Serve una legge che "salvi" gli affetti delle persone detenute Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2014 Appello a tutti i giornali e le realtà dell’informazione dal carcere e sul carcere. Una delle più importanti battaglie che la redazione di Ristretti Orizzonti conduce da sempre è quella che riguarda gli affetti in carcere. Ormai sono anni che cerchiamo di sensibilizzare l’opinione pubblica su questa questione e, soprattutto, di coinvolgere i politici, che poi le leggi dovrebbero farle. A tale proposito, in occasione di un incontro con un gruppo di parlamentari del Veneto di schieramenti diversi, abbiamo ripreso questo tema, consegnando loro una proposta di legge elaborata dalla redazione stessa in collaborazione con molti esperti ancora nel 2002, e sottoscritta allora da 64 parlamentari di tutti gli schieramenti, ma mai calendarizzata. Ora questo testo è stato ripreso da alcuni parlamentari, su iniziativa del deputato di Sel Alessandro Zan, e riformulato per essere poi nuovamente presentato come proposta di legge. Abbiamo anche scritto un appello che ha al centro la liberalizzazione delle telefonate e l’introduzione dei colloqui riservati. Su questo appello vi chiediamo di raccogliere le firme delle persone detenute in tutte le carceri, e anche fuori, tra amici e famigliari: hanno un valore simbolico ma ci permettono di dare gambe e cuore alla nostra battaglia. Chiediamo allora una collaborazione a tutte le Redazioni interne alle carceri e invitiamo a dedicare, se possibile, un numero del loro giornale a questi temi, per promuovere una campagna di sostegno alla nostra proposta di legge, e di mandarci articoli per preparare un Dossier online su "Carcere e affetti" come risultato di un lavoro comune delle redazioni. Questo tema non riguarda esclusivamente le persone detenute, ma tutte le loro famiglie, che vivono delle situazioni di pesante disagio. Un dato veramente sconcertante è quello che riguarda i figli dei detenuti, il 30% circa da grandi rischiano di entrare pure loro in carcere. Crediamo che sia inaccettabile questa triste prospettiva di bambini con un futuro già segnato. Noi detenuti con gli anni finiamo per perdere ogni sensibilità ed equilibrio, e per provare solo rabbia verso le istituzioni. Lo stesso vale per i nostri figli, che rischiano di crescere con l’odio verso chi tiene rinchiusi i loro cari e dimostra a volte poca umanità. Se chiediamo poi un po’ di intimità con la nostra compagna, questa richiesta viene considerata solo sotto l’aspetto del sesso e la solita informazione distorta ci specula, intitolando articoli sul tema dei colloqui in carcere con titoli tipo "Celle a luci rosse". Ma l’intimità non è altro che un ingrediente fondamentale per cercare di mantenere un rapporto negli anni, anche una semplice carezza data in intimità può essere molto più efficace di qualsiasi manifestazione di affetto e vicinanza in mezzo a decine di estranei. Siamo fermamente convinti che unirci in questa battaglia possa essere una forza in più per ottenere il risultato sperato. E noi speriamo che questa battaglia un risultato lo dia: una legge per consentire i colloqui intimi e liberalizzare le telefonate. E una legge così, aiutandoci a salvare l’affetto delle nostre famiglie, produrrebbe quella sicurezza sociale, che è cosa molto più nobile e importante della semplice "sicurezza". Fiduciosi in un vostro coinvolgimento, attendiamo da voi riflessioni, proposte, sollecitazioni. La redazione di Ristretti Orizzonti Giustizia: Umberto Veronesi a Science for Peace "l’ergastolo va abolito, è contro natura" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 18 novembre 2014 L’ergastolo va abolito, è antiscientifico. Il celebre oncologo Umberto Veronesi, dal palco della sesta edizione della Conferenza mondiale di "Science for Peace", ritorna a parlare dell’ergastolo e della sua incompatibilità con la stessa natura umana. Ribadisce che i nuovi studi sulla neuroscienza dimostrano che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che viene messa in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare. Durante la conferenza mondiale, Veronesi si augura che ci sia presto "un referendum sull’ergastolo, come quello promosso nel 2013 dai Radicali, purtroppo senza successo". "Noi - aggiunge - vogliamo che la scienza lavori per la non violenza. Per fare questo vanno combattute le cause della violenza. È violenza la guerra, ma lo sono anche la fame, l’ingiustizia sociale, il razzismo, la vendetta, la pena di morte. E l’ergastolo, appunto". Il carcere a vita, sottolinea Veronesi, fondatore e presidente del movimento Science for Peace, "è una pena di morte molto lenta. È sbagliato e un po’ tutti i Paesi stanno meditando di abbandonarlo. Noi dobbiamo puntare a rieducare le persone che hanno sbagliato". L’oncologo ricorda anche la posizione di Papa Francesco: "Ha detto che l’ergastolo è una pena di morte nascosta. E non mi ha sorpreso: da laico seguo l’evoluzione di una certa parte della Chiesa che si batte per i più deboli, dagli immigrati ai carcerati, e contro la violenza". "È una linea non nuova - osserva Veronesi - perseguita anche da Papa Giovanni XXIII, autore della più bella enciclica del mondo, per il quale non esisteva una guerra giusta". Veronesi ribadisce che l’ergastolo è "un istituto privo di senso" e sottolinea che le carceri italiane oggi "non sono rieducative, e lo testimonia l’alto livello di recidività". Secondo i dati citati, il 70% dei detenuti torna a commettere reati, contro il 13% della Norvegia. "Ripeto da tempo - scrive nel messaggio scaturito dal convegno - che le carceri non servono a niente. Andrebbero chiuse e trasformate in scuole. Lo scopo della pena deve essere riabilitare ad essere buoni cittadini, non con l’isolamento ma con il confronto, non con l’esclusione ma con la discussione sulla vita del paese, non con l’abbrutimento intellettuale ma con libri, cinema, teatro, cultura. Non con l’inattività ma con il lavoro manuale e creativo". Giustizia: magistrati e riforme, quando il sistema si inceppa di Giovanni Fiandaca (Ordinario di Diritto Penale) Il Messaggero, 18 novembre 2014 La giustizia penale è un universo variegato nel quale si fanno e si dicono cose molto diverse, persino inedite. Fra le cose che accadono, si instaurano processi per giudicare ad esempio fatti che vanno dal furto di un ovetto Kinder al fantomatico crimine sottostante alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, con la non troppo dissimulata pretesa però di processare soprattutto la politica e la storia. E, in mezzo ai due estremi, troviamo un po’ di tutto, a riprova del fatto che il "penale" funge da strumento disponibile quasi ad ogni uso, dalla risoluzione del micro conflitto personale alla presa in carico di problemi sociali di ampia portata. Ma questo uso iper-inflazionato non provoca soltanto un ingolfamento della macchina giudiziaria vicino al collasso: a entrare in crisi è il senso stesso della giurisdizione penale, poiché il caricarla di troppe funzioni finisce col farle perdere identità. Nel contempo, un eccesso di aspettative circa la sua capacità di rendere giustizia, e la sua efficacia, è destinato a provocare delusioni e frustrazioni (come di recente, ad esempio, nel caso Cucchi). E così si produce un circolo vizioso, che contribuisce a discreditare la funzione giudiziaria agli occhi delle vittime dei reati e più in generale dei cittadini. Per esemplificare poi alcune delle molte cose che si dicono, richiamo innanzitutto il caso di un noto procuratore generale che, in un saggio recente su MicroMega (n. 7/2014), prospetta una diagnosi drammaticamente pessimistica della giustizia penale presente e futura, argomentando alla stregua del paradigma da lui stesso escogitato di "legalità materiale". Lasciando da parte l’enfasi filosofeggiante, alimentata da residui vetero-marxisti misti ad empiti egualitario-punitivi nei confronti dei colletti bianchi (beneficiari sinora di uno "statuto impunitario" conseguente alla ferrea logica sottesa alla predetta legalità materiale), la tesi è questa: serie prospettive di riforma della giustizia rimangono precluse, finché permarranno quelle ragioni macro-politiche e macroeconomiche di programmata (sic!) inefficienza della macchina giudiziaria che il sistema politico-economico complessivo continua - al di là di ogni contraria apparenza - ad avere interesse a far perdurare. In parole più semplici: o si torna a un progetto simil-rivoluzionario, o non c’è speranza di migliorare la giustizia. (Ho motivo di sospettare che, in un Paese diverso dal nostro, il fenomeno di un procuratore generale che sollecita a rinverdire ideologie radicali con ogni probabilità risulterebbe, oltre che strano, oltremodo preoccupante). Ancora: un procuratore aggiunto, intervistato di recente su Repubblica, invita il Csm a scegliere come nuovo procuratore-capo di Palermo "un candidato che condivida fini e strumenti del processo trattativa". Ora, prospettare la condivisione (quali che ne siano i possibili significati) di uno specifico, e assai controverso, processo come criterio selettivo di un dirigente di procura è una proposta certo inedita, ma che non per questo depone a favore dell’originalità di pensiero di chi la suggerisce. E gli esempi potrebbero continuare. Si obietterà che quanto or ora riportato riguarda magistrati che sono pur sempre esponenti di una frangia magistratuale politicamente antagonista, che è ben lungi dal rispecchiare la mentalità o cultura media dei magistrati italiani. Ma siamo sicuri che esista davvero, oggi, un "senso comune" giudiziario? In base alla mia ormai lunga esperienza di studioso e osservatore, sono indotto a ritenere che la magistratura odierna sia attraversata da un pluralismo e da una frammentazione di orientamenti, anche nel modo di svolgere la concreta attività giudiziaria interpretando e applicando norme ai casi concreti, che ben trascendono le diversificazioni politico-culturali riconducibili alle tradizionali correnti (articolazioni di posizioni esistono infatti anche all’interno di ciascuna corrente, senza che peraltro risulti sempre chiaro se le diversità di sfumature rispecchino ragioni culturali o, piuttosto, mire di potere). È vero che tra i magistrati delle ultime leve la tentazione dell’esposizione politico-mediatica, più o meno intrisa di populismo giudiziario, sembrerebbe regredire, mentre riguadagna terreno, di conseguenza, la propensione a privilegiare la dimensione tecnico-giuridica del mestiere di giudice. E altrettanto vero, però, che la suggestione di esercitare un controllo di legalità concepito in senso molto ampio, includente - per dirla con Alessandro Pizzorno - il "controllo della virtù" dei ceti dirigenti (politici, imprenditori, professionisti ecc.), non è scomparsa ma in qualche misura persiste anche tra i giudici più giovani. Se questo è all’incirca lo scenario odierno, la magistratura complessivamente considerata esibisce alla fine una fisionomia non solo molteplice, ma anche incerta e confusa. Ciò non è senza influenza sul concreto funzionamento del sistema-giustizia e sulla sua capacità di dare risposte alle aspettative dei cittadini. I problemi di funzionamento, infatti, non dipendono soltanto dalle mancate riforme legislative e dalla carenza di risorse personali e di strumenti materiali. La qualità del servizio-giustizia dipende non meno dagli orientamenti culturali dei magistrati e dalla qualità della loro formazione e preparazione professionale. È questo un aspetto fondamentale che, purtroppo, nelle eterne polemiche correnti tra politica e giustizia viene non poco trascurato. Perché non tentiamo di riaprire un serio dibattito pubblico sul ruolo del giudice nella realtà attuale, considerato che all’interno del mondo della magistratura. Giustizia: un magistrato che critica il potere dei magistrati... era ora! di Giuseppe Gargani (Onorevole, ex dirigente della Democrazia cristiana) Il Garantista, 18 novembre 2014 Caro direttore, qualche giorno fa un alto magistrato per la prima volta non ha difeso corporativamente la sua categoria ma, sia pur con riserve, nei confronti di chi alimenta critiche contro le sentenze solo per contestare "la giurisprudenza come sistema", pone un interrogativo che è alla base del rapporto tra politica e giustizia. Giuseppe Berruti (su Repubblica) auspica che il legislatore definisca nuovamente, in modo credibile e accertato, il ruolo dei giudici nell’attuale contesto istituzionale. on credo di sbagliare ma è la prima volta che un magistrato-giudice si pone questo problema superando tutta la retorica della indipendenza intoccabile come feticcio che pone il magistrato al di sopra delle istituzioni come colui che "fa giustizia" e fa prevalere il bene sul male: una entità etica. Berruti si pone un problema fondamentale che è la chiave di volta della tematica attuale: la Costituzione, egli dice, attribuisce alla magistratura un potere diffuso per cui la decisione del giudice è presa "senza intermediazioni", come interprete della legge e in questo modo la sua indipendenza non è personale ma è appunto "diffusa". Certamente i costituenti si trovavano in presenza di un "ordino" giudiziario neutro "bocca della legge" e lo regolarono come tale. Questo principio nei fatti è oggi superato per il ruolo diverso che esercita la magistratura e non solo in Italia. Nel 1948 quando i costituenti scrissero la Costituzione, la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza della norma, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua estraneità rispetto alle passioni politiche e la sua scontata imparzialità. Negli anni successivi abbiamo verificato una espansione del potere giurisdizionale che ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. L’intervento del magistrato è più penetrante e più diffuso rispetto al passato, e il giudice non è più sottoposto alla legge ma per così dire si trova in qualche modo "di fronte alla legge", come è stato detto con particolare acume da un illustre giurista, e si è costituito in soggetto politico anche perché il Parlamento ha prodotto tante leggi che hanno rafforzato il suo ruolo di supplenza e la sua funzione "politica". Si è determinato un rapporto anomalo tra diritto e giustizia, due termini che realizzano una patologia pericolosa quando sono in disarmonia. Individuare il ruolo della magistratura nei sistemi democratici maturi è un problema delicato e difficile laddove la giurisdizione si è arricchita di valori e di potere per le nuove e complesse funzioni che essa ha assunto e perché è diventata essa stessa garanzia e supporto di democrazia e di libertà. L’evoluzione del diritto e appunto il significato nuovo della giurisdizione, hanno di fatto superato il dettato costituzionale e l’"ordine" è diventato "potere". La crisi della legge, d’altra parte, ha affievolito la sua supremazia a vantaggio di un ruolo più consistente del giudice, che dunque si attribuisce una funzione pressoché illimitata di interprete della stessa norma, e quindi immagina di assumere un ruolo diverso, incontestabile: quello di raddrizzare il "legno storto" dell’umanità! E incidere quindi nella società. Insomma si è diffusa l’idea che il giudice è il garante della legalità mentre egli, in una visione laica e democratica, è chiamato ad una funzione ben diversa e cioè a reprimere l’illegalità: di qui l’anomalia della funzione giudiziaria e la inevitabile conflittualità con il potere politico e legislativo. Questo ruolo è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore, e il magistrato è diventato il protagonista delle lotte sociali e delle lotte di libertà. Dobbiamo dunque partire da questa considerazione di fondo per adeguare la Costituzione alla nuova realtà stabilendo la nuova funzione (oggi ibrida) del pubblico ministero, il nuovo ruolo del giudice e il valore della sua "indipendenza". Il richiamo di Berruti al legislatore è sacrosanto ed è fortemente impegnativo per evitare interventi come quelli "urgenti" presentati dal Governo che non tengono conto di questa complessa problematica e immaginano di trovare inutili scorciatoie per rendere la giustizia più rapida! E invece arrecano danni maggiori. Giustizia: che follia l’abolizione dell’appello di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione Camere Penali) Il Garantista, 18 novembre 2014 Coloro che intendono metter mano alla riforma della giustizia dovrebbero ricordare che una pratica efficace del problem solving presuppone approfondita analisi e attenta valutazione. Affrontare le riforme del processo penale con strumenti ideologici o, ancor peggio, trarre dall’occasionale insorgere di questo o quel problema per operare controriforme illiberali, autoritarie ed inquisitorie, significa inoculare nell’intero sistema pericolosi elementi distorsi vi e non risolvere le criticità ma spostarle da un luogo all’altro del processo, Prima, dunque, di prospettare come indispensabile una riforma della prescrizione che preveda la interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, occorrerebbe rispondere ad una serie di domande. Andando con ordine varrebbe la pena di ricordare che a seguito della introduzione delle legge Cirielli il numero delle prescrizioni, che nel 2005 ammontava ad oltre 200mila, si è sostanzialmente dimezzato. Ed occorre soprattutto rilevare come non sia affatto il dibattimento il luogo ove matura il maggior numero delle prescrizioni. Dati alla mano, risulta che nel 2012 le prescrizioni sono state complessivamente 113.057, ma di queste ben oltre 70mila sono intervenute nel corso delle indagini preliminari: 67.252 sono state oggetto di decreto di archiviazione, 4.725 sono state dichiarate con sentenza da parte dell’ufficio Gip/Gup. Ciò significa che immaginare come rimedio una interruzione dei termini dopo la sentenza dì primo grado sarebbe metaforicamente come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti, dopo cioè che la maggior parte delle prescrizioni sono già maturate. Al fine di procedere con la necessaria ragionevolezza occorrerà anche tenere conto del fatto che un adeguato e perdurante termine prescrizionale, funge nel nostro sistema da stimolo assai efficace alla celebrazione dei processi i quali, se sottratti a tale minaccia, resterebbero abbandonati negli armadi per dei lustri. Chi potrebbe auspicare un simile sistema che, in violazione dello stesso principio di ragionevole durata, e dispiacendo tanto alle vittime del reato quanto all’imputato, rinviasse tutti gli appelli in attesa di tempi migliori? L’interruzione dei termini avrebbe infatti, specie nei tribunali di maggiori dimensioni, e cioè quelli a maggior rischio di prescrizione, come risultato quello di creare un immenso limbo di processi all’interno del quale verrebbe a naufragare miseramente ogni ragionevole istanza di giustizia. Che senso ha, difatti, essere giudicati dopo troppi anni dal fatto, essere condannati a scontare pene inflitte per reati commessi molti anni prima, o anche essere riconosciuti come destinatari di un risarcimento con simili irragionevoli ritardi? E non si dimentichi ancora come una quota superiore al 40% delle decisioni di primo grado viene riformata in appello, per cui una interruzione dei termini all’esito del primo grado determinerebbe come effetto un notevole spostamento nel tempo di tali riforme, con la conseguenza di altrettante pendenze processuali ingiustamente e indeterminatamente dilatate nel tempo. E tuttavia, ad alcuni, simili scenari sembrano suggerire ben altre soluzioni. Più che dal razionale e pedante scrutinio delle cause, la soluzione dei problemi del processo può sortire in maniera più naturale seguendo la sempre incipiente onda emotiva del quotidiano, lo smarrimento di una opinione pubblica disinformata dinanzi a casi controversi. E allora perché perdere tempo in simili alchimie da legulei quando la soluzione, rapida ed efficace, è sotto gli occhi di tutti? Che si elimini in radice la pietra dello scandalo, questo appello che allunga i processi, pericoloso e ingombrante. Dopo Roberti e Gratteri, ora anche il Procuratore di Palermo, cavalcando il pubblico disagio, sembra implicitamente invocare soluzioni radicali fondate su riflessioni piuttosto originali. "Mi chiedo se sia giusto che la sentenza di appello prevalga su quella di primo grado", visto che nella maggior parte dei casi il giudizio di appello si basa "soltanto sulle carte" incapaci di "ricostruire il clima che aveva colto invece il giudice di primo grado". "Siamo sicuri - si chiede il Procuratore - che, benché il sistema stabilisca questo, sia più giusta la sentenza di appello? Anche questo è un ulteriore macigno sui tempi del processo". La questione andrebbe approfondita altrimenti, ma ci pare necessario segnalare con una qualche urgenza almeno tre punti critici del ragionamento. Siamo davvero tutti sicuri che il giudizio debba "cogliere il clima" piuttosto che soppesare prove e responsabilità individuali? Non si rischia di far così processi "a furor di popolo", piuttosto che "nel nome del popolo"? Il che non è proprio la stessa cosa. E poi, come mai simili riflessioni prendono forma di fronte a casi di assoluzione e non di fronte ad altrettanto clamorosi ribaltamenti in appello di assoluzioni in condanne sulla base delle medesime carte? E infine, siamo sicuri che questa voglia di smantellamento del processo sia un segno di modernità, un modo saggio di costruirci il futuro e non il sintomo evidente della perdita di capacità da parte di un’intera classe intellettuale del paese di immaginare, di leggere e di gestire la complessità del presente? La complessità della giustizia era un tempo un dato sedimentato e condiviso che non smarriva l’animo dei pensanti e faceva cogliere il valore complessivo e positivo di quella macchina processuale che a prima vista, solo ad uno sguardo ingenuo, può apparire irragionevole. Scrive in proposito Charles-Louis de Montesquieu nel suo "spinto delle leggi": "Se esaminate le formalità della Giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della Giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà". Giustizia: la zavorra dei processi civili, dieci anni di arretrati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 novembre 2014 Lo slogan è fin troppo facile: "Giustizia incivile, arretrato di 5,2 milioni di cause". È un numero reale, dietro il quale si nasconde però una realtà complessa e variegata, "che pur nella sua indubbia gravità andrebbe spiegata e, almeno in parte, ridimensionata". Ecco perché il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia, con uno studio del direttore Mario Barbuto, ha pensato bene di scomporre quella cifra, separare i numeri degli affari pendenti per grado di giudizio, materia e territorio, in modo da offrire spunti per un’analisi utile a trovare soluzioni. Un "censimento selettivo" dell’arretrato civile che porta a conclusioni - seppure parziali - meno drammatiche di quanto si possa immaginare. L’introduzione della distinzione tra arretrato vero e proprio e "giacenza", ad esempio, porta a dire che il primo è una patologia che diventa emergenza quando raggiunge livelli troppo alti, mentre la seconda è la fisiologica disparità tra il numero di nuovi fascicoli che arrivano sulle scrivanie dei giudici e quelli che si riescono a definire nello stesso periodo di tempo; e di solito non raggiunge dimensioni allarmanti. Anzi, il dato sulla produttività dei giudici italiani nel settore civile è tra i più alti in Europa. Secondo l’ultimo Rapporto sull’efficienza della giustizia della Comunità, l’Italia è al secondo posto per la "consistenza quantitativa annua di domanda di giustizia" dopo la Russia, ma secondi sono anche i nostri magistrati nella classifica del numero di procedimenti definiti, davanti a Francia e Spagna. I dati dei procedimenti iscritti e di quelli definiti riferiscono che nel 2011, a fronte di 4.475.419 nuovi fascicoli, ne sono stati chiusi 4.527.574; lo stesso trend s’è avuto nel 2012, finché nel 2013 sono stati definite 4.554.038 cause mentre quelle sopravvenute si sono fermate a 4.348.902. Cifre ancora da capogiro, ma che registrano come l’arretrato complessivo sia sceso, negli ultimi tre anni, di quasi cinquecentomila processi. Da questi numeri si deduce che i giudici italiani sono in grado di definire all’incirca 4,5 milioni di procedimenti all’anno, cioè in media 375.000 ogni mese. Ciò significa che, immaginando un ipotetico quanto irrealistico periodo senza nuovi processi, per smaltire l’intero arretrato civile sarebbero sufficienti 14 mesi, poco più di un anno. "Ci sarebbe da essere soddisfatti, anziché disperarsi", commenta Barbuto. Immaginare un blocco delle nuove cause per azzerare il pregresso accumulato negli anni è tuttavia irrealistico. Ecco perché l’analisi del ministero si è concentrata anche sulla "vetustà" dei processi arretrati, andando ad analizzare quali e quante sono le pendenze più antiche. Il risultato è che nei tribunali ordinari risultano ancora aperti 86.022 procedimenti avviati prima dell’anno 2000, 122.611 iscritti a ruolo fra il 2001 e il 2005, e ben 709.847 cominciati fra il 2006 e il 2010. Ad essi vanno aggiunti circa 130.000 cause pendenti nelle corti d’appello risalenti al periodo 2000-2010. Il totale si attesta su un milione di processi e poco più, che sono il vero arretrato della giustizia civile italiana, a rischio risarcimento nei confronti dei cittadini che decidessero di fare causa allo Stato per la lungaggine dei processi. Una "mina vagante", secondo il rapporto ministeriale, fatta di "cause vecchie e stagionate che i giudici italiani non riescono (e non sono riusciti) ad eliminare. Finché vi sarà una sola di tali pratiche vetuste, la giustizia civile non potrà considerarsi degna di un Paese normale". Ecco perché in queste situazioni dovrebbero intervenire i capo degli uffici, i quali "hanno l’obbligo di legge di programmare gli interventi mirati che garantiscano la rapida, se non immediata, eliminazione dell’arretrato, anche a costo di ritardare temporaneamente la trattazione degli affari più recenti. È preferibile infatti che gli affari più recenti crescano leggermente di durata, e anche di numero, anziché tollerare che negli armadi stazionino sine die affari risalenti nel tempo". Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, "questo studio è un importante sostegno al percorso riformista intrapreso dal governo, impegnato per abbattere l’arretrato civile e restituire credibilità al sistema; il pezzo di riforma già approvato dal Parlamento sarà presto integrato dalle norme della legge delega sul processo civile. Le nuove analisi ci consentiranno di capire meglio dove incidere e come intervenire". Giustizia: Viceministro Costa; pdl su misure cautelari non c’entra con il sovraffollamento Public Policy, 18 novembre 2014 "Ci tengo a sgombrare il campo dai dubbi sul fatto che questo provvedimento non c’entri con il tema del sovraffollamento delle carceri ma si inserisce in un ambito di rispetto di principi costituzionali che non sono aggirabili". A dirlo è stato il viceministro della Giustizia, Enrico Costa, nell’aula della Camera, nel corso della replica al dibattito sulle linee generali alla pdl sulle misure cautelari. Per Costa quindi "lo spirito di questo provvedimento" riguarda la custodia cautelare che "non deve consistere in una anticipazione della pena e non deve insinuare il dubbio che venga utilizzata per finalità diverse da quelle contemplate dal Codice". Per il viceministro, che ha ricordato gli oltre 17mila detenuti non definitivi e le oltre 22mila autorizzazioni di risarcimento per ingiusta detenzione cautelare, il provvedimento in esame rappresenta "un passo in avanti che dovrà essere verificato nella pratica". Giustizia: Sottosegretario Ferri; carceri, la vera sfida è "punire con dignità e rieducare" Ansa, 18 novembre 2014 "Adesso serve un cambiamento di cultura, perché pochi conoscono davvero la realtà carceraria". Il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri fa il punto sulla situazione delle carceri italiane, intervenendo al convegno "Carcere: modello Lazio", che si è svolto presso la Sala Tevere della Regione Lazio. "Bisogna chiedersi perché molti detenuti sono reclusi, perché non sono in grado di offrire alla magistratura delle garanzie per poter accedere alle pene alternative. È assurdo che chi non ha un domicilio o dei parenti non abbia gli stessi diritti di chi li ha. Serve poi una cultura della pena con misure alternative - ha sottolineato il sottosegretario - che non vuol dire non scontare la pena, ma farlo in modo diverso ed efficace, rieducativo, e che inoltre dà un tasso di recidiva minore. Esiste poi il problema degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Nel provvedimento di proroga, per la prima volta, si limita la durata massima della detenzione alla durata massima della pena da infliggere, quindi non più tutta la vita". Il punto fondamentale è la ripartenza "dal mondo del lavoro. La sfida per l’amministrazione penitenziaria è quella di rischiare di più nel gestire situazioni che possono creare e garantire lavoro. Se lo Stato si assumesse maggior rischio di impresa, avrebbe risparmi in tema di spending review". Inoltre, il sottosegretario ha ricordato, "il ministero dovrà ora provvedere a indicare il capo dell’amministrazione penitenziaria e il capo della giustizia minorile". E ha concluso con un appello: "Le altre regioni devono cercare di uniformare queste best practices adottate dal Lazio che possono dare l’impulso per risolvere il problema carceri. Punire con dignità e rieducare per dare alla società una persona diversa: questa è la sfida di tutti". Ferranti (Pd): Camere al lavoro su affollamento delle carceri "Questo anno e mezzo di legislatura è stato dedicato tra l’altro al problema del sovraffollamento". Lo ha affermato la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, intervenendo al convegno per i 10 anni del Garante dei detenuti del Lazio. "Ci sono delle leggi già approvate, tra cui quella che istituisce la messa alla prova per gli adulti - ha spiegato - e poi ci sono due deleghe: una per la depenalizzazione di alcuni reati e un’altra che riguarda la pena detentiva non carceraria, che potrà essere applicata dal giudici per reati fino a 5 anni. Inoltre ci sono stati i decreti legge già convertiti che hanno eliminato tutte le preclusioni della Cirielli in materia di misure alternative alla reclusione e hanno riportato i limiti della custodia cautelare in ambito più ragionevole, oltre ad altre misure che hanno riguardato le droghe, il piccolo spaccio come ipotesi di devianza marginale a cui non dedicare in via principale il carcere. Adesso il parlamento sta lavorando alla riforma della custodia cautelare in carcere - ha detto ancora Ferranti - proprio oggi c’è il terzo passaggio a Montecitorio, e stiamo lavorando sull’introduzione del reato di tortura. Dell’esperienza del garante del Lazio - ha affermato - si può esportare certamente a livello nazionale l’attenzione ai diritti dei detenuti e il loro recupero, a cui il carcere deve tendere, l’aggancio col territorio, il lavoro, la formazione universitaria e culturale e il diritto alla salute. Un insieme di sinergie che vanno esportate a livello omogeneo sul territorio, che possono servire da stimolo per il legislatore e per il governo per creare prassi applicative che realizzino giusto equilibrio tra certezza della pena, recupero del condannato e sicurezza sociale" ha concluso Ferranti. Giustizia: Icpc; da inizio crisi economica i detenuti italiani aumentano più degli stranieri Adnkronos, 18 novembre 2014 Dal 2007, anno di inizio della crisi, al 2013, la popolazione delle carceri italiane è aumentata del 28%, circa 14mila nuovi detenuti, con un incremento degli italiani maggiore rispetto a quello degli stranieri (+34% contro +20%). È uno dei dati del ministero dell’Interno, che sarà oggetto di analisi dell’XI Icpc Colloquium su mobilità e prevenzione del crimine, in programma da oggi sino a mercoledì 19, al Castello Utveggio di Palermo. Le tipologie di reato più diffuse sono furti e droga (25%), seguiti dai reati contro la persona (19%). Mentre per quanto riguarda gli omicidi, nel 2013 l’Italia presenta il tasso più basso degli ultimi 150 anni, con una stima di 480 omicidi consumati e 1207 tentati omicidi. I reati commessi dagli stranieri sono legati nella maggior parte dei casi alla legge sull’immigrazione (91%) e la prostituzione con un’incidenza del 78%. Il 40% dei detenuti per spaccio e produzione di stupefacenti sono stranieri, incidenza che scende al 31% per i detenuti per reati contro la persona, al 29% per i reati contro il patrimonio e al 9% per i reati legati alle armi. Carceri: la Uil-Pa scrive al Ministro Orlando "apriamo le carceri all’informazione…" Agenparl, 18 novembre 2014 Di seguito il testo della lettera che pochi minuti fa il Segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno ha inviato al Ministro Orlando sollecitando risposte alle criticità che oberano il personale penitenziario. In relazione alle polemiche susseguenti al caso Cucchi, Eugenio Sarno propone al Ministro di aprire le carceri all’informazione consentendo riprese della vita quotidiana e delle attività in carcere. "Egregio Ministro, più volte abbiamo avuto modo di dolerci per il mancato avvio dell’annunciata Fase 2, dopo che Ministero della Giustizia, Dap e questa Organizzazioni Sindacali hanno sinergicamente operato per consentire al nostro sistema penitenziario di superare, sebbene parzialmente, l’esame europeo. Fase 2, è bene ricordare, che prevedeva la collocazione al centro dell’attività politico-amministrativa le criticità che oberano il personale penitenziario, con particolare riferimento alla Polizia Penitenziaria. Purtroppo, come spesso accade, agli altisonanti proclami non fanno, e non hanno fatto, seguito atti e fatti concreti. Pertanto, nonostante i meriti che anche Ella non ha mancato mai di sottolineare, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria continuano a subire gli effetti di gravi sperequazioni rispetto al personale delle altre Forze di Polizia (questione alloggi docet), dell’atavica incapacità organizzativa del Dap e dell’insensibilità di molti Dirigenti e Comandanti. Di fatto del riallineamento ordinamentale ed economico dei Funzionari, Ispettori e Sovrintendenti non c’è più alcuna traccia. Così come della modifica normativa per quanto attiene la c.d. "colpa del custode". Gli organici continuano ad essere depauperati da quiescenze senza il necessario turn-over; nonostante questo si continuano ad aprire nuove carceri e padiglioni determinando un insostenibile sovraccarico lavorativo. L’incolumità del personale è quotidianamente posta a rischio non solo per le continue aggressioni ma anche per dover affrontare il servizio delle traduzioni con l’utilizzo di automezzi obsoleti e, molto spesso privi dei requisiti di circolazione. Si continua ad operare "a vista", considerato che l’innovativo (e da noi apprezzato e sostenuto) sistema della "sorveglianza dinamica" è praticamente archiviato non essendo intervenute quelle modifiche regolamentari, organizzative e tecnologiche necessario a supportarlo. Con la creatività propria del mondo carcerario, per gestire le tensioni e le pulsioni, si è dovuti ricorrere al regime aperto che consiste nel semplice allungamento dell’orario di permanenza al di fuori delle camere di detenzione senza, però, implementare le attività lavorative, scolastiche o ludiche. Il personale di sorveglianza, dunque, costretto a permanere nelle sezioni privo di qualsiasi strumento di difesa e alla mercé della violenza, che spesso scaturisce dall’ozio forzato e da promiscuità che potrebbero ben altrimenti essere gestite. Non bastasse tutto ciò nelle ultime settimane la Polizia Penitenziaria ha subito un attacco mediatico senza precedenti. Dobbiamo prendere atto, nostro malgrado, che l’Italia è il Paese in cui le sentenze più che essere rispettate sono al vaglio del gradimento di una parte, più o meno cospicua dell’informazione e della c.d. società civile, dal quale si traggono giudizi. Il riferimento, ci pare chiaro, è alla seconda sentenza di assoluzione degli agenti penitenziari coinvolti nel caso Cucchi e alle polemiche che ne sono derivate. È bene rimarcare che quella morte, come tutte le altre, segna una profonda ferita nell’animo di ogni operatore penitenziario. Quasi sempre quelle morti le giudichiamo nostre sconfitte. Il rispetto dovuto a tali tragedie, però, non può autorizzare nessuno a dubitare della legittimità di sentenze assolutorie pronunciate in nome del Popolo Italiano da ben due collegi giudicanti. Abbiamo,quindi, molto apprezzato la presa di posizione dell’ Amministrazione Penitenziaria sulla questione che, riteniamo, rispecchia anche il pensiero del Ministro della Giustizia. Purtroppo il triste e preoccupante fenomeno dei suicidi tra le fila dei baschi azzurri è uno dei due indicatori numerici in controtendenza con la deflazione degli eventi critici che si registrano all’interno dei nostri istituti penitenziari. Mentre calano i suicidi in cella (anche perché in 10 anni la polizia penitenziaria ha salvato in extremis circa 6.000 detenuti da propositi suicidi) e diminuiscono gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi tra i detenuti, il numero di suicidi di poliziotti penitenziari resta alto (120 negli ultimi dieci anni) ed aumentano gli episodi di aggressione in danno del personale impiegato nella vigilanza ai detenuti e agli internati (dal 1 gennaio 2014 ad oggi 325 aggressioni con un totale di oltre 400 agenti feriti, 142 dei quali hanno riportato prognosi superiori ai 7 giorni). Gli operatori delle frontiere penitenziarie (quelli che più volte sono indicati come "gli angeli in blu") sono allo stremo. E purtroppo riteniamo abbiano sufficienti ragioni per essere sfiduciati, arrabbiati e demotivati anche se continuano ad assicurare il proprio impegno per evitare l’implosione totale del sistema. Sciaguratamente pare che tutto ciò di critico capiti negli istituti penitenziari sia dovuto a colpe della polizia penitenziaria e basta davvero un nonnulla per finire davanti ad un Tribunale con accuse infamanti (e titoloni in prima pagina). Nella migliore delle ipotesi passiamo per aguzzini e torturatori, subendo surreali processi sommari; il più delle volte nell’assoluto silenzio dei vertici politici e amministrativi. Non cadremo nella tentazione di fare retorica sulla povertà dei nostri stipendi e le carriere bloccate o alle pensioni inadeguate; ci si consenta, però, di sottolineare i sacrifici, le ansie e gli stenti che profondiamo ogni giorno in quelle città fantasma che sono le nostre prigioni. Noi siamo consapevoli di essere gli ultimi baluardi a difesa della dignità umana nelle estreme frontiere della civiltà negata. Ed è per questo che vogliamo e pretendiamo rispetto. La società ci affida l’ingrato compito di operare nelle "discariche sociali" ma non ammette che il "pattume" si veda. Quando ciò accade ci definiscono incapaci e buoni a nulla, se non violenti e corrotti. Quando non accade veniamo sommersi da sospetti di utilizzare mezzi illeciti e violenti. Non possiamo non ripetere che noi siamo i primi a cercare e pretendere che chi devia dai compiti istituzionali sia perseguito, isolato ed espulso. Noi non abbiamo nulla da nascondere, tantomeno nulla da cui nasconderci. Chi abusa delle proprie funzioni deve rispondere di fronte alla legge. Ma è anche giusto pretendere che le sentenze vengano rispettate. Sempre. Chiunque sia il condannato o l’assolto. Da vent’anni ci battiamo perché si garantisca l’informazione penitenziaria, tanto da aver coniato all’alba della nostra esperienza sindacale (1991) lo slogan "Per abbattere le mura dei misteri occorre abbattere i misteri di quelle mura". Da circa due anni, grazie alla lungimiranza del Dap, abbiamo potuto concretare quell’obiettivo attraverso l’iniziativa "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori". Riteniamo di aver favorito l’informazione trasparente ed obiettiva, scevra da commenti ma affidata alla sola forza dei documenti fotografici che produciamo. Ma da sola questa iniziativa, evidentemente, non basta a garantire informazione e trasparenza su quanto accade realmente negli istituti penitenziari. Occorre altro. Molto altro. Conoscendo la Sua sensibilità, il nostro auspicio è quello che voglia contribuire concretamente a segnare una svolta: trasformando il carcere in una "casa di vetro". Si aprano quindi le porte agli organi di stampa; si consenta all’informazione, nel rispetto della privacy, di accedere ai luoghi detentivi e seguire l’attività quotidiana del carcere e di chi vi opera. Avremmo modo, forse, di far comprendere a gran parte dell’opinione pubblica che nei nostri penitenziari non si perpetrano abusi e angherie; in tal modo sarà, forse, possibile far emergere quel mondo di umanità, ascolto, professionalità e tolleranza che è la realtà ordinaria che caratterizza l’impegno della disarmata Polizia Penitenziaria all’interno delle sezioni. Anche per questo riteniamo che sia giunto il momento di installare all’interno di tutte le sezioni detentive un sistema di video sorveglianza che possa riprendere ogni momento e, all’occorrenza, rendere note le immagini degli eventi critici e di come vengono gestiti dalla Polizia Penitenziaria. Noi abbiamo un interesse supremo ed assoluto a fugare dubbi e incertezze in favore della verità vera, non di quella supposta o raccontata. Giustizia: il Garante Marroni; Cucchi prima di arrivo Tribunale fu in mano Carabinieri Ansa, 18 novembre 2014 La Russa scagionò Arma, ma su che basi? Serve razionalità. "Io dissi già quando accadde la vicenda una cosa semplice riguardo a questo ragazzo che spacciava droga. Io non so cosa gli sia successo nel quartiere, poi è stato preso dai carabinieri, ha girato tre caserme. Nell’ultima poi è arrivata la Croce rossa alle 4 del mattino, senza un medico, che gli ha toccato il polso e ha detto tutto bene". Lo ha detto il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, a margine del convegno sui 10 anni del suo ufficio. "Lui è stato nelle mani dei carabinieri dal pomeriggio fino alla mattina dopo, e prima ancora nel quartiere, dove aveva dei rapporti col mondo della droga. Ora - ha aggiunto - di tutto questo non ho visto analisi, esami, indagini: ho visto solo un accentuare l’attenzione sul carcere e sul tribunale. Ma bisogna pensare al prima dell’arrivo a piazzale Clodio. Questo ragazzo è stato sicuramente picchiato, malmenato e non si sa bene da chi. Io ricordo che l’allora ministro La Russa all’indomani stesso disse "i carabinieri non c’entrano". Ma dopo quale indagine lo disse? E con quale indagine disse che non c’era niente prima di piazzale Clodio? Sappiamo invece che quando arrivò era segnato sul volto, segni che indicavano che era stato picchiato. Da chi? Ora spero che indagini si facciano sul serio - ha concluso Marroni - e non sulla base di emozioni. Ci vuole razionalità". Lettere: L’Aquila e il caso Cucchi, giustizia incomprensibile di Dacia Maraini Corriere della Sera, 18 novembre 2014 Queste sentenze che si contraddicono pesantemente ci dicono qualcosa sulla guerra in corso all’interno della magistratura. Condannare e poi, in un secondo tempo, dire che "il fatto non sussiste", è una contraddizione che sconcerta l’opinione pubblica. Se i secondi giudici dicono che i primi hanno condannato per una colpa inesistente, non sarà come dare dell’incompetente ai primi? Chi sarà a dire il vero, chi l’onesto e obiettivo giudice? Se il secondo giudizio viene dato come migliore del primo, non sarebbe meglio mandare a casa i primi giudici incapaci e affidarci decisamente ai secondi? I due giudizi su Cucchi costituiscono l’esempio più grave e doloroso. Certo, i cittadini non conoscono i dettagli, ma hanno visto le fotografie di un giovane che entra vivo in una istituzione tenuta a proteggerlo e ne esce morto, con il corpo coperto di lividi. Si è arrivati a dire che quei lividi se li era fatti da solo. Questo, in termini popolari, si chiama arrampicarsi sugli specchi. E certamente non aiuta ad avere fiducia in una giustizia che ha assolto chi l’ha picchiato. E che dire del caso delle rassicurazioni date alla popolazione dell’Aquila preoccupata per le continue scosse, con la condanna degli scienziati seguita poi dalla loro assoluzione? Dobbiamo pensare che i primi giudici fossero incompetenti, prevenuti, accecati dalla voglia di vendetta, irrispettosi verso la scienza? I cittadini dell’Aquila ricordano che agli scienziati, nel terrore delle continue scosse, era stato chiesto proprio questo: ma corriamo rischi seri? Dobbiamo uscire di casa, trovare rifugio altrove? E la risposta che era arrivata loro era stata: No, state tranquilli. Cosa dovevano fare? Sono andati a dormire: e sono morti in centinaia. Certo le case erano costruite male, con operazioni di speculazione edilizia, senza le garanzie antisismiche. Ma se ai cittadini non fosse stata assicurata l’impossibilità di una scossa devastante, non sarebbero certo andati a dormire fiduciosi. Sarebbe bastato dire loro: "Nessuno può prevedere con certezza quando un terremoto diventa mortale, ma nel dubbio mettetevi in salvo". Poi si è detto che la stessa Protezione civile aveva chiesto agli esperti la rassicurazione. La responsabilità, però, rimane. In tutti e due i casi citati, ci troviamo di fronte a una tragedia per il Paese. La fiducia nella giustizia diminuisce ogni giorno e questo dà pace e sicurezza ai malandrini, di tutte le specie. Lazio: modello regionale per le carceri, boom di detenuti studenti universitari e lavoratori www.affaritaliani.it, 18 novembre 2014 "Si parla spesso di morti in carcere - ha detto il presidente del Consiglio Regionale Daniele Leodori - e si tace sul lavoro che si fa nelle carceri. Io voglio valorizzare questi risultati partendo da un dato: il +600% di incremento di detenuti del Lazio iscritti all’università in 10 anni". Dai reclusi ai migranti, dalla tutela della salute, al lavoro e all’istruzione a quella dei diritti fondamentali degli individui. Nei suoi 10 anni di attività, il Garante dei detenuti del Lazio ha costruito un modello di gestione del disagio penitenziario, esportabile nel resto d’Italia. "In questi anni - ha detto il Garante Angiolo Marroni - abbiamo sviluppato un modello istituzionale che ha coinvolto Enti pubblici e privati, istituzioni di ogni ordine e grado, il mondo della cooperazione e grandi imprese private. La bontà del nostro lavoro è confermata dai dati: la recidiva per chi sconta la pena in carcere è del 70%, per chi beneficia di misure alternative è del 20%. Su 950 persone che, attraverso il nostro ufficio, hanno trovato un lavoro, soltanto 8 hanno nuovamente commesso dei reati, meno dell’1 per cento. Un modello che consente più dignità in carcere e più sicurezza per i cittadini". In 10 anni ci sono stati oltre 110mila i colloqui effettuati nelle carceri del Lazio, mille al mese. Nel campo dell’Istruzione, con il Sistema Universitario Penitenziario i detenuti iscritti all’Università sono aumentati del 575%. Oggi i detenuti universitari sono 120. A luglio si sono laureati i primi 4 reclusi di Alta Sicurezza iscritti alla "Teleuniversità a distanza" realizzato con l’Università di Tor Vergata ed indicato dal Ministero quale Best practice da replicare sul territorio nazionale. Per quanto riguarda il diritto al lavoro, in 10 anni, 950 detenuti ed ex detenuti sono stati avviati al lavoro con le Coop sociali. Nel 2013 sono stati creati 38 posti di lavoro con l’avvio di attività artigianali e con i progetti di Call Center e Telelavoro realizzati in partnership con importanti aziende italiane (come Autostrade per l’Italia). Nella tutela del diritto alla salute fiori all’occhiello dell’attività, che pongono il Lazio all’avanguardia nella tutela della salute dei detenuti, sono i progetti delle odontoambulanze, Telemedicina, Carte dei Servizi Sanitari. Nel settore dell’Immigrazione, il Garante è un punto di riferimento per i detenuti stranieri, per gli ospiti del Cie di Ponte Galeria e per quelli del Cara. L’Assessore Visini: tirocini per inclusione lavorativa ex detenuti Una rete per l’attivazione di tirocini di orientamento e formazione per gli ex detenuti è il progetto "Modello Lazio" che la Regione mette in campo per rendere più umano il sistema penitenziario e per il quale la Giunta Zingaretti ha stanziato 500mila euro. L’iniziativa è stata annunciata questa mattina dall’assessore alle Politiche sociali e allo sport, Rita Visini intervenuta al convegno "Carcere: modello Lazio" promosso dal Consiglio regionale del Lazio e dal Garante regionale dei diritti dei detenuti. L’obiettivo della rete di "Modello Lazio" è quello di favorire il reinserimento sociale e lavorativo di chi, al momento dell’uscita dagli istituti di detenzione, si trova in condizione di particolare difficoltà e viene preso in carico dai servizi sociali territoriali della Regione. Il progetto ha come obiettivo rafforzare la funzione rieducativa della pena e sarà coordinato dall’Assessorato regionale alle Politiche sociali e allo sport in collaborazione con il Garante regionale dei diritti dei detenuti e con l’agenzia Sviluppo Lazio. A portare avanti l’attività di formazione professionale sarà una rete di realtà del Terzo settore, cooperative sociali, associazioni di promozione sociale e di volontariato, insieme a enti pubblici, imprese pubbliche e private che ospiteranno lo svolgimento dei tirocini. "Il sistema carcerario di un Paese civile è quello che rispetta l’articolo 27 della Costituzione: pena rispettosa della dignità umana e basata sul principio di rieducazione - ha dichiarato l’assessore Visini - Tutti gli indicatori confermano che solo portando in carcere istruzione, lavoro e cultura è possibile diminuire il tasso di recidiva. Il nostro, quindi, non è solo un riconoscimento alla dignità dei detenuti, ma è anche un investimento per la sicurezza delle nostre comunità". "La Regione Lazio manterrà alta l’attenzione sul tema dell’inclusione sociale dei carcerati", ha concluso Visini, che ha annunciato come entro la fine dell’anno verranno realizzate altre due azioni: "un progetto per la tutela dei minori figli di detenuti in collaborazione con l’Università di Roma Tre e un’iniziativa per la promozione dello sport in carcere". Lazio: il Garante dei detenuti Marroni "il nostro modello di detenzione è esportabile" Asca, 18 novembre 2014 Dai reclusi ai migranti, dalla tutela della salute, al lavoro e all’istruzione a quella dei diritti fondamentali degli individui. Nei suoi 10 anni di attività, il Garante dei detenuti del Lazio ha costruito un modello di gestione del disagio penitenziario, esportabile nel resto d’Italia. I risultati dell’attività del Garante - la prima Authority del genere ad essere stata creata in Italia nel 2004 - sono stati illustrati questa mattina nel corso del convegno "Carceri: Modello Lazio - Regione, Enti Locali, Società civile, quale pena, quale integrazione". "In questi anni - ha detto il Garante Angiolo Marroni - abbiamo sviluppato un modello istituzionale che ha coinvolto Enti pubblici e privati, istituzioni di ogni ordine e grado, il mondo della cooperazione e grandi imprese private. Siamo stati supportati da una Regione che in questo campo è all’avanguardia. Abbiamo pensato di non disperdere questo patrimonio e di trasmettere la nostra esperienza ad altre Regioni dove i Garanti operano con grandi difficoltà. La strada sulla quale abbiamo operato è stata quella di dare una speranza a chi soffre in carcere e di non dimenticare il diritto alla sicurezza dei cittadini. In carcere abbiamo cercato di trasmettere la cultura della Legalità e di cancellare il pregiudizio che accompagna i detenuti per tutta la vita. La bontà del nostro lavoro è confermata dai dati: la recidiva per chi sconta la pena in carcere è del 70%, per chi beneficia di misure alternative è del 20%". "Su 950 persone che, attraverso il nostro ufficio, hanno trovato un lavoro, soltanto 8 hanno nuovamente commesso dei reati, meno dell’1 per cento. Un modello che consente più dignità in carcere e più sicurezza per i cittadini" ha aggiunto. A parlare del "Modello Lazio", fra gli altri, i senatori Emanuele Macaluso, Bruno Astorre e Loredana De Petris, Umberto Marroni, Rita Visini (Assessore Politiche Sociali e Sport Regione Lazio), Desi Bruno (Garante Detenuti Emilia Romagna), Donatella Caponetti (Dirigente Giustizia Minorile Lazio), Eugenio De Crescenzo (Vicepresidente A.G.C.I. Lazio), Mario Panizza (Rettore Università Roma Tre), Maria Claudia Di Paolo (Provveditore Amministrazione Penitenziaria Lazio), Alberto Bellet (Presidente Tribunale di Sorveglianza di Roma). "Si parla spesso di morti in carcere - ha detto il presidente del Consiglio Regionale Daniele Leodori - e si tace sul lavoro che si fa nelle carceri. Io voglio valorizzare questi risultati partendo da un dato: il +600% di incremento di detenuti del Lazio iscritti all’università in 10 anni. Un dato emblematico di come le politiche del Garante mirino a migliorare la qualità della vita nelle carceri e a garantire il recupero sociale dei detenuti. Occorre programmare il reinserimento: ogni euro che spendiamo oggi in carcere è un investimento per il futuro, perché il compito delle istituzioni è di aiutare coloro che vogliono riabilitarsi rispetto agli errori passati". Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, ha rinnovato al disponibilità del Ministero a dialogare con tutte le componenti che operano nel carcere per trovare soluzioni operative. "Facciamo tesoro di queste esperienze che ha maturato il Garante e che sono un esempio da esportare nel resto d’Italia, perché la collaborazione tra istituzioni e tutti i soggetti che operano in carcere - ha aggiunto - sta tenendo in piedi il sistema". I risultati conseguiti in 10 anni dall’Ufficio del Garante sono stati sintetizzati in un video: sono stati oltre 110mila i colloqui effettuati nelle carceri del Lazio, mille al mese. Nel campo dell’Istruzione, con il Sistema Universitario Penitenziario i detenuti iscritti all’Università sono aumentati del 575%. Oggi i detenuti universitari sono 120. A luglio si sono laureati i primi 4 reclusi di Alta Sicurezza iscritti alla Teleuniversità a distanza realizzato con l’Università di Tor Vergata ed indicato dal Ministero quale Best practice da replicare sul territorio nazionale. Per quanto riguarda il diritto al lavoro, in 10 anni, 950 detenuti ed ex detenuti sono stati avviati al lavoro con le Coop sociali. Nel 2013 sono stati creati 38 posti di lavoro con l’avvio di attività artigianali e con i progetti di Call Center e Telelavoro realizzati in partnership con importanti aziende italiane (come Autostrade per l’Italia). "I punti di forza dell’esperienza del Garante - ha detto Donatella Ferranti, Presidente Commissione Giustizia della Camera - sono l’attenzione ai diritti dei detenuti ma anche l’attenzione al recupero sociale stabilito dall’articolo 27 della Costituzione. Il modello del Garante è fatto di sinergie che possono essere esportate nelle altre realtà italiane, ma che possono anche prese a modello dal legislatore nazionale per farne modelli di riferimento omogenei". Il Vicepresidente del Consiglio Regionale Francesco Storace, ha ricordato di aver creato, da presidente della Regione, il Garante. "Sono contento che quel lavoro prosegua - ha detto - Nel Lazio come in tutta Italia abbiamo una situazione complessa legata all’affollamento: noi rispetto ad altri stiamo messi meno male, circa 500 detenuti in più. Questo è certamente figlio di leggi e azioni messe in atto. Ma serve fare di più: sulla certezza della pena e sul trattamento umanitario. detto di aver molto apprezzato". Veneto: un’altra prigione a Venezia? soluzione anti-umanitaria di Damiano Aliprandi Il Garantista, 18 novembre 2014 Costruire un nuovo carcere in un isola della laguna di Venezia per risolvere il sovraffollamento. È la proposta del governatore veneto Luca Zaia, tra gli esponenti di spicco della Lega Nord. "È angosciante pensare che siamo arrivati a dei livelli che conoscevamo solo attraverso i film - ha dichiarato il presidente della Regione Veneto commentando il furto di un’auto con all’interno un bambino vicina a Treviso - le forze dell’ordine fanno il loro dovere, ma Parlamento e governo pensano soltanto a nuovi indulti, non a costruire più carceri, magari anche rivitalizzando qualche isola abbandonata della laguna di Venezia". L’idea di voler riaprire le carceri sulle isole non è nuova. Dal "ministro ombra" Gratteri ai leghisti, la soluzione della costruzione di nuove carceri e la riapertura delle antiche "colonie penali" delle isole rimane sempre di attualità nel dibattito politico. Eppure le carceri situate nelle isole sono state chiuse per una questione umanitaria , ma anche por motivi economici e di sicurezza. Le ragioni principali che hanno determinato la chiusura di questi stabilimenti vanno ricercate nelle maggiori criticità di gestione legate alle realtà isolane. Tra i problemi principali va sicuramente considerato quello dei colloqui, resi assai difficili e dispendiosi per le famiglie dei detenuti che spesso dovevano affrontare lunghi e costosi viaggi per poter parlare con i propri familiari. Problemi di natura simile doveva affrontare anche il personale civile e di custodia degli istituti, il quale era spesso costretto a trasferirsi sull’isola con l’intera famiglia, dovendo affrontare numerosi disagi quali la mancanza di servizi (scuola, ospedale, negozi di generi di conforto) e difficoltà di collegamento con la terraferma. Poi c’è il lampante esempio delle super carceri delle isole di Pianosa e Asinara, definite dagli stessi detenuti le "isole del diavolo", chiuse per i costi altissimi, ma soprattutto perché definito inumano dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. L’unico esempio, definito virtuoso, del carcere situato in un isola è quello di Gorgona, provincia di Livorno: è considerata l’ultima colonia penale agricola ancora funzionante in Europa. È un carcere dove si sta soprattutto fuori dalle celle, i detenuti lavorano in vigna o nell’orto, curano gli animali e producendo formaggi e miele. Terra, piante e animali sono considerati i primi educatori per i detenuti - circa 70 attualmente - che arrivano su richiesta dopo aver scontato più della metà della pena. Hanno la possibilità, oltre a vivere in un contesto di "libertà" e imparare un mestiere. Se le statistiche parlano di una recidiva stimata intorno all’80 per cento tra i detenuti che non lavorano, a Gorgona si attesta intorno al 20 per cento. L’isola oggi mostra i segni del tempo, i fondi hanno subito una fortissima riduzione ma cercano di rilanciare progetti con la collaborazione del mondo di fuori. Sempre con lo scopo di formare e fare assumere i reclusi. Ma la peculiarità di questo carcere è il vino, un riconoscimento ricevuto anche dalla Germania tramite un reportage pubblicato sul prestigioso quotidiano tedesco Die Welt. Nel suo ampio dossier, l’inviato tedesco Georges Desrues definisce "pregevole" l’iniziativa che ha reso unica questa realtà e che racconta con dovizia di particolari: "Gorgona è un’isola che si trova a più di 30 km dalla terra l’erma, in provincia di Livorno, nell’arcipelago toscano cui appartengono anche le isola d’Elba e di Montecristo. L’isola è famosa per ospitare anche un carcere molto particolare, in cui detenuti, grazie alle pregevoli iniziative del direttore Carlo Mazzerbo, si dedicano principalmente ad attività sociali e utili per il loro sostentamento ma, allo stesso tempo, per il benessere dell’isola. Oltre agli allevamenti di animali da cortile e alla coltivazione di diverse specie di piante, frutti e verdure, dall’anno scorso è partito un nuovo progetto, quella della produzione di vino proprio. Il direttore ha così contattato alcuni maestri vignaioli toscani, tra cui anche la famiglia dei Marchesi dè Frescobaldi. Lamberto Frescobaldi, la cui famiglia produce vino da almeno 30 generazioni, ha partecipato con grande entusiasmo a questo nuovo progetto". "Sono tuttora una settantina i detenuti - prosegue Desrues - che curano il vigneto e si occupano della produzione del vino "Frescobaldi per Gorgona". La famiglia ha messo a disposizione anche tutte le apparecchiature e le strutture necessarie per la vinificazione. L’anno scorso è stato imbottigliato il primo esemplare di questo vino, per un totale di ben 2.700 bottiglie che contenevano questo cuvée è derivato da uve di Vermentino e Ansonica, tipiche della regione e adatte al clima e alla natura del terreno dell’isola. Il risultato è un tipico bianco mediterraneo, dal bel color paglierino e molto ben strutturato, fresco e sufficientemente acido, con note molto forti di frutti esotici, camomilla e nocciola e con retrogusto persistente". "Presto il vigneto verrà esteso, verranno aggiunte nuovi viti e, in programma, ci sono anche varietà di uve rosse. Il vino - conclude il giornalista del Die Welt - va così ad aggiungersi ai tanti prodotti confezionati dai detenuti del carcere di Gorgona: olio d’oliva, miele, formaggio bovino, caprino e pecorino, latte, frutta e verdura. Tutto biologico e fatto a mano". Sardegna: Socialismo Diritti Riforme; meno di 4 euro… per 3 pasti al giorno ai detenuti Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2014 "Garantire tre pasti al giorno pro capite a ciascuno dei cittadini privati della libertà ristretti nei 12 Istituti della Sardegna costa mediamente allo Stato ogni giorno poco meno di 4 euro. Una cifra che sembra molto difficile considerare adeguata a garantire colazione, pranzo e cena sufficienti per soddisfare le esigenze di quanti, in attesa di giudizio o condannati a una pena definitiva, si trovano dentro una cella". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati sull’affidamento del servizio di somministrazione dei pasti e dei generi di sopravvitto contenuti nella relazione della sezione di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti. In particolare per i detenuti che scontano la pena negli Istituti di Cagliari, Is Arenas, Iglesias e Isili, l’accordo quadro della durata di 4 anni, prevede una diaria giornaliera individuale di 3,740 euro mentre per i cittadini reclusi in tutti gli altri Penitenziari la disponibilità quotidiana è aumentata di due millesimi di euro. "È diffuso il convincimento - sottolinea Caligaris - che lo Stato sostenga pesanti costi per il mantenimento dei detenuti non solo per garantirne la custodia ma anche per le spese derivanti dalla fornitura dei pasti. In realtà una persona privata della libertà, secondo le stime del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, costa 255 euro al mese che diventano oltre 3.500 con riferimento all’intero sistema, anche se il detenuto che lavora dentro un Istituto contribuisce individualmente alle spese del proprio mantenimento". "A gravare in negativo sulla bilancia - afferma ancora la presidente di Sdr - è però il numero dei giorni presunti di permanenza dietro le sbarre di ciascun ristretto infatti per l’area di Cagliari sono stati calcolate 1.392.333 giornate di presenza. Per Nuoro, Mamone, Lanusei e Tempio Pausania 921.891 giornate e per i Penitenziari di Sassari, Alghero, Macomer e Oristano 802.089. Resta però irrisolto il problema di come riuscire a offrire cibo sufficiente e decente con meno di 4 euro al giorno. Non a caso coloro che hanno disponibilità economiche acquistano i beni di consumo al sopravvitto e cucinano i cibi in cella condividendoli con i conviventi. Chi invece non possiede nulla deve accontentarsi del pasto ministeriale che talvolta è insufficiente anche perché le porzioni tengono conto non solo delle scorte disponibili ma anche della preponderante immobilità dei reclusi. Il Ministero insomma - conclude Caligaris - garantisce ai detenuti una semplice dieta, quella della rinuncia". Campania: oltre le sbarre, esperti a confronto per rieducare e integrare Il Sannio, 18 novembre 2014 L’obiettivo è finalizzato a migliorare la qualità dell’esecuzione penale dei detenuti nei territori coinvolti (Benevento, Avellino, Ariano Irpino, Lauro e Sala Consilina) e Caritas diocesane. Avere lo sguardo oltre le sbarre: l’obiettivo è rieducare e integrare. Questa mattina nella suggestiva cornice di palazzo Giordano vertici delle Case circondariali e della Caritas della Campania si ritroveranno a Montefusco per confrontarsi sul tema "Liberare la pena. Percorsi di condivisione dell’esecuzione penale". È il titolo dell’incontro conclusivo del corso di formazione sul Case management organizzato dalla cooperativa sociale Il Melograno Onlus nella sala convegni del palazzo del XVII secolo dalle ore 10.30 alle 13.00. Si tratta di un progetto che vede come soggetto responsabile la Fondazione Opus Solidarietatis Pax Opus di Avellino, ammesso a finanziamento da Fondazione Con il Sud. L’obiettivo: migliorare la qualità dell’esecuzione penale dei detenuti nei territori coinvolti (Benevento, Avellino, Ariano Irpino. Lauro e Sala Consilina) e Caritas Diocesane (Caritas di Avellino, Benevento, Ariano Irpino e Teggiano). Fare rete: è la parola d’ordine dei soggetti coinvolti nel progetto che "può divenire main-streaming - come spiegano gli organizzatori - riferimento per tutta la Regione Campania e anche per altri tenitori italiani. Si tratta di una iniziativa che si muove su un assunto base: la scarsissima qualità dell’esecuzione penale che oggi vige in Italia non riguarda unicamente un problema normativo, quanto un assetto culturale del Paese. Incredibilmente la cultura popolare e giuridica italiana, famosa in tutto il mondo per essere intrisa di cristianesimo e per essere stata culla del diritto, dall’antica Roma a Cesare Beccaria, oggi vive un momento di forte involuzione dei suoi standard di civiltà. La pena "regina" in Italia resta ancora il carcere come i dati ci dimostrano, e il carcere in Italia non funziona e non può funzionare per i numeri e per le tipologie di persone che le strutture ospitano. E quando si provvede a mettervi mano con strumenti straordinari, come l’indulto, accade, come e accaduto negli anni immediatamente successivi al provvedimento del 2006, che oltre il 20% dei detenuti rientri dopo poco tempo. Tanto che oggi i dati fotografano una situazione peggiore che nel 2005. Da qui si muove la reazione di una piccola porzione di territorio campano che va da Benevento alla provincia di Salerno. Un territorio animato da una forte e proficua intesa tra istituzioni penali periferiche del ministero della giustizia ed istituzioni ecclesiastiche (la rete delle Caritas Diocesane), in collaborazione con un settore d’avanguardia, teso a innovare più che a gestire le politiche sociali e penali di un territorio. La proposta culturale e pastorale delle Caritas può essere sintetizzata così: se è vero che una regola cristiana, considerata regola comune, e amare il prossimo come te stessi, allora sarà anche vero che quando quel prossimo sta espiando una pena, tu debba sentire quella pena come se fosse la tua. In concreto questa condivisione della pena è pensata nella costruzione di un sistema a maglie strette di presa in carico integrata di detenuti, persone in misura alternativa, detenuti domiciliari e famiglie di detenuti. Il sistema a maglie strette e la presa in carico integrata sono il cuore del progetto, basato su una serie di interventi riabilitativi efficaci, inseriti in uno scenario stabile di partecipazione di enti istituzionali deputati all’esecuzione penale ed enti non profit. Abbiamo toccato con mano che solo una rete stabile di attori può davvero prevenire i rischi delle recidive". Torino: due detenuti nigeriani tentano di impiccarsi nella stessa cella, salvati dagli agenti Adnkronos, 18 novembre 2014 Due nigeriani detenuti nella stessa cella hanno tentato di impiccarsi insieme con un cappio ricavato da un lenzuolo, ma sono stati salvati dalla polizia penitenziaria. È successo questa mattina nel carcere di Torino. "Solo il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari presenti - ha spiegato Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo Osapp - ha scongiurato il rischio del duplice e clamoroso suicidio. Il personale del corpo ha infatti immediatamente staccato i due detenuti dai cappi rudimentali ricavati dalle lenzuola e attaccati alle inferriate della cella provvedendo poi a chiedere l’intervento dei sanitari di turno" ha detto elogiando "la professionalità disimpegnata dai poliziotti penitenziari in servizio nelle carceri italiane, malgrado l’annosa assenza di una amministrazione centrale che ne riconosca impegni e sacrifici". Spoleto (Pg): Fp-Cgil; fondamentale ascolto reciproco tra Direzione e Garante dei detenuti Asca, 18 novembre 2014 La denuncia fatta in questi giorni dal Garante dei detenuti rispetto alle condizioni di vita di alcuni detenuti della casa di reclusione di Spoleto, ma anche l’azione messa in atto dagli stessi detenuti, impongono una riflessione complessiva sul sistema penitenziario, sugli strumenti e sulle modalità trattamentali utilizzate al fine della rieducazione e della prevenzione secondaria della popolazione. Per affrontare nel merito e senza fraintendimenti la complessità della questione e per garantire un superamento di questa fase critica che sta vivendo la casa di reclusione di Spoleto, riteniamo fondamentale un ascolto reciproco tra il Garante e la Direzione del Carcere, un confronto che nasca dal riconoscimento reciproco, fughi le ambiguità e i pregiudizi e invece ripristini, nel solco dei protocolli nazionali e della legge regionale che ha istituito la figura del Garante, una fattiva collaborazione. Ripristinare un corretto clima serve a tutti, a partire dai quei lavoratori operatori penitenziari che ogni giorno affrontano una molteplicità di conflitti. Rimini: detenuti utilizzati per lavori di pubblica utilità? associazione dice no "è scorretto" www.altarimini.it, 18 novembre 2014 L’associazione "Carlo Giuliani Onlus" di Rimini interviene sulla difficile situazione delle carceri, il giorno dopo a seguito della visita dell’On. Giulia Sarti e del Garante delle persone ristrette, Avvocato Davide Grassi, nel carcere di Rimini. Nell’esprimere soddisfazione che la situazione susciti l’interesse delle forze politiche, "ci auguriamo che la deputata abbia compreso o cominciato a comprendere che le carceri italiane sono piene di persone che hanno commesso reati di lieve e media entità, è vero, ma che spesso non sono libere solo perché non hanno avuto buoni avvocati o qualcuno che presentasse per loro una richiesta di affidamento". In merito all’utilizzo di detenuti per lavori di pubblica utilit, l’associazione ritiene "profondamente scorretto l’utilizzo con modalità gratuita di persone temporaneamente private della libertà personale in lavori c.d. di pubblica utilità perché deve sempre essere affermato il principio che il lavoro non può mai essere gratuito e una retribuzione, seppure minima, andrebbe prevista per queste persone" Comunicato stampa dell’Associazione "Carlo Giuliani Onlus" Se finalmente qualcosa si muove nel campo dei diritti delle persone temporaneamente private della libertà personale (ricordiamo non solo detenuti nelle carceri ma anche ristretti nei centri di detenzione temporanea per richiedenti asilo, sottoposti a fermo di P.G. e ci auspichiamo persone sottoposte a ricoveri coatti e residenti in strutture per il recupero da patologie psichiatriche e da dipendenze) con l’istituzione, attesa e auspicata da anni, del Garante anche nel Comune di Rimini siamo a constatare che, purtroppo, non è chiaro quali siano alcuni limiti morali e giuridici nello svolgersi di questa vicenda. Come Associazione che si occupa di differenze sociali riteniamo profondamente scorretto l’utilizzo con modalità gratuita di persone temporaneamente private della libertà personale in lavori c.d. di pubblica utilità perché deve sempre essere affermato il principio che il lavoro non può mai essere gratuito e una retribuzione, seppure minima, andrebbe prevista per queste persone. In una logica da Jobs Act, per cui la precarizzazione dei giovani e non solo è il futuro di questo nostro paese risulta, certo, comprensibile, da "quel" punto di vista, l’intenzione di utilizzare persone gravate dal senso di colpa per avere commesso dei reati che potranno anche dichiarare di essere ben contenti di effettuare quei lavori visto che non hanno alternativa e devono compiacere quelli che si occupano di loro per provare ad ottenere svariati e diversi benefici. In buona sostanza, la nostra Associazione, ritiene che se si afferma il principio secondo cui qualcuno, in virtù di una colpa, può lavorare gratis a breve non sarà difficile ritrovarci un po’ tutti gravati da svariate forme di colpevolizzazione (per esempio "non avere avuto successo nella vita") per accettare lavori e paghe da fame o, peggio, stage gratuiti di svariato tipo. Il lavoro deve avere sempre e comunque una forma di retribuzione. Sulla visita dell’On. Giulia Sarti siamo ben contenti che il Movimento Cinque Stelle si occupi della grave e annosa questione del degrado delle nostre carceri; ci auguriamo che la deputata abbia compreso o cominciato a comprendere che le carceri italiane sono piene di persone che hanno commesso reati di lieve e media entità, è vero, ma che spesso non sono libere solo perché non hanno avuto buoni avvocati o qualcuno che presentasse per loro una richiesta di affidamento. Quelle carceri sono piene di Stefano Cucchi e di Marcello Lonzi. Sarebbe un passo avanti nella uniforme e ben spalmata logica manettara che pervade il movimento Cinque Stelle, il cui capo politico, Beppe Grillo, ci ha, da poco, fatto sapere che la mafia era buona (quella che ha assassinato Placido Rizzotto), aveva una sua morale ma che poi è stata "corrotta" dai colletti bianchi. Unica nota positiva la presa d’atto che il Garante delle persone ristrette comincia, appena insediato, a fare il suo lavoro con la speranza che si arrivi ad un miglioramento reale delle condizioni di detenzione a beneficio non solo della popolazione carceraria ma della società tutta nel suo complesso. Come ha dichiarato recentemente Roberto Saviano, infatti, è nel degrado delle carceri italiane che la malavita, la camorra e la mafia trovano terreno fertile per arruolare nuovi soldati da far salire di grado, da balordi a affiliati di qualche cosca. Firenze: Garante detenuti, convegno su "fallimento del carcere e nuove prospettive" Adnkronos, 18 novembre 2014 Oggi, martedì 18 novembe alle 12 conferenza stampa di presentazione di "Delitti e pena: 250 anni dopo Beccaria". Il convegno si tiene il 21 e il 22 novembre a Firenze. Interviene Franco Corleone. Tracciare una riforma del sistema penale e penitenziario innovativa e credibile Firenze. Senso della pena, funzione dell’istituzione carceraria e nuove possibili prospettive sanzionatorie che riducano il ricorso alla carcerazione. Queste alcune delle tematiche che saranno affrontate nel convegno "Delitti e pena: 250 anni dopo Beccaria" che si terrà, nell’aula di Sant’Apollonia (via S. Gallo a Firenze), venerdì 21 tutta la giornata a partire dalle 9.30 e sabato 22 novembre, solo la mattina. L’ambizione è quella di costruire una piattaforma capace di tracciare una riforma del sistema penale e penitenziario innovativa e credibile. L’iniziativa viene presentata in conferenza stampa, martedì 18 novembre alle 12, nella saletta Montanelli in Consiglio regionale (via Cavour 4). All’incontro con i giornalisti intervengono il garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, il professor Emilio Santoro e Corrado Marcetti della Fondazione Giovanni Michelucci. Sanremo (Im): detenuto albanese distrugge una cella del carcere, l’allarme della Uil-Pa www.sanremonews.it, 18 novembre 2014 Nel carcere di Valle Armea a Sanremo, un detenuto albanese ha completamente distrutto ieri la camera detentiva e, solo grazie all’intervento della Polizia Penitenziaria, con grande professionalità e non senza difficoltà, è stato ripristinato l’ordine. "Appaiono sconosciuti - evidenzia il segretario della Uil Penitenziari, Fabio Pagani - i motivi che hanno condotto il detenuto a commettere questo grave episodio". L’uomo non risulta nuovo a questi atteggiamenti e Pagani rilancia l’allarme e presenta la drammaticità e la realtà della situazione del carcere di Sanremo: "Non tanto per il sovraffollamento (210 detenuti presenti), quanto per le difficoltà dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale, che ancora si ostina ad assegnare la responsabilità dei due Istituti penitenziari Imperia e Sanremo ad un unico Direttore e soprattutto a non mantenere gli impegni". Proprio del carcere di Imperia si temono le maggiori difficoltà: "Ad oggi sono ancora presenti 92 detenuti, nonostante il Provveditore Regionale abbia posto un limite di presenze di 80 detenuti: "L’istituto continua a vivere la piena emergenza ed ora basta - chiosa Pagani - perché bisogna impedire ingresso dei detenuti nelle ore notturne, senza contare l’invio di cinque unità di polizia penitenziaria in missione. Non è possibile che il personale di Polizia Penitenziaria di Imperia e Sanremo, resti abbandonato o meglio diretti da un’ Amministrazione Penitenziaria a singhiozzo e assolutamente incapace di mantenere gli impegni e gestire le criticità". Avellino: ho insegnato nelle carceri irpine... la scuola è speranza, ma serve tanto altro di Giulia D’Argenio www.orticalab.it, 18 novembre 2014 Prigioni, seimila detenuti liberi in otto mesi. Ecco gli effetti dello "svuota carceri". Questo il titolo di un approfondimento comparso sulle pagine online del settimanale "L’Espresso", che snocciola i numeri sugli effetti prodotti dall’ultimo provvedimento del Governo Berlusconi, nel 2010, per rispondere all’emergenza del sovraffollamento. "Una situazione insostenibile che sembra ora trovare una soluzione" si legge in un passaggio dell’articolo. Ma qual è la reale efficacia di queste politiche? Quali gli effetti concreti di lungo periodo? Basta davvero svuotare le celle per risolvere il problema? A parlare con chi, per un certo tempo, ha toccato con mano la realtà carceraria irpina, non è proprio così. Elsa, trentenne avellinese, è docente di materie umanistiche. Ha insegnato in diverse scuole medie della provincia. Per due anni, tuttavia, ha scelto di fare esperienze differenti, richiedendo di essere assegnata a una sede carceraria. Ha così avuto modo di lavorare prima all’istituto di Lauro poi, un paio di anni fa, a quello di Ariano, del quale conserva certamente i ricordi più vividi. La prima domanda, Elsa, è abbastanza prevedibile: come mai una simile scelta? "Mi rendo conto che possa apparire una scelta particolare. Di solito le sedi carcerarie non sono in cima alle preferenze di quei docenti che, avendo un buon posizionamento in graduatoria, possono scegliere dove andare. Semplicemente ero curiosa di fare questa esperienza e mi ha fatto piacere averne avuto l’opportunità. Ti dirò di più: quest’anno sarei voluta ritornare ma non mi è stato possibile perché un’altra collega aveva già fatto richiesta in questo senso". L’esperienza di Ariano è stata quella, per così dire più forte, intensa… "Sì, lì il regime carcerario è differente da quello dell’istituto di Lauro. Lo dimostrava già il fatto che per accedere all’aula bisognava passare, scortati da una guardia, attraverso vari controlli". Qual è stato l’impatto con la realtà carceraria arianese? "A dire il vero non ne ho risentito subito. Piuttosto dopo il primo mese di lavoro lì ti confesso che al mattino uscivo un poco prima di casa per restare un poco di più all’aperto prima di prendere il pullman per andare in classi, peraltro abbastanza fredde, a fare lezione. So che oggi al carcere di Ariano hanno costruito un nuovo padiglione ma allora noi facevamo lezione nella parte vecchia. Quella che mi prendeva, in certi momenti era una sensazione di oppressione a stare in spazi, per forza di cose, completamente chiusi. Tutto era amplificato, anche gli odori, in particolare quelli della cucina che inondavano gli ambienti dalla mattina e sembravano perciò impregnare anche le pareti". Qual è il ricordo più forte, l’immagine che più di tutte ti porti dentro di quel luogo? "Sicuramente Vedevo bambini piccolissimi in visita dai parenti e pensavo all’esempio che veniva dato loro quella di bambini piccolissimi, tra i 4 o 5 anni, che venivano in visita dai parenti, magari i papà. Li vedevo passeggiare in quel cortile e pensavo all’esempio, all’immagine del mondo del mondo che veniva in questo modo loro trasmessa. Per loro, seppur tanto piccoli, era una cosa normale entrare in un carcere. Ancora oggi penso che la mia vita scorre normale mentre ogni giorno c’è un bambino che varca, con grande naturalezza, quei cancelli per andare a trovare il padre, il fratello…". Quante classi c’erano e qual era l’età media, in particolare di quella che tenevi? "Gli alunni per classe erano una decina ma non c’era età media. In quelle sedi trovi studenti di tutte le età: si passa dal ventenne fino all’adulto di 60 e più anni. Nella mia, una classe di media, erano quasi tutti tra i 30 e i 50 anni. Poi considera che in quei contesti, la composizione delle classi durante l’anno può accadere che cambi perché c’è chi lascia o chi viene trasferito. A me, ad esempio, è capitato che qualcuno sia stato trasferito proprio il giorno dell’esame e non ti nego di esserci rimasta male perché si erano davvero impegnati: è stato un peccato veder tanto lavoro andare se non proprio perso, quasi". Che atteggiamento tenevano con te che sei una donna? Hai mai avuto difficoltà con loro in termini di apprezzamenti o atteggiamenti non graditi? "Guarda questa è una domanda che mi fanno tutti, soprattutto i colleghi. In realtà non ho mai avuto problemi di questo genere. Hanno sempre tenuto un atteggiamento molto rispettoso nei miei È una domanda che mi fanno tutti eppure hanno sempre tenuto un atteggiamento molto rispettoso nei miei confronti confronti. Prima di tutto considera che chi fa lezione lo sceglie: i corsi scolastici non sono obbligatori ma una delle scelte possibili in termini di attività che il carcere mette a disposizione. In più, non conveniva a nessuno avere atteggiamenti che potessero indurre un docente a lamentarsi con il personale: ne avrebbero soltanto rimesso, non potendo magari beneficiare dei permessi e di tutte quelle prerogative cui possono accedere per buona condotta". Ecco, con il personale com’erano i rapporti? "Non saprei definirli in maniera univoca: si tratta comunque di contesti particolari, dove il mantenimento dell’ordine è fondamentale. Direi che con le guardie c’erano rapporti sostanzialmente equilibrati. Alcune si mostravano certo più disponibili di altre, specie l’agente che ci accompagnava durante le ore di lezione ma erano rapporti tutto sommato distaccati e di equilibrio. Anche il direttore del carcere era abbastanza disponibile e cercava di venire incontro ai docenti nella misura del possibile". Mai vissuti momenti di tensione? "No" Che tipo di programmi seguivi? "Nelle sedi carcerarie, come nell’insegnamento per adulti in generale, il docente è lasciato molto libero. I programmi sono tarati sulla base delle esigenze di classi estremamente particolari. Ovviamente in un contesto come quello, dinanzi ad uomini adulti, per lo più italiani, che non sono per niente abituati a stare tra i banchi di scuola, che non sono per nulla scolarizzati e per i quali l’italiano stesso è una conquista, non ci si formalizza né si va tanto per il sottile: quello che si può cercare di fare è fornire loro strumenti per muoversi nel mondo, per acquisirne consapevolezza e squarciare un velo di ignoranza profonda, profondissima. Per capirci: per alcuni di loro anche guardare una carta geografica e riuscire a collocare l’Africa rispetto all’Italia è una conquista incredibile…". Continua… "Nella classe di un carcere ti trovi di fronte a uomini che sono nati e cresciuti in un certo contesto, che ha dato loro una forma mentale impossibile da sradicare in un anno di lezione. Nella classe di un carcere ti trovi di fronte a uomini che sono nati e cresciuti in un certo contesto, che ha dato loro una forma mentale impossibile da sradicare in un anno di lezione Un modo di pensare improntato anche a una forte ipocrisia, seppure inconsapevole. Molti erano estremamente religiosi, ad esempio, per quanto fuori razzolassero male, malissimo. Eppure per loro la poesia di Cecco Angiolieri era scandalosa: meglio, molto meglio San Francesco. Molti venivano da zone poverissime di Napoli e non avevamo mai visto nulla se non il mondo che li ha resi le persone che sono. Per loro non esiste altro e non li cambi: non li cambi con un anno di lezione, non li cambi con un esame. Nonostante questo era davvero bello vederli appassionarsi alla geografia e alla storia dell’Italia, del Sud, ai briganti e a Ninco Nanco. Pensa che una volta feci ascoltare loro il testo di una canzone popolare proprio sul brigantaggio e c’era uno di loro, un detenuto di 60 anni napoletano, il quale, pur non sapendo leggere bene mi chiese di poterne leggere il testo e lo fece con trasporto, con enfasi. Quindi non credi che la pena possa rieducare? "Certo, quando vedi uomini così tesi ed emozionati per un esame, intenti a studiare e prepararsi per fare bella figura e farla fare a te insegnante, ti si accende una speranza. Ti fa pensare che qualcosa possa cambiare. Lavorando in un carcere, esperienza che farebbe bene a qualsiasi insegnante, ti rendi conto di avere a che fare con persone che hanno le loro storie alle spalle e le loro peculiarità. Quando qualcuno manca in classe si sente la differenza. Si sente e come. Ma bisogna anche essere onesti: una volta fuori dal carcere non c’è nulla. Rientrano nello stesso giro e cominciano daccapo. Da un lato perché non ci sono alternative, dall’altro perché è molto difficile trovare un detenuto veramente pentito, che si prenda le responsabilità di quanto che gli è accaduto o di quel che ha fatto. Questo fa sì che una volta fuori, riprenda la vita di prima: lo dimostrava il fatto che molti detenuti ora reclusi hanno già usufruito dell’indulto. Il problema è a monte, è fuori. È un circuito difficile da spezzare e il carcere non basta". Ascoli Piceno: progetto "Coloriamo il carcere", il 20 cerimonia di inaugurazione dei lavori www.ilquotidiano.it, 18 novembre 2014 Giovedì 20 novembre, alle 15.00, presso il supercarcere di Ascoli Piceno, si terrà la cerimonia di inaugurazione dei lavori di "Coloriamo il carcere". Il progetto a sfondo sociale che prevede la decorazione dei muri di sale comuni, corridoi e cortili interni dell’Istituto, realizzata da artisti, writers e detenuti. Saranno presenti il presidente di Confindustria Ascoli, Bruno Bucciarelli, il direttore di Confindustria Ascoli, Luciano Vizioli, il presidente del Tribunale di Ascoli, Fulvio Uccella, Andrea Tarli, l’artista che ha realizzato il murales insieme ai detenuti della Casa Circondariale, il direttore dell’Istituto di pena, Lucia Di Feliciantonio, l’assessore all’Ambiente del comune di San Benedetto, Paolo Canducci, il presidente della Riserva Naturale Sentina, Sandro Rocchetti, detenuti e direttore della redazione di Io e Caino, il giornale del carcere titolare del progetto. È stato predisposto un permesso d’ingresso per la stampa e le testate che vorranno essere presenti potranno segnalarlo a questa mail, indicando i nomi di giornalista e operatore/fotografo anche il giorno prima dell’evento. Vi ricordo di portare con voi un documento di identità e di lasciare fuori cellulari, borse e portafogli. All’occorrenza, il materiale non consentito potrà essere riposto negli armadietti a disposizione dei visitatori e recuperato all’uscita. Avellino: concerto sociale di Mango per i detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi Comunicato Stampa, 18 novembre 2014 Domenica sera si è tenuto presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi un "concerto sociale", donato dall’artista Mango ai detenuti ristretti in quello che è stato definito il fiore all’occhiello dell’Amministrazione Penitenziaria, in considerazione delle numerose attività di recupero e dallo stile europeo che caratterizza la gestione organizzativa di questo carcere. Mango ha reso questo concerto unico, coinvolgendo i detenuti in una performance all’altezza della sua fama ed anche improvvisando con loro jazz session dall’alto valore artistico ed umano. "La musica", afferma il Direttore Massimiliano Forgione, "diventa lo strumento per ridare speranza a chi soffre il peso di una pena inflitta per gli errori commessi e considerando anche le serie difficoltà della società esterna ad offrire reali opportunità e spazi di reinserimento". Mango ha mostrato particolare interesse verso il progetto musicale "Prison’s Sound" che sta offrendo ai detenuti di Sant’Angelo la possibilità di creare brani inediti che l’artista valuterà, anche ai fini di eventuali promozioni discografiche. Gran Bretagna: in arrivo la "cavigliera della sobrietà" per i crimini legati all’ubriachezza L’Huffington Post, 18 novembre 2014 Carceri meno piene e strade con meno ubriachi in giro. È questa la duplice promessa di David Cameron ai britannici, se l’anno prossimo voteranno ancora il partito conservatore. Lo strumento con cui il primo ministro britannico ha intenzione di affrontare uno dei problemi più persistenti del Regno è un braccialetto, o meglio: una "cavigliera della sobrietà". L’idea è molto semplice: dare ai giudici la possibilità di scegliere come pena alternativa alla detenzione la "condanna alla sobrietà" per coloro che vengono giudicati colpevoli di danni o aggressioni mentre erano in preda ai fumi dell’alcol. I trasgressori verrebbero obbligati a indossare per un periodo compreso tra i due e i quattro mesi una targhetta elettronica che si porta alla caviglia. Ogni mezzora, la cavigliera effettua un controllo della sudorazione in cerca di tracce di alcol. L’informazione viene regolarmente inviata a un database, per poi essere scaricata e controllata dai funzionari di polizia incaricati. Se qualcuno si mostra recidivo, si interviene con una multa o eventualmente con la pena carceraria. Negli Usa il braccialetto è già in uso in diversi Stati. Tra i vip che sono stati costretti a indossare questo insolito gioiello c’è l’attrice Lindsay Lohan, condannata qualche mese fa a sei mesi di sobrietà. Alcune sperimentazioni sono in corso a Londra e nelle contee di Cheshire e Northamptonshire. Cameron, infatti, spinge su questa tecnologia già dal 2012, ma solo ora ha promesso di estenderla a tutta l’Inghilterra e al Galles se vincerà le elezioni. Secondo Bernard Hogan-Howe, commissario di polizia di Londra, circa l’80-90% degli arresti serali e notturni nella metropoli sono connessi all’eccesso di alcol. "Il problema si può letteralmente annusare nell’aria", ha detto Hogan-Howe al quotidiano The Guardian. "La maggior parte delle persone fermate sono ubriache. Se riuscissimo a ridurre nel tempo l’assunzione di alcol, otterremmo grandi benefici per la nostra società e soprattutto per i più giovani".