Caso Cucchi, tutti assolti… allora Stefano è vivo? di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 novembre 2014 Corte d’Assise d’Appello. Cinque anni dopo, sentenza choc per la morte del giovane detenuto. Cancellata la sentenza di primo grado che condannò sei medici del Pertini di Roma. Non accolta la richiesta di rinviare gli atti in procura. Anselmo: "Andremo in Cassazione". "Cosa vuol dire? Che Stefano è vivo, è a casa e ci sta aspettando?". Sono le prime parole che riescono a dire, la madre e il padre di Stefano Cucchi, il geometra trentunenne morto una settimana dopo il suo arresto (avvenuto, per possesso di stupefacenti, il 15 ottobre del 2009) nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo nemmeno tre ore di camera di consiglio, il giudice Mario Lucio D’Andria, a capo del collegio giudicante della prima Corte di Assise d’Appello, legge la sentenza che nessuno si aspettava, nemmeno nelle peggiore - o migliore, a seconda del punto di vista - delle ipotesi. Tutti assolti, i dodici imputati, in alcuni casi perché il fatto non sussiste, in altri per insufficienza di prove. I reati contestati, a seconda delle singole posizioni, erano abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni ed abuso di autorità. Cancellata dunque la sentenza di primo grado che aveva condannato solo i sei medici per omicidio colposo (tranne una, ritenuta colpevole di falso), e confermata per i tre infermieri e i tre agenti di polizia penitenziaria la precedente assoluzione. Rifiutata la richiesta del procuratore generale di una condanna per tutti gli imputati, sia pure con diverse responsabilità e per reati diversi, e rigettata perfino la richiesta dell’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, di rinviare gli atti alla procura per riaprire le indagini e appurare chi, se non gli attuali imputati, causò le lesioni riscontrate - e accertate - sul corpo della vittima. Appena letta la sentenza, a dispetto di quanto temevano i carabinieri in servizio d’ordine nell’aula al secondo piano di via Romeo Romei, dai banchi dove erano seduti i familiari e gli amici di Stefano Cucchi non si è levata nemmeno una voce. Comprensibilmente in festa, invece, gli imputati, con i loro legali e congiunti. Ilaria, la sorella di Stefano che in tutti questi anni ha combattuto strenuamente per appurare la verità, non può trattenere lacrime. "Stefano è morto di giustizia, cinque anni fa, in questo stesso tribunale dove, in una udienza direttissima, dei magistrati non hanno notato le sue condizioni - dice - Le condizioni di un ragazzo che sei giorni dopo si è spento tra dolori atroci, solo come un cane". "È stato ucciso tre volte, e lo Stato si è autoassolto - aggiungono i genitori, Giovanni e Rita Cucchi - andremo avanti, non ci fermeremo mai, lo dobbiamo a lui e agli altri ragazzi morti mentre erano nelle mani di chi avrebbe dovuto tutelare la loro incolumità". Dopo un attimo di scoramento, l’avvocato Anselmo riaccende la speranza: "Aspettiamo le motivazioni della sentenza e poi faremo ricorso in Cassazione". Ieri mattina, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, il penalista aveva chiesto che la sentenza di primo grado venisse annullata e che venissero "restituiti gli atti alla procura perché la sentenza è nulla alla radice, visto che si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale". Fabio Anselmo, mostrando alla giuria alcune gigantografie del corpo di Cucchi, ha fatto notare che il ricovero del giovane non era "avvenuto per magrezza come qualcuno vorrebbe supporre, ma per politraumatismo. Cucchi - ha proseguito Anselmo - non era tossicodipendente. Lo era nel 2003, ma in quei giorni aveva una vita del tutto normale, come ci hanno riferito alcuni testi. Agli esami clinici il funzionamento degli organi era normale". Ed è proprio questo pensiero che addolora maggiormente la famiglia Cucchi: "Era un ragazzo che tra mille difficoltà stava cercando di riprendere in mano la propria vita", mormora la signora Rita. Una sentenza "dissonante con le conclusioni della commissione d’inchiesta del Senato", commenta Ignazio Marino che l’ha presieduta. "Molto soddisfatti", invece i difensori dei medici e del primario dell’ospedale Pertini secondo i quali "il punto nodale era ed è che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi, e questo esclude la responsabilità del medici". Ma chi provocò a Cucchi le lesioni vertebrali accertate dagli esami autoptici e dalle perizie di parte? Per i pm del processo di primo grado, il giovane fu "pestato" nelle camere di sicurezza del tribunale prima dell’udienza di convalida del suo arresto. Una versione rifiutata dai giudici della Terza Corte d’Assise secondo i quali Stefano morì in ospedale per malnutrizione, trascurato e abbandonato dai sei medici che ieri, invece, sono stati assolti. Il pestaggio ci fu, scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado, ma "plausibilmente" fu opera dei carabinieri che lo avevano in custodia, non degli agenti penitenziari. Di altra opinione, il procuratore generale della Corte d’Appello, Mario Remus, secondo il quale Cucchi fu picchiato dopo l’udienza di convalida. Anche se ieri Remus, in fase di replica, ha tenuto conto del fatto che qualche settimana fa, nelle ultime battute del corposo iter processuale che ha visto deporre davanti ai giudici quasi 150 testimoni, la parte civile chiese l’acquisizione della testimonianza inedita dell’avvocato Maria Tiso che, in una mail inviata al collega Anselmo, ha raccontato di essersi trovata quella mattina nel corridoio che conduce all’aula 17 del palazzo di Giustizia e di aver visto Stefano scortato dai carabinieri "in condizioni tali da far pensare a un pestaggio subito". Prove evidentemente non sufficienti per la corte d’Appello che però non ha ritenuto nemmeno di dover chiedere un supplemento d’indagine. Uno per tutti, il commento laconico di Amnesty International Italia: "Verità e giustizia ancora più lontane". Caso Cucchi: tutti assolti, il solo colpevole è Stefano di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2014 L’appello salva agenti, medici e infermieri (che si abbracciano in aula). La madre: "l’hanno ucciso tre volte". Giovanardi: "giusto così" Stefano Cucchi si è suicidato. O forse è morto nel sonno. O forse l’ha finito un male incurabile e nessuno di noi - neanche la sua famiglia - l’ha mai saputo. Di certo non è stato ucciso dalle botte, e se è rimasto abbandonato in un letto d’ospedale è stata solo colpa sua. Avrebbe potuto collaborare, invece di lasciarsi morire. Questo ha decretato lo Stato italiano ieri. Uno Stato che, anziché ridare alla famiglia Cucchi almeno la dignità di una sentenza capace di fare luce su quanto accaduto nella settimana tra il 15 e il 22 ottobre 2009, ha ammesso la propria incapacità, ha alzato le mani, si è arreso di fronte a se stesso. Nessun colpevole. Tutti assolti. La morte di un ragazzo di 31 anni rimane chiusa nelle quattro mura di un’aula di Tribunale che, per la seconda volta in un anno e mezzo, non è riuscito a individuare chi ha mandato in ospedale Stefano e chi l’ha lasciato morire senza prestargli le dovute cure. Nessun colpevole, ha dichiarato ieri la Corte d’appello di Roma, dopo neanche tre ore di camera di consiglio. Tutti assolti, per insufficienza di prove. E poco importa se mancano le prove per dimostrare chi ha ucciso un ragazzo, un cittadino. Quella morte, per lo Stato italiano, non è colpa di nessuno. Eppure i giudici, se davvero avessero avuto dubbi, avrebbero potuto annullare la sentenza di primo grado e rinviare il fascicolo ordinando nuove indagini. Non l’hanno fatto. Hanno preferito spalancare le porte dell’aula e lasciare tutti liberi. "L’hanno ucciso la terza volta", ha sentenziato mamma Rita, sguardo basso e lacrime ingoiate. E pensare che il clima che la famiglia Cucchi aveva respirato nelle udienze di questi ultimi due mesi sembrava -a dire di Giovanni, Rita e Ilaria - profondamente diverso da quello del primo grado. Il procuratore generale, Mario Remus, si era speso fin dall’inizio, facendo propria la tesi del pestaggio, pur posticipandone l’orario a dopo l’udienza di convalida del fermo di Stefano, il 16 ottobre 2009, e non prima, come invece sostenuto dall’accusa in primo grado e dai legali di parte civile. Condanna per tutti e 12 gli imputati, aveva chiesto Remus: i tre agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia nelle celle del Tribunale di piazzale Clodio - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenico; il primario del reparto detenuti del Pertini - Aldo Fierro; i medici - Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti; gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Una richiesta che era anche il tentativo di ribaltare la sentenza di primo grado, che nel 2013 aveva visto condannare i soli medici e mandare assolti tutti gli altri. Quando ieri, in aula, il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha srotolato la foto gigante col volto tumefatto di Stefano, in molti - anche tra i membri della giuria popolare - hanno socchiuso gli occhi. Troppo forte quell’immagine per dire che Stefano è morto da solo, magari cadendo dalle scale. E persino chi quella foto l’ha vista tante volte - dopo la scelta coraggiosa della famiglia, a pochi giorni dalla morte del ragazzo, di mostrare al mondo il dolore e la vergogna -non ha potuto non pensare che qualcuno dovrebbe, finalmente, pagare per aver ridotto così un giovane uomo. Quella foto dice tutto. E se la verità processuale non è stata in grado di mettere in fila le prove, vuol dire che la giustizia ha fallito. Poco hanno detto, invece, due dei tre imputati tra le guardie penitenziarie, che ieri per la prima volta da cinque anni a questa parte hanno fatto sentire la loro voce rilasciando dichiarazioni spontanee prima della sentenza. "Sono stato accusato di barbarie, di aver bastonato Stefano Cucchi, di averlo picchiato - ha dichiarato Nicola Minichini. Paragonati a nazisti spietati, non auguro a nessuno di subire quello che abbiamo subìto noi". Chissà se si è reso conto che la famiglia Cucchi ha subìto la perdita di un figlio, di un fratello, e che poco se ne fa, oggi, della solidarietà di un imputato, per giunta assolto. Ieri in aula era tutto un abbracciarsi e tirare sospiri di sollievo. "L’effetto mediatico che qualcuno ha voluto portare alla ribalta non ha sortito alcun effetto, malgrado il grande impegno della parte civile", ha commentato soddisfatto uno dei legali della difesa. "Bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli - ha affermato Gianni Tonelli, del sindacato di polizia Sap - di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze". Qualcuno gli dica che Stefano Cucchi era un pugile e che si allenava tutti i giorni. E non è mancata - poteva mancare? - la voce di un altro paladino delle forze dell’ordine, Carlo Giovanardi: "Non poteva che esserci che l’assoluzione, non essendoci stato il pestaggio". La famiglia Cucchi ha già annunciato di voler ricorrere in Cassazione. "Perché Stefano è a casa che ci aspetta", ha spiegato ieri mamma Rita. Fino a quando non ci sarà giustizia, Stefano continuerà ad aspettare. Intervista a Luigi Manconi: un macigno sulla speranza di avere giustizia di Francesco Lo Dico Il Garantista, 1 novembre 2014 "Stefano è stato in 12 luoghi dello Stato: carcere, pronto soccorso, ospedale. ha incontrato più di 100 persone. non una di queste ha impedito che morisse". "È cosa certa che dopo l’arresto Cucchi subì violenze e che la sua morte era collegata alla privazione della libertà. Ma dev’essere detto con chiarezza che nella migliore delle ipotesi Stefano è stato lasciato morire. Ed è altrettanto certo che è morto perché vittima di un sistema carcerario malato. Un sistema che produce angoscia ed orrore ogni giorno. E che finisce sempre allo stesso modo; con la morte". Il senatore del Pd. Luigi Manconi, commenta così la sentenza sul caso Cucchi. Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi mette piede in caserma. Il 22 ottobre 2009 esce morto dall’ospedale Pertini di Roma. Morto. O meglio selvaggiamente ammazzato. Il suo corpo martoriato, ridotto a un grumo di sangue, striminzito fino a 37 chilogrammi di peso, sette chili in meno in una settimana, presenta nell’ordine, messe a referto, lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Oggi, 31 ottobre 2014 la giustizia esercitata nel suo nome, ha detto però al popolo italiano che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Morto come si muore per caso. Sono stati tutti assolti. Non è stato nessuno a picchiarlo, non è stato nessuno a massacrare il suo corpo con ferocia inaudita, non è stato nessuno a lasciarlo morire, a non nutrirlo, a ignorarne l’angoscia e la sofferenza. Ma oggi, 31 ottobre 2014, lo Stato italiano non ci ha detto soltanto che Cucchi è morto, che non l’ha fatto morire, che non l’ha ammazzato nessuno. Lo Stato italiano ci ha detto che sono condannate a morire le speranze di chi da anni lotta per avere giustizia. Le speranze di sapere chi ha lasciato morire, chi ha ammazzato gli altri Stefano Cucchi vittime di un sistema giudiziario malato che consente, e forse copre la morte e l’assassinio. "È inconfutabile - disse il senatore Manconi a suo tempo - che, una volta giunto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro". E ci chiediamo che cosa pensa oggi di questa sentenza, proprio lui che dal primo minuto di quel 15 ottobre 2009, offrì ascolto e collaborazione continua ai familiari di Cucchi. Che da quel giorno, per cinque anni di fila, è stato loro accanto confidando che fosse fatta giustizia, forse sussurrando loro parole di speranza in un abisso di sconforto Senatore Manconi, oggi la sentenza di appello ci ha detto che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Non è colpa di nessuno. Come vive questa sentenza? Io e i miei collaboratori viviamo dopo anni di lavoro e di vicinanza a Ilaria, sorella di Stefano, momenti di profonda angoscia. Vorrei poter distinguere tra piano politico e personale, ma in questo caso i piani si sovrappongono. Il paradosso logico di questa sentenza è evidente. In primo grado si stabilì che Cucchi morì per incuria dei medici a causa di un ricovero provocato da un pestaggio. Oggi si dice quindi che non ci fu incuria né pestaggio. Perché Stefano Cucchi è morto quindi? Già la sentenza di primo grado lasciò tutti profondamente insoddisfatti perché si prendeva atto che ai danni di Stefano fosse avvenuto un pestaggio. Era stato accertato che dopo l’arresto Cucchi aveva subito violenze. Era stato stabilito che la morte di Stefano Cucchi era collegata alla privazione della sua libertà, e agli abusi che erano maturati nel corso di quella deprivazione Ma ora di tutto questo non resta traccia: morì per caso. Tutti devono sapere qualcosa di incontestabile. Dev’essere detto con chiarezza che nella migliore delle ipotesi Stefano Cucchi è stato abbandonato. Nel migliore caso possibile di questa tragedia, nessuno potrà mai negare che Stefano Cucchi è stato lasciato morire. Lo hanno lasciato morire perché nessuno, nessuno ne ha impedito il decadimento, nessuno ne ha compreso i bisogni, nessuno lo ha assistito come meritava. Stefano è morto d’abbandono, come minimo. Non è comunque un’enorme sconfitta dello Stato italiano? Io e Valentina Calderone abbiamo ricostruito minuto per minuto il calvario di Stefano. Ha attraversato dodici luoghi dello Stato: due caserme, celle di sicurezza, pronto soccorso. Ha incontrato oltre cento persone in questo cammino. E nessuno di loro, nessuno di questi oltre cento individui ha voluto prestargli soccorso, tendere una mano verso di lui, coglierne il grido di dolore. Ci vollero delle fotografie crude, quasi oscene, che ne mostravano le carni martoriate, affinché si cominciasse a parlare di Stefano Cucchi. È davvero questa l’unica maniera di suscitare attenzione verso casi come questo? Dovere creare scandalo, dovere mettere in pubblica piazza il dolore, in nome di un sentimento di giustizia che resta quasi sempre inevaso? Ricordo che la vicenda di Stefano Cucchi cominciò quando Ilaria, sua sorella, ci disse che c’erano delle foto scattate a suo fratello in obitorio. Immagini terribili, strazianti, eloquenti. Quando Ilaria ce le consegnò, le dicemmo che secondo noi dovevano essere rese pubbliche. Ma che questa scelta spettava solo ai familiari di Stefano perché sarebbe stata terribile. Stefano sarebbe stato esposto di nuovo, dopo quella morte, a un nuovo oltraggio. Loro ci risposero: "Decidete voi". Fu dunque vostra la decisione di renderle pubbliche? No, noi respingemmo quella responsabilità. Era una loro decisione. Una volta presa, non si sarebbe potuti più tornare indietro. Alla fine decisero di farlo. E tutti conoscemmo il caso Cucchi perché loro, i suoi familiari, furono costretti a questo terribile atto di autolesionismo morale. Non trova vergognoso che una famiglia debba vivere questo abisso di sofferenza, di violenza autoinflitta nella speranza di avere una qualche giustizia? Ciò che è accaduto a Stefano, è successo a molti altri. E si ripete, uguale a se stesso, ogni giorno. Dico ogni giorno. Un labirinto di angoscia, indifferenza, e sofferenze inaudite che comincia e finisce con la morte. È finita con la morte anche oggi. E dopo l’autopsia, il certificato di morte dice che Stefano, insieme agli altri Stefano Cucchi cui siamo vicini, è morto perché vittima di un sistema malato. Un sistema carcerario che produce morte, violenza e abiezione. Morte di Stefano Cucchi, tutti assolti in appello di Roberta Pellegatta Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2014 Tutti assolti, anche i medici. Questa la sentenza della corte d’appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale "Sandro Pertini". In primo grado erano stati condannati, cinque per omicidio colposo e uno per falso, solo sei medici, assolti i tre agenti della polizia penitenziaria e tre infermieri. In appello tutti gli imputati, anche i medici, sono stati assolti: e cioè il primario del Reparto detenuti del "Pertini", Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti; gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; gli agenti della Penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La formula adottata dal Tribunale è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530 che in sostanza rispecchia la vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove. Le motivazioni della sentenza saranno depositate tra 90 giorni. In lacrime i genitori, Giovanni e Rita Calore, dopo la lettura della sentenza: "Non ci arrenderemo mai finché non avremo giustizia". "Allora per quale motivo è morto Stefano? - ha detto il padre Giovanni Cucchi - mio figlio era sano, non è possibile quello che è successo". "Una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta", ha detto la madre. "Continueremo la nostra battaglia finché non avremo giustizia", hanno commentato ancora i genitori. "Non si può accettare - hanno detto senza nascondere la rabbia - che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli. Noi vogliamo sapere esattamente chi siano i responsabili". E la sorella Ilaria: "La giustizia ha ucciso Stefano. È una giustizia malata, mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l’udienza di convalida del suo arresto per droga, e in quel caso il giudice non vide che era stato massacrato". "Stefano - ha aggiunto - si è spento da solo tra dolori atroci. Attenderemo le motivazioni, di sicuro andrò avanti e non mi farò frenare perche pretendo giustizia. Chi come mio fratello ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita". Annuncia ricorso in Cassazione Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. "Era quello che temevo - ha detto riferendosi alle assoluzioni degli imputati - Vedremo le motivazioni, e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte". "Sono veramente felice di questa sentenza". Così Giuseppe Flauto, uno degli infermieri assolti anche in secondo grado nel processo per la morte di Stefano Cucchi. "Sono felice non solo per me, perché non avevo dubbi sulla mia posizione e innocenza. Sono felice per i medici del Pertini perché più volte in primo grado hanno detto che non erano degni di vestire il loro camice. Questo mi ha fatto ancora più male. Oggi c’è stata una giustizia vera; non era giusta la nostra assoluzione senza la loro assoluzione". "Il punto nodale era ed è che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi, e questo esclude quindi la responsabilità dei medici". Cosi l’avvocato Gaetano Scalise, difensore del primario Aldo Fierro, dopo la sentenza di assoluzione nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Con questa sentenza - ha sottolineato l’avvocato Scalise - la Corte ha fatto buon governo degli insegnamenti della Corte di Cassazione in tema di responsabilità professionale dei medici". "È giusto che i processi si facciano sulle carte tenendo lontano tutte le suggestioni. Se avessero avuto più coraggio i giudici di primo grado avrebbero emesso loro questa sentenza". Lo ha detto l’avvocato Corrado Oliviero, difensore di uno degli agenti della polizia penitenziaria assolto nel processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi. "L’effetto mediatico - ha aggiunto il difensore Oliviero - che qualcuno ha voluto portare alla ribalta non ha sortito alcun effetto, malgrado il grande impegno della parte civile". "Tutti assolti, come è giusto che sia". Lo afferma Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, nell’esprimere "piena soddisfazione" per l’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi. "In questo Paese - dice il sindacalista in una nota - bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie". "Il processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi, che ha confermato l’assoluzione per i poliziotti penitenziari coinvolti loro malgrado nella triste vicenda, ci dà ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo che non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari". È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. "Abbiamo avuto ragione nel confidare nella magistratura, perché la polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere". Gonnella (Antigone): nessun responsabile per la morte di Stefano La sua vita è stata nelle mani di tante istituzioni dello Stato. Decine di operatori della sicurezza, della giustizia e della sanità pubblica lo hanno incrociato in quei giorni che lo hanno portato alla morte. Eppure, secondo la Corte d’Appello, non c’è neanche un colpevole. Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro paese, perseguire i responsabili è operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme (come il reato di tortura) e manca una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana. Anche in questo caso ha prevalso lo spirito di corpo che impedisce la ricostruzione puntuale dei fatti e il raggiungimento della verità storica. A questo punto non resta che sperare che la Corte Suprema di Cassazione annulli una sentenza, come quella odierna, che si muove perfettamente nel solco di una storia, quella italiana, che fa fatica a dare giustizia a chi ne ha diritto. Capece (Sappe): avevamo ragione a confidare nella magistratura "Il processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi ha confermato l’assoluzione per i poliziotti penitenziari coinvolti loro malgrado nella triste vicenda. Avevamo ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo di non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella Magistratura perché la Polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando la decisione della prima corte d’assise d’appello di Roma sulla morte di Stefano Cucchi. "L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci "chiaro", perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente - con professionalità, abnegazione e umanità - dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria", prosegue Capece. "Tanto per dire, negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita, in tutta Italia, ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo", conclude Capece. Il Sappe ricorda che già nel dicembre 2009, "la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta sul decesso di Stefano Cucchi escluse responsabilità, da parte del personale di polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del palazzo di Giustizia a Roma". E rivolge un pensiero di vicinanza e solidarietà ai tre poliziotti penitenziari rimasti coinvolti nella vicenda: "sono stati linciati moralmente da quanti erano convinti di avere la verità in tasca, senza però alcuno straccio di prova: oggi la Prima corte di assise di appello di Roma rende lor giustizia". Tonelli (Sap): Cucchi è morto perché drogato "Tutti assolti, come è giusto che sia. In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie". Proprio così: sono esattamente le parole pronunciate dal segretario generale del sindacato di polizia Sap, Gianni Tonelli. E non è certo un favore ai suoi colleghi. Nell’esprimere "piena soddisfazione" per l’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, Tonelli si augura pure "un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino". "L’effetto mediatico che qualcuno ha voluto portare alla ribalta non ha sortito alcun effetto, malgrado il grande impegno della parte civile", commenta invece l’avvocato Corrado Oliviero, difensore di uno degli agenti penitenziari assolti ieri. Mentre per il senatore di Ncd, Carlo Giovanardi, l’assoluzione è giusta "non essendoci stato il pestaggio". Stefano Cucchi, la colpa delle istituzioni di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 1 novembre 2014 Una cosa, la sappiamo e non dobbiamo mai dimenticarla. Già la sentenza di primo grado ha dovuto riconoscerlo e quella di appello non ha potuto negarlo, se pure fosse stata questa l’intenzione. Il dato inequivocabile è che Stefano Cucchi ha subito violenze dopo l’arresto. Violenze che hanno gonfiato e arrossato i suoi occhi, tumefatto il volto, ricoperto di lividi il corpo, e fratturato le ossa. Lo hanno raccontato i familiari dopo averlo visto sul tavolo dell’obitorio e lo abbiamo potuto sapere guardando quelle foto oscene scattate durante l’autopsia. La sentenza di primo grado ha detto: le violenze sono innegabili, ma le prove non sono sufficienti e le indagini sono state fatte con negligenza. Le conclusioni della cosiddetta "super perizia" lasciavano sconcertati: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, le percosse - o la caduta dalle scale o l’autolesionismo, tanto che differenza fa? - non c’entrano in alcun modo. Duecento pagine che si mordono la coda, che ruotano intorno a sé stesse e a una successione di argomentazioni contraddittorie, quasi fossero preda di una spirale autodistruttiva. Duecento pagine che, in sostanza, scelgono di non scegliere e decidono di non decidere. Dunque, ora possiamo dire che un concentrato di errori, leggerezze e colpe ha contraddistinto la vicenda di Cucchi negli ultimi giorni da vivo - accompagnandolo nella sua personalissima via crucis in dodici luoghi e all’interno di altrettanti apparati statuali - e che sembra non abbandonarlo neanche adesso che non c’è più. La sentenza di primo grado suggerisce: i testimoni che accusano gli agenti non sono credibili, non c’è certezza che i responsabili siano loro, forse la colpa è dei carabinieri (è questa la sintesi estrema ricavabile dalle motivazioni). La sentenza di appello avrebbe dovuto assumersi l’onere di fornire finalmente una spiegazione all’opinione pubblica e di rispondere alle domande della famiglia. Ancora una volta, invece, le parole pronunciate in quell’aula di tribunale si sono rivelate tragicamente deludenti e terribilmente povere rispetto a quelle di Giovanni Cucchi: "Le persone ferite siamo noi e lo saremo per tutta la vita. Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli". E a proposito di parole, è bene tornare a quanto detto all’epoca da Carlo Giovanardi su Stefano Cucchi: "anoressico epilettico tossicodipendente larva e zombie". Non sono solo le parole efferate di un uomo palesemente infelice che dà sfogo alle proprie frustrazioni con un linguaggio da strada. Giovanardi esprime in una forma truce un pensiero che circola nel corpo sociale e che si annida nelle pieghe più oscure di alcuni apparati dello Stato. Un pensiero violento, capace di perseguire la degradazione morale di chi si considera vulnerabile e condannabile, fino a mortificarne la dignità anche dopo la morte e a sfregiarne la memoria. Se quel pensiero circola - e sappiamo che circola - in chi detiene il potere sui corpi reclusi o indeboliti dalle sofferenze, in chi chiude le sbarre di una cella o serra i polsi con le manette, in chi può decidere della libertà o della prigionia o della incolumità di un altro essere umano, i danni possono essere enormi e irreparabili. Per giunta, nel corso del dibattimento di primo grado, quel pensiero che classifica gli uomini secondo categorie criminologiche e che li gerarchizza secondo i loro stili di vita e il loro curriculum penale, è emerso anche nelle parole di un pubblico ministero. Ecco, se tutto questo accade, è difficile che Stefano Cucchi trovi nell’aula di un tribunale quelle condizioni di eguaglianza di tutti di fronte alla legge che gli avrebbero dovuto consentire, infine, di trovare giustizia. Processo per la morte di Stefano Cucchi, ingiustizia è fatta di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 1 novembre 2014 Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione. Nessun colpevole, dunque tutti innocenti. Nessun colpevole dunque tutti colpevoli. Nel processo per la morte di Stefano Cucchi ha vinto lo spirito di corpo, quello stesso spirito di corpo che da 25 anni impedisce al nostro Paese di introdurre il crimine di tortura nel codice penale. Uno spirito di corpo che si estende verticalmente dal basso verso l’alto, che si muove orizzontalmente tra divise e camici, che colpisce mortalmente le persone e le istituzioni. Così accade che per quasi tre decenni il Parlamento si è sottratto a un obbligo internazionale, in quanto condizionato dai vertici della sicurezza. In questo modo hanno tutti insieme avallato l’idea che la violenza istituzionale non è una questione di mele marce bensì una scelta di sistema. I giudici della Corte d’Appello di Roma probabilmente motiveranno l’assoluzione di poliziotti e medici sostenendo che le prove non erano sufficienti. Supponiamo che sia così. Una motivazione di questo tipo vuol dire che le prove non sono state cercate, o sono state tenute nascoste. Nei casi di tortura vi sono poliziotti che devono indagare su colleghi. Lo spirito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dunque tutti colpevoli. I primo colpevoli sono coloro che in questi lunghi anni hanno remato contro la criminalizzazione della tortura. Ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori. Da chi sosteneva la tesi che bisogna torturare almeno due volte per commettere il delitto a chi ha impedito la previsione del reato pur di difendere i pm che indagano. Tutte volgarità per l’appunto. Proprio ieri il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 raccomandazioni fatte all’Italia ha ribadito la necessità di punire i torturatori. Da qualche giorno è ripresa la discussione alla Camera di un testo di legge approvato la scorsa primavera in Senato. Un testo per molti versi inadeguato e insoddisfacente. È stato di recente audito anche il capo della Polizia, Alessandro Pansa il quale ha detto testualmente che "siamo favorevoli, ma il legislatore valuti il rischio che la fase applicativa, se non tipizza meglio la fattispecie, provochi denunce strumentali contro le forze dell’ordine che potrebbero demotivarle. Nessuna difesa corporativa da parte mia". Ha fatto bene la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti a sentire il Capo della Polizia in modo che tutti dicano in modo trasparente quali sono le proprie idee. Alessandro Pansa ha richiamato la parola corporazione, parola che rimanda direttamente allo spirito di corpo. Va rotta la catena corporativa. Spetta alle forze politiche farlo, con nettezza. Va introdotto il principio della responsabilità individuale. In mancanza del crimine di tortura si perpetua l’impunità che riporta a responsabilità collettive gravi incompatibili con una democrazia compiuta. Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Stefano Cucchi. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione. Detto questo noi tutti sappiamo che non è alla giustizia che dobbiamo affidare la ricostruzione della verità storica. La giustizia è per sua natura fallace. In questo caso però la verità processuale ha deciso di voltarsi in modo tragico dall’altra parte rispetto alla verità storica. Molte volte abbiamo chiesto al Parlamento un sussulto di dignità. Lo chiediamo ancora. Chiediamo che sia approvata subito una legge contro la tortura in piena coerenza con la definizione delle Nazioni Unite. Chiediamo che ciò avvenga nel nome di Ilaria e dei genitori di Stefano, combattenti per la libertà e la giustizia. Ma giustizia non vuol dire condanna di Piero Sansonetti Il Garantista, 1 novembre 2014 La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi, Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti, E anche l’incapacità di garantire che lo "stato di diritto" viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte dei familiari di Stefano. È tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto, Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto, Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire "un esempio". La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure - per assurdo - la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società e la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico - e in particolare la Dc - "lo so, ma non ho le prove". Era facile dire che quelle stragi (e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna, Però erano fascisti, e la strage, più o meno -forse - ora fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza? P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti. Caso Cucchi, il sistema non ripara l’orrore di Giuseppe Anzani Avvenire, 1 novembre 2014 Non ce lo toglieranno dalla memoria, non ce lo strapperanno dal cuore, il volto sfigurato di quel ragazzo morto, il suo corpo pelle e ossa, il suo destino intrappolato tra le mani, o tra le maglie, della Giustizia e della Sanità, cioè dello Stato che assicura il diritto e il rispetto dei diritti e dello Stato che cura e protegge la salute. Due mani, o due maglie, da cui la vita di Stefano Cucchi è uscita spezzata dalla morte, senza che alcuno ne risponda più, ora che la Corte d’appello ha assolto tutti. Gli uomini dell’ordine e della forza che portano la divisa dello Stato-giustizia, già assolti in primo grado per insufficienza di prove; ma ora anche gli uomini della cura e della salute che portano i camici bianchi dello Stato-sanità, già condannati in primo grado per omicidio colposo, per averlo lasciato morire di fame e di sete. Tutti assolti, nessun colpevole. La formula è quella che annaspa nel territorio delle prove che mancano, delle prove insufficienti, delle prove che si contraddicono; e un motivazione scritta ci spiegherà poi che cosa è mancato alla certezza, qual è stato l’insuperabile dubbio. E noi l’aspetteremo, la leggeremo, a cuore gonfio sapremo perché la morte di Stefano è ricacciata nel buio di un enigma senza risposta. No, non siamo avidi di condanne a priori, nel pianto che inonda l’intera vicenda, non è questo il punto. E non è per imprecare, o urlare o far da noi per impulso o emozione una diversa sentenza, che plachi il rifiuto istintivo per un epilogo impotente, a spiegare l’inaccettabile sventura. È per rinnovare l’interpello verso un Sistema dove l’accaduto non si è spiegato e la frattura non si è ricomposta e il male è rimasto, e le conseguenze e gli esiti di cinque anni di processi sono gli stessi di come se non fosse accaduto, e invece è accaduto, è lì, con la sua atrocità, con quella morte "vera". È questo pensiero che ci fa lambire l’assurdo. Certo, non diremo che in genere una condanna purchessia rimette le cose a posto ripristinando i teoremi virtuosi della giustizia; il peggio è perdere il lume del discernimento, e appendere all’albero dei supplizi chi è stato invischiato e sospettato "personalmente", prima di una confortata risultanza; e sappiamo bene quali sono i rischi e i guasti, nei processi in genere, delle granitiche certezze preventive che scansano l’angoscia probatoria. Ma è proprio questo, stavolta, che ci impedisce di metterci in pace, perché ci avverte che quegli orrori che accadono nei collettivi del Sistema possono restare sepolti nel Sistema, senza rimedio. Ci sarà una rivolta della coscienza per chi sa, per chi vede, per chi si defila? L’intollerabile è questo: non solo che la giustizia non sappia riparare i torti, ma ancor peggio che non sappia prevenirli e scongiurarli, quando è in gioco la vita e la libertà, cioè valori laicamente "sacri" e non vili, di un uomo "catturato", vinto e tenuto "in potere" dalla legge, che muore in ospedale di fame e di sete, col viso illividito sotto un lenzuolo. E i genitori a ustolare alla porta dell’ospedale per parlare con i medici, invano; fino a chiedere "il permesso" giudiziario di vedere il figlio, in tempo per trovare un cadavere. Crudeltà. È ancora tutto questo dolore che la sentenza d’appello ci lascia intero sul cuore, senza scioglierne il filo. E noi ancora ne siamo impaniati, e dobbiamo dircelo forte l’un l’altro. E reclamare coscienza, coscienza, la voce che giudica il male prima, prima del male. Caso Cucchi: Luigi Manconi "lo Stato ha fallito" Avvenire, 1 novembre 2014 "Quando un cittadino è nella custodia dello Stato, il suo corpo diventa il bene più prezioso, qualunque sia il suo curriculum criminale. La legittimazione morale dell’azione dello Stato sta nella garanzia della sua incolumità. Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado, quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale". È un fiume in piena, il senatore Luigi Manconi. In piena di indignazione civile per il verdetto che lascia senza colpevoli la fine del trentunenne spirato cinque anni fa dopo giorni di agonia nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. Il sociologo e parlamentare del Pd, tra le tante sue battaglie da sempre impegnato per i diritti dei carcerati, non ha esitazioni nel considerare una pagina nera quella che vede la morte di un cittadino affidato alle istituzioni rimanere, almeno per ora, impunita. Senatore Manconi, a caldo che commento si può dare della sentenza della Corte d’appello? Partiamo da un punto fermo, sostenuto dai magistrati sia in primo sia in secondo grado: le percosse ci sono state. Ma poi non si sono potuti individuare i responsabili. L’assoluzione completa attuale (seppure con formula dubitativa, ndr) tace il cuore della questione. Stefano Cucchi è morto mentre era nella custodia dello Stato, mentre era affidato alle istituzioni. E non ha trovato assistenza nei 12 luoghi (tra caserme, ospedali e aule di tribunale) che ha attraversato in una settimana di sofferenze. Forse non è stato picchiato subito dopo l’arresto... Certo, ma nessuno ha notato la sua estrema fragilità. Non dimentichiamo che all’udienza di convalida del fermo già manifestava evidenti segni di uno stato di salute molto precario. E poi per cinque giorni si è impedito ai suoi genitori di incontrarlo, mentre quasi 100 persone, rappresentanti dello Stato, lo hanno visto e non sono intervenute. E c’è un altro importante elemento che si tende a dimenticare... Di che cosa si tratta? Del fatto che in sede civile l’ospedale Pertini ha versato un cospicuo risarcimento alla famiglia Cucchi, riconoscendo la mancata cura di Stefano dopo che i medici erano stati condannati per omicidio colposo. Come si spiega il fatto che cento operatori dello Stato non abbiano visto o abbiano chiuso gli occhi nel caso Cucchi e che episodi del genere siano, per fortuna, molto rari? Non ho una visione apocalittica del nostro sistema penitenziario. Concordo che fatti simili non accadono tutti i giorni, ma la verità è che potrebbero avvenire molto più di frequente. Il caso è sempre in agguato in un’istituzione nella quale è deficitaria la capacità di proteggere chi viene messo in custodia. Ricordiamo che è elevatissimo il numero delle persone che in carcere muoiono o si suicidano. Il livello delle cure garantite in prigione è molto inferiore agli standard che dovrebbero essere rispettati. E il sovraffollamento rende la situazione tanto più grave. Stefano Cucchi è deceduto nel sistema penitenziario. E l’opinione pubblica continua a ignorare la sofferenza quotidiana che si vive dietro le sbarre, dove tanti non muoiono ma arrivano a un passo e subiscono danni permanenti per patologie non curate. Le parole di qualche esponente politico hanno dato voce anche ai pregiudizi di tanti: se Cucchi era in cella, sarà stato per qualche motivo; perché prendersela con chi fa rispettare la legge... I giudizi sprezzanti che sono stati pronunciati influenzano sicuramente segmenti della popolazione, ma anche esponenti dell’apparato statale, dagli agenti ai direttori di carcere fino ai magistrati. E hanno come effetto quello di svilire la dignità e l’unicità della persona umana. Papa Francesco pochi giorni fa ha pronunciato un discorso epocale sul sistema penale, in cui ha detto, all’incirca, che la dignità della persona viene prima di qualunque pena. Pensa che si andrà in Cassazione, e con quale sentenza? Immagino che la procura generale farà ricorso. E voglio sperare in un verdetto diverso da quello di appello. Giustizia: "hanno morto questi ragazzi"… e sono impuniti di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2014 L’elenco dei pestaggi di Stato è lungo. Il conto di chi ha pagato è misero da Aldrovandi a Bianzino, da Uva a Magherini: le battaglie dei familiari. Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Riccardo Magherini. Quando la mente prova a ricordare i nomi di tutti gli uomini morti mentre si trovavano nelle mani dello Stato, ce n’è sempre qualcuno che sfugge, e non certo per dolo. La lista è troppo lunga. E quelli che conosciamo, forse, non sono neanche tutti, perché se li conosciamo è solo per il merito, la tenacia e il coraggio delle loro famiglie, eroiche nel mostrare cosa lo Stato ha fatto ai loro cari e contemporaneamente nel mettersi contro quello stesso Stato. Ci vuole fegato nel sapere che si sta andando verso il massacro e che tutta quella battaglia di giustizia si risolverà in un nulla di fatto. Già, perché è questo quello che viene da pensare. Perché di fronte a quella lista così lunga di morti ammazzati, il conto di chi ha pagato si tiene in una mano. Come un pugno di mosche. Il primo fu "Aldro", e non perché fu il primo a morire, il 25 settembre 2005 a Ferrara, ma perché fu il primo a guadagnarsi le pagine dei giornali, dopo una battaglia instancabile di sua mamma Patrizia. Aldro aveva 18 anni quando incontrò la polizia: Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri non si accontentarono di mettergli le manette. Tre anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi", sentenzia la Cassazione nel 2012. Tutti beneficiari dell’indulto, tre di loro rientrati in servizio a gennaio 2014. "È stato morto un ragazzo", il documentario di Filippo Vendemmiati che narra la sua storia. Riccardo Rasman viene ucciso a Trieste il 27 ottobre 2006. È disabile psichico, ha una sindrome schizofrenica paranoide dopo atti di nonnismo durante il militare. Il destino ha voluto che a togliergli la vita siano state, ancora, delle divise. Sta lanciando petardi dal balcone, finisce a terra, ammanettato e coi piedi legati col fil di ferro. Soffoca. Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi vengono condannati in via definitiva a sei mesi di reclusione. Il falegname Aldo Bianzino è morto nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007, a 44 anni. Gli hanno trovato in casa una coltivazione di canapa indiana, sul cadavere la famiglia trova invece quattro ematomi cerebrali, fegato e milza danneggiati, due costole fratturate. Nell’aprile di quest’anno per quella morte ha pagato solo - in appello - Gianluca Cantoro, l’agente penitenziario condannato a 12 mesi per omissione di soccorso. Giuseppe Uva dopo sei anni non ha ancora un assassino. Dal 14 giugno 2008, infatti, la Procura di Varese non è stata in grado, se non poche settimane fa, di ottenere un processo. "Pino" è morto in ospedale dopo una notte nella caserma dei carabinieri, dove era finito per aver spostato alcune transenne in strada. Dopo un inutile processo al medico che gli aveva somministrato i farmaci, adesso si apre il dibattimento a carico dei quattro militari presenti quella notte. Ci sono voluti sei anni e la prescrizione è vicina. Michele Ferrulli ha perso la vita il 30 giugno 2001 a Milano. Faccia a terra, manette ai polsi. Intorno a lui quattro agenti, intervenuti perché il manovale 51enne faceva casino in strada con la musica troppo alta. Secondo i giudici della Corte d’assise, che hanno emesso poche settimane fa la sentenza di assoluzione in primo grado, i colpi inferti all’uomo dai poliziotti sarebbero stati necessari per vincere la sua resistenza. Dino Budroni, 30 anni, è stato ucciso sul Raccordo Anulare di Roma il 30 luglio 2011, al termine di un inseguimento. A sparare con la pistola d’ordinanza è stato un poliziotto, che pochi mesi fa in primo grado è stato assolto. Il Tribunale ha fatto cadere l’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi. Il pubblico ministero ha ora avanzato la richiesta di appello. Riccardo Magherini è morto anche lui faccia a terra, la notte tra il 2 e il 3 marzo di quest’anno a Firenze. Sopra di lui c’erano quattro carabinieri. Riccardo non aveva 40 anni, aveva un figlio di due e chiedeva aiuto. All’inizio di ottobre il pm ha chiuso le indagini: i militari e tre volontari della Croce Rossa sono accusati di omicidio colposo. La speranza è che almeno nel suo caso la giustizia possa trovare casa in Tribunale. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari… la tortura continua di Damiano Aliprandi Il Garantista, 1 novembre 2014 La relazione sugli Opg dei ministri Lorenzin e Orlando, dice che è "irrealistico pensare di eliminare le strutture" a breve. Si prospetta un’ulteriore proroga per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (opg). Secondo la relazione sul Programma di superamento degli opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre, sarebbe irrealistico pensare di chiudere le strutture entro il 15 marzo del 2015, come previsto dall’ultimo decreto legge. "Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute - si legge nella relazione - appare non realistico che lo Regioni riescono a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data. In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg". Inizialmente dovevano essere 38 i milioni predisposti dallo Stato affinché le Regioni presentassero i programmi di conversione degli Ospedali psichiatrici giudiziari in strutture sanitarie alternative. Oggi, secondo l’ultimo aggiornamento del ministero della Salute e del ministero della Giustizia, la spesa è salita a 88,5 milioni di euro. I costi, dunque, continuano incredibilmente a lievitare. Tutta colpa della lentezza della macchina burocratica regionale che è da anni che dovrebbe chiudere quelli che Amnesty International ha definito "luoghi di tortura", senza però ancora riuscirci. La vicenda è drammatica perché ci sono stati rinvii su rinvii. Dapprima si pensava al 31 marzo 2013 come termine ultimo concesso alle Regioni per presentare appunto il programma di conversione. Ma non era stato sufficiente. E allora si va di proroga in proroga, Fino all’ultimo decreto firmato dal governo che ha posticipato il termine al 31 marzo 2015. L ‘ultima proroga aveva sollevato reazioni, in particolare quella del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso "estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli". Il Capo dello Stato aveva comunque "accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale". Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che "il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di monto l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, a eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale". La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, "tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale". Con la nuova relazione trasmessa al Governo, quindi, si apprende che passera ancora molto tempo affinché gli Opg chiudano definitivamente. Se si considera che attualmente la regione Piemonte ha già previsto che dovranno passare altri 24 mesi per la realizzazione della struttura sanitaria alternativa, si arriverà dunque a fine 2016. Ancora peggio per la struttura sanitaria di Abruzzo e Molise: sono stati stimati 2 anni e 9 mesi. Si arriverà, in questo caso, all’estate del 2017. Nel frattempo gli internati continuano a vivere negli opg. Abbandonati e prigionieri. Giustizia: per la difesa d’ufficio cinque 5 di esperienza o il titolo di specialista nel penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2014 Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo di riforma. Cinque anni di esperienza professionale oppure il titolo di specialista. E poi lista centralizzata, stabilità con divieto temporaneo di cancellazione, disciplina puntale della sostituzione. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato in prima lettura il decreto legislativo che riordina la difesa d’ufficio. Un testo, 5 articoli in tutto, assai atteso dai penalisti, che è stato predisposto su delega affidata al Governo dalla riforma dell’ordinamento forense. Con il primo articolo si prevede, tra l’altro, che l’elenco dei difensori d’ufficio (ora tenuto presso ciascun consiglio dell’ordine circondariale) sia unificato su base nazionale, attribuendo al Consiglio Nazionale Forense competenza su iscrizioni e aggiornamento. Per assicurare un più elevato grado di professionalità, sono previsti criteri più stringenti per l’iscrizione: viene elevata a cinque anni l’esperienza professionale in materia penale e introdotto, in alternativa, il requisito del conseguimento del titolo di specialista in diritto penale, nei termini in corso di definizione con il regolamento sulle specializzazioni in discussione in Parlamento. Modificato poi l’articolo 29 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale con la previsione che è il Consiglio Nazionale Forense a decidere sulla richiesta di iscrizione, dopo parere del locale Consiglio dell’ordine (cui la domanda va presentata unitamente alla necessaria documentazione) e che, per il mantenimento dell’iscrizione, è necessario presentare documentazione idonea a dimostrare l’effettiva e persistente esperienza nel settore penale. Sempre per garantire stabilità nell’esercizio della funzione è stabilito che il professionista non può chiedere la cancellazione dall’elenco prima di due anni dall’iscrizione. Per la fase transitoria, si chiarisce che gli avvocati iscritti attualmente agli elenchi tenuti dai Consigli dell’ordine sono automaticamente inseriti nell’elenco nazionale con l’onere di dimostrare, entro un anno dall’entrata in vigore del decreto, o possesso dei requisiti richiesti. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando parla di "significativo elemento di qualificazione del diritto di difesa". Mentre le Camere penali, in una prima valutazione in attesa del testo finale, sottolineano "che la difesa d’ufficio deve essere riformata con l’unico fine di improntarla a criteri che ne garantiscano la effettività. Con questo obiettivo l’Unione ha lavorato ed elaborato una proposta di riforma unitamente al Cnf. Da sempre evidenziamo, tra le criticità, l’assoluta assenza di garanzie di competenza in materia penale del difensore d’ufficio, la centralità della specializzazione, l’importanza di una formazione seria e di verifiche finalizzate ad accertare il possesso delle specifiche competenze in ambito penale". Giustizia: Legnini (Csm); alcune disposizioni della Legge Severino vanno riviste Italpress, 1 novembre 2014 "La Severino ha risposto a un’istanza che il Paese poneva da molto tempo, garantire che le funzioni pubbliche siano esercitate da persone sulla cui correttezza e trasparenza non può dubitarsi. Dopodiché talune disposizioni eccessive forse meriterebbero una serena rivalutazione in sede parlamentare". Così il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, in un’intervista a la Repubblica. Il riferimento è al caso De Magistris. "Probabilmente rimuovere un sindaco dopo una sentenza di primo grado per un reato come l’abuso d’ufficio è eccessivo. Ma la valutazione su questo e su altri punti spetta al Parlamento", spiega Legnini. Sulla responsabilità civile nella versione del ministro Orlando, dice: "Il parere del Csm risulta dal testo approvato mercoledì. Quello che penso l’ho detto con chiarezza in plenum. I temi più rilevanti sono tre, azione diretta o indiretta del cittadino, clausola di salvaguardia e abolizione del filtro. Il primo è risolto dallo stesso testo del governo che esclude l’azione diretta. Il secondo, la sindacabilità o meno dell’attività di interpretazione del diritto e di valutazione delle prove, è affrontato in modo positivo in quanto è limitato alle sole ipotesi di dolo. Si tratta di precisare che il dolo deve essere specifico". Quindi, secondo Legnini "la norma più equilibrata è prevedere una valutazione preliminare sulla manifesta infondatezza dell’azione, circoscrivendola ai casi in cui l’azione intrapresa abbia un grado di inaccoglibilità molto elevato". In vista della visita il prossimo 10 novembre del Guardasigilli al Csm, secondo Legnini "è molto importante che il ministro venga a esporre la sua riforma. Il Csm ha forte interesse a contribuire a riforme che possano cambiare la giustizia nell’interesse dei cittadini e senza intaccare i principi di autonomia e indipendenza dei magistrati. Ascolteremo proposte e critiche dell’Anm con la consapevolezza della distinzione tra la sua missione e la funzione costituzionale del Csm". Infine, il vice presidente del Csm nega che il governo sia contro i magistrati e sulla possibilità di sciopero sottolinea: "Mi auguro che non lo facciano e che si possa ricondurre il confronto al merito evitando sia messaggi semplificatori e misure sbagliate che chiusure corporative". Giustizia: rivista "Polizia Penitenziaria. Società, Giustizia & Sicurezza" festeggia 20 anni Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2014 "Compleanno" per la Rivista "Polizia Penitenziaria. Società, Giustizia & Sicurezza", che con il numero di ottobre 2014 appena uscito dalla tipografia (e liberamente consultabile sul sito www.poliziapenitenziaria.it) raggiunge il traguardo dei 20 anni di attività. "Un successo editoriale oltre ogni aspettativa", commenta Giovanni Battista de Blasis, direttore editoriale della Rivista e segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. "Siamo nati come organo di informazione del Sappe e siamo invece diventati l’unica pubblicazione che nasce da chi in carcere lavora in prima linea, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Da vent’anni parliamo di carcere trasparente, aperto alla società civile, che nulla ha da nascondere e che anzi suggerisce riforme strutturali per migliorare la detenzione e il nostro lavoro. Abbiamo raccontato e raccontiamo una professione quotidiana di professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato come è quello carcerario. Basti un esempio, purtroppo noto a pochi: negli ultimi 20 anni la Polizia Penitenziaria ha sventato, in carcere, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". La Rivista, che ha per direttore responsabile Donato Capece e per Capo Redattore Roberto Martinelli, è liberamente consultabile sul sito www.poliziapenitenziaria.it ed ha affrontato per prima temi oggi all’ordine del giorno: "Per primi abbiamo parlato di braccialetto elettronico e spray antiaggressione per i poliziotti, di espulsioni dei detenuti stranieri e circuito penitenziario differenziato per i tossicodipendenti. Ma ci occupiamo anche di carcere & cinema, delle radici storiche della Polizia Penitenziaria, delle decine e decine di iniziative che coinvolgono i poliziotti del Sappe sul territorio, in tutto il Paese". Tra le iniziative per i vent’anni di "Polizia Penitenziaria", annuncia infine del Blasis, una mostra itinerante nelle principali città d’Italia, con l’esposizione di alcune delle oltre 220 copertine della Rivista, per saldare il rapporto tra carcere, Polizia Penitenziari, Sappe e territorio. "Una rivista", chiosa con soddisfazione, "interamente scritta, composta graficamente e con il libero contributo fotografico di poliziotti penitenziari". Sardegna: Pili (Unidos); avviato piano del Dap per portare capi mafia nelle carceri sarde La Repubblica, 1 novembre 2014 Il deputato chiede i collaudi di tutte le strutture carcerarie sarde e pubblica su Fb e Twitter le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero di Giustizia oltre che le foto del cantiere della prigione di Uta, alle porte di Cagliari. La denuncia del deputato sardo di Unidos Mauro Pili, parte da Facebook e Twitter: "Sono iniziate ieri e si concluderanno entro il 16 novembre le grandi manovre del Ministero della Giustizia per trasformare la Sardegna in una vera e propria Cayenna mafiosa. Ad Oristano nelle ultime ore 14 detenuti sono stati trasferiti d’urgenza con giustificazioni fittizie con l’unico obiettivo di liberare il terzo braccio a favore dei capi mafia che sono giunti e che giungeranno nelle prossime ore. Tre dei quattro bracci sono da qualche ora già totalmente occupati dai vertici e subalterni di camorra, mafia e ‘‘ndrangheta" Pili pubblica le circolari emanate in queste ultime ore dal Dap e dal Ministero di Giustizia e le immagini del cantiere del nuovo carcere di Uta, alle porte di Cagliari. Il deputato sardo chiede la verifica dei collaudi di tutte le strutture carcerarie sarde. "Nelle prossime ore, come mostrano le circolari - dice Pili - è previsto un contingente di detenuti del clan dei Casalesi. Nel contempo con la circolare del 29 ottobre sono stati revocati tutti i distacchi degli agenti penitenziari verso altre sedi. Dal 2 novembre tutti in servizio nel carcere di Uta. Restano senza personale i penitenziari di Iglesias, Quartucciu che sono impossibilitate a restare aperte per svuotamento degli organici. Il 16 novembre si apre il carcere di Uta, senza collaudi e con le imprese ancora impegnate nel carcere cantiere. In alto mare - dice Pili - il cantiere del 41 bis, lo spazio dedicato ai capi mafia è ancora senza muri e risulta un vero cantiere come testimoniano le immagini dell’area del 41 bis riprese dentro il carcere che pubblico su facebook oggi". La decisione di svuotare il terzo braccio di Oristano, trasformandolo in un carcere destinato all’Alta Sicurezza "è gravissima - scrive Pili - considerato che la carenza di personale nella struttura carceraria è stata denunciata due mesi fa, un agente per ogni singolo braccio con 55 detenuti". "Il trasferimento di 9 agenti da Iglesias a Cagliari - prosegue il deputato - comunicata formalmente ieri conferma lo svuotamento di Iglesias. Una decisione che ha costretto il direttore del carcere a mettere nero su bianco che la struttura è insicura e non può funzionare. Il piano ruota intorno all’apertura del carcere di Uta che dopo lo slittamento di anni viene prevista per il 16 novembre prossimo. Si tratta di una decisione - sostiene il deputato di Unidos - al limite dell’illegalità considerato che non solo il carcere non è stato mai collaudato e soprattutto perché all’interno esiste ancora un cantiere". "Il 41-bis di Uta è un cantiere vero e proprio, con celle di massima sicurezza sino a qualche giorno fa senza muri e con strutture totalmente indefinite. A questo si aggiunge l’assenza di un centro clinico compiutamente allestito, visto che la tac non sarebbe stata ancora sistemata come richiesto e soprattutto non sarebbe stato definito il distacco totale del carcere dall’area del ‘41 bis’. L’apertura di Uta senza collaudi è la dimostrazione più evidente - conclude Pili - di un piano che il Ministero della giustizia vuole portare avanti senza ritegno e con il silenzio complice della Regione e del suo presidente che accetta succube e supino ogni decisione venga assunta a Roma contro la Sardegna". Bologna: la Garante; indispensabili più magistrati, richiesta di Maisto non cada nel vuoto Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2014 "L’auspicio è che la richiesta del Presidente Francesco Maisto apparsa sulla stampa nazionale non cada nel vuoto e venga rapidamente risolta la situazione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna". Elisabetta Laganà, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna ha inviato nei giorni scorsi una lettera al Presidente Napolitano, al Ministro Orlando e al Vice Presidente del Csm Legnini, per sollecitare una soluzione ai disagi provocati dalla progressiva riduzione di Magistrati di Sorveglianza e di personale di tipo amministrativo, la cui presenza è stata drasticamente ridotta in tempi recenti. In particolare, è stata segnalata la vacanza, ormai da tempo perdurante, di due dei Magistrati previsti dall’organico del Tribunale di Sorveglianza con competenza per le città di Modena e Ferrara. Tale situazione organizzativa, oltre a creare un notevole aggravio di lavoro per i Magistrati in servizio, rischia di ripercuotersi sulle pratiche relative alla funzione del Tribunale: concessioni di benefici, liberazioni anticipate, misure alternative alla detenzione e tutto ciò che riguarda la popolazione detenuta. Si auspica quindi una rapida soluzione perché il Tribunale di Sorveglianza possa disporre delle risorse necessarie per poter lavorare appieno sulle linee normate a livello legislativo. Catania: favori a detenuti del carcere di Bicocca, arrestato agente penitenziario Italpress, 1 novembre 2014 I carabinieri del Comando provinciale hanno arrestato un assistente capo della polizia penitenziaria del carcere di Catania Bicocca. Agli arresti domiciliari è finito Mario Musumeci, che dovrà rispondere di corruzione continuata e detenzione e spaccio di marijuana e cocaina, reati commessi dal 2009 sino al febbraio 2013. Il provvedimento è stato emesso dal gip del Tribunale di Catania, su richiesta della Procura distrettuale della Repubblica etnea. Nel corso delle indagini è emerso che sarebbero stati resi dei favori a personaggi di vertice dei clan mafiosi. Nell’inchiesta sono coinvolti anche altri quattro agenti di custodia. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania, sono state avviate in seguito all’arresto in flagranza di reato, nel novembre 2012, dell’assistente capo della polizia penitenziaria Antonino Raineri, in servizio presso il carcere Piazza Lanza di Catania. L’uomo venne trovato in possesso di un pacco contenente cocaina, marijuana, pizzini, profumi ed altri oggetti che doveva consegnare ai detenuti dietro il corrispettivo di denaro. Raineri è stato condannato con sentenza non ancora definitiva dal Tribunale di Catania per detenzione di droga e corruzione. L’attività investigativa sviluppata successivamente, grazie all’apporto fornito da diversi collaboratori di giustizia ed agli esiti di intercettazioni ambientali, ha consentito di documentare l’esistenza di un sistema di corruzione che ha visto coinvolti in modo sistematico alcuni appartenenti alla polizia penitenziaria, in servizio presso le Case circondariali di Catania Piazza Lanza e Bicocca, che, in modo continuativo e dietro corresponsione di somme di denaro (in qualche caso una tantum ed in altri con cadenza mensile), avrebbero favorito numerosi affiliati ad organizzazioni mafiose operanti a Catania e provincia durante i periodi di detenzione presso le due strutture carcerarie. Nel corso delle indagini è emerso come alcuni agenti fossero disposti, dietro pagamento di somme di denaro, a favorire le richieste provenienti dai detenuti appartenenti a clan mafiosi o, comunque, ad essi contigui. La gamma dei servizi e delle prestazioni fornite in favore dei detenuti era estremamente variegata anche in relazione alla posizione ricoperta all’interno del Corpo di polizia penitenziaria. Si andava, infatti, dall’introduzione all’interno del carcere di materiali di genere vietato, quali alimenti non consentiti, sostanze alcoliche, profumi, telefoni cellulari, supporti informatici MP3 ed, addirittura, sostanze stupefacenti di tipo cocaina e marjuana, fino a garantire ai vertici delle cosche la possibilità di incontrarsi tra loro riservatamente, di avere colloqui telefonici con i propri familiari anche oltre il numero massimo consentito, di essere tempestivamente avvisati in occasione dell’imminente esecuzione di misure cautelari, di ricevere e veicolare messaggi e comunicazioni ai congiunti. Gli investigatori hanno accertato che il pagamento avveniva in relazione alla singola prestazione illecita fornita dal pubblico ufficiale infedele con somme variabili dai 200 ai 300 euro per ogni pacco, contenente generi vietati, introdotto all’interno delle strutture carcerarie configurandosi, pertanto, il delitto di corruzione. Tali sono le ipotesi di reato contestate a due agenti, ad un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Catania Bicocca, sospeso dal servizio in quanto già sottoposto a misura cautelare nell’ambito dell’operazione cosiddetta "Fiori Bianchi", ed un ex assistente capo della polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Catania Piazza Lanza. Il gip, pur riconoscendo l’estrema gravità dei fatti contestati e la sussistenza di un grave quadro indiziario a carico di tutti gli indagati, ha disposto l’applicazione della misura degli arresti domiciliari solo per Musumeci, in quanto, per gli altri non è stato ravvisato il pericolo di reiterazione di condotte analoghe, avendo gli indagati interrotto il rapporto lavorativo con l’amministrazione penitenziaria per intervenuto pensionamento, congedo o per sospensione dal servizio attivo. Nell’ambito della stessa indagine sono stati denunciati, a titolo di concorso nel reato di corruzione, numerosi detenuti che hanno usufruito delle illecite prestazioni dei pubblici ufficiali corrotti. Velletri (Rm): il Garante regionale; situazione insostenibile nel carcere, intervenga il Dap Agenparl, 1 novembre 2014 "Quindici agenti di polizia penitenziari giovani e motivati trasferiti, una delle storiche educatrici costretta a tornare a Perugia perché il suo distacco temporaneo non è mai stato trasformato in definitivo. È questa la difficile situazione che si sa vivendo nel carcere di Velletri e che ha indotto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni a scrivere al vice capo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Luigi Pagano chiedendo un intervento immediato. Il carcere di Velletri è quello che nel Lazio presenta, dopo le carceri romane, il più alto numero di detenuti ristretti (553 al 29 ottobre) ed è secondo solo a Rebibbia per detenuti definitivi (359). A fronte di ciò, l’Istituto ha il minor numero di educatori ed il minor numero di agenti effettivamente operanti (al netto cioè di quelli che pur risultanti in pianta organica sono assenti in via continuativa per malattia o per altre cause), con un rapporto detenuti/agenti fra i più bassi del Lazio. Nonostante questo, ha scritto Marroni, in "maniera incomprensibile" nei giorni scorsi il Dap ha ordinato che 15 agenti, giovani e motivati, assegnati temporaneamente al carcere di Velletri dovessero ritornare agli istituti di provenienza. Stesse difficoltà ha l’Area trattamentale, sul cui funzionamento si basa il rispetto del principio Costituzionale del reinserimento dei detenuti che, secondo le testimonianze dei collaboratori del Garante, non è in grado di far fronte alle esigenze che l’alto numero di detenuti richiede. "È infatti di questi giorni - ha scritto Marroni - la disposizione del dirigente dell’Ufficio Personale del Dap che fa tornare alla sua sede di appartenenza una delle educatrici storiche del carcere, a suo tempo distaccata da Perugia e mai immessa definitivamente nella pianta organica dell’Istituto. Con questo incomprensibile provvedimento si indebolisce il già debole ufficio degli educatori di Velletri che verrebbe a contare, oltre che sulla capo area, soltanto su un educatore a tempo pieno e su un’altra educatrice a part time". "Fra agenti che mancano ed educatori ridotti ai minimi termini - ha detto il Garante - il rischio è che si rallentino le attività interne e che, soprattutto, si blocchino i colloqui con i detenuti ma soprattutto che si rallenti tutta quella attività amministrativa legata alle richieste di benefici e percorsi di recupero presso il tribunale di sorveglianza. Per questi motivi ho chiesto al vice capo vicario del Dap di verificare quanto sta accadendo e di intervenire per sanare una situazione che diventa sempre più insostenibile". Rimini: eletto il Garante comunale dei diritti dei detenuti, è l’avv. Davide Grassi www.newsrimini.it, 1 novembre 2014 È Davide Grassi il Garante per i diritti dei detenuti. Ieri l’elezione durante il consiglio comunale di Rimini. L’avvocato Grassi avrà il compito di intervenire per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale. La Casa Circondariale di Rimini ha ad oggi 115 persone detenute (62 italiani e 53 stranieri) di cui 46 definitivi, mentre L’Uepe (Uffici locali per l’esecuzione penale esterna) operante nel territorio della Provincia di Rimini ha abitualmente in carico tra le 250 e le 300 persone. Gli impegni del Garante a) la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale; b) la promozione di iniziative volte ad affermare per le persone private della libertà personale il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e della fruizione dei servizi presenti sul territorio comunale. Il Garante, svolge le sue funzioni anche attraverso intese e accordi con le Amministrazioni interessate volti a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti della persona, stipulando a tal fine anche convenzioni specifiche. Monza: i detenuti arrivano in Tribunale non in sicurezza, l’allarme del sindacato Uil-Pa di Valentina Rigano www.mbnews.it, 1 novembre 2014 Detenuti tradotti in Tribunale passando dall’entrata principale, senza avere più accesso al cancello carraio interno, con il rischio di mettere a repentaglio la sicurezza di tutti. Queste le istanze di protesta mosse dal sindacato regionale di polizia penitenziaria Uil, in merito alle nuove disposizioni che obbligano la Polizia a portare in Tribunale i detenuti passando dall’entrata comune a cittadini ed avvocati. "La nostra sicurezza, quella dei cittadini è in pericolo - spiega il delegato locale Uil-Pa della Calogero Giunta - non è una questione di comodità o di vizio, ma di sicurezza. Prima entravamo dal carraio con il furgone blindato, e la traduzione in aula era sicura. Adesso dobbiamo parcheggiare all’esterno, far scendere il detenuto ammanettato in mezzo alle persone che camminano, entrano ed escono dal Tribunale, e la certezza della sicurezza viene a mancare. Oltre anche al decoro per il detenuto stesso". Forse il carraio non è più utilizzabile a causa dei lavori in corso per il restauro di alcune parti del Palazzo di Giustizia (da cui non provengono commenti in merito) ma nonostante ciò la nuova soluzione proprio non va giù al Segretario regionale Domenico Benemia, che ha sollevato il problema "Non abbiamo notizie in merito alla durata del problema - conclude Giunta, ci dicono di fare così e noi lo facciamo, ma è davvero una situazione paradossale". Verona: protesta contro la direzione, niente mensa per i poliziotti al lavoro in carcere L’Arena, 1 novembre 2014 I rapporti tra Polizia penitenziari a e direttrice della Casa circondariale sono sempre più tesi. E adesso scatta un’altra protesta, quella dell’astensione dalla mensa obbligatoria di servizio (Mos). Da lunedì a mercoledì gli agenti non andranno in mensa Inoltre chiedono al provveditore regionale degli istituti di pena una convocazione urgente. A rendere nota la protesta è una nota siglata dai rappresentanti di Cisl-Fns, Sappe, Osapp e Cgil penitenziaria. "Considerato il reiterato comportamento di chiusura nelle relazioni sindacali posto in essere dalla dirigente della casa circondariale in occasione dell’incontro dello scorso 20 ottobre che non ha visto accoltele richieste della maggioranza del tavolo sulle questioni, non abbiamo alternative". Le richieste riguardavano la rimozione delle telecamere e o l’immediata cessazione delle registrazioni video e audio delle stesse poste a ridosso dei posti di servizio in posizione tale da poter controllare a distanza l’operato dei lavoratori; il ripristino della mezz’ora necessaria a garantire un livello minimo di sicurezza ed efficienza interna durante i cambi per la fruizione della mensa obbligatoria; altre proposte finalizzate a fronteggiare la precaria condizione dell’ordine e della disciplina interna che si ripercuote sulle condizioni di lavoro del personale, annotano ì sindacalisti. E aggiungono: "Nonostante l’intervento dell’ufficio ispettivo dello scorso settembre, dalla direzione non è arrivato alcun segnale positivo per un reale confronto costruttivo sull’organizzazione del lavoro, per questo per dare visibilità a un dissenso verso una gestione che ha smantellato un sistema organizzativo consolidato ed efficiente, protestiamo". Televisione: appello di Fabrizio Corona "il carcere mi sta mangiando vivo" www.sologossip.it, 1 novembre 2014 Giovedì sera, durante il programma di Raidue "Virus - Il contagio delle idee", è stato trasmesso un servizio con un’intervista epistolare a Fabrizio Corona, attualmente rinchiuso nel carcere di Opera di Milano, dove sta pagando i suoi conti con la giustizia. Dopo aver lottato con tutte le sue forze e cercato di adattarsi al carcere, Fabrizio Corona ora non ce la fa più ed esprime tutto il suo dolore in una lunga lettera: "Oggi non sto più bene, non ce la faccio più, non riesco a star su, sono crollato. All’inizio cercavo di fare ogni cosa possibile, ho aperto un portale per detenuti, un sito web delle carceri, portavo il vitto ai detenuti, ma ormai niente, niente di tutto ciò, non esco più dalla cella, non vado all’ora d’aria da 3 mesi, nemmeno più in palestra, sono molto dimagrito, la rabbia è diventata dolore, la voglia di fare è diventata riflessione, la voglia di combattere è diventata ricerca di giustizia. Leggo, scrivo e penso di continuo. Sa che significa stare 24 ore al giorno chiuso in una cella di tre metri quadrati con un’altra persona? Nemmeno dalla finestra si vede niente, la grata è troppo fitta. Mentre la tv parla di un mondo che cambia sempre più veloce e che io già non conosco più. È cambiato tutto. Io non avevo mai messo in conto sul serio di poter finire in carcere. Ho sempre agito con la convinzione di non fare alcun reato. Non ho mai pensato che i miei comportamenti erano contro la legge. Malgrado ciò, per un anno e mezzo, sono andato avanti, rispettando tutte le regole durissime di quest’istituto, convinto di poter accedere presto, secondo la legge, ai benefici carcerari. Quando, invece, è stata rigettata la mia istanza per l’affidamento terapeutico, ho scoperto di avere un’aggravante cioè il reato ostativo come se fossi un boss mafioso e che quindi non posso curarmi e proseguire il mio percorso riabilitativo, sono caduto in un malessere da cui non riesco a riprendermi. Sto male. Non mi vergogno a dirlo. Non ho più paura di far sapere chi sono veramente. Il carcere mi sta mangiando vivo". Fabrizio Corona ha poi raccontato che esiste un documento redatto dagli operatori sanitari che gli permetterebbe di accedere ai benefici carcerari che, però, non possono essergli riconosciuti perché sulla sua condizione pesa il reato di estorsione aggravata: "Esiste un documento medico sanitario, redatto dagli operatori del carcere, che dice di me: "Il soggetto ha bisogno di sperimentarsi in un’ambiente, in un contesto comunitario e avviare un nuovo progetto di vita". Sempre gli stessi sanitari scrivono che il mio percorso qui è finito già da quattro mesi. Di solito, con un documento simile si accede alle pene alternative. Ma io sono Corona, un caso, un soggetto pericoloso con un reato ostativo. Per me, niente cura. Solo pena". Fabrizio Corona, poi, ha commentato le parole di David Trezeguet, il calciatore vittima dell’estorsione di cui è accusato l’ex re dei paparazzi che, però, in tv, ha scagionato lo stesso Corona: "Appena ho sentito Trezeguet che pronunciava quelle parole di fronte a milioni di persone in televisione, ho provato un istante di felicità ma subito dopo, guardandomi intorno, sono stato riassalito da tristezza e sconforto, io oggi se non avessi quella condanna, non starei in galera. Trezeguet ha solo ripetuto le stesse parole riportate negli atti e pronunciate agli inquirenti nei vari interrogatori. Infatti, il gup mi aveva prosciolto nell’udienza preliminare. Certo, sentire le sue parole in tv rende tutto ancora più assurdo: un estorto che scagiona l’estorsore minaccioso e che usa metodi mafiosi, che però la vittima nega di aver subito, è veramente strano. Curioso, assolutamente folle. Come folle, è aver condannato a 8 mesi il fotografo per aver fotografato David Trezeguet in mezzo alla strada, come fanno ogni giorno milioni di paparazzi di tutto il mondo che ovviamente non vengono condannati a nessuna pena perché stanno facendo semplicemente il loro lavoro. Ma oggi devo solo pensare a come riprendere in mano la mia vita e a come tornare da mio figlio". Olanda: Google e il condannato che vuole essere dimenticato, una storia appassionante di Gianluigi Marino Corriere della Sera, 1 novembre 2014 Come qualcuno ricorderà, la sentenza della Corte di Giustizia Europea nel caso Costeja Gonzalez ha innescato un grande dibattito sulle modalità di esercizio del diritto all’oblio, sul ruolo dei motori di ricerca, sui criteri del bilanciamento tra diritto alla riservatezza e altri diritti (primo fra tutti, il diritto di informare e essere informati). È noto che Google è stata sommersa di richieste di de-indicizzazione di link ritenuti meritevoli di oblio ed è noto che Google ha interpellato filosofi, giuristi ed altri esperti per individuare criteri oggettivi nella distinzione tra ciò che si può dimenticare e ciò che è ancora bene ricordare. Una recente decisione resa in un procedimento d’urgenza olandese è uno dei primi - se non il primo - casi giurisprudenziali successivo alla sentenza della Corte di Giustizia. Nel maggio 2012, il programma televisivo "Misdaadverslaggever" (Crime Reporter) di Peter R. de Vries trasmette un filmato ripreso con telecamera nascosta in cui un soggetto (inquadrato senza distorsioni di immagine o della voce, ma menzionato solo con il nome di battesimo e l’iniziale del cognome) discute con un asserito assassino il miglior modo per liberarsi di un concorrente in affari. A seguito di tale avvenimento il protagonista del filmato viene condannato (siamo ad agosto 2012) a sei anni di carcere per istigazione all’omicidio. I video trasmessi nel programma televisivo di Peter R. de Vries sono la base delle motivazioni della sentenza. Condannato in primo grado, il soggetto viene rilasciato in pendenza del giudizio di appello che dovrebbe concludersi entro l’inizio del 2015. Come è normale pensare, vari media olandesi danno risalto alla notizia, sempre omettendo il cognome per intero della persona coinvolta. In aggiunta, il caso ispira uno scrittore nella stesura del suo nuovo libro giallo e nel 2013 esce un libro che mescola fatti (facts) e finzione (fiction): faction. Nel libro tuttavia l’omicidio viene consumato e il protagonista del racconto ha il nome del protagonista della vicenda reale. Siccome se si utilizza il motore di ricerca Google e si digita il nome di quel soggetto, la funzionalità autocomplete suggerisce di aggiungere alla ricerca "peter r de vries" e al termine della pagina in cui vengono restituiti vari link compare la scritta "Alcuni risultati possono essere stati rimossi nell’ambito della normativa europea sulla protezione dei dati. Ulteriori informazioni", il protagonista della vicenda (e siamo a luglio 2014), tramite il form online predisposto da Google, chiede la de-indicizzazione di 8 link. Google risponde a fine agosto di avere proceduto all’accoglimento della richiesta per solo 3 degli 8 link richiesti. Alcuni dei link per cui Google aveva rifiutato di applicare la richiesta di oblio da parte dell’interessato riguardano Amazon e Google Books, link alle pagine relative alla presentazione/acquisto del libro la cui trama è ispirata alla vicenda criminale in questione. Insoddisfatto della reazione di Google, il mandante (a detta della sentenza di primo grado) dell’omicidio non consumato decide di adire il tribunale per chiedere che venga ordinata a Google (Google Netherlands e Google Inc.) la deindicizzazione dei link ancora presenti dove è menzionato il suo nome, la rimozione dei risultati di ricerca in cui il nome è menzionato parzialmente o non è menzionato, l’eliminazione della frase di chiusura riportata sopra e relativa alla possibile incompletezza dei risultati dovuta alla rimozione di link nell’ambito della normativa europea sulla privacy, la disconnessione del proprio nome da quello suggerito automaticamente di "Peter r. de Vries". In breve, il reclamante chiede una pulizia della propria reputazione online costituita, in questo caso, dai risultati restituiti dall’algoritmo del motore di ricerca Google. Innanzitutto il giudice olandese stabilisce che non c’è sufficiente prova circa il fatto che Google Netherlands sia titolare del trattamento in relazione al servizio di Search gestito da Google Inc. Il tribunale si trova quindi a dover decidere se i link in questione contengano o meno informazioni - in questo specifico caso - inadeguate, pertinenti o non più pertinenti o, ancora, eccessive rispetto agli scopi del trattamento. Nel farlo, il tribunale riconosce di dover tenere in considerazione il diritto alla privacy dell’individuo e il diritto alla libertà di informazione di Google Inc. nonché l’interesse degli utenti di internet, dei webmaster, e dei fornitori di informazioni sulla rete. Il giudice ritiene che, seppur appellata, allo stato vi è una sentenza di condanna per un reato grave e il reclamante deve sopportare le conseguenze delle sue azioni; la decisione Costeja Gonzalez non ha lo scopo di proteggere le persone dalle informazioni negative presenti in rete ma da quelle che costituiscono una sorta di persecuzione per un lungo tempo e che sono non più pertinenti, eccessive o risultano diffamatorie senza necessità. Di norma - e comunque in questo caso - le informazioni di cui ai link che si chiede siano rimossi non sono eccessive o diffamatorie senza motivo. Inoltre, la decisione olandese rileva che nel caso di specie il nome di un personaggio letterario coincide con quello del reclamante e pertanto i risultati possono benissimo continuare a essere mostrati in quanto relativi al personaggio omonimo e non alla persona (come se un parroco di nome Don Mariano volesse chiedere la deindicizzazione rispetto a pagine web relative alla mafia o a libri di Sciascia). Inoltre viene ritenuto non immediato il collegamento tra il personaggio del libro (con nome completo) e la persona condannata (individuata nelle notizie di cronaca con il cognome puntato). Tutte le altre domande svolte sono state ritenute infondate o non sufficientemente provate. Pur non conoscendo i dettagli dei link di cui si richiedeva la rimozione, i principi adottati dal giudice olandese appaiono condivisibili. La decisione è altresì interessante perché affronta il tema dell’oblio in un caso anche di omonimia tra persona e personaggio letterario. Come si vede da questa vicenda, in certi casi un abuso dell’esercizio del diritto all’oblio rischia di incidere su numerosi altri diritti e interessi. Sarà interessante vedere se casi più delicati arriveranno nelle aule di giustizia europee. Egitto: 336 detenuti amnistiati in occasione 41esimo anniversario della Guerra d’Ottobre Adnkronos, 1 novembre 2014 L’Egitto ha varato un decreto di amnistia per 336 detenuti in occasione del 41esimo anniversario della Guerra del Kippur, che vide la coalizione formata da Egitto e Siria combattere contro Israele. è quanto si legge sul sito del quotidiano egiziano "Youm 7", secondo cui l’individuazione dei beneficiari è stata fatta grazie a delle "commissioni" ad hoc che si sono occupate di "studiare i dossier dei detenuti di tutto il Paese e individuare chi aveva i requisti per beneficiare" del decreto. Come spiega il giornale, questo passo "si inscrive nella premura del ministero dell’Interno di promuovere i valori dei diritti umani" e in particolare della Direzione delle carceri di "applicare la politica detentiva secondo la sua concezione moderna, fornendo varie forme di assistenza ai detenuti, soprattutto per quel che riguarda il contatto con le loro famiglie". Niger: assaltato carcere a nord di Niamey, un pericoloso salafita tra i detenuti in fuga Aki, 1 novembre 2014 Un gruppo armato ha assaltato il carcere nigerino di Ouallam, 100 chilometri a nord di Niamey e non lontano dal confine con il Mali, per liberare un "pericoloso" detenuto salafita. è quanto riferisce il sito di notizie mauritano "Sahara Media", secondo cui il prigioniero sarebbe molto vicino al terrorista algerino Mokhtar Belmokhtar, che ha rivendicato il sanguinoso attacco all’impianto di In Amenas, nel sud dell’Algeria, nel gennaio del 2013. In un comunicato congiunto, i ministeri della Difesa e dell’Interno nigerini confermano l’attacco precisando che "numerosi detenuti sono evasi". Ma quello al carcere di Ouallam è solo uno dei tre attacchi perpetrati ieri da "elementi terroristi", come li definisce la nota. Nella regione occidentale di Tillabéri, vicino alla frontiera maliana, si sono infatti verificati altri due assalti: uno al campo di rifugiati maliani di Mangaizé e uno a una pattuglia militare a Bani Bangou. Il bilancio è di "cinque poliziotti, due gendarmi e due guardie nazionali uccise", mentre "due gendarmi, un poliziotto e una guardia sono rimasti feriti", afferma la nota, aggiungendo che "un gendarme, una guardia e un poliziotto risultano dispersi". Se il Niger è caratterizzato da una relativa stabilità, i Paesi vicini quali Mali e Nigeria sono invece interessati da un’intensa attività di gruppi estremisti islamici, che sfruttano la porosità dei confini per condurre attacchi transfrontalieri. Afghanistan: razzo dei talebani sul carcere della base di Bagram, feriti detenuti Ansa, 1 novembre 2014 I talebani afghani hanno sparato ieri alcuni razzi sulla base aerea di Bagram, nella provincia centrale di Parwan, uno dei quali ha colpito la prigione locale causando il ferimento di 26 detenuti. Lo ha reso noto oggi il ministero della Difesa a Kabul. Il portavoce del ministero, generale Zahir Azimi, ha precisato che l’incidente è avvenuto ieri pomeriggio quando due razzi lanciati dagli insorti si sono schiantati all’interno della base aerea, apparentemente senza causare vittime. Nel carcere colpito, ha aggiunto, si trovano soprattutto militanti talebani. Da parte sua il capo della polizia di Parwan, generale Mohammad Zaman Mamozai, ha detto all’agenzia di stampa Pajhwok che i feriti sono in condizioni stabili in ospedale e che i razzi sono stati sparati dalle montagne del distretto di Qarabagh. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha rivendicato l’operazione senza però fornire un bilancio delle vittime o dei danni provocati.