’Unione Europea; l’esistenza di un dato statistico circa la tendenza inversamente proporzionale tra ammissione a misure alternative al carcere e tasso di recidiva. In parole povero, spazio all’ovvio: se il carcere si prospetta come reinserimento e rieducazione, si riduce il rinnovato ricorso al crimine. Afferma, ancora, Travaglio che a un cittadino che veda qualcuno commettere un reato è difficile spiegare che "bisogna lasciarlo libero (magari a casa sua, senza controlli) per una decina d’anni, in attesa della fine delle indagini, dell’udienza preliminare, del processo in tribunale, in appello e in cassazione". E, allora, caro Travaglio, a chi venga colto in flagranza di reato, ricorrendone i presupposti di legge, potrà essere applicata anche una misura diversa dalla custodia in carcere, quale quella degli arresti domiciliari, non senza controlli ma con i consueti, rigorosi controlli che a tale misura sono correlati. E magari si eviterà l’atroce abuso del tenere in carcere per anni, in attesa delle esasperanti lentezze giudiziarie, chi non avrebbe mai dovuto entrarci; si alleggerirà la decomposizione delle patrie galere, la brutalizzazione di uomini, l’incancrenirsi della società. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, l’Ncd alza il tiro di Errico Novi Il Garantista, 20 novembre 2014 Dal giorno in cui l’Anm ha proclamato il suo "stato di agitazione", Rodolfo Sabelli non ha ancora avuto modo di confrontarsi direttamente col guardasigilli Andrea Orlando. L’incontro chiesto a gran voce dall’assemblea delle toghe ci sarà a breve: non è stato possibile organizzarlo la scorsa settimana perché il ministro era negli Usa, adesso è Sabelli a trovarsi lontano da Roma, ma è questione di ore. Non appena vedrà Orlando, il presidente dell’Associazione magistrati dovrà però fare un’amara constatazione: sulla responsabilità civile dei giudici il governo non si ferma. Era proprio la legge sugli errori giudiziari il vero snodo delle rivendicazioni dell’Anm, che non escludono il ricorso allo sciopero. Ma appunto, né Orlando né Renzi intendono fare retromarcia. Nonostante il parere con cui anche il Csm ha fatto a pezzi la legge, che da oggi sarà all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Orlando oltretutto ha già detto che neppure l’eventuale, clamoroso sciopero di giudici e pm gli farà cambiare idea. Quando la scorsa settimana ha fatto il suo primo intervento al nuovo Consiglio superiore, ha detto che un’astensione dal lavoro da parte dei magistrati non lo spaventa. "Mi fa più paura non riuscire a portare a casa una buona riforma della giustizia". Insomma c’è poco da fare. Soprattutto sul testo che modifica la legge Vassalli, cioè la disciplina della responsabilità civile dei magistrati. È impossibile che governo e maggioranza ci ripensino in particolare sul punto che più preoccupa le toghe: l’eliminazione del filtro di ammissibilità. Non è neppure lontanamente pensabile mettere in discussione quel passaggio, anche perché oltre alla determinazione di premier e guardasigilli c’è ora la presa di posizione molto netta del Nuovo centrodestra. Non è la prima volta che il partito di Alfano apre una dialettica col governo sulla riforma della giustizia. È già successo alla Camera con alcuni aspetti della norma sull’auto-riciclaggio, limata in seguito ai rilievi dei deputati dell’Ncd. Adesso è il capogruppo al Senato Maurizio Sacconi a farsi sentire. Ieri c’è stato un primo briefing a Palazzo Madama (ce ne sarà un altro stamattina), al quale sono intervenuti il ministro Orlando, il suo vice Enrico Costa e i vertici di tutti i gruppi di maggioranza. Compreso Sacconi, che ha rilanciato alcune proposte di modifica del suo partito. Su una peraltro ci sarebbe anche la disponibilità del guardasigilli: si tratta dell’inserimento delle nuove norme sulla responsabilità erariale. In realtà Orlando aveva già dato parere favorevole in commissione Giustizia. Poi il capo delegazione Pd Beppe Lumia e i Cinque Stelle avevano affossato l’emendamento. Ieri peraltro il presidente dei dem al Senato Luigi Zanda ha ribadito le perplessità. E Sacconi è sbottato: "La linea di cambiamento trova molto d’accordo noi e Renzi, ma pare ci siano problemi tra Renzi e il Pd". Il capogruppo dell’Ncd si è rimesso a "un’intesa nell’ambito del governo" ma chiede nello stesso tempo che "siano ascoltare le nostre ragioni". Sarà più difficile far passare un’altra modifica invocata dagli alfaniani e condivisa dal relatore della legge, il socialista Enrico Buemi: l’inserimento delle decisioni difformi dagli orientamenti della Cassazione a sezioni unite tra i motivi che possono dar luogo ad azione di responsabilità. Qui Orlando non intende fare concessioni. Carlo Giovanardi, altro senatore Ncd della commissione Giustizia, tornerà alla carica: "Se un cittadino, magari un imprenditore, affronta un costoso giudizio e fa affidamento su una consolidata giurisprudenza della Cassazione, cosa deve pensare se si trova davanti un giudice che si regola in modo opposto? È giusto che la decisione del magistrato sia accompagnata da una chiara motivazione". Non solo il ministro darà parere contrario in proposito, ma ha già chiesto esplicitamente di modificare l’articolo 2 nella parte in cui sancisce la punibilità di un giudice anche per provvedimenti di custodia cautelare emessi "fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza specifica e adeguata motivazione". Secondo Orlando bastano già i principi generali stabiliti nel resto dell’articolato: questo dettaglio scomparirà. Ma sul resto la linea resterà ferma. Anche grazie all’atteggiamento puntiglioso degli alfaniani, che offrirà al governo uno scudo in più per respingere gli assalti dell’Anm. Giustizia: il Sottosegretario Ferri; borseggi e furti casa manterranno una "pena certa" Ansa, 20 novembre 2014 "Borseggi, furti con strappo, furti in abitazione, sono reati gravissimi che rimangono puniti con severità, per cui va garantita la certezza della pena. Il decreto legislativo, su cui sta lavorando il ministero della giustizia, non interviene su queste ipotesi di reato". Lo ha chiarito il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, intervenendo a Uno Mattina. "Il provvedimento che dovrà essere emesso a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014", cioè la norma sulla messa alla prova per favorire il ricorso alle misure alternative al carcere, "riguarda altri casi isolati e lievi: per fare un esempio, il furto semplice di una scatoletta di tonno, di uno spazzolino da denti", ha spiegato Ferri. La legge 67/2014, infatti, rimanda al governo per il decreto legislativo che dovrà definire irrilevanza del fatto e non punibilità. Ma interverrà su condotte che "oggi sono punite con una pena che va da 6 mesi a 3 anni di reclusione. Con l’entrata in vigore del decreto, qualora l’episodio sia ritenuto occasionale (cioè, prima ed unica volta), di lieve entità (cioè, se non sussistono le aggravanti), sempre sentita la persona offesa (coinvolgendo quindi chi ha subito il danno, che potrà comunque e sempre chiedere di essere risarcito in sede civile), il fatto può essere ritenuto non punibile penalmente. Occorre quindi non fare confusione - ha concluso Ferri -: obbiettivo di tutti è garantire sicurezza, legalità e certezza della pena". Giustizia: il Senato avvia l’esame del ddl sulla responsabilità civile dei magistrati 9Colonne, 20 novembre 2014 Il Senato ha avviato stamattina l’esame dei ddl sulla responsabilità civile dei magistrati, che rendono effettiva la disciplina della responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. La Commissione Giustizia ha soppresso l’articolo 1, concernente le attribuzioni della Corte di cassazione, escludendo forme di responsabilità diretta dei magistrati. L’articolo 2 ridefinisce la colpa grave, che consiste nella violazione manifesta della legge e del diritto della Ue, il travisamento del fatto e delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è esclusa dagli atti del procedimento, l’emissione di un provvedimento cautelare fuori dai casi consentiti dalla legge. Una clausola di salvaguardia esclude che possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove. L’articolo 5 disciplina l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato: il Presidente del Consiglio, entro due anni dal risarcimento, ha l’obbligo di esercitarla nel caso di diniego di Giustizia ovvero nei casi in cui la violazione della legge e del diritto comunitario, o il travisamento del fatto o delle prove, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile. La misura della rivalsa non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio. Giustizia: Cassazione; l’estradizione per mandato d’arresto Ue blocca l’appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2014 Ormai il giudizio in contumacia è pressoché sparito dal nostro ordinamento processuale dopo la riforma della scorsa primavera. E allora non può essere negata la consegna dello straniero all’autorità giudiziaria del suo Paese, sostenendo che, dovendo già sostenere un processo in Italia per altri fatti, verrebbe a essere leso il suo diritto di difesa. A questa conclusione approda la Cassazione con la sentenza 47594 della Sesta sezione penale, depositata l’altro ieri. È stato così respinto il ricorso presentato dalla difesa di un cittadino rumeno contro la decisione della Corte d’appello di Catania che, sollecitata dal mandato d’arresto europeo spiccato dal tribunale di Bucarest per l’esecuzione di una condanna a cinque anni di carcere per di tentato omicidio aggravato, aveva autorizzato la consegna. Il cittadino rumeno è però soggetto in Italia anche a un altro procedimento penale, nell’ambito del quale ha già ricevuto una condanna in primo grado da parte del gip di Ragusa a un anno e sei mesi per 0 reato di illecita detenzione di arma da sparo clandestina. Tra i motivi di impugnazione fatti valere dalla difesa, trovava posto anche il fatto che la consegna alla magistratura rumena avrebbe determinato, tra l’altro, una situazione in cui sarebbe stato compromesso il diritto di difesa nell’ambito del processo d’appello da celebrare in Italia. La Cassazione non è stata però di questo avviso e ha chiarito che non si prospetta alcuna lesione del diritto di difesa, dal momento che, soprattutto per effetto della legge 67/2014. l’istituto della contumacia ha ricevuto una "sostanziale espunzione dall’ordinamento processuale penale", con la previsione della possibilità di procedere al giudizio penale in assenza dell’imputato solo entro determinati e assai rigorosi limiti. E allora, fatta salva l’eventualità che il cittadino rumeno, a conoscenza del processo italiano che lo riguarda, rinunci espressamente ad assistere al giudizio di appello, la sua detenzione in Romania rappresenta senza dubbio una causa di legittimo impedimento a comparire da parte dell’imputato. Con la conseguenza che il giudizio di appello pendente a suo carico non potrà essere celebrato in sua assenza e dovrà essere sospeso sulla base del nuovo articolo 420 quater del Codice di procedura penale. Sospensione che sarà esecutiva per tutta la durata della detenzione dell’interessato. La Cassazione chiarisce anche che fare valere i precedenti giudiziari italiani per accreditare la residenzialità (ostacolo previsto dalla legge alla consegna) è controproducente: i trascorsi penali, infatti, contraddicono alla radice le finalità di recupero sociale che stanno alla base dell’ostacolo di legge alla consegna. Giustizia: in carcere il trend dei suicidi torna a crescere, gli psichiatri lanciano l’allarme Adnkronos Salute, 20 novembre 2014 Tornano ad aumentare i suicidi nelle carceri italiane. "Se nel 2013 erano scesi al 30% sul totale cause di morte fra i detenuti, la previsione per il 2014 è un ritorno al dato storico del 40%: 2 decessi su 5 in carcere avvengono per suicidio". Lo segnalano il presidente della Società italiana di psichiatria Emilio Sacchetti e il past president Claudio Mencacci, impegnati oggi e domani a Rimini nella Conferenza monotematica Sip "Mens sana in corpore sano: il benessere come standard di cura in psichiatria". "Disturbi dell’umore, d’ansia, psicotici e di personalità" sono i problemi di salute mentale più frequenti tra i circa 54mila ospiti degli istituti penitenziari della Penisola. Malattie che il più delle volte non nascono in carcere - precisano gli esperti - ma che in carcere possono acutizzarsi e peggiorare soprattutto a causa della difficoltà di screening diagnostici e assistenza mirata". "In ogni regione sono attivi gruppi di prevenzione - sottolinea Mencacci - ma per il suicidio esiste sempre una certa quota di imprevedibilità" e "non si esclude che i dati in materia cambino anche per fluttuazioni casuali", aggiunge Sacchetti. Quel che è certo, purtroppo, "è che in genere in carcere i detenuti trovano tutto ciò che serve per togliersi la vita o anche solo per provarci. Capita infatti che alcuni siano suicidi per errore, nati come richiesta d’aiuto che poi sfocia in tragedia". L’obiettivo della Sip è "portare davvero, a 360 gradi, l’assistenza psichiatrica nelle carceri con un focus sulla prevenzione dei suicidi", spiega Mencacci. Un intervento che "dovrebbe garantire almeno i livelli assistenziali offerti ai pazienti in libertà, altrimenti le celle rischiano di trasformarsi in una polveriera pronta a esplodere", avverte Sacchetti. Ma per un’assistenza costante ed efficace "non basta inviare in carcere per qualche ora gli psichiatri dei servizi territoriali, così come avviene oggi. A causa della carenza negli organici, infatti, si finisce per destinare a questo compito i colleghi più deboli, con poca esperienza e contratti temporanei. Dovremmo invece disporre di personale dedicato". Un pool ad hoc, conclude Mencacci, "in grado di iniziare in carcere un percorso pilotato per il recupero di questi pazienti e l’inserimento nei servizi specializzati una volta terminato il periodo di pena. È questo l’unico modo per non perderli e riportarli alla vita". Giustizia: psichiatri; con chiusura Opg ad aprile 2015 rischio caos, creare Commissione Adnkronos, 20 novembre 2014 Appello Sip a Camere e Governo, fissare regole condivise o sistema implode. Il primo aprile 2015, addio Opg. Niente più possibilità di proroga per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma "ancora non c’è nulla di pronto". Non solo: "Ci chiedono di svuotarli però continuano a riempirli, con 89 ingressi da giugno a settembre contro 70 uscite. Abbiamo una legge buona in una realtà pessima, e senza fissare dei punti fermi si rischia il caos". A lanciare il monito sono Emilio Sacchetti e Claudio Mencacci, presidente e past president della Società italiana di psichiatria, che chiederanno "alle commissioni competenti di Camera e Senato e al ministero della Salute l’istituzione di una Commissione nazionale multidisciplinare, che comprenda anche figure specialistiche del mondo medico, con il compito di definire regole condivise con politica e magistratura". "Negli Opg si stima la presenza di 100-300 pazienti definiti problematici", osservano i due esperti in occasione della Conferenza monotematica Sip "Mens sana in corpore sano: un ritorno al futuro". "Ma dove andranno questi malati? Verranno affidati ai nostri servizi territoriali e alle nostre cliniche ospedaliere, ma il problema è che lo decideranno i magistrati. E se in base a quanto previsto dal codice penale nei cosiddetti casi di pericolosità sociale il magistrato disporrà un ricovero poniamo di 3 anni in clinica psichiatrica, cosa succederà? Per questi pazienti sarà peggio del carcere, vivranno situazioni di conflittualità continua con il pericolo di essere sovra-medicalizzati. È una prospettiva che non possiamo avallare", ammonisce Sacchetti, direttore del Dipartimento di salute mentale Spedali Civili, università di Brescia. Contro il rischio che il sistema imploda "chiediamo una programmazione, e chiediamo di poter partecipare a decisioni che ricadono sul nostro lavoro", incalza il numero uno della Sip. "Il nostro obiettivo, che sono convinto sia anche quello della magistratura - aggiunge Mencacci - è che possano essere garantite cure adeguate a chiunque ne abbia bisogno. Ma noi siamo psichiatri e vogliamo poter curare, non dover custodire". Di più: "Vogliamo curare i malati, non i delinquenti. Oggi - avverte infatti lo specialista - c’è il pericolo concreto che un sistema di regole spesso poco chiaro si trasformi in una breccia aperta alle infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Alcune stime - ricorda Mencacci - parlano di oltre un centinaio di esponenti della camorra e della ‘ndrangheta che hanno utilizzato il canale psichiatrico per depenalizzare i propri reati o ottenere sconti di pena. Tutto questo non dovrà più succedere e per mettere i paletti serve un’alleanza con le istituzioni". Giustizia: Antigone; una petizione europea sui numeri identificativi per forze dell’ordine Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2014 Una direttiva europea che imponga agli stati membri di adottare i numeri di identificazione per gli agenti delle forze dell’ordine. È questo l’obiettivo di una petizione a livello europeo promossa dall’associazione European Democratic Lawyers e indirizzata al Commissario Europeo, alla Commissione Europea e alla Sottocommissione per i Diritti Umani del Parlamento Europeo. La campagna ha l’obiettivo di raccogliere il numero più alto possibile di firme in tutti gli stati membri entro febbraio 2015, quando sarà presentata alle autorità europee. In molti paesi membri dell’Ue, etichette con i nomi o numeri identificativi non sono inserite nelle uniformi della polizia, così è in Italia, in altri Paesi possono essere nascoste, ad esempio durante le attività di controllo dell’ordine pubblico. La direttiva consentirebbe di scongiurare la violazione dei diritti fondamentali, garantire i diritti di difesa durante i procedimenti penali, l’indipendenza del potere giudiziario e il suo ruolo di controllo, così come bandire dalla vita di tutti i giorni l’impunità di azioni criminali dei poliziotti e dei loro superiori amministrativi e politici. "L’Italia su questo terreno è particolarmente indietro e nel corso degli anni tutte le iniziative intraprese per introdurre il codice identificativo sulle divise degli agenti delle forze dell’ordine, così come quelle volte ad introdurre il reato di tortura nel codice penale, si sono arenate per le resistenze dei componenti delle stesse e di molti partiti" dichiara il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. "Superare queste resistenze interne nei singoli paesi, tramite una direttiva europea, può essere in tal senso un’occasione per fare un passo avanti verso la tutela dei cittadini e della loro libertà di partecipazione e mobilitazione, così come verso la tutela dei molti agenti delle forze dell’ordine che si comportano con senso del dovere e nel rispetto dei diritti umani". Lettere: la giustizia in polvere di Gad Lerner La Repubblica, 20 novembre 2014 La mala-polvere che lacera i polmoni ieri, nel palazzo della Cassazione, ha inferto una ferita sanguinante all’intera giustizia italiana. Mi sento stupido a scrivere di amianto, adesso. Perché tre anni fa c’ero anch’io, monferrino d’adozione, a confidare nel diritto e quindi a implorare l’allora sindaco di Casale Monferrato affinché rifiutasse i 18,3 milioni di euro che l’imputato miliardario Stephan Schmidheiny gli offriva come transazione purché rinunciasse a costituirsi parte civile nel processo Eternit, al fianco di tremila famiglie. Ci sembrava una mancia offensiva, quella somma, meno della liquidazione di un manager, quota infinitesimale dei profitti miliardari accumulati quando già si sapeva che lo stabilimento intorno a sé spargeva una mala polvere mortale. Avremmo fatto meglio a incassarli - sporchi, maledetti e subito - quei soldi, da un signore svizzero resosi irraggiungibile, dotato di ottimi avvocati e potere extraterritoriale abbastanza per rendersi indisponibile anche solo a un interrogatorio? Davvero tocca rassegnarsi alla giustizia del più forte? Il fatto è che a Casale e nelle verdi colline del Monferrato ne abbiamo visti morire troppi di mesotelioma pleurico, rapiti da una malattia che sopraggiunge improvvisamente colpendo a casaccio fra coloro che anni prima avevano respirato quelle fibre cancerogene, sparse dovunque, a riempire i sottotetti o a imbiancare l’aia della cascina. La strage è fatta di nomi e di volti familiari, non c’è abitante di Casale Monferrato che non ne custodisca almeno uno cui rispondere. Bisognava incassare la mancia e rassegnarsi? Cosa avrebbero detto del "patto col diavolo", della transazione Schmidheiny, il mio collega Marco, direttore del giornale locale; o il mio formidabile amico Renzo, vignaiolo, alpino e maestro nella caccia al cinghiale? Come avremmo potuto guardare ancora in faccia Romana Blasotti Pavesi che ha perso un marito, una sorella, una figlia e due nipoti? Potrei continuare con migliaia di nomi… La dignità esemplare con cui i familiari delle vittime hanno costruito un’associazione rispettosa del diritto, fiduciosa nella giustizia, capace di assumere il ruolo di capofila internazionale nella campagna per la messa fuorilegge dell’amianto, ieri ha subito un’offesa che ci fa sentire, come minimo, ingenui. Umiliati. Possibile che si sia svegliato all’ultimo minuto prima della sentenza decisiva il procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, nel sostenere in punta di diritto che un disastro ambientale non si consumerebbe a lungo nel tempo? Davvero può fermarsi al 1986 la colpa dell’imprenditore beneficiato di ignominiosa prescrizione, quando la scia di morte ha trascinato via con sé migliaia di vittime nei ventotto anni successivi, e ancora non si arresta? Non suona forse macabro addebitare alle pubbliche istituzioni la responsabilità successiva, riguardante il divieto all’uso dei materiali velenosi e la mancata bonifica, scagionando chi per convenienza economica, pur sapendo, non fermò subito la produzione? Schmidheiny ha assoldato società di pubbliche relazioni per presentarsi come ambientalista coscienzioso, vittima di una giustizia italiana prevenuta. Intanto sfuggiva a ogni confronto con il territorio violentato dalla sua azienda. Sarebbe stato lecito aspettarsi come minimo da parte sua un cospicuo finanziamento alla ricerca medico-scientifica che tuttora annaspa, povera di fondi, nel tentativo di trovare una cura per il mesotelioma. Invece ha tentato solo il trucco meschino, lo scambio utilitaristico giocato a ridosso della prima sentenza di Torino, quando ha intuito la mala parata: una manciata di soldi in cambio dell’immunità. Cavarsela a buon mercato, di fronte a magistrati che i suoi depistaggi non erano riusciti a fermare. Ci ha pensato la Cassazione, infine. I calcoli di Schmidheiny sulla malagiustizia italiana erano ben riposti, purtroppo. La legge del più forte ha prevalso sulla sofferenza di una comunità civile che per anni ha continuato a inalare le fibre cancerogene della sua Eternit. Nelle alte sfere multinazionali, quelle particelle affilate che lacerano i polmoni non arrivano mai. Il disastro per lui si è fermato al 1986, prescritto. Quel che è successo dopo sono affari del Monferrato. Fesso chi ha creduto, in Italia e nel mondo, che il Codice penale non potesse ignorare gli effetti ritardati dell’amianto. Lettere: dal "malore attivo" al suicidio sciatto… di Domenico Bilotti www.approccicritici.it, 20 novembre 2014 Viene da dare ragione a una vecchia canzone di Francesco De Gregori… resta soltanto quel segno di gesso per terra, però non c’è nessun colpevole. Sono passati oltre cinque anni da quando Stefano Cucchi è morto, portandosi dietro visibili segni di denutrizione e maltrattamenti fisici anche gravi. Il 31 ottobre è stato stabilito che non fosse colpevole dell’accaduto nessuno degli imputati. Ed è bene chiarire che la giustizia non si nutre dello scalpo dei colpevoli: è un macabro vanto che si lascia agli Stati, democratici e non, che ancora utilizzano la pena di morte come ipotesi punitiva. Quella stessa giustizia, però, non può certamente sorreggersi sui cadaveri delle vittime e sulla circostanza per cui, non arrivandosi a nessuna verità, tanto vale non cercarla, non perseguirla e sbattere questo niet in faccia a chi la ha ricercata, voluta, sperata, quasi pregata. Come estrema restituzione ai familiari e a una vittima che, anche da vittime, conservano il diritto a che si sappia di come si muore, perché si muore e cosa lo abbia reso possibile. Incolpevoli, invece, infermieri, poliziotti, medici (questi ultimi, gli unici condannati in primo grado e anche questa, date le circostanze, era parsa a dir poco una stranezza, essendo ovvio che, persino fossero invece stati ritenuti tutti colpevoli, un conto è l’incuria, un conto è il pestaggio, un altro ancora, emulando i penalisti, è la causa dell’evento morte). Certo è che non si può morire di carcere e coperti di ematomi, per poi scoprire, dalle aberranti parole che si sono sentite, che Stefano Cucchi si era cercato la sua fine e tanto basta… Un po’ d’ordine per cortesia. E non basta dire che, nella prassi giurisprudenziale, sempre di più l’insussistenza del fatto ha coperto per intero l’area della vecchia insufficienza di prove: antico e giusto salvacondotto del dubbio, se e solo se non diviene misura pilatesca e totalmente discrezionale. Si è detto che la formulazione dell’imputazione, tecnicamente evanescente, ha facilitato un verdetto incredibile. Si è detto che la pronuncia di primo grado, proprio per le sue lacune in sede di accertamento delle responsabilità, non ha fatto altro che facilitare un esito grottesco. Se ne son dette di tutti i colori. Nel nostro piccolo, vogliamo aggiungerne una: Stefano Cucchi non sarebbe dovuto essere in carcere. Non doveva trovarsi ancora in custodia cautelare, quando già in udienza aveva dimostrato di essere malcerto nei movimenti minimi, instabile, pesto. Non lo giustificava la pericolosità della condotta censuratagli. A maggior ragione non lo avrebbe consentito il vedere un giovane, entrato in precarie condizioni fisiche, ma senza ecchimosi, fratture e lesioni, ripresentarsi davanti al suo giudice ancor più macilento, infortunato e precario. Si muore ovunque in questa Italia: per ingiustizia, per ragioni che non si possono o non si vogliono spiegare. A volte la cronaca ci dice che dalle parti di Regina Coeli si muore senza perché. Succede spesso, in Italia: a volar da un balcone o ristretti in istituti di pena, la colpa della morte è sovente addossata a chi ha il torto supremo di morire nell’innocenza. Como: detenuto si impicca, terzo suicidio in poco più di un mese nel carcere del Bassone Ansa, 20 novembre 2014 Terzo suicidio in poco più di un mese nel carcere del Bassone a Como. Questa mattina si è tolto la vita Massimo Rosa, 63 anni, che nel luglio scorso uccise l’anziana madre malata con un colpo di pistola a Erba. Rosa è stato trovato senza vita in infermeria, dove era detenuto per motivi di salute. L’uomo aveva sempre vissuto con il fratello e l’anziana madre inferma: quest’estate aveva sparato alla donna, 83 anni e, come aveva ammesso davanti al giudice, aveva pensato di uccidersi già allora. Ma la vista del fratello gli aveva fatto cambiare idea. Rosa era in attesa di giudizio: sarebbe stato giudicato con rito immediato. Comunicato del Sappe Ancora il suicidio in carcere di un detenuto. Ed è il secondo in un carcere italiano, dopo quello di ieri a Fossombrone. È accaduto ieri mattina a Como e protagonista è stato un detenuto italiano di 60 anni, ristretto per omicidio, che si è impiccato con un laccio artigianale alla finestra del bagno della sua cella presso l’Infermeria del carcere. Ne da notizia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: "L’ennesimo suicidio di un altro detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di là del calo delle presenze. Si pensi che questo è il terzo suicidio di un detenuto a Como in soli due mesi: gli altri due erano avvenuti a metà e fine ottobre". Il sindacalista del Sappe sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". Capece ricorda che nello scorse settimane, in occasione di una visita ad alcune carceri regionale, il Sappe aveva denunziato che ogni giorno nelle carceri lombarde almeno due detenuti si lesionano il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo. E ogni settantadue ore, un ristretto della Lombardia tenta il suicidio, salvato in tempo dal tempestivo intervento delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria: "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2014 nelle carceri della Lombardia si sono contati il suicidio di un detenuto, 441 atti di autolesionismo, 54 tentati suicidi, 192 colluttazioni e 56 ferimenti. Il SAPPE, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, sottolinea: "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Como - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità del Paese". Fossombrone (Pu): suicidio in carcere, il Garante dei detenuti scrive al Ministro Orlando Corriere Adriatico, 20 novembre 2014 Il Garante dei diritti dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha inviato oggi una lettera al Ministro della Giustizia Andrea Orlando nella quale chiede di "assumere tutti i provvedimenti e le misure di tutela necessari per porre fine a una situazione di degrado che appartiene non solo al carcere di Fossombrone, ma anche ad altre realtà delle Marche". L’appello dell’Ombudsman segue al suicidio di un detenuto avvenuto nel carcere di Fossombrone (Pu) venerdì scorso. "Due suicidi nell’arco di poche settimane e un episodio di tentato incendio in una delle celle, con l’intervento della polizia penitenziaria e dei vigili del fuoco che ha scongiurato il peggio" - scrive Tanoni nella lettera. "Il supercarcere di Fossombrone - prosegue - è stato in precedenza oggetto di una mia personale e dettagliata denuncia". Le criticità e i problemi di questa struttura erano stati segnalati al Guardasigilli in una comunicazione dello scorso 10 ottobre, alla quale era stato allegato un esposto firmato dai reclusi. "Nell’appello e nella richiesta di intervento sottoscritta da oltre cento detenuti, venivano denunciate situazioni a cui dovevano essere date adeguate risposte. Gli esiti di quel grido di allarme lanciato alle nostre autorità sono sotto gli occhi di tutti". La casa di reclusione di Fossombrone, costruita alla fine dell’800 e classificata di "massima sicurezza", ospita mediamente 170 detenuti. Al suo interno ci sono ristretti "fine pena mai" in alta sorveglianza e ristretti comuni, condannati per delitti gravi contro la persona e il patrimonio. Nella lettera, che sarà trasmessa per conoscenza anche ai vertici nazionali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’Ombudsman sollecita interventi "anche in altre realtà penitenziarie delle Marche, come Fermo e Camerino, in cui i detenuti sono relegati in strutture del tutto fatiscenti". Napoli: è morto il detenuto Luigi Bartolomeo. I familiari denunciano "curato in ritardo" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 20 novembre 2014 Non ce l’ha fatta, è morto. Il detenuto Luigi Bartolomeo, di 46 anni, ha cessato di vivere nella sala di rianimazione dell’ospedale Loreto Mare di Napoli dove era stato ricoverato il 22 ottobre scorso. A darne notizia è stato Pietro loia, portavoce ex detenuti organizzati di Napoli. Sulla vicenda la Procura di Napoli ha aperto una inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio. La procura disporrà l’autopsia, chiesta anche dall’avvocato Michele Capano, legale della famiglia Bartolomeo messo a disposizione dal partito Radicale. Luigi Bartolomeo era in cella in gravi condizioni e, secondo i familiari, sarebbe stato portato al pronto soccorso in forte ritardo. Dopodiché fu portato urgentemente alla sala rianimazione, e da quel giorno una lunga agonia durata un mese. Tantissime le ombre. Pare che sarebbe stato picchiato da due uomini del quartiere, mentre era ai domiciliari. Bartolomeo, in seguito, sarebbe stato tratto in arresto perché avrebbe lasciato l’abitazione dove era confinato. Secondo il legale è in quel momento che non c’è nessuna chiarezza. Lo dice in un’intervista condotta dal giornalista Fabrizio Ferrante della pagina d’informazione Espressonline.net che ha seguito fin dall’inizio la vicenda: "Un punto cruciale in tutto questo panorama fatto di congetture, però, resta: ovvero il livello di assistenza sanitaria che ha ricevuto. Se lui era in condizioni tali da finire in coma o comunque in rianimazione, queste condizioni sono precipitate all’indomani della convalida dell’arresto. Se disse all’avvocato Giuliano che non poteva parlare, vuol dire che era in una situazione tale, che quando era in carcere è precipitata. Situazione che non è stata, quanto meno, verificata adeguatamente quando è entrato a Poggioreale. Questo è previsto e quindi, nel caso, sarebbe dovuto andare in ospedale senza passare dal carcere o per lo meno doveva essere curato nel centro clinico San Paolo, dove fu trasferito solo dopo l’iniziale detenzione nel padiglione Roma, per i suoi problemi di tossicodipendenza. Tanto più è vero questo, quanto più è vero che gli agenti non c’entrano nulla con le sue condizioni". Rimane dunque un alone di mistero circa le eventuali responsabilità del suo decesso. Se il detenuto stava effettivamente già male all’ingresso del carcere, non si spiega perché non fu portato subito all’ospedale. Oppure, ipotesi più inquietante, il detenuto non stava male e quindi qualcosa sarebbe accaduto all’interno del carcere di Poggioreale. La Procura, per far luce su questi interrogativi, ha aperto un’inchiesta. Sit-in familiari davanti Tribunale I familiari di Luigi Bartolomeo, il detenuto morto ieri all’ospedale Loreto Mare dove era stato trasferito nelle scorse settimane dal carcere di Poggioreale, hanno organizzato oieri un sit-in davanti all’ingresso del Palazzo di Giustizia, al Centro Direzionale, per chiedere che venga fatta luce sulle cause del decesso e che siano individuati gli eventuali responsabili. All’iniziativa hanno preso parte anche Pietro Ioia, presidente dell’associazione ex detenuti organizzati, e l’avvocato Michele Capano, della direzione dei Radicali Italiani e legale della famiglia Bartolomeo. Il penalista ha sottolineato che la vicenda ripropone la questione della dignità dei detenuti, evidenziando come ai familiari non sia stato mai concesso di poter vedere il congiunto - che era ricoverato nel reparto rianimazione - sia durante l’agonia sia dopo la morte. L’avvocato ha inoltre affermato che occorre accertare cosa sia successo nell’arco di tempo che separa l’ingresso in carcere dalla decisione di disporre il ricovero in carcere: in particolare, si deve stabilire se le condizioni siano peggiorate nel corso delle ore o se già al momento dell’entrata a Poggioreale le condizioni di salute non erano compatibili con la detenzione in carcere. Ciò, ha precisato il legale, al di là delle cause delle lesioni che presentava il detenuto e che potrebbero essere state causa della morte. In un primo momento i familiari avevano puntato l’indice contro le forze dell’ordine che avevano eseguito l’arresto, successivamente testimoni riferirono che l’uomo, mentre era agli arresti domiciliari in casa, era stato aggredito e malmenato da due conoscenti del suo quartiere, Ponticelli, mandati dalla sue ex convivente. Sulla vicenda la procura di Napoli ha aperto una inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio. La procura ha disposto l’autopsia, alla quale parteciperanno anche consulenti indicati dalla famiglia. Oristano: Socialismo Diritti Riforme "gravi carenze nell’assistenza sanitaria ai detenuti" Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2014 "Non c’è solo il problema del sovraffollamento nel carcere di Oristano-Massama, dove sono ristretti 300 detenuti, oltre 240 dei quali in regime di alta sicurezza, distribuiti in 5 sezioni. Le preoccupazioni riguardano l’assistenza sanitaria inadeguata a garantire pienamente il rispetto del diritto costituzionale alla salute". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha ricevuto diverse segnalazioni da detenuti e familiari in merito. "A due anni dalla inaugurazione del "Salvatore Soro" - sottolinea Caligaris - l’assistenza sanitaria non è ancora soddisfacente. Basti pensare che il riunito odontoiatrico è diventato operativo poco meno di un anno fa, dopo che sono stati predisposti gli impianti elettrici e le necessarie strumentazioni. È però ancora irrisolto il problema di garantire a quanti lo richiedono il dentista per l’implantologia o le cure. Il risultato è che la maggior parte degli interventi dello specialista odontoiatrico della Asl, nelle poche ore in cui è disponibile, si risolvono con la distribuzione di antidolorifici, antibiotici e/o estrazioni dentarie anziché garantire le pratiche conservative ed è praticamente impossibile ricorrere a un dentista privato". "Appare infatti paradossale che l’Azienda Sanitaria Locale, per consentire a un dentista privato di utilizzare la dotazione strumentale, richieda una fideiussione di 25 mila euro e pretenda il 30% su ciascuna prestazione per l’utilizzo della poltrona odontoiatrica e della relativa strumentazione laddove la Asl non deve sostenere spese in quanto risultano a carico dell’amministrazione penitenziaria. Non solo, ciascun professionista - evidenzia la presidente di SDR - deve portare la strumentazione medicale". "L’inadeguatezza delle cure sanitarie sta accentuando le tensioni tra i detenuti soprattutto tra gli oltre 40 condannati all’ergastolo che, nonostante abbiano diritto alle celle singole, sono costretti a condividere la stanza con altre due/tre persone. Nelle ultime settimane molti si sono rifiutati di accogliere il terzo letto con il risultato che sono stati sottoposti a provvedimenti disciplinari. Il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, e quindi alle diverse Asl territoriali, non ha prodotto gli effetti sperati. Anzi al contrario la condizione appare notevolmente peggiorata. È quindi indispensabile - conclude Caligaris - un intervento chiarificatore da parte dell’assessorato regionale della salute anche perché le problematiche sono differenti nelle diverse realtà a testimonianza del fatto che è assente una linea unitaria per garantire il rispetto del dettato costituzionale". Ferrara: Rinaldi (Sel); percorsi educativi per detenuti, investire nel reinserimento sociale www.estense.com, 20 novembre 2014 Si è conclusa il 18 novembre l’iniziativa organizzata da Raffaele Rinaldi, candidato al consiglio regionale dell’Emilia Romagna nella lista Sel, dal titolo: "Libertà è partecipazione. Senza diritti siamo tutti detenuti". Dibattito che ha messo in rilievo la realtà carceraria: diritti privati e doveri sociali sono stati i temi al centro della riflessione, i poli intorno ai quali pensare un modello di giustizia "riparativa" che custodisce il senso della dignità personale e la possibilità di ricucire lo strappo con la città. È Leonardo Fiorentini a moderare e tenere il filo del dibattito che viene aperto da Daniele Lugli, ex difensore civico in Regione, che propone il tema dei diritti come possibilità di liberazione dal bisogno e dalle discriminazioni per esercitare a pieno la propria cittadinanza, la democrazia, la dignità. I diritti vanno sempre riconquistati perché, in alcuni momenti storici, possono essere non riconosciuti. Marcello Marighelli, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, declina il tema sulla realtà carceraria citando l’art 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" e descrive le misure alternative, non alla pena in generale ma soltanto alla pena detentiva. Si alza in piedi Davide Magno, ex detenuto e scrittore, e racconta la sua esperienza di carcerazione dando la sensazione di quanto cammino ci sia da fare ancora per umanizzare il periodo di detenzione chiosando "gli uomini non nascono invisibili ma lo diventano quando smettiamo di guardarli". Raffele Rinaldi arriva al dunque col ruolo della politica che deve misurarsi con questa fetta di umanità separata ai bordi della città, e a considerare con azioni concrete la "certezza della pena" come "certezza del recupero" investendo in percorsi educativi di reinserimento sociale per prevenire la recidiva e realizzare una ricucitura nel tessuto sociale. Oltre ad un risparmio in termini economici (un detenuto costa in media alla collettività circa 116 euro al giorno, meno della metà nelle misure alternative) ne risulta anche una carta vincente per le politiche della sicurezza. Molti detenuti pur rientrando nei termini della misura alternativa, non ne possono usufruire perché mancano associazioni, enti, cooperative sociali disposte all’accoglienza. Il compito educativo non può essere delegato totalmente all’istituzione carceraria, ma deve essere condiviso e agito anche dalla società civile. Sinistra Ecologia e Libertà proporrà in sede regionale la continuità di progetti regionali che vanno nella direzione della sensibilizzazione della cittadinanza, al fine di superare lo stigma che identifica la persona con il reato anziché col percorso che ha compiuto, e in particolare i progetti di reinserimento sociale. A livello locale lancerà l’appello agli enti locali la sottoscrizione di una convenzione per l’inserimento di persone nei termini delle misure alternative nei lavori di pubblica utilità a titolo gratuito. Alessandria: Commissione consiliare; il Garante dei detenuti, una figura utile per la città? di Giulia Gastaldo www.alessandrianews.it, 20 novembre 2014 Discussa in Commissione consiliare l’istituzione di una nuova figura all’interno dell’organico comunale. Si tratta del "Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Dalla minoranza qualche perplessità: "Garante o non garante è una responsabilità di tutti a maggior ragione di chi ricopre un ruolo di responsabilità all’interno delle istituzioni". Sono circa 500 le persone che si trovano attualmente detenute all’interno delle strutture penitenziarie di Alessandria, San Michele e Don Soria, "due città nella città", ed è proprio per porre particolarmente attenzione alla realtà carceraria ed ai legami che questa ha con la comunità cittadina, che l’amministrazione ha proposto, nel corso della Commissione congiunta Affari Istituzionali e Politiche sociali e sanitarie, l’istituzione della figura del "Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale" e del regolamento che ne consegue. "Quella che abbiamo in discussione oggi è un atto che è stato proposto ed istituito già da parecchi anni da diversi enti locali - ha spiegato l’assessore alla coesione sociale Mauro Cattaneo - Una scelta politica che negli anni, sempre più amministrazioni hanno deciso di intraprendere e che la giunta ha deciso di sostenere anche a seguito della sollecitazione da parte del garante regionale, l’onorevole Bruno Mellano all’adozione di questa figura da parte dei 15 centri del Piemonte presso cui hanno sede strutture penitenziarie". Perplessità da parte del consigliere del Popolo della Libertà, Teresa Curino che ha detto: "La figura del garante dei detenuti credo che nulla tolga e nulla aggiunga a quella che è già una responsabilità di una giunta di una città che ospita due strutture penitenziarie. Ritengo che un assessore con una delega a questo possa benissimo occuparsi della collaborazione, della tenuta di rapporti con gli istituti di detenzione che possono dare buoni risultati se vi è questa volontà. Garante o non garante è una responsabilità di tutti a maggior ragione di chi ricopre un ruolo di responsabilità all’interno delle istituzioni". Ma a sottolineare l’utilità della nuova figura istituzionale ci ha pensato il consigliere di maggioranza Mariarosa Procopio: "la figura del garante dei detenuti, in realtà, aggiunge qualcosa perché è una figura normalizzata e regolamentata. Avere una figura che ha un ruolo riconosciuto legislativo con degli impegni previsti da un regolamento sicuramente è un valore aggiunto che tra l’altro arriva in un momento storico particolare. A seguito, infatti, della condanna da parte della corte europea dei diritti ci sono stati dei decreti da gennaio ad oggi che hanno bisogno di figure istituzionali che facciano anche da collegamento tra le istituzioni che interagiscono tra loro in questo contesto. Esiste un garante nazionale dei detenuti, così come garanti regionali; il fatto di avere un garante comunale, consente, insomma, di entrare in quella rete di coordinamento prevista dalla legge". Avendo dato la votazione in commissione esito positivo (se pur con l’astensione degli esponenti di Fratelli d’Italia e Pdl), dopo l’approvazione in consiglio comunale, verrà emanando un bando attraverso il quale saranno presentate diverse candidature e, così come avviene per altre nomine in altri enti, il sindaco sceglierà la persona che ritiene più indicata allo svolgimento dell’attività, che verrà svolta in maniera gratuita. Siracusa: Osapp; maxi rissa nel carcere, coinvolti circa cento detenuti, 30 i feriti Agi, 20 novembre 2014 Maxi rissa nella Casa circondariale di Siracusa. Coinvolti circa cento detenuti, per motivi ancora sconosciuti, del "blocco comuni" del primo piano, metà dei quali stranieri, il resto per lo più catanesi. Dopo molte difficoltà, riferisce il segretario generale aggiunto dell’Osapp Domenico Nicotra, gli agenti penitenziari hanno sedato la rissa. Per trenta persone è stato necessario l’intervento del medico di guardia, per una l’invio al pronto soccorso dell’ospedale cittadino. "È inaccettabile - dice il sindacalista - che l’amministrazione penitenziaria non sia in grado, per l’elevata carenza di organico, di assicurare la sicurezza negli istituti". Padova: Sappe; detenuto senegalese aggredisce un agente di Polizia penitenziaria Ansa, 20 novembre 2014 Un detenuto senegalese ha aggredito oggi un agente di polizia penitenziaria nella Casa di reclusione di Padova. Lo rende noto il sindacato della polizia Sappe. Secondo la ricostruzione del Sappe, "il detenuto pretendeva che gli venisse immediatamente aperta la porta della cella per poter andare a frequentare un corso scolastico in carcere. Non appena, però, l’assistente Capo di Polizia Penitenziaria di servizio l’ha fatto, è stato violentemente colpito al viso da diversi pugni e, paradossalmente, il peggio è stato scongiurato solo grazie all’intervento di altri detenuti". Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, "quanto accaduto è il culmine di una situazione che vede il penitenziario di Padova sommerso da tutte quelle problematiche che il Sappe ha più volte evidenziato alle autorità competenti senza però ottenere risposte e soluzioni. Eventi del genere - osserva - sono purtroppo sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il Personale di Polizia Penitenziaria". "Queste aggressioni - precisa - sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come un congruo periodo di rigido isolamento disciplinare e l’allontanamento del detenuto in un altro carcere. Sono anni che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria - ricorda Capece - di strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnati in fase sperimentale a polizia di Stato e carabinieri. Mi auguro che il ministro della Giustizia Andrea Orlando valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assuma i provvedimenti conseguenti". Padova: per i boss della Sacra Corona Unita videochiamate dalle celle del Due Palazzi Il Mattino di Padova, 20 novembre 2014 Nonostante fossero detenuti, anche grazie a Facebook e Skype, riuscivano a colloquiare tranquillamente con i familiari impartendo ordini per loro tramite agli altri "soci in affari" che erano all’esterno. È uno degli elementi emersi nell’ambito dell’operazione che ha consentito agli agenti della squadra Mobile di Lecce di "decapitare" i nuovi clan dell’organizzazione di tipo mafioso Sacra Corona Unita in lotta per il controllo degli affari illeciti. Due degli arrestati di maggiore spicco, Cristian Pepe di 40 anni e Ivan Firenze, di 33 anni, detenuti nel carcere di Padova, grazie alla disponibilità di agenti di polizia penitenziaria corrotti che sono stati poi arrestati avevano all’interno del penitenziari la disponibilità di computer e chiavette usb con cui comunicavano con i familiari all’esterno. Utilizzando "Facebook Video Calling" e "Skype" effettuavano videochiamate con i parenti e attraverso loro, con i componenti dell’organizzazione che erano all’esterno, impartendo direttive e ricevendo notizie. Numerose, secondo quanto accertato, le conversazioni intercettate. Tra i destinatari dei provvedimenti restrittivi anche William Monaco, 25 anni, leccese, al quale, durante la cattura avvenuta ieri all’alba, è stata sequestrata una mitraglietta Skorpion. L’indagine della procura di Lecce è parallela a quella di Padova. Mentre gli investigatori pugliesi si sono concentrati più sui mafiosi della loro area, i colleghi padovani sono riusciti a ricostruire il "sistema carcere". L’attività della polizia è nata ad agosto dello scorso anno. Gli uomini del vice questore aggiunto Marco Calì stavano intercettando un gruppo di marocchini sospettati di un traffico di droga. Un’indagine di routine come tante altre che ha preso una piega particolare quando gli agenti hanno scoperto che uno degli acquirenti era un agente della Polizia penitenziaria. Scattano accertamenti e intercettazioni, si apre il vaso di Pandora: i secondini portavano dentro di tutto in cambio di soldi dai detenuti e dai loro parenti. Alcuni agenti in servizio alla Casa di reclusione, secondo le contestazioni, erano insomma organici a un sistema illecito finalizzato all’introduzione in carcere di droga (eroina, cocaina, hashish, metadone), di materiale tecnologico (telefonini, schede sim, chiavette usb, palmari). Nell’ambito dell’operazione "Apache" sono state arrestate 15 persone: sette in carcere e otto agli arresti domiciliari (sei sono agenti della Penitenziaria). Foggia: i detenuti della Casa Circondariale incontrano lo scrittore Roberto Costantini dal Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2014 Un gruppo nutrito di detenuti della Casa Circondariale di Foggia ha partecipato, il 19 novembre, alla presentazione della "Trilogia del male", del noto giallista Roberto Costantini, presso il Teatro dell’Istituto. Lo scrittore, a Foggia per presentare l’ultimo "capitolo" della trilogia, "Il male non dimentica", presso il liceo classico "V. Lanza" e la Fondazione Apulia Felix, ha accettato l’invito del Presidente del Ce.Se.Vo.Ca. (Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata), Pasquale Marchese, di Ubik e di Libera a tenere nella stessa giornata un incontro anche all’interno dell’Istituto Penitenziario. Nel teatro della Casa Circondariale, i detenuti delle Sezioni As (Alta Sicurezza) e "Comuni" Nuovo Complesso hanno ascoltato lo scrittore, che ha spiegato la genesi dei sui romanzi e letto alcuni brani; è poi seguito un acceso dibattito. Protagonista della trilogia - ha spiegato l’autore - è un commissario ribelle, scomodo. Non è "un buono", si muove in un contesto in cui il confine tra bene e male non è definito. Sullo sfondo, le violenze e gli scandali economici e i delitti irrisolti di mezzo secolo italiano (dagli anni ‘60 ai giorni nostri). "Il male non dimentica" - ha sottolineato Costantini - così come gli altri romanzi della trilogia, corre su due linee temporali differenti ma che si intrecciano molte volte durante la narrazione: la Tripoli degli anni ‘60, terra natia del Commissario Mike Balistreri, teatro di tensioni politiche ed economiche culminate con l’ascesa al potere di Gheddafi e la Roma degli anni nostri, colma di splendore e violenza. L’incontro nell’Istituto Penitenziario è stato realizzato nell’ambito di un protocollo d’intesa sottoscritto da Ce.Se.Vo.Ca, Casa Circondariale e Uepe Foggia (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) e rientra nelle attività previste dal "Tavolo Carcere e Volontariato", cui siedono gli stessi soggetti e gli altri due Istituti Penitenziari di Capitanata (Lucera e San Severo), al fine di promuovere la collaborazione tra le realtà del Terzo Settore e quella penitenziaria. Nel corso del pomeriggio, il Ce.Se.Vo.Ca., con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia, ha donato 15 copie del libro, autografate da Costantini, che andranno ad arricchire la biblioteca del Carcere. Il Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata e il Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri hanno già iniziato, nel maggio scorso, un percorso di letture con i detenuti della sezione AS, attraverso il Progetto "Innocenti Evasioni", ora giunto alla seconda edizione. Con cadenza settimanale, gli operatori stanno incontrando i detenuti per discutere insieme di due libri acquistati per ciascuno dei partecipanti: "Dentro" di Sandro Bonvissuto e "La pelle dell’orso" di Matteo Righetto. "È un percorso importante, un viaggio verso la cultura - sottolineano gli organizzatori - che all’interno dell’Istituto assume un valore ancora più forte. Il nostro obiettivo è quello di replicare esperienze di questo tipo nel corso dell’anno, favorendo la promozione della lettura tra i detenuti. In questo momento stiamo organizzando un incontro per il mese di dicembre ma speriamo - con il sostegno della casa Circondariale di Foggia, che ci sta supportando in questa attività con grande disponibilità - di poter programmare incontri e nuove letture anche per il 2015". Milano: "San Vittore Globe Theatre" del Centro europeo teatro e carcere La Presse, 20 novembre 2014 Il 19 e 20 novembre al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano andrà in scena "San Vittore Globe Theatre", spettacolo liberamente ispirato a William Shakespeare, Giovanni Testori e Alda Merini e prodotto dal Centro europeo teatro e carcere (Cetec). Un debutto per il Cetec che da 20 anni prosegue il lavoro nelle carceri con una compagnia ‘apertà di artisti, cittadini e detenuti. L’appuntamento rientra in Edge Festival, rassegna europea per la diffusione delle arti nel sociale attraverso l’incontro tra realtà artistiche che in Europa hanno scelto di lavorare in contesti disagiati, come carceri, centri per rifugiati e così via. Immigrazione: gli psichiatri chiedono un "piano" contro l’aumento dei disturbi mentali Ansa, 20 novembre 2014 Il più delle volte arrivano in Italia provenienti da Paesi in guerra, con forti disturbi da stress post-traumatico; in altri casi vivono una difficile integrazione, contrassegnata da stigma e pregiudizi, oltre a portare i segni di una instabilità psicologica causata dallo sradicamento dalla propria cultura di origine. I disturbi psichiatrici tra gli immigrati sono in aumento, tanto che, secondo gli ultimi dati, ben il 16,9% degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono appunto extracomunitari. Una situazione "preoccupante", che richiede una risposta precisa: la denuncia arriva dalla Società italiana di psichiatria (Sip), che sollecita al ministro della Salute un confronto sulla questione e propone un vero e proprio Piano di intervento per la salute mentale dei cittadini immigrati. "È difficile fare stime sui numeri - afferma il past president della Sip, Claudio Mencacci, in occasione della conferenza nazionale "Mens sana in corpore sano". Il benessere come standard di cura in psichiatrià - ma il trend dei disturbi è in crescita e si rischia anzi di sottostimare il fenomeno, visto che molti immigrati, non essendo in regola, non si avvicinano ai servizi sociali". Dall’esperienza dei dipartimenti di salute mentale sul territorio, spiega l’esperto, "emerge che le maggiori criticità si hanno nelle comunità cinesi, che tendono ad avere un sistema di ‘autocurà al loro interno, evitando interferenze esterne, ma anche tra gli immigrati musulmani del Nord Africa; un maggior margine di intervento, invece, è possibile nelle comunità di immigrati sudamericani e dell’Est Europa". L’aumento dei disturbi si affianca, inoltre, all’emergenza legata alla crescita incontrollata del consumo di alcol: "Il fenomeno sta portando a conseguenze gravi, anche perché - sottolinea Mencacci - alcune etnie sono fisiologicamente caratterizzate dall’assenza di particolari enzimi, il che determina un differente grado di tolleranza all’alcol, portando ad una risposta molto più violenta". Inoltre, sempre per ragioni metaboliche, a variare è anche la risposta ai farmaci, che vanno dunque dosati in maniera diversa: ciò, rileva l’esperto, "richiede ovviamente anche una conoscenza più approfondita da parte dei medici". Insomma, osserva Mencacci, "se l’obiettivo è la piena integrazione, è chiaro che bisogna puntare a servizi ad hoc per queste comunità". In realtà, qualche esempio virtuoso esiste, ma si tratta di casi limitati: la Regione Lombardia, con l’ospedale Fatebenefratelli di Milano, ad esempio, ha attivato un servizio di etnopsichiatria che offre assistenza domiciliare alle donne immigrate colpite da depressione post partum. Proprio le donne, avverte Mencacci, "sono spesso l’anello più debole e le più discriminate nell’accesso alle cure; è quindi importante intervenire per prevenire conseguenze gravi". Ma le iniziative isolati non sono sufficienti: "È necessario - afferma il presidente Sip, Emilio Sacchetti - attivare un censimento completo degli immigrati all’arrivo in Italia, valutando i bisogni ed elaborando un piano di intervento ad hoc, che preveda pure una maggior formazione mirata per gli psichiatri. Pensiamo - spiega - ad un censimento attraverso un questionario, che potrebbe essere somministrato dai nostri specializzandi in psichiatria". La proposta che "faremo al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin - conclude il presidente Sip - è anche quella di valutare l’idea di una sorta di card per un accesso facilitato ai servizi di salute mentale per quegli immigrati che risultassero trovarsi in situazioni di maggior rischio". Russia: lettere dal carcere dell’uomo che sfidò Putin di Nicola Lombardozzi La Repubblica, 20 novembre 2014 C’è un buco nella gavetta di plastica, la broda di latte e farina finisce per terra, si sentono già i topi che corrono festanti per le condutture: ormai la cena è tutta per loro. L’avvocato Sergej Magnitskij scrive al buio, accovacciato in un angolo della sua cella a pochi chilometri dalle luci della Piazza Rossa e dal frastuono del traffico di Mosca: "Hanno deciso che devo dimenticarmi della mia vita e che sarò dimenticato per sempre". Sono righe del diario disperato di un uomo che in effetti ben pochi ricordano, almeno in Russia, a cinque anni esatti dalla sua morte ancora tutta da chiarire in una delle più tenebrose prigioni del Paese. Aveva 37 anni, un’accusa molto generica per appropriazione indebita, ma soprattutto il peso di una rivelazione urlata agli investigatori che lo interrogavano: "Ho le prove della corruzione degli uomini più vicini al Presidente e anche dello stesso Putin in persona". Il testo integrale delle 44 pagine del diario è stato pubblicato ieri dall’unico giornale di opposizione sopravvissuto, quel Novaja Gazeta che ospitava i reportage della giornalista Anna Politkovskaja assassinata nel 2006, nel giorno del compleanno di Putin. Un racconto minuzioso, fatto di piccole pedanterie da avvocato alternate a momenti di sconforto e di rabbia. E della paura di sparire del tutto dalla memoria dei russi e degli altri. Eppure Magnitskij ha avuto un ruolo più importante di quanto aveva creduto. Nel 2009, la sua morte, che perfino la commissione dei diritti umani del Cremlino definì "causata probabilmente da percosse e maltrattamenti", rappresentò il primo segno di una frattura nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, via via scivolati attraverso la crisi ucraina verso l’attuale situazione da nuova guerra fredda. L’avvocato lavorava infatti per l’americana Firestone Duncan e il suo arresto, secondo gli Usa, sarebbe stato un tentativo di fare pressione sull’azienda per estorcere tangenti con un metodo ricattatorio già denunciato da molti oppositori del governo Putin. In suo nome furono stabilite da Washington le prime sanzioni contro Mosca con la cosiddetta "Lista Magnitskij" che vietava l’ingresso negli Usa a una lista di funzionari russi sospettati di avere avuto a che fare con la vicenda. E, pur di mantenere il punto e bollarlo definitivamente come un malfattore poco credibile, la magistratura russa ha dovuto esibirsi in una delle più clamorose operazioni giudiziarie della sua storia: un processo a un morto, condotto come fosse stato possibile, con tanto di testimoni, difensori d’ufficio e giuria. Nel diario non ci sono racconti di torture e di pestaggi più volte raccontati dalla stampa americana. Ma forse c’è di peggio: la cronaca di un metodico svilimento del detenuto e delle sue condizioni psicologiche nel carcere della Butyrka, una fortezza del Settecento talmente inespugnabile che il grande illusionista Houdini più di un secolo fa la scelse come scenario per una delle sue più spettacolari evasioni. L’incubo è raccontato in ogni aspetto. Dal luogo: "Siamo in sei in una stanza di sette metri quadrati. I vetri sono rotti. Qualcuno ha volutamente rotto la valvola dell’acqua calda. Il buco per terra che fa da cesso è vicino all’unica presa di corrente dove è possibile cucinare qualcosa". Al trattamento: "Ho fatto vedere al medico gli esami che mi avevano fatto nell’altro carcere. Ho calcoli biliari e una pancreatite grave. Gli ho chiesto medicine e una dieta specifica. Mi ha detto: cosa crede di essere in una clinica?". Passando per le umiliazioni: "Ieri notte un rivolo di acqua maleodorante ha cominciato a uscire dal gabinetto. La cella si è allagata, il livello è arrivato alle caviglie. Saltiamo da un letto all’altro come delle scimmie". Oppure: "Alle sei del mattino mi hanno prelevato per portarmi in tribunale. Eravamo 15, tutti in piedi, in un piccolo furgone fatto per cinque, sei persone. Non mi avevano avvisato. Avrei voluto prepararmi, studiare le carte. Ma ormai sono cose superate. Quello che conta è che questo era il giorno previsto per la doccia settimanale. Dovrò aspettare altre sette giorni per potermi lavare". Oppresso da una malattia degenerata con il tempo Magnitskij perde il piglio combattivo dei primi giorni: "Prima scrivevo esposti, denunce sulle condizioni di vita, per il cibo. Ma le guardie che le ricevevano ridevano. Non credo che le abbiano mai consegnate a qualcuno. Adesso chiedo almeno di poter vedere mia madre, qualche mio amico. Nemmeno quello". E come in tutte "le mie prigioni" vengono fuori i diversi comportamenti umani. C’è il giudice che se ne lava le mani: "Un pasto caldo? Il vitto non è di mia competenza". L’operaio pietoso: "L’idraulico venuto a salvarci dopo cinque giorni in una cella allagata di liquami ci ha guardato con compassione. Era stravolto. Le guardie lo hanno spinto via mentre continuava a fissarci". E il secondino crudele: "Diciotto ore in cella al tribunale senza neanche un bicchiere d’acqua mentre le guardie bevevano un tè dopo l’altro. Ho chiesto una tazza anche per me. Mi hanno risposto: "Purtroppo non abbiamo teiere". Dopo anni di indagini e polemiche la corte russa ha ammesso che "le condizioni di salute del detenuto furono forse sottovalutate dallo staff medico" limitandosi a una censura della dottoressa responsabile. Commissioni indipendenti finanziate dagli Stati Uniti sostengono invece la tesi dell’omicidio volontario. I russi che ieri leggevano le pagine di Novaja Gazeta registrano in ogni caso come certe carceri possono spezzare per sempre la vita di una persona. Pakistan: salvate la mia Asia, in prigione per un bicchier d’acqua di Ashiq Masih (traduzione di Fabio Galimberti) La Repubblica, 20 novembre 2014 Pubblichiamo la lettera che Ashiq Masih ha scritto per chiedere la liberazione di sua moglie Asia Bibi, donna cristiana condannata a morte in Pakistan per blasfemia dopo un alterco scaturito da un bicchier d’acqua. Di recente, la sentenza è stata confermata anche in appello. Torno dalla prigione di Multan, dove mia moglie, Asia Bibi, è stata trasferita otto mesi fa. Da quando è stata condannata alla pena di morte la prima volta (nel novembre del 2010) per aver bevuto un bicchiere d’acqua al pozzo del nostro villaggio, viviamo nella paura, la nostra famiglia è minacciata. Io e i nostri cinque figli viviamo nascosti il più vicino possibile a lei, perché lei ha bisogno di noi per non lasciarsi morire e per poterle portare medicine e cibo sano quando è malata. Dopo quattro lunghi anni d’attesa in condizioni difficilissime speravamo che l’Alta corte di Lahore avrebbe liberato mia moglie. Asia non ha bestemmiato: lei non ha mai bestemmiato. Da quando l’Alta corte di Lahore, qualche giorno fa, ha confermato la pena di morte contro mia moglie, non riusciamo a capire perché il Pakistan, che amiamo, si accanisca contro di noi. La nostra famiglia è sempre stata felice qui, non abbiamo mai avuto nessun problema. Siamo cristiani e rispettiamo l’Islam. I nostri vicini sono musulmani e vivevamo insieme a loro nel nostro piccolo villaggio. Ma da qualche anno la situazione è cambiata a causa di certe persone, e ora abbiamo paura. Molti dei nostri amici musulmani non capiscono perché la giustizia pachistana infligga così tante sofferenze alla nostra famiglia. In questo momento siamo mobilitati per l’ultimo ricorso davanti alla Corte suprema, che dobbiamo depositare prima del 4 dicembre. Ma sappiamo che il mezzo migliore in assoluto sarebbe ottenere la grazia presidenziale. Siamo convinti che Asia Bibi non verrà impiccata soltanto se il venerabile presidente del Pakistan, Mamnoon Hussain, le accorderà la grazia. Non si può morire per un bicchiere d’acqua. Grazie a un pugno di amici che ci proteggono rischiando la vita, io e i nostri cinque figli riusciamo a sopravvivere, ma dobbiamo essere molto prudenti perché siamo il marito e i figli di Asia Bibi e ci sono persone che ci vorrebbero morti. E grazie alla giornalista e scrittrice Anne-Isabelle Tollet, che è diventata nostra "sorella" quattro anni fa e con cui parliamo molto spesso, abbiamo notizie di tutti quelli che si stanno mobilitando per Asia nel mondo. È importantissimo per noi. È questo che ci consente di resistere. Ogni volta che vado a trovare Asia in carcere glielo racconto, e a volte questo riesce a ridarle coraggio. Il sindaco di Parigi, la signora Hidalgo, ha proposto di accoglierci nella capitale francese, qualora mia moglie uscisse di prigione. Per noi è un grandissimo onore. Voglio ringraziarla, sindaco, ed esprimerle la nostra immensa gratitudine. Speriamo di riuscire a raggiungervi da vivi, e non da morti. Ieri, quando ho fatto visita ad Asia, mi ha domandato di trasmettere questo messaggio: "Nella mia piccola cella senza finestra i giorni e le notti si assomigliano, ma se resisto ancora è grazie a tutti voi. Mi si scalda il cuore quando Ashiq mi mostra le foto di persone che non conosco che bevono un bicchiere d’acqua pensando a me. E mi dicono che il sindaco di Parigi vuole accoglierci. Voglio ringraziare la signora Hidalgo e tutti gli altri. Siete la mia sola possibilità di non morire in questa galera. Vi prego, non abbandonatemi. Io non ho mai bestemmiato". Stati Uniti: creata in prigione "unità" per transgender, per proteggere detenute da stupro Ansa, 20 novembre 2014 Il carcere di Rikers, la seconda prigione più grande degli Usa, ha creato un’unità per le sole detenute transgender, per proteggerle da violenze, stupri e molestie. Lo hanno annunciato le autorità carcerarie di New York, riferisce Huffington Post, precisando che l’unità aprirà questa settimana, con una capacità iniziale di 30 posti letto: le detenute andranno di propria volontà. "Considerando che i detenuti non sono tutti uguali, il Dipartimento ha creato un’unità speciale per gruppi specifici", ha spiegato il Commissioner Joseph Ponte. "Questo tipo di servizio per le transgender aiuterà a ridurre gli incidenti che coinvolgono queste persone, portando a risultati a lungo termine", ha aggiunto. Al momento, le transgender rinchiuse a Rikers alloggiano insieme agli uomini - dove subiscono violenze stupro e molestie da parte dei carcerieri e altri detenuti - oppure scelgono la custodia protettiva, in pratica la cella di isolamento dove rimangono chiuse anche 23 ore al giorno. In base a un recente rapporto del National Center for Transgender Equality, gay, lesbiche, bisessuali e transgender hanno "un contatto sproporzionato con il sistema giudiziario" a causa di una storia di "pregiudizi e abusi verso la comunità Lgbt da parte delle forze dell’ordine". Il rapporto riferisce che circa il 16% degli adulti transgender sono stati rinchiusi in carcere, anche per "futili motivi", contro il 2,7% di tutti gli adulti mai stati in prigione. Pakistan: condannati a morte quattro familiari donna incinta lapidata Agi, 20 novembre 2014 Il Tribunale supremo di Lahore, nell’est del Pakistan, ha contattato a morte quattro familiari di una donna incinta, lapidata per essersi sposata con un uomo non gradito alla famiglia. Le persone condannate a morte sono il padre, un fratello, un cugino e l’ex fidanzato della donna, anch’egli cugino della vittima. Un altro fratello della donna è stato condannato a 10 anni di carcere. Secondo quanto stabilito dal giudice Qasim Khan, i quattro, lo scorso maggio, hanno colpito ripetutamente la donna a sassate, fino ad ucciderla. I quattro sono stati condannati anche al pagamento di una somma equivalente a 784 ciascuno. La donna si chiamava Farzana Bibi e aveva 25 anni. Un anno prima della morte aveva abbandonato la casa di famiglia per sposarsi. Aveva più volte denunciato alla polizia che i familiari l’avevano minacciata di morte. La coppia fu attaccata all’uscita dall’Alta corte di Lahore, dove la donna aveva testimoniato contro l’accusa di rapimento rivolta al marito da parte dei familiari. Farzana, che aveva detto al giudice di aver sposato l’uomo di sua spontanea volontà, morì prima dell’intervento della polizia. Oggi in tribunale era presente solo il padre della vittima, che dopo l’omicidio ammise che era stato un "delitto d’onore". Libano: l’Isis chiede rilascio 5 detenuti per ogni militare rapito Agi, 20 novembre 2014 Lo Stato islamico ha annunciato quest’oggi la propria disponibilità a trattare per il rilascio dei militari libanesi rapiti lo scorso agosto, chiedendo al governo di Beirut la scarcerazione di cinque detenuti islamisti per ciascun ostaggio liberato. Lo riferisce quest’oggi il quotidiano locale "Naharnet", citando una fonte siriana nella regione del Qalamoun, al confine con il Libano. "Lo Stato islamico ha accettato di avviare i negoziati con i libanesi il prima possibile. Il gruppo chiede il rilascio di cinque detenuti di Roumieh (prigione a est di Beirut, ndr) per ogni ostaggio liberato perché simpatizza con le famiglie dei militari", ha riferito la fonte. Le famiglie degli ostaggi hanno organizzato negli ultimi mesi dure manifestazioni di protesta contro il governo, la cui azione sul dossier dei militari rapiti è considerata insufficiente. Le proteste si sono intensificate in modo particolare la scorsa settimana, quando i jihadisti hanno minacciato di uccidere un gruppo di ostaggi se le autorità non avessero revocato le condanne all’ergastolo comminate pochi giorni prima nei confronti di detenuti islamisti di Roumieh. L’esecuzione è stata tuttavia rimandata dallo Stato islamico poco prima della scadenza dell’ultimatum concesso al governo libanese. In mattinata, il quotidiano "al Mustaqbal" aveva scritto che i jihadisti avrebbero chiesto il rilascio di 22 detenuti islamisti in cambio della liberazione di uno solo degli ostaggi. Differente, invece, la posizione del Fronte al Nusra, l’altro gruppo jihadista che ha partecipato agli scontri con l’esercito e le forze di sicurezza libanesi dello scorso agosto e che tiene in ostaggio un gruppo di militari. Al Nusra ha chiesto infatti la liberazione di 10 membri del gruppo detenuti nelle prigioni libanesi o di sette detenuti e 30 donne prigioniere nelle carceri siriane per ciascun ostaggio.