Quello che sogna la moglie di un detenuto Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2014 "All’inizio del prossimo anno, il parlamento di Algeri prenderà in esame la creazione all’interno delle carceri di aree riservate in cui i prigionieri potranno intrattenersi alcune ore con i rispettivi coniugi. Ne parla il quotidiano algerino Echorouk, che spiega come questa pratica sia già realtà nella maggior parte dei penitenziari arabi. Il ruolo di avanguardia nel settore spetta all’Arabia Saudita, che già nel 1978 riconosceva e applicava quello che viene definito il diritto alla privacy legale" (notizia Adnkronos, 12 novembre 2014). L’Italia sarà pure un Paese civile, avanzato, democratico, ma sulla questione degli affetti delle persone detenute può imparare, e molto, da Paesi probabilmente meno democratici, ma sicuramente più civili con le famiglie dei carcerati. I Paesi arabi, per esempio, non hanno nessuna paura a permettere i colloqui intimi. E non ne hanno molti Paesi dell’Est Europa, come racconta la testimonianza di un detenuto lituano, in carcere in Italia. Ma oggi vogliamo pubblicare anche un sogno, un sogno straordinariamente lucido e profondo della moglie di un detenuto, perché le sue parole forse possono toccare qualche cuore e non lasciare del tutto indifferenti. Pensavo che il mio Paese fosse tra gli ultimi, oggi scopro che è più innovativo di altri Nel mio paese, la Lituania, il problema dei colloqui intimi tra detenuti e famigliari non c’è mai stato. Da noi, ancora molti anni fa, i famigliari potevano venire una volta ogni tre mesi a trovare il loro caro detenuto per tre giorni interi, giorno e notte avevano a disposizione una stanza grande adibita a soggiorno e una camera per dormire. Adiacente c’era una cucina condivisa, separata da una porta, per cucinare con le famiglie di altri detenuti. Ciò permette alle famiglie di restare unite malgrado la detenzione del capofamiglia e di poter passare insieme del tempo importante per i figli che magari, essendo piccoli, non possono capire o conoscere il motivo per il quale il proprio padre non vive più con loro. Così si diminuisce quel senso di abbandono che assale i bambini non vedendo l’altro genitore con costanza. Se questo avveniva già nel passato, immagino che oggi le condizioni siano notevolmente migliorate vista l’importanza che il mio Paese riconosce a tutto ciò, ed in maniera particolare al problema della lontananza dei propri cari per chi sta in carcere e quindi delle difficoltà che riguardano l’unione famigliare. Saša 30 Febbraio 9999: Approvata la riforma sul "Carcere affettivo" Il governo ha approvato oggi la nuova riforma del sistema carcerario, contro le ipocrisie e il populismo di alcune correnti politiche, che sembravano voler bloccare qualunque cambiamento, solo fino a qualche anno fa. Invece, alla fine di un confronto durato poche settimane, si è arrivati all’approvazione. Tempi strettissimi, dettati dall’inaspettata mobilitazione dell’opinione pubblica, che nei mesi precedenti era scesa in piazza e davanti agli istituti di pena italiani, al fianco di ex detenuti e familiari di persone ristrette, per chiedere a gran voce un cambiamento deciso e forte, nell’interesse di tutti. "Vi sbagliate, non è un problema che riguarda solo i detenuti. Noi persone libere, che non abbiamo e forse non avremo mai a che fare col carcere, abbiamo il dovere di interessarci a questo argomento, esattamente come la moglie o la madre di un detenuto". Così rispondeva una donna, sotto al carcere di Poggioreale, alla domanda dei giornalisti "Perché vi mobilitate per un problema che non vi riguarda?". Davanti ai cancelli di San Vittore, Regina Coeli, Le Vallette, fino alle carceri delle città più piccole, folle più o meno grandi manifestavano, affinché si prendesse una decisione su come riformare il sistema di esecuzione penale. Un’opinione pubblica inaspettatamente agguerrita, stanca di un carcere che fosse solo un contenitore in cui riversare ingenti somme pubbliche, vuoto di contenuti e sovraffollato, dove si obbligavano le persone a trascorrere la somma di millenni di pene, in inutile ozio. "Ci riguarda, perché chi è detenuto non è uscito per sempre dalla società civile. Presto o tardi, vi farà ritorno e la rabbia, la sottomissione, l’odio che si respirano in carcere, hanno da sempre restituito a noi, come società, persone apparentemente disciplinate, ma cariche di rancore, che non temono più il carcere. Noi siamo qui a manifestare principalmente per la nostra sicurezza!". Una delle norme approvate oggi, riguarda il tema dell’affettività in carcere. Per decenni si è pensato che la pena dovesse incarnare alla lettera il nome che portava, trasformandosi in una sofferenza, se non addirittura in un’agonia. A questo scopo, si erano bandite dal trattamento delle persone detenute tutte le attività capaci di produrre gioia, poiché ritenute dannose ai fini della rieducazione e si sono resi illegali l’amore e l’affetto, in ogni loro forma: tra uomini e donne, tra padri e figli, tra figli e genitori, tra fratelli, tra amici. Per anni si sono accettate come necessarie pratiche disumane come colloqui vigilati, sotto lo sguardo di polizia o telecamere; trasferimenti disciplinari, a centinaia di chilometri di distanza dalla famiglia; telefonate rare, brevi e registrate; visite dei parenti ridotte al minimo necessario, sia per quantità, che per qualità e così via. In tempi di crisi, il provvedimento che è contenuto nella nuova legge e da cui ci si aspetta il cambiamento maggiore, è anche quello che richiederà i costi di attuazione più bassi: l’amore. Nei prossimi mesi, una commissione studierà i casi di detenuti allontanati dalla famiglia, in modo da organizzare trasferimenti mirati, allo scopo di riavvicinare i detenuti ai loro cari. A questo, che è il presupposto, si aggiungeranno tutta una serie di novità, che avranno lo scopo di incentivare le visite dei parenti, rendendole meno moleste (lunghe attese, perquisizioni, burocrazia,…) e più intime. Verranno attrezzati degli spazi interni al carcere, dove le famiglie che ne faranno richiesta, potranno riunirsi, come in una vera e propria casa e ricostruire quei legami affettivi, che fino ad oggi il carcere aveva scrupolosamente reciso. Non meno importante, sarà la nuova configurazione del personale di polizia penitenziaria. Fino ad oggi l’addestramento di questo corpo è stato spiccatamente militare, basato principalmente sull’obbedienza gerarchica, che regolava tanto il rapporto tra poliziotti, quanto tra poliziotti e detenuti, visti più come esseri ubbidienti, che pensanti. Stato di fatto che la nuova legge vuole rovesciare, prevedendo una formazione più umana della polizia. Un percorso sicuramente impegnativo e ambizioso, quanto necessario, per trasformare la polizia penitenziaria, da semplice organo di controllo e vigilanza, in figura chiave nel recupero della persona detenuta. La migliore gestione umana dei detenuti coinciderà con l’allentamento graduale del controllo, per poter guardare all’amore e all’affettività con occhio meno sospettoso, anche se dentro un carcere. Peccato solo che il giorno 30 Febbraio non esista e che il 9999 sia un modo elegante per dire "mai"… Ma è proprio così che deve finire? Emanuela, moglie di un ragazzo detenuto Lettera di un uomo ombra al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2014 Si è vero lo Stato italiano è contro la pena di morte perché preferisce cuocere i prigionieri a fuoco lento. (Diario di un ergastolano) Gentile Direttore, innanzi tutto mi presento. Sono un uomo ombra (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra loro) prigioniero nell’Assassino dei Sogni di Padova (così i prigionieri chiamano il carcere) condannato alla "Pena di Morte Viva" (così è chiamato l’ergastolo ostativo che ti esclude qualsiasi possibilità di morire un giorno da uomo libero). Se vuole sapere qualcosa di più dell’ergastolo ostativo (o come lo chiama Papa Francesco "Pena di Morte Nascosta") potrà visitare il sito www.carmelomusumeci.com. La redazione di "Ristretti Orizzonti" del carcere di Padova ha pensato di pubblicare per il mese di dicembre un numero speciale sulla ultime dichiarazioni di Papa Francesco sulla giustizia e sulle carceri. Le scrivo però per domandarle perché dopo le parole del 23 ottobre alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale di Papa Francesco, "Nel Codice penale del Vaticano, non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta" nessun politico o giornalista noto per le sue idee sulla "pena certa" ha detto o scritto qualcosa per contraddirlo. Sembra che per non perdere consensi molti di loro abbiano scelto la strada del silenzio. E per una volta sia i politici che i mass media sono d’accordo che meno se ne parla meglio è. Direttore, deve sapere che con la condanna alla "Pena di Morte Viva ( o "Pena di Morte Nascosta") non si vive, ma si sopravvive. Vivi una vita che non ti appartiene più. Vivi una vita riflessa. Una vita rubata alla vita. In questo modo il carcere per l’ergastolano è un cimitero, con la differenza che invece che morto sei sepolto vivo. Penso che tenere una persona dentro una cella per una vita non serve a nessuno. Oggi, nessuna delle nostre azioni può cambiare il nostro passato, ma uno Stato migliore potrebbe cambiare il nostro futuro. Lo spirito punitivo dopo tanti anni è ingiustificato nei confronti di persone che sono cambiate interiormente. D’altronde che rieducazione ci potrà mai essere per una persona che non uscirà mai dal carcere? Credo che nessun morto è più morto di un condannato alla "Pena di Morte Viva". Lei cosa ne pensa? Direttore, a livello personale le comunico che in questi giorni sono stato invitato per il 20 dicembre 2014 con la Comunità Papa Giovanni XXIII in udienza pontificia privata in Vaticano da Papa Francesco. Si figuri se la magistratura di Sorveglianza manderà un uomo ombra dal Papa. Io non credo ai miracoli, (sono agnostico) e però spero che accadano. Buon lavoro. Un sorriso fra le sbarre. Giustizia: carceri, l’emergenza non è finita… serve di più di Francesco Lai (Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 17 novembre 2014 E notizia di queste ore che la Corte di Strasburgo ha rigettato tutti i ricorsi presentati negli ultimi anni contro l’Italia, ritenendo quindi validi i rimedi posti in essere dal Governo. Abbiamo già espresso positive valutazioni per tutti gli interventi strutturali che portano alla decarcerizzazione, ed in questo senso sottolineiamo la necessità di approvare in tempi brevi il disegno di legge sulla custodia cautelare. Sarebbe un errore clamoroso ed imperdonabile pensare però che il problema delle carceri sia superato. Infatti, il numero dei detenuti è ancora esuberante rispetto alla capienza regolamentare ed un indulto avrebbe consentito di evitare il permanere di condizioni inumane. In carcere , dunque, si continua a morire di malattia, di malinconia, di inerzie e di solitudine. L’assistenza sanitaria è insufficiente e spesso inadeguata. Raramente c’è possibilità di lavorare, di studiare, di svolgere qualsiasi attività fisica. E così la finalità rieducativa va a farsi benedire. Fa piacere che il ministro della Giustizia, Orlando, abbia rilanciato questo tema e vogliamo sperare che alle buone intenzioni seguiranno i fatti. Dobbiamo però rilevare che l’irrisorio ristoro di otto euro non riesce ad essere liquidato con un rimbalzo di responsabilità sull’applicabilità della norma o sull’interpretazione della stessa. Il che fa pensare che i rimedi adottati oltre che inadeguati siano canzonatori, e non è una bella figura. Così come dobbiamo stigmatizzare con grande vivacità, ancora una volta, il differimento della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, non più tollerabile. Bene ha fatto il ministro Orlando a sostenere che il Governo è pronto a commissariare le Regioni inadempienti, per sottolineare un’altra vergogna del nostro Paese. Gli appelli del Pontefice, del Capo dello Stato e ora del presidente del Senato rimangono sospesi nel vuoto quasi che gli ultimi possano ammalarsi e morire. Però possiamo consolarci: c’è qualcuno che si preoccupa della salute di un detenuto. Infatti il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha negato il differimento dell’esecuzione delle pena a Bernardo Provenzano, perché in mancanza delle cure alle quali è sottoposto nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano, morirebbe in pochissimo tempo. Evviva! Giustizia: volontariato in carcere, la sfida è favorire il perdono delle vittime ai detenuti di Alessia Guerrieri Avvenire, 17 novembre 2014 Un filo lega la giustizia al perdono per chi è in carcere. Il perdono nei confronti della propria famiglia, costretta a vivere la sofferenza di avere un congiunto in cella. Ma, quasi sempre, i detenuti cercano anche la misericordia della vittime del reato che hanno commesso. E, indirettamente, della comunità intera. Questa relazione, che ha come anello fondamentale tutti gli attori del sistema penitenziario e il volontariato in particolare, è la chiave per passare da una giustizia punitiva a una giustizia riparativa; per andare insomma dalla reclusione fine a se stessa alla vera riconciliazione. Parte da un cambio di paradigma la nuova sfida che ha davanti la giustizia italiana; un rovesciamento culturale - secondo il Coordinamento enti ed associazioni del volontariato penitenziario (Seac) riunito per il secondo giorno in assemblea a Roma - che implica un nuovo protagonismo dei volontari in carcere. Ponte tra il detenuto e il mondo esterno, infatti, gli operatori hanno inoltre il compito di "un’azione al servizio del perdono, un perdono rigenerante" esordisce il presidente del Pontificio consiglio della Giustizia, monsignor Mario Toso, perché "non c’è giustizia senza vero perdono". E non ci si può nemmeno accontentare che il reinserimento del carcerato sia fatto di interventi slegati, dice, così come "misure tipo l’indulto o la depenalizzazione di certi reati non possono essere sufficienti" a risolvere le diseguaglianze che rendono i detenuti degli "esclusi reclusi". Quel che occorre è un ambiente sociale positivo, per il vescovo Toso, "investendo in politiche attive inclusive che rilancino l’occupazione e l’educazione". Un primo passo avanti nel meccanismo carcerario arriva proprio dalle esperienze di mediazione penale e di giustizia educativa, ricorda don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani penitenziari, "che significa dare gambe e forza per attuare il perdono", accordando ai detenuti "la fiducia di riparare al male che hanno fatto". Di fondo rimane l’idea di "un modello di giustizia diverso" precisa Roberta Palmisano responsabile ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria, non vendicativo e che "passa attraverso il ritorno in comunità di chi ha sbagliato". Giustizia: 17mila stranieri nelle carceri italiane, un terzo della popolazione detenuta di Nicola Imberti Il Tempo, 17 novembre 2014 Al 30 settembre 2014 detenuti presenti nelle carceri italiane (in totale 203 istituti penitenziari) erano 54.195. Che non è un numero perfetto visto che la capienza complessiva calcolata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è di poco superiore ai 49.300 posti. Tradotto: siamo ancora in una condizione di sovraffollamento. E di certo non conforta che, al 31 ottobre, si sia leggermente saliti toccando quota 54.207 (+12). Ma c’è un elemento in più. Nello stesso periodo il totale dei detenuti stranieri è passato da 17.522 a 17.578, cioè una differenza di 56 unità. Letto così il dato farebbe pensare che gli stranieri abbiano "contribuito" in maniera decisiva all’innalzamento della nostra popolazione carceraria. Se non fosse che esistono le misure alternative e gli arresti domiciliari che rendono più complicato il calcolo di "entrate" e "uscite". Detto questo una considerazione generale si può comunque fare: praticamente un terzo dei detenuti del nostro Paese è di nazionalità straniera. Oltre a fornire il dato complessivo, il Dap ha suddiviso il numero dei detenuti stranieri per sesso e nazionalità. La differenza tra uomini e donne è schiacciante. Su un totale di 17.578, 16.706 sono detenuti di sesso maschile, solo 872 le femmine. Che rappresentano comunque, anche in questo caso, un terzo dell’intera popolazione carceraria italiana (2.343). Nella classifica dei "più arrestati d’Italia" la medaglia d’oro viene conquistata dai detenuti marocchini che sono quasi 3.000 (2.979). Seguono romeni (2.859), albanesi (2.419) e tunisini (1.983). Un quartetto che sembra confermare i pregiudizi che spesso scatenano la rabbia dei cittadini italiani. Rabbia che è più incline a sfogarsi su certe etnie piuttosto che su altre. Se si considerano le prime dieci nazioni la fa da padrona l’Africa presente con Nigeria (722 detenuti), Egitto (540), Algeria (400) e Senegal (308). Chiudono Jugoslavia (286) e Cina (236). Andando oltre colpisce che nei primi 40 finiscano anche Spagna (89), Francia (85) e Germania (65). È veramente difficile fare statistiche e cercare di raccogliere un dato che sia rappresentativo di un fenomeno, ma scorrendo la classifica si può notare che Siria, Iraq, Libia e Afghanistan cioè tre delle nazioni dove, a causa della guerra, si registrano fughe di massa, contribuiscono in maniera tutt’altro che rilevante all’incremento della popolazione carceraria. In particolare: Siria 59 detenuti, Iraq 38, Libia 45, Afghanistan 28. Totale: 170, cioè meno dell’1%. C’è poi la divisione territoriale. La Regioni italiane con più istituti penitenziari sono, nell’ordine, Sicilia (24), Lombardia (19), Toscana (18) e Campania (17). Solo quinto il Lazio con i suoi 14 che ospitano 5.680 detenuti. Comunque sufficienti per conquistare la medaglia d’argento quando si parla di stranieri. Se infatti la Lombardia ne conta 3.387 su un totale di 7.697, la nostra Regione si ferma a quota 2.395. Insomma praticamente la metà della popolazione carceraria regionale complessiva. Per capirsi in Campania su un totale di 7.290 reclusi solo 864 sono stranieri. Ed eccoci nella Capitale d’Italia che tra territorio cittadino e provincia ospita 8 dei 14 istituti penitenziari regionali. Anche per questo, forse, Roma è la città che conta più detenuti stranieri:1.727. Milano ne ha quasi 1.700 mentre Bologna (351) e Napoli (381), sono decisamente staccate. Anche la Sicilia, dove pure approdano gran parte dei viaggi della speranza che partono dalle coste africane, non è al livello del Lazio e di Roma. Sull’isola la popolazione carceraria tocca le 6.000 unità. Solo 1.208 sono stranieri. Lo scrivevamo all’inizio. Il numero di reclusi nelle nostre carceri subisce continue oscillazioni a causa delle leggi sulle misure alternative e sulla possibilità di scontare ai domiciliari la propria pena. Ed è forse proprio questo il motivo che preoccupa di più i cittadini italiani. Cosa ne è degli stranieri che finiscono in carcere? Quando ne escono? E se escono tornano a delinquere? Quest’ultima domanda, lo diciamo subito, non trova risposta nei dati del Dap dove non esistono statistiche sul grado di recidiva. Sappiamo, però, quanti sono stati i detenuti usciti di cella nei primi 10 mesi del 2014 ai sensi della legge 199/2010 (Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive). La proporzione è rispettata: su un totale di 15.403 detenuti usciti circa un terzo 4.604 sono stranieri. In questo caso il Lazio è quinto dietro Lombardia (1.058 su 2.350), Toscana (679 su 1.361), Piemonte (584 su 1.326) e Veneto (445 su 1.000). Certo restano molti dubbi. Uno su tutti: in quali domicili i detenuti sconteranno la loro pena? Per ora si tratta di un’ipotesi sul tavolo di Palazzo Chigi dove il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha fatto arrivare il testo di un decreto legislativo che introduce nel codice la "non punibilità per particolare tenuità del fatto". Tradotto: nessun processo per i cosiddetti "piccoli reati". Su tutti i furti semplici che al momento sono puniti dall’articolo 624 del codice penale con una pena da sei mesi ai tre anni di reclusione. Certo, perché non ci sia punibilità, il comportamento dell’autore non deve essere abituale. Una magra consolazione per i cittadini italiani che, a gran voce, continuano a chiedere alle istituzioni di rendere più sicuri i loro quartieri e le loro città. Giustizia: processo al Dna di Piero Colaprico La Repubblica, 17 novembre 2014 Dal delitto di Yara a quello di Garlasco, la prova scientifica è sempre più spesso sul banco degli imputati: è infallibile o gli esperti tacciono sui suoi limiti? Per scoprirlo, siamo andati in un laboratorio a sottoporci al test. Ecco come una traccia di saliva inchioda un killer. Un delitto. Il presunto colpevole ha lasciato alcune macchie di sangue, per la precisione quattro. Su superfici diverse. E, tra i sospettati, a sorpresa, spunta il cronista. Non è l’inizio di un incubo, ma di una simulazione. Il cronista viene convocato nel laboratorio dell’università di Trieste. Lo aspetta Paolo Fattorini, biochimico che si occupa di genetica forense. Quello che non vedono i pubblici ministeri, non vedono gli avvocati, non vedono gli imputati, vedrà il reporter. In due giorni di laboratorio e provette, senza segreti, e senza censure. Un’esperienza unica, intorno a una materia complessa, che divide. E un’avvertenza preliminare s’impone. Dall’inchiesta su Yara Gambirasio rapita e trovata uccisa a Brembate di Sopra, a quella sul delitto avvenuto nella villetta di Chiara Poggi a Garlasco. Dalla tragica epopea giudiziaria di Simonetta Cesaroni, ammazzata nel suo ufficio di via Poma a Roma, al batti e ribatti processuale sulla coppia dei presunti assassini-studenti Amanda Knox-Raffaele Sollecito, succede questo: le indagini sul Dna si ritrovano sempre più spesso nella bufera. Nelle aule dei tribunali, la massima prova scientifica di anno in anno sembra diventare, anche a seconda di visioni e strumentalizzazioni, il più fragile degli indizi. Ma è davvero così fragile? "È meglio dimenticare i telefilm di Csi", si sente ripetere ovunque. Infatti, per le analisi semplici, come quelle sulle macchie di sangue e la saliva, in questo laboratorio basta una sicurezza "livello zero". Vale a dire, guanti e mascherine. Ovviamente da "fuori" non entra nulla: non reagenti, non strumenti. "Le "cose" possono solo uscire e non entrare", dice il professor Fattorini. Per ottenere i risultati di tre analisi (una su saliva, due su sangue), "faremo" (il cronista è dotato di varie mascherine per avvicinarsi agli strumenti) sette analisi, perché in laboratorio si testano sempre "i bianchi", e cioè i reagenti. Se il singolo reagente non risulterà "bianco", cioè neutro, è obbligatorio rifare tutto: quello che si teme come la peste, la "contaminazione", è in agguato. "Siete sicuri che non c’è stata contaminazione nella custodia dei reperti?" è un classico degli avvocati. In questo caso, dichiariamolo subito, i "bianchi" saranno perfetti: nessuna contaminazione. "Può passarsi il tampone sulla lingua e poi metterlo in questa provetta?", viene domandato al cronista. Il quale sa di essere innocente, eppure, di fronte all’autorità che mescola scienza e diritto, non può impedirsi una ruga d’istintiva preoccupazione. E adesso? La provetta con la saliva viene diluita e poi messa in una centrifuga per due minuti. Con la sorpresa di ogni ignorante, in fondo alla provetta compare un residuo biancastro: "Sono le sue cellule, più qualche microbo. La saliva è ottima per il Dna, perché è formata soltanto da cellule con il nucleo. Nel sangue, il nucleo ce l’ha una cellula su settecento". Che sia sangue, saliva o lacrime, come si passa da "qui" alla lettura del Dna? Succede attraverso varie fasi, si spaccano le proteine delle cellule e il Dna viene "purificato". Inutile raccontare per filo e per segno di enzimi, detergenti, "proteinasi k", fenoli eccetera. Basti sapere che quando le proteine vengono "digerite" (termine tecnico), finisce la prima fase dell’analisi-saliva del cronista sospettato. L’assassino? L’"Ignoto X" ha lasciato quattro macchie di sangue. Due su vetro, vicinissime, "praticamente contigue", dice il prof. Due su un fazzoletto di carta. Mentre la gran parte del materiale viene conservata per eventuali test ulteriori, soltanto due "pezzettini" di macchia (uno dal vetro e uno del fazzolettino) verranno analizzate. Un tampone passa su un angolino del vetro. Un paio di forbici tagliano un triangolino di tessuto. Tampone e tessuto vengono messi in due provette: diluiti, e poi centrifugati, con una piccola parte che viene prelevata da un micro puntale per il test della benzidina. "Se è sangue, si colorerà di blu subito, anche se è un test aspecifico, perché identifica solo gli ioni di ferro, presenti nell’emoglobina. Può essere - dice il prof - anche sangue di pesce". Una goccina di reagente, ecco un blu intenso, siderale. È sangue. Sangue umano, dirà poi il microscopio. Ci siamo. Per comprendere quanto l’analisi del Dna sia diventata invasiva, potentissima, e persino preoccupante, serve un tocco di fantasia algebrica. Innanzitutto, il Dna di una cellula umana pesa 4,4 picogrammi, unità di misura sconosciuta ai più. Conviene dunque partire dal milligrammo, che è - ricordiamolo - un quasi-niente, un millesimo di grammo. Segue il microgrammo: un milionesimo di grammo. Esiste una misura ancora più piccola: il nanogrammo, e cioè un miliardesimo di grammo. A noi sembra impossibile, eppure quel miliardesimo di grammo è a sua volta composto da mille picogrammi. Quindi, in un semplice miliardesimo di grammo c’è il Dna di circa 230 cellule e questo basta per un primo, ma spesso definitivo, esame. In altri termini, basta una macchia di sangue più piccola di una capocchia di spillo per fare non uno (come si dice), ma centinaia e centinaia d’esami del Dna. Le provette con "il grosso" del materiale genetico sono infatti già in freezer, nel laboratorio si lavorerà su quantità che definire minime è troppo. Ma così è: gli strumenti, lo appuriamo con i nostri occhi, "leggono" tutto. Abbiamo passato una notte e una mattina tra gel d’agarosio (estratto di un’alga), spettrofotometri, chelex. Anche aggeggi antichi, ai quali il prof è però affezionato. E apparecchi modernissimi. Il tutto ci sta portando a compiere un’operazione che nei tribunali non compare, ma è fondamentale: si chiama l’"amplificazione" del Dna. Per dirla in termini atecnici, si possono fare in laboratorio centinaia e centinaia di "fotocopie" del "libro" del Dna. Ma non di tutto il libro, che non c’interessa (non più). Bensì di alcune pagine, ben selezionate, di quella minima parte di Dna che abbiamo preso. E se pure quest’esperimento dovesse fallire, possiamo ritentarlo grazie al materiale messo sotto chiave in frigo e grazie al premio Nobel Kary Mullis. Surfista, pratico di droghe, uno capace di raccontare il suo rapimento da parte degli alieni, Mullis ha scoperto nel 1983 la Pcr, Polymerase Chain Reaction. Cioè, Mullis è stato il primo a ricreare in laboratorio una reazione che produce Dna. Biologi molecolari di tutto il mondo adesso fanno quello che Mullis ha osato fare per primo. Ma quale Dna è importante nei tribunali quando si parla d’identificazione? Da quando, negli anni 50 del secolo scorso, è stata scoperta la doppia elica del Dna, gli scienziati ne hanno studiato e ne studiano ancora ogni singola "porzione". Oggi sappiamo che il Dna "codificante", quello che codifica le proteine che ci danno le caratteristiche che abbiamo - sesso, occhi azzurri, altezza, predisposizione ad alcune malattie - è meno del cinque per cento. Il restante 95 per cento non "codifica". Ha una funzione strutturale, presenta caratteristiche ripetitive e diversissime da individuo a individuo. È "qui dentro" che gli scienziati hanno individuato quali sono le pagine giuste da fotocopiare, le sequenze da leggere per "trovare" una persona. È attraverso i decenni in laboratorio che si è arrivati al Codis, il Combined Dna Index System: sedici "pezzettini" di Dna, così facili da leggere e così diversi nel mondo da permettere l’identificazione scientificamente certa. Sono dunque questi "pezzettini" infinitesimali, chiamati marcatori, che nel laboratorio dell’ospedale Cattinara di Trieste stanno per essere fotocopiati davanti a noi. Lo fa la genetista Solange Sorçaburu Ciglieri, che, secondo un procedimento che aumenta e diminuisce le temperature del Dna, e che innesca enzimi speciali, riesce ad attribuire un colore diverso ai vari gruppi di marcatori. Il campione ottenuto adesso può essere messo all’interno di un "sequenziatore" (una macchina che legge attraverso un laser) ed analizzato da uno speciale software del computer: anche un semi-profano, alla fine, potrà leggere i risultati e fare i confronti tra i vari Dna. Ma allora, perché in tribunale succede che il Dna una volta porta a dire che è stato Tizio e la volta dopo ad affermare il contrario? "Abbiamo due problemi seri, al momento, come ci siamo detti nell’ultimo incontro dei genetisti forensi a Iseo, lo scorso ottobre. Uno è che siamo l’unico Paese in Europa a non avere ancora la banca dati del Dna, ma questo riguarda più che altro la polizia. L’altro è che manca la condivisione delle "linee guida" per districarci nei casi più problematici. Nei campioni che stiamo analizzando in queste ore, il Dna era in ottime condizioni. Ma quando ci s’imbatte nelle "macchioline che non vedi a occhio nudo" - quelle che chiamiamo Lcn: Low Copy Number, basso numero di copie - ogni genetista fa come ritiene lui sia "più" scientifico. E la scienza è fatta per essere confutata", dice il professor Fattorini. Il cronista sa che i pubblici ministeri chiedono sempre più spesso ai laboratori consulenze estreme: trovare il Dna sul coltello (Perugia) o sulla porta (Roma) sfiorati dalla mano dell’assassino; estrarre il Dna da corpi mal conservati (Elisa Claps, a Potenza, vent’anni sul sottotetto della chiesa); oppure, attraverso tracce miste, separare il Dna della vittima da quello dell’assassino (Yara). Tra i genetisti c’è chi dice che è "accettabile" provarci, e chi non ci sta. È qui, su questi picogrammi, che si vince o si perde il processo, che si va in carcere o si resta liberi. Verrebbe spontaneo obiettare "meglio essere certi al cento per cento" che innescare le "battaglie del picogramma". Verrebbe facile stabilire: fermatevi entro un limite che non generi controversie in una materia così delicata, così paurosa. Ma mentre si attendono i risultati - il sequenziatore ci mette circa mezz’ora a lettura del campione, e sono sette (ricapitoliamo: saliva del cronista, due di sangue del presunto assassino, tre "bianchi" ed un controllo positivo che ci dirà se il test ha funzionato a dovere) - ci alleniamo a leggere i risultati dei test sfogliando qualche caso risolto nel laboratorio triestino. Uno riguarda una bambina di sei anni. È stata aggredita in un bagno pubblico. C’è la fotografia delle mutandine. Un caso reale di Lcn, basso numero di copie. Che cosa fare? Ogni certezza di fronte a quelle immagini neutre, eppure struggenti, si sgretola. Qui ci hanno provato, a identificare il maniaco. Su sedici marcatori, faticando in laboratorio, ne hanno trovati cinque. Pochi, ma non pochissimi: messi accanto ad altri indizi, sono stati più che sufficienti per arrivare alla condanna del "sex offender". Il sequenziatore ha appena finito di lavorare (siamo entrati mercoledì sera in laboratorio, è venerdì ed è quasi ora di pranzo). Vengono stampati alcuni fogli A4 e si vedono picchi blu, gialli, neri e rossi. Quelli del presunto assassino occupano alcuni spazi, quelli del cronista altri spazi del tracciato di analisi. Diversissimi: basta scorrere i primi, senza verificarli tutti, per escluderci dalla rosa dei sospetti. Bene. Ma chi è dunque l’autore del crimine? In assenza della banca dati nazionale, lo cerchiamo nell’archivio elettronico del laboratorio. Confrontiamo i loci TH01, TPox, CSF1PO, D13S317... sino al D2S1338 tra quelli del sangue di "Ignoto X" e quelli di un uomo già inserito nella banca dati ospedaliera. Coincidono tutti e sedici: è lui. Ed è il professor Fattorini: la simulazione è finita. Abbiamo visto come una piccolissima quantità di sangue, sperma, muco, saliva, lacrime, pelle dia una certezza che va al di là di ogni ragionevole dubbio: se quel materiale viene trovato sul luogo del delitto, e contiene Dna, quel materiale appartiene a Tizio, oppure a Caio. Non si scappa. Questo lo capisce chiunque. Ma il professore che, con la pipettatrice, ha prelevato di persona le varie quantità minime, con puntali piccolissimi usa e getta, le ha diluite, ha eseguito i vari test secondo un protocollo accettato nella comunità scientifica internazionale, scuote la testa: "É quest’alta sensibilità a cui siamo arrivati - dice - a poter costituire un limite. Forse non per noi genetisti, quanto per i detective, per i pubblici ministeri, per i giudici. Noi possiamo dirgli "qui c’è questo". Ma se "questo" basta a un processo, e a una condanna, dovrebbero saperlo loro". Lettere: caro Celentano, lei ci ha offeso… di Stefano Cucchi non gliene frega nulla di Luigi Giannelli (Sostituto Commissario di Polizia Penitenziaria) Il Garantista, 17 novembre 2014 Signor Celentano, quando ascoltavo le sue musiche, le costruzioni artistiche dei suoi parolieri, ero convinto che oltre quel microfono ci fosse un grande uomo: intelligente, sensibile, con un sentimento fine a se stesso. Constatare dopo tanti anni di aver sbagliato mi duole, mi duole capire quanto lei e la musica che ha cantato siate all’opposto del concetto di sentimento. Devo forzatamente dedurre che tutto ciò che lei ha recitato con la musica, con le parole, con le espressioni, a volte anche pagliaccesche, era solo un fatto commerciale, che però è riuscito a convincere milioni di persone. Einstein diceva che esistono due cose infinite: l’universo e la stupidità umana, ma che sul primo aveva qualche ragionevole dubbio. Speravo che lei, Adriano, fosse un eccezione. Temo che chi ha rischiato, facendolo esibire come una persona diversa, fuori dalla musica, ha sbagliato obbiettivo e forse sta rimpiangendo i milioni con cui l’ha pagata, e nel tempo ce ne siamo accorti. Lei, signor Celentano, al di là del poco riuscito tentativo di poesia, nella sua lettera diretta al povero Cucchi, ha rivelato una assoluta, offensiva, becera concezione di una categoria davanti alla quale avrebbe solo il preciso dovere i togliersi il cappello: non le "guardie carcerarie" come afferma, ma il Corpo di Polizia Penitenziaria. Gente che lavora, e duramente, con sacrificio, in un ambiente spesso ostile, difficile da gestire ed anche da vivere. Certo lei non può capire perché la sua vita è sempre stata in discesa, buon per lei, ma questa sua agiatezza non le ha permesso di capire veramente la vita degli altri. Infangare un corpo di lavoratori, che ogni giorno, mese ed anno tentano del loro meglio per custodire la dignità di altri uomini come loro anche se meno fortunati è semplicemente una cosa indegna. Tanti miei colleghi hanno salvato vite, sventando ostinatamente molteplici tentativi di suicidio, recuperando persone che oggi sono cambiate e reinserite nel contesto sociale, hanno portato e portano ogni giorno parole di conforto a chi soffre a chi ha o non ha più speranza. Insultare, oltraggiare queste persone è semplicemente osceno, tanto più osceno se la motivazione dovesse essere soltanto il voler apparire, il voler emergere o l’essere stato contagiato da un delirio di onnipotenza. Io ho anche il dubbio che a lei del povero Cucchi interessi poco. Di quello che è successo al povero Stefano Cucchi interessa molto, ma molto, di più a noi che a lei. Il senso di pena, l’incredulità che ha suscitato la sua morte ha creato sconcerto in tutto il nostro Corpo, sconcerto ed anche dolore per una giovane vita ingiustamente falciata. E siamo noi, noi i primi a chiedere giustizia, noi i primi a volere la verità, perché ci rendiamo ben conto che solo la verità ci potrà sottrarre da questa gogna mediatica. Per cui, signor Celentano, ci faccia e si faccia un favore: la smetta di dire stupidaggini. In effetti le sue canzoni ci piacevano. Ma se non ce la fa più a cantare metta su una scuola di canto senza temere concorrenza. Non si renda ridicolo e rifletta bene e con coscienza prima di esternare su vicende che non conosce e, le ripeto, si tolga il cappello quando parla della Polizia Penitenziaria. Lazio: 500 detenuti in più rispetto alla capienza, ma 1.000 hanno trovato lavoro di Fabio Di Chio Il Tempo, 17 novembre 2014 Oggi il bilancio del progetto pilota del garante Angiolo Marroni. In aumento chi frequenta l’università e riesce anche a laurearsi. Carceri gioie e dolori. Il sovraffollamento resta: oltre cinquecento detenuti in più nelle quattordici strutture del Lazio. E si prova a fare il miracolo reinserimento. In dieci anni è stato trovato un posto di lavoro a quasi mille "ospiti", +575% di incremento di iscritti agli atenei grazie al Sistema Universitario Penitenziario e almeno quattro laureati nel 2013. Tutto sommato il Lazio sembra un’isola felix dei carcerati. Frutto di un progetto tutto regionale che ora si vuole esportare nel resto d’Italia. Almeno ci vuole provare il garante dei detenuti Angiolo Marroni. Stamattina nella sala Tirreno della Regione, in via Raimondo Garibaldi, dalle 9 si riunisce il gotha di politici e addetti ai lavori, che si occupa di gestire l’universo carcerario, ascoltando i dati di un mondo che ancora sembra un inferno, anche dopo l’approvazione in agosto della legge "svuota carceri", che dà una stretta alle misure cautelari (è più difficile andare in prigione) e prevede indennizzi a chi subisce trattamenti inumani (per esempio celle intasate). Una strada tutta in salita. Solo quattro mesi prima della nuova norma, secondo un report diffuso del Consiglio europeo di Strasburgo, nella lista nera sullo stato degli istituti di pena il nostro Paese era secondo solo alla Serbia. Oggi il progetto Lazio finisce sotto i riflettori degli esperti. Qualche nome: tra gli altri saranno presenti il vicecapo dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) Luigi Pagano, la dirigente della Giustizia minorile Donatella Caponnetti, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e i direttori generali di Asl Rm/A e Rm/F, Camillo Riccioni e Gennaro Quintavalle. Si farà il punto di dieci anni di vita dell’ufficio del Garante del Lazio e si andranno a vedere le cifre prodotte dall’idea di Marroni che si può riassumere in una frase: reinserire nella società chi è finito in cella per evitare che torni a fare quello che lo ha portato dentro le anguste quattro mura, ovvero delinquere. Per esempio. Nel 2013 creati 38 posti di lavoro in carcere con attività artigianali, progetti di call center e telelavoro in partnership con importanti aziende italiane. Decine le compagnie teatrali promosse nelle carceri del Lazio e addirittura i detenuti-attori di Rebibbia hanno vinto il Festival di Berlino con "Cesare deve morire". Odontoambulanze, telemedicina, Carte dei Servizi sanitari e oltre ventimila colloqui effettuati per la tutela della salute. La spina nel fianco resta. È rappresentata dalle celle gremite. Il totale delle presenze è superiore alla disponibilità dei posti (chiamati "regolamentari"). Il Dap ha provato a risistemare il rapporto a modo suo, parlando di "capienza tollerabile". In pratica, se ci si stringe un po’ il numero degli occupanti per cella può aumentare un po’. I casi più eclatanti. A Regina Coeli 641 regolamentari contro 778 presenze, ma 959 tollerati. A Rebibbia (prima casa), 1.502 invece di 1.235, che per il ministero possono salire a 1.771. Rebibbia femminile: 336 al posto di 263, ma se compressi si arriva a 386. Latina scoppia: 76 regolamentari, 139 presenze, 136 tollerabili. Velletri: 544 contro 408, ma riescono a stare comodi fino a 653. Sono poche le case circondariali dove il detenuto ha spazio in abbondanza. Al Passerini di Civitavecchia: 144 regolamentari contro 88 effettivi. O a Paliano (Frosinone): 140 disponibili e solo 88 occupati. Quando si parla di carceri la matematica diventa un’opinione. Imperia: indagati i compagni di cella del detenuto morto, "lesioni aggravate" l’accusa www.primonumero.it, 17 novembre 2014 Sarà l’autopsia a chiarire meglio le cause della morte di Fabio De Luca, il 46enne rinchiuso nel carcere di Ponte San Leonardo che il 4 novembre scorso è stato trasportato d’urgenza nel reparto di Rianimazione del Cardarelli con una ferita alla testa. Domani la Procura di Isernia affiderà l’incarico a un medico legale. Sul registro degli indagati due suoi compagni di stanza. Si rafforzano i dubbi che il detenuto Fabio De Luca, morto al Cardarelli di Campobasso il 12 novembre scorso, possa aver subito un’aggressione in cella. L’iscrizione sul registro degli indagati dei suoi due compagni di stanza, e quell’ipotesi di lesioni personali aggravate a loro carico, spinge sempre più lontano il sospetto della caduta accidentale dal letto a castello. Sarà l’autopsia a chiarire le reali cause del decesso del 46enne originario di Isernia. Il pm Scioli della Procura di Isernia affiderà l’incarico martedì mattina a un medico legale. Per ora soltanto l’ispezione cadaverica è stata eseguita ma occorre un esame più approfondito sulla salma conservata nell’obitorio dell’ospedale di contrada Tappino. L’inchiesta, coordinata dalla Procura pentra, è stata affidata agli uomini della squadra Mobile di Isernia e allo Sco della Mobile di Campobasso. I poliziotti hanno già ascoltato i primi testimoni di quella che agli investigatori è apparsa subito come una morte avvenuta in circostanze misteriose. La cella di De Luca e la sua cartella clinica sono state sequestrate. Tutto servirà a far luce sul decesso e a rendere più chiare le ragioni che hanno portato il pregiudicato rinchiuso nella struttura di Ponte San Leonardo dentro un obitorio. De Luca era arrivato a Campobasso il 4 novembre, dopo aver ricevuto le prime cure al Veneziale di Isernia, con un grave trauma cranico. Era stato ricoverato nel reparto Rianimazione dove una settimana dopo il suo cuore ha smesso di battere. Si trovava dietro le sbarre per aver aggredito la madre 80enne agli inizi di ottobre che si era rifiutata di dargli soldi. Rimini: lo Stato non paga, detenuti nel degrado www.nqnews.it, 17 novembre 2014 Sopralluogo nell'istituto di pena riminese del garante delle persone recluse, Grassi, e dell'onorevole grillina. Presente anche l'associazione Papillon Lo Stato appalta i lavori. E poi non paga. Succede in tutti i settori, anche in quello degli istituti di pena. Come i Casetti, dove un’intera sezione, la seconda, ristrutturata da mesi, rischia di restare chiusa ancora a lungo perché l’impresa costruttrice è in attesa di ricevere l’agognato bonifico. Mentre trenta detenuti, quelli della prima sezione, sono costretti a rimanere in celle vecchie, fatiscenti e umide, in attesa del trasferimento. "Una vicenda assurda, incredibile - sottolinea Giulia Sarti, onorevole riminese del Movimento 5 Stelle - che la dice lunga sulla situazione in cui versano le carceri italiane e in particolare i Casetti. Lunedì (domani, ndr) appena rientrerò a Roma presenterò un’interrogazione al ministro di Grazia e Giustizia per capire bene perché un’opera terminata da almeno cinque mesi non possa essere aperta. Peraltro in una situazione d’emergenza come quella della casa circondariale di Rimini". E nel corso di una conferenza stampa, tenutasi ieri al bar "Il Laureato", a due passi dall’università di Rimini, e promossa da Claudio Marcantoni, presidente dell’associazione Papillon, una onlus che si occupa di problemi dei carcerati, questa emergenzialità è emersa in tutta evidenza. "In mattinata abbiamo effettuato un sopralluogo all’interno dei Casetti - spiega l’avvocato Davide Grassi, nominato garante dei detenuti dal consiglio comunale di Rimini- e devo dire che davanti ci si è spalancata una situazione di grave sofferenza. Non solo per le condizioni di vita dei detenuti, ma anche per quelle in cui sono costretti a lavorare gli agenti di polizia penitenziaria. Fortemente sottodimensionati, otto per turno quando ne occorrerebbero almeno il doppio, e senza una guida. Perché un direttore part time (Gianluca Candiano, ndr) costretto a dividersi col carcere di Castelfranco Emilia (Modena) e presente a Rimini un solo giorno a settimana, non può certo lavorare al meglio per risolvere i problemi della struttura che è stato chiamato a dirigere". E così le emergenze crescono e i guai aumentano. "Dieci detenuti - prosegue Grassi, ad esempio, hanno iniziato uno sciopero della fame per rivendicare i propri diritti. Uno su tutti, quello di avere delle risposte, negative o positive che siano, ma almeno delle risposte, sulla richiesta di poter accedere agli arresti domiciliari. Benefici peraltro previsti dalla legge. E non parliamo poi dei problemi legati alla lingua: gli stranieri, il 60% dell’intera popolazione carceraria dei Casetti, non sono in grado nemmeno di capire quali sono i propri diritti". Una cosa comunque è positiva. Attualmente il carcere non soffre di sovraffollamento. Una trans, ad esempio, dispone di un’unica sezione con sette celle tutte per lei e 60mq disponibili. Ma vivendo in totale isolamento. "Su una capienza pari a146 detenuti (sono solo 2 gli ergastolani presenti che, però, usufruiscono dell’uscita giornaliera per andare al lavoro dopo aver già scontato 30 anni in altri carceri, ndr)- spiega la Sarti - attualmente contiamo 116 detenuti che vivono tra degrado e fatiscenza: in passato per raccogliere l’acqua che pioveva dal soffitto avevano messo una bacinella nel corridoio. Ebbene, questa situazione deve cambiare. Per questo chiederò l’intervento del ministro al quale comunicherò anche numeri da capogiro: 12 tentati suicidi, 73 atti di autolesionismo, 25 aggressioni tra detenuti e 12 contro gli agenti, e anche due incendi in cella. Segnali preoccupanti se si pensa che tutto questo è accaduto in appena 11 mesi". Teramo: ripartiamo dal verde… il lavoro per sperare in un futuro fuori dal carcere di Mariella Traficante (Educatrice nel carcere di Castrogno) Il Centro, 17 novembre 2014 Ricominciamo dal verde: è il titolo scelto per il progetto curato dal pastore evangelico Angelo Bleve, reso attuabile grazie alla disponibilità della direzione dell’istituto penitenziario teramano e ad una convenzione stipulata dall’associazione "Il Germoglio" della chiesa evangelica con il Comune di Martinsicuro. La ferma tenacia del pastore evangelico, che da mesi rincorre questo obiettivo, resa fertile dalla disponibilità degli interlocutori citati, è stata alla fine premiata dalla concretizzazione di un’iniziativa rivelatasi tanto sorprendente e produttiva da indurre il Comune interessato a chiederne una proroga. Il progetto si prefigge di ripristinare e rendere fruibili alcune aree verdi del Comune di Martinsicuro, tra le quali una pineta adiacente alla spiaggia. La direzione ha destinato all’iniziativa, come da convenzione, 5 detenuti, scelti tra coloro che, oltre ad avanzare richiesta di adesione spontanea, fossero in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi per fruire del beneficio del lavoro all’esterno previsto della legge penitenziaria. Grazie dunque all’operosità del gruppo di detenuti, impegnati per 8 giornate lavorative, i siti indicati dal Comune sono stati restituiti, nella loro bellezza e funzionalità, alla cittadinanza locale. Tanto rimane ancora da fare per informare il sistema penitenziario al dettame normativo che considera il lavoro quale strumento fondamentale e indiscusso per promuovere la riabilitazione dell’individuo privato della libertà e la sua reintegrazione nel consorzio civile. Ma prima di tutto occorre comprendere che lavorare è di vitale importanza per l’individuo, esso attiene al suo bisogno di esprimersi, di sperimentare abilità, attraverso processi che il più delle volte, nel caso delle persone ristrette, sono stati ostacolati o negati dagli eventi della propria vita. E, a riprova che tali considerazioni non scaturiscono da un idealistico ottimismo, basti ricordare che più della metà della popolazione detenuta, dato ricavabile dalle statistiche ministeriali, risulta composta da tossicodipendenti, stranieri, la maggior parte dei quali provenienti da un difficile percorso di integrazione, privi di reddito, e per i quali il lavoro rappresenta l’unico e imprescindibile strumento per tentare di tornare a vivere degnamente in libertà. Ed è superfluo aggiungere che, anche per i detenuti più pericolosi, il lavoro può divenire un mezzo per gestire e rendere più produttivo il tempo detentivo. Per tornare infine al nostro progetto, esso risponde con molta semplicità, non solo al bisogno del detenuto di investire proficuamente il tempo detentivo, ma anche di riparare concretamente l’errore commesso prestando la propria opera volontaria e gratuita, compiendo così, nei confronti della collettività, un degno atto di restituzione. Teramo: parlano i detenuti "abbiamo sbagliato, ma si può cambiare" Il Centro, 17 novembre 2014 Le mie prime sensazioni positive sono legate alle persone che abbiamo incontrato durante il lavoro e che erano molto compiaciute di vederci, ci chiedevano informazioni e noi ben volentieri ci fermavamo a parlare con loro di noi. All’inizio non è stato semplice, io dicevo solo il mio nome e non dicevo di essere un detenuto di Castrogno, ma poi l’imbarazzo se n’è andato e ho parlato sinceramente di me. Nonostante il nostro stato gli abitanti del posto ci facevano tanti complimenti per il lavoro che svolgevamo e ciò che mi ha più colpito è che ci portavano panini e bevande per dissetarci, ci chiedevano per quanto tempo saremmo rimasti a lavorare, dimostrandoci che avrebbero voluto vederci lì per tanto tempo, pur essendo dei detenuti. L’atteggiamento positivo della popolazione è stata una sensazione bellissima, che raramente ho provato in questi anni. Posso dire che se ne avessi la possibilità ripeterei l’esperienza, perché rendere un servizio in maniera volontaria ti gratifica e ti dà soddisfazione. Lavoravamo tante ore al giorno, pulivamo l’area da immondizia di ogni genere, maleodorante, anche pericolosa, ma alla fine, vedere tutta la zona pulita e rinata, poter dire "questo l’ho fatto io con i miei compagni" è stato un motivo di orgoglio. A questo progetto ha collaborato il pastore della Onlus Angelo Bleve, che ci ha accompagnato. Vorrei ringraziarlo perché ci ha trattato da liberi, persone normali. Ringrazio tutti coloro che hanno voluto darci la possibilità di far conoscere il carcere, di far capire che anche da detenuti si può contribuire in maniera positiva alla società, dandoci la possibilità di un riscatto verso gli errori commessi. Francesco Io con altri tre compagni di "sventura", siamo stati scelti dalle istituzioni per prendere parte al progetto di reinserimento sociale "Ricominciamo dal verde". È stata un’esperienza stupenda, sotto tutti i punti di vista, sia sociale che personale. Il nostro lavoro consisteva nella pulizia di alcune pinete nel Comune di Martinsicuro-Villa Rosa. Il lavoro si è svolto in otto uscite, dalle 7,30 alle 16,30, coadiuvato dalla onlus "Il Germoglio", e siamo stati accompagnati dal pastore Bleve, garante dell’iniziativa. Abbiamo svolto un buon lavoro, a detta di tutti e delle istituzioni, ma la gratificazione più significativa ci è stata data dai cittadini che ci hanno ringraziati, dimostrando il loro apprezzamento per il nostro operato. A mio giudizio queste iniziative sono un viatico importante per il reinserimento nella società; infatti il fattore fondamentale emerso in questi giorni è stata la concreta percezione di "libertà" nell’essere utile. Noi siamo rinchiusi in un carcere e viviamo una vita inutile, priva di ogni prospettiva futura, viviamo aspettando e sperando che il domani, inteso giorno dopo giorno, arrivi al più presto. Ora potete ben capire il nostro stato d’animo nel poter partecipare ad una iniziativa del genere. A noi si sono aperte le porte del paradiso, noi siamo stati i fortunati che hanno potuto toccare con mano la libertà. Chiudo questo mio pensiero dicendo che anche se nella nostra vita abbiamo sbagliato non è detto che non possiamo tornare sulla retta via. Io personalmente posso dire con certezza che sono una persona diversa, sicuramente migliore di come ero quando sono entrato in carcere. Spero che questa esperienza non rimanga unica, ma possa essere seguita da altre, in modo da rinforzare la consapevolezza che gente come noi può essere ancora utile alla società e può avere una possibilità di riscatto. Augusto Ho 32 anni, sono detenuto da ormai 9 anni ed ho un fine pena ancora abbastanza lontano. Sono uno dei detenuti impegnati nel progetto "Ricominciamo dal verde", un’attività di volontariato al comune di Martinsicuro, che ci ha visti impegnati nella pulizia e nella manutenzione delle aree verdi. Magari ci fossero più progetti e iniziative di questo genere. Per me è stata un’esperienza che darà suoi frutti, sono stati momenti di vita che mi hanno fatto capire che la vita continua e che gli errori che mi hanno portato in carcere devono essere la base per una riflessione che mi faccia ritrovare la strada quando il conto con la giustizia sarà saldato. Tutti nella vita possiamo sbagliare ma noi reclusi abbiamo il diritto ad un’altra possibilità, di rimediare agli errori commessi. Questo progetto non è stato una goccia nel mare, ma un inizio verso un futuro migliore. Mi sento fortunato, e per questo vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno dato la possibilità di assaporare l’ambiente esterno e di sentirmi utile. La vicinanza dei residenti e dei turisti è stata così calorosa che mi hanno fatto tornare la voglia e la gioia di vivere. Ci hanno supportato con la loro presenza, le loro chiacchierate, cibo e bevande. Mi sono reso conto che esiste gente buona, capace di andare incontro anche a chi ha sbagliato e questo mi dà una consapevolezza nuova rispetto alla vita. Tornare a vivere prima mi sembrava difficile, ora mi sembra non solo possibile ma sono sicuro che accadrà, perché ho capito che niente muore finché non è sepolto. Catello Spoleto (Pg): irregolarità in carcere, protesta del segretario del Sappe, Donato Capece www.umbriajournal.com, 17 novembre 2014 "Trovo gravi e imbarazzanti le dichiarazioni del garante regionali dei detenuti dell’Umbria, Carlo Fiorio, sulla vivibilità del carcere di Spoleto. Nessuno si sarebbe mai accorto di nulla di quel che lui dichiara? Magistrati, parlamentari, avvocati, educatori, assistenti sociali, cappellani, poliziotti, dirigenti e funzionari dell’Amministrazione penitenziaria regionale e nazionale: tutti complici nella diffusa illegalità che lui, e solo lui, avrebbe constatato, ascoltando solo quel che i detenuti gli hanno riferito? Mi sembra quantomeno singolare". Lo dichiara il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del segretario generale Donato Capece. "Le illazioni e le accuse del Garante dei Detenuti fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato come quello carcerario. Bene ha fatto il direttore del carcere, Luca Sardella, a riservare di adire per le vie legali rispetto alle accuse contro l’istituzione penitenziaria spoletina". Il primo Sindacato dei Baschi Azzurri torna a sottolineare che "da sempre l’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci "chiaro", perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale lavoro svolto quotidianamente dai Baschi Azzurri. La Polizia Penitenziaria, a Spoleto e negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti". Napoli: la Casa di Lavoro è un lager, l’appello degli internati Cronache di Napoli, 17 novembre 2014 "La misura di sicurezza della Casa di lavoro oggi ha perso il suo vero spirito rieducativo, Per due anni l’internato quasi non lavora, in pratica viene soltanto escluso dalia società per ventiquattro mesi. Con il risultato che quando esce, è ancora più isolato ed emarginalo di prima. Io non ho imparato nulla lì". Lo dice Andrea Esposito, 28enne del Rione Sanità, in una lettera scritta al presidente dell’associazione Ex detenuti organizzali napoletani, Pietro loia. "È vero, è un problema che mi hanno prospettato più persone - scandisce Ioia - un tempo nelle Case di lavoro gli internati uscivano dalle celle per imparare un mestiere, c’erano vere e proprio fabbriche, che li ospitavano. Uscivano la mattina per fare rientro la sera. Così imparavano un mestiere, il falegname, elettricista, stuccatore, muratore. Oggi non è più così. La Casa di lavoro è diventata un secondo carcere, ma senza aver commesso reati". La Casa dì lavoro è una misura di sicurezza personale detentiva (come la Colonia agricola) prevista dal codice penale italiano. Pavia: la Fp-Cgil in visita sindacale tra le criticità del carcere di Vigevano di Angela Amarante www.fp.cgil.lombardia.it, 17 novembre 2014 I corridoi del carcere di Vigevano sono pieni di paesaggi, personaggi storici, musicisti, guardie carcerarie del 1800. Li ha dipinti Gianni, un ex detenuto. I colori sgargianti dei suoi disegni cozzano col resto dell’ambiente: pareti scrostate, chiazze verdi causate da infiltrazioni e umidità, fili elettrici pendenti dal soffitto, neon rotti. Così si presenta l’edificio in cui sono detenute 364 persone e lavorano 168 agenti penitenziari. "Se paragonato ad altri istituti della Lombardia, il carcere di Vigevano presenta condizioni quasi accettabili", afferma il coordinatore regionale Fp Cgil Calogero Lo Presti, ieri in visita sindacale all’istituto insieme a Fabio Catalano Puma della Fp Cgil Pavia. "Ma si ferma alla soglia della sufficienza, le criticità sono molte. I posti di servizio sono angusti, in alcuni casi non hanno citofoni funzionanti e cassette del pronto soccorso". Nella sezione maschile c’è un grosso cancello, pesante da aprire. "Era elettrico, poi si è rotto e non è mai stato aggiustato", dice un agente. Una delle 11 celle dove si effettuano i ricoveri medici è inagibile. "Piove dentro", spiega lo stesso agente. E piove anche nei corridoi: nel bel mezzo di uno di questi c’è un secchio pieno di acqua piovana, e chiazze tutt’intorno. La struttura risale agni anni ‘80 e probabilmente gli ultimi lavori di riqualificazione li ha fatti Gianni, il pittore. Non ci sono grossi problemi di sovraffollamento, ma di carenza di personale. Mancano 42 agenti per completare l’organico, e chi c’è fa il lavoro degli altri. Anche con mezzi molto vecchi: "Uno dei furgoni usati per trasportare i detenuti ha 300.000 km, può essere un pericolo - denuncia Catalano Puma. Oltre a questo ci sono troppe minacce alla sicurezza. Chiederemo l’intervento del provveditore regionale". Sassari. nel carcere di Bancali la Polizia penitenziaria salva un detenuto dal suicidio Ansa, 17 novembre 2014 Nella tarda serata di ieri, alle 23:30 circa, un detenuto italiano di Alghero ristretto nell’Istituto Penitenziario di Sassari ha tentato il suicidio con un cappio rudimentale ricavato dalla tenda della doccia della cella dove si trovava ristretto. Il pronto intervento degli agenti di Polizia penitenziaria è stato provvidenziale e l’uomo è stato salvato. A renderlo noto è il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp - Domenico Nicotra - che tra l’altro afferma, e ormai dovrebbe essere noto a tutti, come il buon andamento delle carceri dipenda quasi esclusivamente dall’elevata professionalità della Polizia Penitenziaria. "È per questo, conclude Nicotra, che adesso più che mai è necessaria una svolta politica che necessariamente deve passare, così come vorrebbe il Giudice Nicola Gratteri, da una radicale riforma del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Perugia: Pet Therapy al carcere di Capanne, due labrador per un anno con i detenuti di Alessia Chiriatti www.tuttoggi.info, 17 novembre 2014 Due cucciole di razza Labrador Retriever, provenienti dall’Allevamento Enci "Rosacroce Wanals di Perugini Massimiliano", trascorreranno un anno in carcere perugino di Capanne durante il periodo della loro socializzazione. Si chiama pet therapy, e a darne la notizia è il gruppo Lions Club Perugia Concordia, dopo la firma di ieri per il protocollo d’intesa denominato "Far crescere un cucciolo in prigione" (Prison Puppy Raiser). Decisamente "fortunate" queste cucciole, magari più dei tanti piccoli randagi in cerca di alloggio, cibo e calore umano. Le cucciole saranno alloggiate presso la struttura agricola per la coltivazione di ortaggi, interna al Nuovo Complesso Circondariale di Capanne. Seppur in carcere, a loro sarà concesso di passeggiare tra i campi in uso alla stessa casa circondariale, dove vengono coltivati gli ortaggi. Prevista attenzione e cura anche per la loro alimentazione, per la quale è previsto un accordo con una casa produttrice svedese e il controllo di veterinari. In base a quanto dichiarato dallo stesso club promotore, il programma di socializzazione dei cuccioli "ha dei risvolti positivi sia verso i reclusi affidatari dei cani, i quali, una volta liberi, sono meno inclini ad essere coinvolti in situazioni illegali, sia nei confronti degli stessi cuccioli che risultano meglio socializzati rispetto a quelli cresciuti in famiglia". Sarebbe tuttavia da chiedersi che fine faranno poi i cuccioli a fine trattamento, e se agli stessi affidatari non risulti doloroso distaccarsene. "L’idea del programma - infatti - è quella di considerare il carcere come una famiglia molto numerosa in grado di prendere in affido dei cuccioli per poi "restituirli" all’Associazione perché vengano addestrati per i non-vedenti presso il Centro per Cani Guida Lions di Limbiate. Si realizza poi, in virtù dell’iniziativa, un maggiore rapporto interazionale e sinergico con il territorio, grazie al flusso di notizie che vengono veicolate in termini positivi nel luogo di interesse, attraverso i volontari che contribuiscono concretamente alla gestione del progetto". Le cucciole verranno consegnate a gennaio 2015. I loro nomi verranno scelti dopo una sorta di referendum. Lecce: "Io ci provo", gli attori-detenuti in scena con "L’ultima cena" di Alfredo Traps www.leccesette.it, 17 novembre 2014 Un’occasione di riscatto, per mettere alla prova le proprie capacità e la propria professionalità, per uscire dal chiuso delle sbarre e rimettersi in gioco. Ha una valenza prima di tutto sociale il progetto della compagnia "Io ci provo" di Paola Leone, che ha coinvolto otto detenuti del carcere di Borgo San Nicola nel progetto di inclusione sociale attraverso il teatro e che andrà in scena il prossimo martedì 18 novembre. Dopo il successo della prima dello scorso 6 ottobre, la compagnia torna dunque al Teatro Paisiello con "L’ultima cena" di Alfredo Traps per portare sul palco la storia grottesca tratta da La Panne di Durrenmatt, in cui un piccolo imprevisto, appunto una macchina in panne, diventa l’occasione perché il destino possa uscire da dietro le quinte e possa compiersi, facendo giustizia. Ed è proprio la giustizia il tema su cui il testo di Durrenmatt rivisitato da Mariano Dammacco e a dagli otto attori-detenuti, invitano il pubblico a riflettere. Non si tratta di definire una giustizia ideale, un dover essere che indichi la strada da seguire per realizzare o avvicinarsi a ciò che vi è di perfetto. Si tratta piuttosto di seguire le strade tortuose, grottesche, spesso feroci, lungo le quali la giustizia trova la sua realizzazione. "Intendiamo creare una rete reale di inclusione sociale" ha spiegato la regista Paola Leone "Attraverso questa esperienza gli attori si confrontano con il teatro e con la vita stessa. Il laboratorio teatrale Io ci Provo presente nel carcere di Lecce dal 2011 in questi anni ha costruito con pazienza e grande professionalità, fiducia e relazione, a piccoli passi ha dovuto farsi spazio in un carcere dove l’offerta formativa e ricreativa è molto ampia e diversificata, ma oggi il progetto Io ci Provo possiamo dire che rappresenta un esempio di buone pratiche da imitare, una traccia da seguire per costruire il cambiamento che permette di vedere la possibilità dell’impossibile". Aggiunge il Comandante della Polizia Penitenziaria di Lecce, Roberto Secci: "Sono stati gli stessi detenuti a scegliere di seguire questa attività teatrale. Non pensate che sia un percorso facile perché inizialmente bisogna superare anche gli sfottò dei compagni, poi occorre affrontare il pubblico; ma una volta iniziato diventa difficile abbandonarlo". "Ci mettiamo in gioco come persone investendo in maniera diversa sul nostro futuro", sottolinea Alessio, uno degli otto attori-detenuti che martedì saranno sul palcoscenico del teatro Paisiello, inoltre regolarmente retribuiti per la prestazione svolta. "Loro ci provano, noi ci saremo" ha aggiunto l’assessore Luigi Coclite durante la presentazione dello spettacolo di questa mattina al Must di Lecce. "È sorprendente la grande professionalità dimostrata da questi attori, la loro capacità di coinvolgere il pubblico e l’aspetto realmente innovativo di questa iniziativa capace di portare il teatro fuori dal carcere coniugando l’aspetto sociale e quello culturale". Alla conferenza stampa, oltre all’assessore al Turismo, Marketing Territoriale, Spettacoli ed Eventi, Luigi Coclite e alla regista Paola Leone, sono intervenuti la direttrice del Supercarcere di Borgo San Nicola, Rita Russo, il Comandante della Polizia Penitenziaria di Lecce, Roberto Secci, e Alessio, uno degli otto attori-detenuti che si cimenteranno in questa rappresentazione teatrale. I biglietti dello spettacolo si possono trovare presso l’info point di Castello Carlo V a Lecce (orari: dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 13 e dalle 16.30 alle 20.30; sabato, domenica e festivi dalle ore 9.30 alle ore 13.00 e dalle ore 16.30 alle ore 20.30). Televisione: Alessandro Bergonzoni torna in tv e apre… le porte delle galere di Ferruccio Gattuso Il Giornale, 17 novembre 2014 Da più di dieci anni mancava dalla tv, se non si contano rarissime ospitate. Ci voleva un’occasione speciale per riportare Alessandro Bergonzoni in uno studio televisivo a fare quel che gli riesce meglio: ipnotizzare con le parole nascondendo, dietro i voli pindarici dei suoni e dei concetti, urticanti verità. "L’ultima volta con uno spettacolo tutto mio fu a Tele+ Bianco, che nemmeno esiste più, nel 2002, con Carta bianca", spiega il monologhista bolognese con la faccia da guru. Bergonzoni ha accettato la proposta di laeffe (canale 50 dtt, 139 Sky) di farsi conduttore di se stesso nello speciale inedito Urge: dietro le sbarre - Corpi del (C)reato, in onda mercoledì prossimo in prima serata. L’attore introduce e commenta estratti del suo penultimo show teatrale Urge (2010) per la precisione quelli sul tema della serata: la condizione delle carceri e dei detenuti in Italia. Tema scottante che cade con drammatica puntualità a breve distanza dalla sentenza sul morte di Stefano Cucchi ma, assicura il direttore di rete Riccardo Chiattelli, "si tratta di un caso, la formula di laeffe è quella di dedicare serate a temi del contemporaneo cercando abili narratori, non necessariamente televisivi. E Bergonzoni ne è un perfetto esempio". Gioca con le parole, ci mancherebbe, l’attore bolognese - a Milano per partecipare all’evento di Bookcity "Aprimi Cielo!" al Planetario - e così spiega di che cosa parlerà: "Soprattutto di spazio, di fuori e dentro, e di come, dentro, lo spazio sia poco. Di come la ricerca architettonica di spazio debba tenere conto di questi corpi del (c)reato che sono gli individui reclusi. Il taglio non è quello della denuncia, piuttosto quello dell’evidenza di un problema che va risolto. Perché il tempo - dice con ironia dalla musicalità emiliana - è un po’ finitino". A seguire lo show di Bergonzoni, il film doc Meno male che è lunedì di Filippo Vendemmiati, girato nel carcere bolognese della Dozza: storia di tre aziende locali che hanno proposto a propri pensionati di fare formazione lavorativa fra i detenuti. A chiudere, Ti aspetto fuori, laboratorio cabaret di 15 detenuti sul palco del locale Zelig di Milano. Libri: "Crimini contro l’ospitalità, vita e violenza nei centri per stranieri" recensione di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2014 Il piccolo libro di Donatella Di Cesare, "Crimini contro l’ospitalità, vita e violenza nei centri per stranieri", Il Melangolo, è uscito un po’ prima delle violente ronde notturne "per cacciare i negri" di Tor Sapienza, a Roma, e delle bravate di Matteo Salvini, che va a provocare violenza con le sue "visite" ai campi rom. E dunque non è solo una attenta e precisa descrizione di una visita a Ponte Galeria e all’infame campo detto di "Identificazione e di Espulsione" che pesa come una vergogna sull’Italia contemporanea e su tutti i governi e i politici che hanno impiantato simili campi o hanno taciuto (con la sola eccezione di pochi deputati Pd e di tutta la delegazione radicale eletta nel Pd, quando c’erano ), non è solo una raccolta di voci disperate a causa di una stupida e crudele ingiustizia che non ha leggi e regolamenti ma solo inferriate e blindati dell’esercito come presidio di questo Paese. È anche una profezia di ciò che una cultura malata e infetta (la cultura razzista della Lega Nord e la cultura fascista dei gruppi che si riformano sempre più attivi e incoraggiati dalla assenza di politica, nelle borgate) sta portando nelle zone deboli e abbandonate della vita italiana. Allora (poche settimane fa, quando è uscito il libro ) è stato un annuncio. Adesso è cronaca. L’autrice si è resa conto che un luogo di assurda sofferenza e di inutile umiliazione come Ponte Galeria e tanti altri C.I.E. in tutta Italia ( dove Maroni, da Ministro dell’Interno, ha imposto, nel silenzio di quasi tutti, una detenzione senza motivi) avrebbe provocato una infezione pericolosa: quella di trasformare un simbolo vistoso di disumanità in un comportamento diffuso e interiorizzato. Se lo stato può trattare gli stranieri arrivati in Italia per salvarsi da guerre e persecuzioni, come animali da tenere rinchiusi o cacciare, lo posso fare anch’io. Anzi lo devo fare, perchè, mi dicono persone come Salvini, ma anche come Grillo, che portano malattie e sono pericolosi, e mi dicono tanti politici, che portano via il lavoro e le case agli italiani. Donatella De Cesare in una prima parte racconta. Il senso del racconto è la meraviglia che un luogo come il C.I.E. di Ponte Galeria possa davvero esistere. E lo stato d’ansia che ti da, entrando, vedere il segno della bandiera italiana su blindati e trasporti militari disposti intorno al "campo", e la garitta dove un militare italiano, vestito come se fosse in missione in Afghanistan, ti verifica i documenti. Nella seconda parte cerca di parlare il più possibile con i detenuti incolpevoli, che non sanno capire o spiegare ciò che sta loro accadendo. Come non vedere in questo piccolo nitido libro un annuncio delle rivolte in corso e di quelle che ci saranno, rivolte a rovescio, i secondini che hanno paura dei prigionieri e cercano (con i giochi lugubri dei bastoni, dei sassi, delle bombe carta) di eliminarli, tenendo testa persino alla polizia, forzata a rappresentarli più che a tenerli indietro perchè tutti, compresi giornali cauti nel narrare, sono parte della stessa cultura "Salvini", del mondo dei "rivoltosi brava gente"? Perù: l’inferno di Fabrizio, detenuto italiano. La moglie: "È malato, rischia di morire" di Andrea Andrei Il Messaggero, 17 novembre 2014 Chiuso in una cella a migliaia di chilometri da casa, lasciato a combattere da solo, senza alcuna assistenza, contro una malattia che peggiora ogni giorno e che rischia di ucciderlo da un momento all’altro. Fabrizio Fratini, 50enne originario della provincia di Roma, è uno degli oltre tremila italiani detenuti all’estero. È stato arrestato e condannato a Lima, in Perù, per traffico di stupefacenti, più di due anni fa. È una sorte che è toccata a tanti nostri connazionali, molti dei quali vengono incarcerati senza nemmeno uno straccio di prova. Fabrizio i suoi errori invece li ha riconosciuti, e ha accettato la pena che gli è stata inflitta dalla Corte peruviana: 5 anni e 6 mesi di carcere. Una pena inferiore a quella di 6 anni e 8 mesi che di solito viene data a chi commette quel tipo di reato in Perù. Fratini è stato infatti riconosciuto affetto dal morbo di Crohn, una malattia intestinale estremamente complicata di cui ancora oggi si sa poco. Chi ha il morbo di Crohn è costretto a diete particolari, a cure intense e a controlli clinici costanti. A sottolinearlo è il dottor Claudio Papi, gastroenterologo responsabile dell’ambulatorio delle malattie infiammatorie intestinali dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, che fino al 2009 ha avuto in cura Fratini: "Si tratta di una malattia che dura tutta la vita ed è potenzialmente evolutiva. Chi ne è affetto, in mancanza di cure adeguate rischia l’occlusione intestinale o la lenta perforazione dell’intestino". Perciò, ribadisce Papi, è fondamentale che il morbo di Crohn sia controllato e gestito da specialisti: "Sono necessarie cure personalizzate, un malato di Crohn non può stare cinque o sei anni senza essere controllato, altrimenti rischia una disabilità permanente se non, in casi estremi, la morte, dovuta anche alla debolezza conseguente alla malnutrizione". Fratini soffriva già da parecchio tempo del morbo di Crohn. È stata questa una delle ragioni del tracollo che l’avrebbe portato nell’incubo in cui si trova ora. Dopo essere stato operato due volte, la sua situazione restava critica, nonostante le cure sempre più faticose a cui si sottoponeva. In un momento di totale debolezza, Fabrizio, che aveva un oreficeria in provincia di Roma, comincia a fare uso di droga. I problemi economici lo portano anche a cadere nella trappola del gioco d’azzardo. Poi, la morte improvvisa di un amico caro diventa la ragione per cui le poche macerie del suo mondo crollano definitivamente. Fratini si allontana anche dalla moglie. Ed è proprio in quel momento che prende la decisione peggiore della sua vita. Fabrizio parte con un’amica di famiglia alla volta del Perù. Quel viaggio per lui vuol dire espiazione e riscatto per i suoi errori. Vuol dire giocarsi il tutto per tutto, l’ultima scommessa per rimettersi in sesto. Un vero e proprio viaggio della speranza, che sempre più italiani disperati tentano. Non criminali o spacciatori di professione, ma normali cittadini che hanno alle spalle storie di lavoro perso, di debiti e di mutui da pagare. Persone spesso inesperte, che attirati dalla possibilità di guadagnare fino a 20 mila euro in una volta sola finiscono in una rete pericolosissima, dalla quale si può non uscire più. I signori della droga in Perù si servono sempre più spesso di queste persone per fare i corrieri. È così che Fabrizio, il 2 marzo 2012, si ritrova all’aeroporto di Lima con 5 chili di cocaina nella valigia. Telefona alla moglie, le chiede di venirlo a prendere all’aeroporto di Fiumicino. Ma sull’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a casa, verso una nuova vita, Fabrizio non ci è mai salito. La polizia peruviana lo arresta, insieme alla sua compagna di viaggio. Ed è qui che inizia il calvario. Fratini viene portato nel carcere di Sarita Colonia, penitenziario di Lima che ospita centinaia di detenuti stranieri e che per molti di questi si trasforma in un inferno. Figuriamoci per chi, come lui, sta male fisicamente. Ma Fabrizio resiste, perché spera di ottenere la libertà vigilata, che per legge può essere chiesta dopo aver scontato un terzo della pena. Fratini però resta in carcere. Il 23 settembre 2013 un gastroenterologo peruviano lo visita, rilasciando un certificato dove si afferma che Fabrizio ha bisogno di un trattamento medico urgente. Ma niente. Fabrizio tenta allora di avvalersi di una nuova legge peruviana sull’espulsione, che gli permetterebbe di tornare in Italia e curarsi. Ma anche questa pratica si perde nei meandri burocratici locali. Fratini più volte si è ritrovato nella paradossale situazione di dover rifiutare delle prestazioni mediche, perché in una situazione come la sua sottoporsi a esami invasivi effettuati da infermieri o medici non specializzati può essere letale. Intanto sta sempre più male. Vomita la maggior parte di quello che mangia, ha continue emorragie, per giorni interi non riesce ad alzarsi dal letto. È la moglie, disperata, a lanciare l’appello: "Non so più che fare", racconta, "né più a chi rivolgermi. Vivo con il continuo terrore che mio marito possa morire da un momento all’altro. So che ha sbagliato, e anche lui lo sa. È giusto che paghi per quello che ha fatto. Per questo non chiediamo sconti di pena. Noi chiediamo solo di salvargli la vita, di non lasciarlo morire, somministrandogli delle cure adeguate, anche se so che lì in Perù non è facile trovare una struttura adatta. Intanto il tempo passa, e ogni giorno è peggio".