Giustizia: la Corte europea dei diritti umani "detenuti… fatevi bastare quegli 8 euro" di Errico Novi Il Garantista, 15 novembre 2014 Perfetto. Il decreto degli "8 euro" ha fatto il suo dovere. Nato per arginare l’ondata di ricorsi presentati sulla scorta della sentenza Torreggiani, il provvedimento dello scorso agosto avrebbe dovuto evitare all’Italia nuove condanne della Corte europea. Missione compiuta: i giudici di Strasburgo hanno definitivamente respinto 3.564 istanze inoltrate da carcerati italiani a causa delle "condizioni inumane e degradanti" sofferte. Ricorsi cestinati perché appunto i "rimedi risarcitori" predisposti dal governo di Roma sono stati giudicati idonei. C’è un piccolo particolare: di fatto quel decreto è quasi del tutto inapplicabile, come protestano i radicali. E come attesta un’interrogazione di Roberto Giachetti. I rimedi ci sono. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo bastano. Secondo i radicali invece non ha senso sostenere che le "condizioni inumane e degradanti" sofferte in questi anni dai detenuti italiani potranno essere compensate dai "rimedi risarcitori" introdotti dal governo. "Non ha senso perché parliamo di risarcimenti che non sono tali, e di cui spesso è impossibile fruire", dice Rita Bernardini. È una specie di giallo. E non si tratta solo di un astratto errore di valutazione. Perché dalla "certezza" che l’Italia ha messo tutto a posto, i giudici di Strasburgo hanno tratto una conseguenza non di poco conto: hanno respinto tutti i ricorsi ricevuti negli ultimi anni dai detenuti italiani. Si tratta della bellezza di 3.564 istanze. Tutte cestinate. La questione promette sviluppi. In linea teorica sarebbe impossibile far tornare indietro la Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma qui si è di fronte a un errore materiale. Perché appunto quei rimedi previsti dal decreto carceri approvato a inizio agosto, quello degli "8 euro", è in molti casi inefficace. A denunciarlo è tra l’altro un’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia Andrea Orlando dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti. Passato da militante radicale, Giachetti cita nel suo atto la testimonianza di alcuni magistrati di sorveglianza. Una in particolare, la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo, in un’intervista a Radio Radicale di inizio ottobre ha fatto notare che su 1.200 istanze le è stato possibile accoglierne solo una. Ci sono due ordini di problemi. Il decreto degli 8 euro sancisce testualmente che il pregiudizio sofferto dal detenuto sia risarcibile con uno sconto di pena di un giorno ogni dieci, o con 8 euro al giorno se resta poco o niente da espiare, a condizione che si tratti di una condizione "attuale", oltre che "grave". In questo modo, si legge nell’interrogazione di Giachetti, "per lo stato di detenzione attuale il detenuto dovrebbe investire il magistrato di sorveglianza nella speranza che il provvedimento giunga prima del trasferimento in altro istituto". Se la decisione arriva quando il detenuto ha già lasciato la cella "inumana" cade tutto perché il "danno" appunto non è più "attuale". Una follia, a cui però pare aderisca più di un Tribunale di Sorveglianza. Poi c’è la questione del calcolo dei metri quadri della cella: per quelle nelle quali il detenuto è stato recluso in passato come si fa? "Ricostruire le condizioni di precedenti carcerazioni presenta difficoltà immense", ha ammesso senza riserve il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin, interpellato a sua volta da Radio Carcere, storico programma di Radio Radicale. "Basti pensare che il Dap, dieci anni fa, nemmeno pensava di tenere in conto le dimensioni delle celle e il numero degli occupanti". Morale della favola: a Firenze, come Venezia, come ad Alessandria e in molti altri distretti il decreto è lettera morta. E non per negligenza dei magistrati, ma per le evidenti difficoltà di applicazione. Bernardini è furiosa: "C’è da chiedersi se la "peste italiana" dell’inganno, della menzogna e del tradimento dello Stato di diritto si stia diffondendo e definitivamente insediando in Europa persino presso le istituzioni che dovrebbero garantire i diritti fondamentali dei cittadini". La segretaria di Radicali italiani sollecita intanto il ministro della Giustizia a rispondere all’interrogazione di Giachetti. Ma Orlando da parte sua prende atto che la Corte di Strasburgo, nel respingere gli oltre 3.500 ricorsi, "sancisce definitivamente la serietà e la correttezza del governo nell’affrontare la drammatica emergenza del sovraffollamento carcerario". Dal suo punto di vista così è. Ma è pur verso che nel suo intervento di lunedì scorso al Csm lo stesso Guardasigilli ha fatto un rapido passaggio sul decreto degli "8 euro" e ricordato che la sua efficacia dipenderà anche dallo "spirito di collaborazione" dei magistrati di sorveglianza. Ha cioè implicitamente ammesso che le difficoltà di applicazione ci sono. Resta da capire se verranno superate prima che la Corte di Strasburgo, con un eventuale, clamorosa autocorrezione, ci ripensi. Giustizia: morire di "morte incerta" nelle mani dello Stato di Cristina Giudici Pagina 99, 15 novembre 2014 Un terzo per suicidio, un terzo per cause naturali e un terzo per ragioni da accertare. Sono 2.358 i prigionieri deceduti in Italia dal 2000 a oggi. Non solo in carcere, ma anche per strada, in caserma o in ospedale. Come insegnano i casi Aldrovandi e Cucchi. Morire di carcere (ma non solo). Sebbene l’Italia nel giugno scorso sia stata parzialmente graziata dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul trattamento inumano e degradante nelle carceri, nel segreto della cattività si continua a morire. E non solo per suicidio. I conti, certosini, li ha fatti il giornale Ristretti Orizzonti di Padova, diventato un centro studi nazionale per ciò che avviene dietro le sbarre. Nel dossier Morire in carcere sono stati esaminati diversi casi dei 2.358 prigionieri deceduti dal 2000 a oggi (alcuni dei quali morti fuori dalle prigioni: nelle camere di sicurezza delle stazioni dei carabinieri o in ospedale, dopo l’arresto). In media nelle galere muoiono ogni anno più di 150 persone: un terzo per suicidio, un terzo per cause naturali e un terzo per "episodi da accertare". Si tratta di morti sospette, che spesso non coincidono con le versioni ufficiali. Emerse grazie alle denunce di familiari, perizie mediche, fotografie, segnalazioni di testate locali, indagini giudiziarie, non sempre si trasformano, come nel caso di Stefano Cucchi, in battaglie per la ricerca della verità. L’ultimo episodio in ordine cronologico riguarda un detenuto napoletano, Luigi Bartolomeo, a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari. Al momento in cui pagina99 è andato in stampa, Bartolomeo si trovava in coma all’ospedale Loreto Male di Napoli. Secondo i familiari sarebbe stato picchiato dalle forze dell’ordine. La notizia è trapelata perché il procuratore aggiunto Luigi Frunzio e il sostituto procuratore Mario Canale hanno avviato un’indagine e sequestrato la sua cartella clinica per accertamenti. Evaso dalla detenzione domiciliare, il 21 ottobre, Luigi Bartolomeo è stato riportato nella sua abitazione dai carabinieri. Al secondo tentativo di evasione poche ore dopo, è stato arrestato nuovamente e, passata una notte in una camera di sicurezza, è stato condotto in tribunale, dove è stato condannato con rito direttissimo a un anno e mezzo di detenzione. Per poi finire all’ospedale a causa delle ferite provocate da lesioni e percosse. Ancora non si sa, non si capisce cosa sia successo. I familiari accusano le forze dell’ordine, ma la versione ufficiale è che sia stato picchiato da due conoscenti nella sua abitazione. Di storie come queste - avvenute in circostanze poco chiare, però mai approdate nelle aule di tribunale - ce ne sono tante. Troppe per un Paese che si considera civile. E, come spieghiamo nell’articolo pubblicato a fianco, servirà a poco introdurre il reato di tortura, se prima non si ha la possibilità di creare un varco nella cultura dell’omertà, nella pratica del rimpallo fra esponenti delle istituzioni, nella mancata trasparenza delle informazioni, in un maggior sforzo investigativo degli inquirenti. Non sempre chi muore per maltrattamenti per mano dei rappresentati dello Stato lascia tracce che servano a ricostruire la dinamica dei fatti. Molti se ne vanno senza far rumore. Anche se ora le associazioni nate in difesa dei diritti dei cittadini più fragili, più esposti alle violenze, cominciano a essere numerose e cercano di ricostruire, anche a ritroso, cosa può accadere nelle camere di sicurezza o in una cella. Il primo caso documentato di "morte incerta" dal dossier di Ristretti Orizzonti risale al dicembre del 2002. Un altro detenuto napoletano, Raffaele Montella, 40 anni, anche lui evaso dalla detenzione domiciliare, era stato portato nel carcere considerato fra i più violenti d’Italia, Poggioreale. Ai suoi familiari aveva detto: "Se torno in cella mi ammazzano". Due giorni dopo è stato ritrovato impiccato. Due mesi dopo, a Roma, a Rebibbia, Stefano Guidotti, 32 anni, si impicca alle sbarre del bagno. Tre compagni di cella danno l’allarme, ma la sezione scientifica dei carabinieri di Roma avvia un’indagine. Troppe lesioni sul volto, macchie di sangue sul pavimento della cella, e un cappio, ricavato da una cintura del pigiama, non abbastanza robusto per sostenere il peso del corpo. E una sua lettera trovata fra gli effetti personali in cui Guidotti aveva descritto le speranze per un futuro migliore. Parole da cui non si deduceva alcuna voglia di alzare bandiera bianca, di arrendersi, di togliersi la vita. L’inchiesta giudiziaria è giunta solo al punto di chiedere accertamenti di rito per il suicidio. Vittime ignote, anche se si conoscono i nomi. Indagini che non portano a nulla, spesso archiviate. E i sussurri degli agenti penitenziari, che qualche volta parlano dei corpi martoriati, soprattutto se stranieri e tossicodipendenti, che arrivano in carcere già segnati dalle percosse. Anche se poi le famose celle lisce di cui si parla da decenni si trovano ancora in molti istituti di pena. Altro esempio: Mauro Fedele, 33 anni, muore per infarto nell’istituto di massima sicurezza di Cuneo, nel maggio del 2002. Il padre accusa gli agenti perché gli hanno riconsegnato un corpo pieno di segni scuri: sul collo, fra le cosce, sul petto, la testa fasciata. Sfogliando il dossier, nonostante le diverse condanne europee, i cambi avvenuti ai vertici dell’amministrazione penitenziaria - e direttori di carceri di una nuova generazione che affollano i convegni per parlare di rieducazione e reinserimento, le morti "incerte" non sono mai cessate. Nell’ottobre del 2003 Marcello Lonzi, 29 anni, muore anche lui per collasso cardiaco, nel carcere di Livorno, dopo aver battuto la testa, cadendo. Ma le immagini della perizia medica destano sospetti inequivocabili: corpo e volto pieno di ferite. La madre chiede aiuto, invano, al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Stava scontando una pena per tentato furto, in attesa di uscire grazie all’indultino. Così non si muore solo in carcere. Nel dossier curato da Ristretti Orizzonti, si raccontano 30 casi sospetti in sette anni, dal 2002 al 2009. Il 27 ottobre del 2005 per esempio Maurizio Calabrese spira, dopo essere stato arrestato dai carabinieri di Salerno. Su di lui esiste solo una nota, del comando provinciale dei carabinieri, che registra la sua morte "per cause naturali". Doveva essere processato per furto il giorno seguente. Gli anni passano, ma le pratiche non cambiano. Il 25 luglio del 2008, una madre disperata rende pubblica la lettera ricevuta dal carcere di Marassi dal figlio, Manuel Eliantonio, che aveva solo 22 anni, in cui aveva scritto: "Qui mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, sto male". Ufficialmente morto per un incidente, dovuto all’inalazione del gas da una bomboletta, la madre non hai mai creduto alla versione ufficiale per via dei lividi su una gamba e la ferita in fronte. La ricerca di Ristretti Orizzonti si ferma al 22 ottobre del 2009, con la morte di Stefano Cucchi, ma il centro di documentazione continua a raccogliere informazioni, grazie anche al contributo di Antigone, dei Radicali, di testate locali, avvocati, periti, parenti. Fino al mese di novembre del 2014, i suicidi in carcere sono stati 38: dieci in meno rispetto al 2013. Quest’anno finora ci sono stati complessivamente 119 decessi. Un numero minore rispetto al 2013: 159. Il caso del detenuto napoletano, ora in coma all’ospedale, non è però isolato. Nelle statistiche penitenziarie dei morti nelle carceri nell’ultimo biennio, si trovano 23 casi da accertare nel 2013, 10 nel 2014. Giugno 2013: il programma Radio Carcere di Radio Radicale comunica la notizia della morte di Walter Pichini, che arriva all’ospedale Sandro Pertini in coma, ma nessuno ne conosce il motivo. Il 10 settembre del 2013 muore nel carcere di Siena Resad Spuzic. Ufficialmente per infarto, cause naturali, ma in seguito è stata avviata un’indagine. Il 2013 si chiude con la lettera di Elisabetta Vargas su un quotidiano trentino in cui chiede chiarimenti sull’improvviso infarto del figlio, morto nel carcere di Trento, sepolto senza prima svolgere l’autopsia. E nel 2014 si ricomincia. Infarti, cause naturali, malattie: decessi su cui si aprono indagini che poi si chiudono. Non tutti riconducono a una mano violenta, ma le cause sono ancora da verificare. Roberto Poropat, per esempio, 42 anni, morto l’11 agosto del 2014 nel carcere di Trieste. Il pubblico ministero Massimo De Bortoli ha disposto l’autopsia. Lo scopo è quello di individuare le cause della morte. E capire se possano essere state riconducibili a eventi "non naturali". "L’ho visto sabato scorso quando sono andata a fargli visita. Stava bene anche se era ingrassato", ha raccontato, attonita, la madre. "Qualcuno potrebbe avergli fatto del male". A Civitavecchia, venerdì 4 aprile 2014, Fabio Giannotta, di 37 anni, muore intorno alle 10 e 30 nella sua cella. Denutrito, soffriva di disturbi mentali, assumeva degli psicofarmaci, era tossicodipendente e attendeva di essere trasferito in una comunità terapeutica. È stata disposta un’autopsia, ma la storia per ora è finita lì. Pochi giorni dopo Vito Bonanno, di 37 anni, detenuto in attesa di giudizio, muore nel carcere Pagliarelli di Palermo. Laconico il certificato della morte: arresto cardiocircolatorio. Qualche volta, raramente, si arriva a un processo; spesso, quasi sempre, i procedimenti si concludono senza responsabili, tranne per qualche eccezione. Per il suicidio di Luigi Acquaviva, morto nel novembre del 2000 a Nuoro, otto agenti penitenziari sono stati processati per maltrattamenti, mentre per Giuliano Costantini, detenuto ad Ascoli e morto in ospedale nello stesso anno, il sostituto procuratore Umberto Monti aveva ipotizzato un decesso dovuto a un pestaggio, individuando anche l’agente responsabile. Nel 2002 però la vicenda giudiziaria si è chiusa con la perizia dell’autopsia che individuava la causa della morte in un’infezione mal curata. Certo, sui morti ammazzati da pubblici ufficiali ci sono alcune eccezioni: per Federico Aldrovandi, ucciso all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara da agenti della polizia, la verità è emersa grazie alla tenace battaglia della madre. Così è stato anche per Giuseppe Uva, massacrato in una stazione dei carabinieri, e per Riccardo Rasman, legato e incaprettato dopo un’irruzione nella sua casa da parte della polizia, solo per citare alcuni dei casi più nefasti. L’ultimo è quello dell’ex calciatore fiorentino Riccardo Magherini, per il quale rischiano di andare a processo anche tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In carcere, dentro le celle, ci sono le morti incerte. Destinate, in maggioranza, a rimanere tali. Giustizia: il carcere è l’ultima soluzione, possibile cumulare le misure coercitive di Piero Maccioni Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2014 Via libera dalla Commissione giustizia della Camera per la riforma della custodia cautelare in carcere. Dopo l’ok di giovedì, il testo sarà in Aula in terza lettura lunedì prossimo. Obiettivo della riforma è ricorrere al carcere solo come extrema ratio quando sono considerate inadeguate le altre misure coercitive o interdittive. Che potranno però, a differenza di oggi, essere applicate cumulativamente. Più stringenti anche i presupposti: per giustificare la custodia cautelare in carcere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non dovrà più essere solo concreto, ma anche "attuale". Al giudice spetterà poi il compito di valutare i "rischi" guardando oltre la gravità e le modalità del delitto, facendo pesare nella decisione anche altri elementi: dai precedenti penali alla personalità dell’imputato. Sul giudice grava l’obbligo di motivare la decisione in maniera più articolata: non potrà più limitarsi a richiamare per relationem gli atti del Pm, ma dovrà spiegare le ragioni per le quali non trova convincenti gli argomenti della difesa. Il testo punta anche sulla maggiore efficacia delle misure interdittive. Per tornare a esercitare la potestà di genitori, svolgere pubblici uffici e servizi o attività professionali o imprenditoriali bisognerà aspettare di più: i termini di durata della sospensione passano, infatti, da due mesi a un anno, in modo da rendere le misure effettivamente alternative alla custodia in carcere. Per i reati di mafia e per l’associazione terroristica resta la presunzione assoluta dell’idoneità della misura carceraria, mentre per gli altri delitti gravi (omicidio, violenza sessuale, sequestro di persona per estorsione eccetera), la presunzione è relativa: 0 carcere si evita se si dimostra l’adeguatezza di altre misure. In questo contesto, si rafforzano i controlli e si cambia la disciplina del riesame delle misure cautelari. Il Tribunale della libertà, avrà tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, che devono arrivare in cancelleria entro 30 giorni o al massimo, per i casi più complessi, non oltre i 45 giorni, pena la perdita di efficacia della misura che, salvo eccezioni, non potrà essere rinnovata. Il collegio dovrà inoltre annullare l’ordinanza - e non integrarla come oggi - liberando l’accusato, se il giudice non ha motivato il provvedimento cautelare o valutato in maniera autonoma tutti gli elementi. Dieci giorni al giudice per decidere in caso la misura sia stata annullata con rinvio da parte della Cassazione su ricorso dell’imputato. Soddisfatta del testo la presidente della Commissione giustizia Donatella Ferranti (Pd): "È una riforma strutturale che si affianca ed è in linea con gli altri interventi di deflazionamento del sovraffollamento carcerario che hanno incontrato l’apprezzamento della Corte di Strasburgo". Giustizia: l’Italia scopre il reato di tortura, un ddl dovrebbe colmare la lacuna di Cristina Giudici Pagina 99, 15 novembre 2014 Ma è viziato dal timore di urtare le forze dell’ordine. Per Papa Francesco è un peccato mortale, per le Nazioni Unite un crimine contro l’umanità. Ed è stata la battaglia comune di tutte le associazioni per la difesa dei diritti e della garanzie dei cittadini, per prevenire ogni forma di violenza e maltrattamento da parte delle forze dell’ordine, ma per ora il reato di tortura non è ancora stato inserito nel nostro codice penale. Approvato al Senato, ora la proposta di legge 2168 (primo firmatario, il senatore Luigi Manconi) è all’esame della commissione Giustizia della Camera, in attesa del semaforo verde per arrivare in Aula. Si tratta in sintesi di introdurre l’articolo 613-bis nel codice penale, per punire con la reclusione da tre a dieci anni "chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche a una persona privata della libertà personale". Una condanna, che diventa più aspra se la violenza viene commessa da un pubblico ufficiale: la reclusione prevista è da cinque a dodici anni, trenta se causa una morte non voluta, l’ergastolo se il colpevole cagiona volontariamente la morte. Ed è proprio questo passaggio della legge a suscitare diverse perplessità. Come spiega il presidente dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Beniamino Migliuzzi. "La legge all’esame della Camera non tipizza il reato. Prevede di punire in modo generico "chiunque" commetta maltrattamenti e violenze. E inserisce un’aggravante, nel caso il responsabile delle torture sia un rappresentante delle forze dell’ordine. Mi pare un testo di legge, frutto di un compromesso, per non urtare la sensibilità delle forze dell’ordine, ma così come è stata articolata non mi convince: se vogliamo introdurre il reato di tortura, deve essere un reato proprio. Non è che chiunque si alza alla mattina e decide di torturare un cittadino italiano. Le violenze accadono all’interno di un contesto preciso, e la legge deve servire come deterrente", spiega a pagina99. "In ogni caso il reato di tortura non è la panacea di tutti i mali perché per punire chi commette violenze, bisogna avere prove certe. Se non le dimostri, il reato di tortura, con aggravante o meno per i pubblici ufficiali, serve a poco. Se i testimoni ritrattano per un clima di omertà e paura oppure vengono considerati inattendibili, come può accadere nel contesto detentivo, i procedimenti giudiziari vengono archiviati. La legge sul reato di tortura sarebbe stata utilissima invece per tutti quei casi dove i responsabili di violenze sono stati condannati al di là di ogni ragionevole dubbio e sarebbero stati puniti con pene maggiori". Favorevole il capo della polizia, Alessandro Pansa, che però ha specificato così i suoi timori: "Può essere strumentalizzato contro operatori della polizia, autorizzati a fare uso di coercizione fisica". Il reato di tortura, introduce anche l’articolo 613-ter per punire il pubblico ufficiale a istigare un altro pubblico ufficiale a commettere il delitto di tortura con una reclusione da tre mesi a sei anni. Inoltre si proibisce respingimento, espulsione, estradizione del cittadino straniero verso paesi dove rischi di essere torturato o dove vi siano lesioni sistematiche dei diritti umani. Una norma, questa, che susciterà sicuramente polemiche e controversie sul tema dell’immigrazione. Per Mauro Palma, presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura, fra i primi a scendere in prima linea 20 anni fa per arrivare a ottenere il reato in Italia, ci sono molti se da sottolineare. "Il reato va introdotto, ovvio. Mi chiedo però a cosa serva, se in Italia esiste un ritardo culturale nella formazione degli operatori di polizia. Se, quando viene segnalata la presenza di un gruppo di agenti penitenziari violenti, l’amministrazione non interviene con tempestività. E se vince la cultura dell’omertà. È lecito che se un detenuto muore in carcere, non vi sia obbligo di autopsia?", chiede. Solo una cosa è certa per ora: l’iter di questa legge tanto attesa non sarà veloce né semplice. Giustizia: L’Associazione Antigone contro le proposte di Gratteri per riformare le carceri di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014 Alcune settimane fa uscì un retroscena su L’Espresso che raccontava di una commissione guidata da Nicola Gratteri che si sarebbe insediata presso la presidenza del Consiglio dei Ministri per lavorare a un progetto di riforma della giustizia. Si raccontava che la commissione intendeva trasformare radicalmente il governo del sistema penitenziario, lasciando che il ruolo di direttore civile andasse a esaurimento e mettendo alla guida delle carceri la polizia. L’allarme che corse tra tutte le persone di tradizione democratica fu immediato, di fronte a uno scenario messo al bando dal diritto internazionale e non smentito da nessuno dopo il servizio de L’Espresso. Poco tempo dopo uscì su Micro Mega un articolo firmato questa volta direttamente da Gratteri in persona. Vi si confermava l’esistenza della commissione voluta da Matteo Renzi presso Palazzo Chigi - una commissione dei cui lavori poco o niente è dato sapere ai cittadini - e si proponevano alcune ricette volte a risparmiare denaro e a interpretare il senso della pena carceraria. Tra queste, in prima linea Gratteri proponeva il lavoro non retribuito per i detenuti, il quale doveva venir inteso come una terapia cui il reo veniva sottoposto per curarsi dalla propria devianza. Micro Mega prendeva apertamente le difese di tali proposte. Con buona pace della Corte Costituzionale, che in passato ha sancito nero su bianco come i detenuti debbano avere le medesime tutele di ogni altro lavoratore, pagando già la loro pena con la reclusione e non dovendo dunque subire afflizioni ulteriori illegittime e fuori dallo Stato di diritto. Due giorni fa a Roma l’associazione Antigone ha organizzato una grande assemblea pubblica dal titolo "Il governo delle carceri". Vi hanno preso parte esponenti della magistratura e dell’avvocatura, direttori penitenziari, dirigenti ministeriali, educatori e assistenti sociali, cappellani delle carceri, garanti dei diritti dei detenuti, volontari. Sono venuti da tutte le parti d’Italia per far sentire la loro voce, in un contesto nel quale nessuno aveva chiesto il parere di coloro che il carcere lo portano avanti da quarant’anni. Tutti, dal primo all’ultimo, sono stati concordi nel grido di allarme suscitato dalle idee attribuite dai giornali alla commissione Gratteri o rivendicate apertamente da chi ne è alla guida. Nel frattempo presso il Ministero della Giustizia si sta lavorando a un’ipotesi di riorganizzazione che va fortunatamente in altra direzione. Trasparenza nella pubblica amministrazione vorrebbe che si sapesse verso quale strada si sta realmente andando. Matteo Renzi non ha ancora pronunciato una parola su questo, nonostante la commissione insediata presso la sua presidenza. Vorremmo sapere cosa ne pensa: smentirà apertamente le conclusioni della commissione Gratteri, pur da lui inizialmente costituita, o avallerà l’idea dei lavori forzati in carcere, schierandosi contro le convenzioni internazionali, la nostra giurisprudenza costituzionale, l’intera cultura giuridica moderna? Giustizia: la nomina del nuovo Capo del Dap rinviata per divergenze tra Orlando e Renzi di Alessandro De Pasquale www.fanpage.it, 15 novembre 2014 Dal 1983 il capo del Dap è sempre stato un magistrato. Nel 2013 il sistema penitenziario italiano è stato giudicato fuori dalla legalità. Nel mese di maggio 2014 Giovanni Tamburino lascia il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria così da consentire al Governo, almeno in teoria, di nominare il nuovo capo. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, immediatamente dopo la revoca dell’incarico a Tamburino, aveva dichiarato ad una testata giornalistica: "Finora, con un’emergenza da affrontare, non si poteva parlare di organigrammi, ma ora vorrei anche legare l’assetto del Dap alla nuova fase e per questo ho bisogno di un tavolo sgombro. Voglio riservarmi qualche giorno per ragionare e verificare tra le diverse soluzioni possibili". A quanto pare la scelta non sembra facile visto che, da molti mesi, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha un capo. A reggere le sorti del Dap c’è l’attuale vice capo vicario Luigi Pagano, un dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria, noto per aver "guidato", per circa 15 anni, il carcere di San Vittore e successivamente a capo delle carceri Lombarde fino al 2012. In questi mesi si è dato il via anche al totonomine, sono stati fatti i nomi di Paolo Mancuso, Mauro Palma, Giovanni Salvi, Giovanni Melillo, Elisabetta Cesqui e Santi Consolo ma, a quanto pare, la torta è troppo grossa e di settimana in settimana la nomina viene rinviata, con il rischio di una piccola crisi di governo sul riassetto dell’amministrazione penitenziaria. È probabile che il Ministro della Giustizia abbia già individuato il nome del nuovo capo del Dap ma è altrettanto probabile che questo nome non riesca ad arrivare sul tavolo del Consiglio dei Ministri, forse per le diverse opinioni del Ministro della Giustizia e di Matteo Renzi, sul riassetto dell’amministrazione penitenziaria e sulla polizia penitenziaria. In tutto questo periodo sono circolate le voci più disparate, dalle più inverosimili alle più pericolose, sulla possibile nomina a capo del Dap di un dirigente dell’amministrazione penitenziaria a cui affidare le sorti di circa 50 mila lavoratori, 80 mila detenuti compresi quelli in misura alternativa, la manutenzione di 205 istituti di pena, la costruzione di eventuali nuove carceri, i rapporti con sindaci, procure, associazioni di volontariato e sindacati. C’è un dirigente del Dap che può portare sulle proprie spalle questa croce ma, soprattutto, che abbia una storia e un programma alternativo e credibile? Giustizia: "Science for Peace" dedica sessione all’inadeguatezza del sistema carcerario Il Giornale, 15 novembre 2014 Si è aperta ieri nell’aula Magna dell’università Bocconi di Milano la 6° Conferenza "Science for Peace", ideata e voluta da Umberto Veronesi e organizzata dalla Fondazione che porta il suo nome. Un appuntamento di due giorni che tocca alcuni dei temi sensibili che rendono oggi la pace sempre di più un prodotto dell’utopia, un traguardo irraggiungibile. Cominciamo allora a ridurre le disuguaglianze; cerchiamo di eliminare la povertà estrema presente in tante, troppe, aree del mondo, incrementiamo l’istruzione, strumento indispensabile per qualsiasi emancipazione sociale e facciamo dell’immigrazione non più un problema ma un’occasione di arricchimento, sia per arriva sia per chi deve accogliere questi individui. L’edizione di quest’anno dedica una sessione al problema della riforma carceraria. Problema molto sentito dal professore: "Ripeto da tempo che le carceri non servono a niente - afferma con forza. Andrebbero chiuse e trasformate in scuole. Il diritto delle persone che hanno commesso un reato è mantenere una dignità emotiva e intellettiva, recuperando quanto avevano perduto a livello etico. Lo scopo della pena deve essere riabilitare, non con l’isolamento ma con il confronto, non con l’esclusione ma con la discussione, non con l’abbruttimento intellettuale ma con libri, cinema, teatro, cultura. Non con l’inattività ma con il lavoro manuale e creativo. Il detenuto deve poter tornare a sentirsi motivato alla vita. Sappiamo, anche grazie alle neuroscienze, che il cervello cambia continuamente, all’individuo non può essere negato il diritto di cambiare". In base ai dati forniti dal Ministero della giustizia (31 dicembre 2013), i condannati in Italia sono 94.474. Uno su tre, per un totale di 31.938 condannati, sconta la pena con misure alternative al carcere. Restano in carcere due condannati su tre, per un totale di 62.536 detenuti, di cui 1.583 condannati all’ergastolo (pari al 4%). La capienza regolamentare delle nostre strutture detentive è di 47.709 posti. Dunque la popolazione carceraria è pari al 130% della capienza e, soprattutto d’estate, la permanenza in carcere rasenta gli estremi della tortura. Alla patologica scarsità di spazio, corrisponde la patologica dilatazione del tempo: su 62.536 detenuti, solo 18.226 (29%) svolgono una qualche attività mentre i 44.310 esclusi da queste attività "rieducative" sono condannati a vivere in poco spazio senza fare assolutamente nulla durante tutte le 8.760 ore che compongono l’anno solare. Non a caso il 70% torna a commettere reati. Uno dei relatori della sessione dedicata al sistema carcerario è Gherardo Colombo, protagonista di molte inchieste giudiziarie dell’ultimo trentennio. Commenta Veronesi: "In un libro che consiglio a tutti di leggere ha scritto: Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto, ad esempio, proporre che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Il titolo del libro è illuminante: Il perdono responsabile. Condivido ogni parola di quanto asserito da Colombo, per questo ho voluto invitarlo alla Sesta Conferenza Mondiale di Science for Peace. Il suo intervento si intitolerà Si può raggiungere il bene attraverso il male? Sono profondamente convinto che la risposta sia sì". Giustizia: Umberto Veronesi; andrei in piazza contro l’ergastolo, spero in un referendum Adnkronos, 15 novembre 2014 Non mi sorprendono parole Papa Francesco su "fine pena mai", da laico seguo evoluzione di parte della Chiesa. "Oggi andrei in piazza per l’abolizione dell’ergastolo". L’oncologo ed ex ministro della Sanità Umberto Veronesi, dal palco della sesta edizione della Conferenza mondiale di Science for Peace, in corso oggi a Milano, torna a ribadire il proprio no al ‘fine pena mai’. "Spero che ci sia presto un referendum sull’ergastolo, come quello promosso" nel 2013 "dai Radicali, purtroppo senza successo. Noi - aggiunge - vogliamo che la scienza lavori per la non violenza. Per fare questo vanno combattute le cause della violenza. È violenza la guerra, ma lo sono anche la fame, l’ingiustizia sociale, il razzismo, la vendetta, la pena di morte. E l’ergastolo, appunto". Il carcere a vita, sottolinea Veronesi, fondatore e presidente del movimento Science for Peace, "è una pena di morte molto lenta. È sbagliato e un po’ tutti i Paesi stanno meditando di abbandonarlo. Molti, dalla Norvegia al Brasile, non hanno più l’ergastolo. E anche la Corte costituzionale di un Paese severo e rigoroso come la Germania si è espressa dicendo che l’ergastolo lede la dignità e priva della possibilità di recupero, contro gli stessi principi della Costituzione tedesca. Noi dobbiamo puntare a rieducare le persone che hanno sbagliato". L’oncologo ricorda anche la posizione di Papa Francesco: "Ha detto che l’ergastolo è una pena di morte nascosta. E non mi ha sorpreso: da laico seguo l’evoluzione di una certa parte della Chiesa che si batte per i più deboli, dagli immigrati ai carcerati, e contro la violenza". "È una linea non nuova - osserva Veronesi - perseguita anche da Papa Giovanni XXIII, autore della più bella enciclica del mondo, per il quale non esisteva una guerra giusta. A 250 anni dall’uscita del libro di Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", che ha aperto le menti a una visione illuministica della vita, quei messaggi sono ancora attuali. Noi siamo sulla stessa linea, per l’abolizione dell’ergastolo". Un appello ribadito in una nota che riassume il pensiero dell’oncologo anche su questo tema, testo in cui ripete che l’ergastolo è "un istituto privo di senso" e sottolinea che le Carceri italiane oggi "non sono rieducative, e lo testimonia l’alto livello di recidività". Secondo i dati citati, il 70% dei detenuti torna a commettere reati, contro il 13% della Norvegia. Il tema della giustizia è "particolarmente caro" a Veronesi: "Ripeto da tempo - scrive nel messaggio diffuso oggi - che le Carceri non servono a niente. Andrebbero chiuse e trasformate in scuole. Lo scopo della pena deve essere riabilitare ad essere buoni cittadini, non con l’isolamento ma con il confronto, non con l’esclusione ma con la discussione sulla vita del paese, non con l’abbrutimento intellettuale ma con libri, cinema, teatro, cultura. Non con l’inattività ma con il lavoro manuale e creativo. Sappiamo anche grazie alla neuroscienze che il cervello cambia continuamente. All’individuo non può essere negato il diritto di cambiare". Giustizia: il Pg Agueci; riduzione di ferie à propaganda, governo si occupi di prescrizione Adnkronos, 15 novembre 2014 "La questione della riduzione delle ferie è pura propaganda, il Governo dovrebbe occuparsi di altre questioni molto più importanti, a partire dai tempi della prescrizione". lo ha detto il procuratore capo facente funzione di Palermo, Leonardo Agueci intervenendo a un convegno sulla giustizia a Palermo. "Questa macchina della giustizia produce una quantità enorme di ‘scarti’, cioè le prescrizioni - dice Agueci. Qualche anno fa c’è stata una legge che ha dimensionato i tempi di prescrizione. Mi sono occupato prevalentemente di reati contro la pubblica amministrazione durante la mia carriera di magistrato, soprattutto casi di colletti bianchi ma spesso era una strada che non spuntava". E aggiunge: "Il processo penale è un sistema debole e inefficace, ma anche incapace, che spesso non è in grado di assicurare soddisfazione per un giudizio a chi si era rivolto fiducioso all’autorità giudiziaria", dice ancora Agueci. "Inoltre, il processo penale troppo spesso tende spesso a produrre decisioni che in realtà non trovano esecuzione – dice. Non credo che chiunque abbia avuto a che fare anche con un frammento del processo penale mi possa smentire. Cosa dovremmo fare? Cambiare mestiere? Sarebbe un errore clamoroso". Da qui la richiesta al Governo Renzi: "Chiedo al Governo di occuparsi per davvero della riforma del processo, di assicurare un processo giusto, professionale condotto da figure professionali e che possa rispondere alle esigenze di giustizia". Secondo Agueci sono "tre gli interventi necessari" che il governo dovrebbe affrontare al più presto: la prescrizione, il giudizio di appello e la comunicazione delle notifiche. "Intanto la prescrizione, incentivo alla perdita di tempo - dice - ma ora si sente parlare solo della riduzione delle ferie, questa è pura propaganda. Invece la prescrizione è fondamentale. Il permanere della prescrizione fino alla durata dell’iter del processo in gran parte sollecitato dal soggetto passivo è un chiaro incentivo alla perdita del tempo ed è qualcosa che urta in modo assoluto con i criteri di razionalità. Lo Stato, quando esercita l’azione penale, deve seguire dei criteri, ma quando è l’imputato che mette in moto un meccanismo ulteriore è irrazionale che continui a correre l’orologio. È fondamentale che la questione sia prioritaria nell’agenda di Governo". "Un altro profilo è quello della comunicazione", per il procuratore Agueci. "Le notifiche sono legate ancora al sistema arcaico, deve essere introdotto il sistema della comunicazione reale. Quando comincia il processo, il giudice deve verificare subito la regolarità delle notifiche. È ormai impensabile che in questo campo, nell’epoca della comunicazione in tempo reale non ci si decida a intervenire". Infine Agueci punta sulla questione del giudizio di appello. "In questi giorni l’attualità ci ha portati a casi clamorosi che hanno ribaltato sentenze di primo grado (come il caso Cucchi o dell’Aquila ndr). Sarà che faccio parte del mondo del primo grado, ma anche se l’ordinamento dice che l’appello prevale sul primo grado, siamo sicuri che delle due sentenze sia più giusta quella di appello e non di primo grado? Il giudizio di primo grado si basa sul principio della oralità, le prove devono essere raccolte indebitamento e il collegio giudicante deve sentire i fatti e formarsi un proprio convincimento". Giustizia: Gregorio Durante era malato ma non gli credevano... ed è morto in carcere di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 novembre 2014 Il detenuto stava male, ma il personale del carcere era convinto che fingesse di essere malato, tanto da punirlo con tre giorni di isolamento. L’inchiesta, condotta dal Pm Luigi Scimè, ha portato all’imputazione di cinque medici dell’istituto penitenziario: secondo l’accusa non avrebbero disposto gli esami necessari per tenerlo sotto controllo, diagnosticare e disporre gli opportuni trattamenti sanitari. Non si danno pace la mamma di Gregorio e la sua compagna Virginia: "Ce lo hanno ucciso, ce lo hanno fatto morire in cella da solo come un cane. Quando siamo andati a trovarlo a Natale era su una sedia a rotelle, aveva gli occhi chiusi, non parlava e si faceva la pipì addosso, aveva ai polsi persino i segni delle corde con le quali veniva legato al letto e mi dicevano invece che stava simulando". Tra l’altro, a marzo del 2012, la prima sezione della Corte d’Appello di Lecce, su istanza dell’avvocato Francesco Fasano, stabilì che non vi fosse ostacolo alcuno all’applicazione dell’indulto per i reati per i quali Durante era stato condannato. E la sentenza recitava proprio che Durante morì "ciononostante" avesse ragione: gli sarebbe toccato uno sconto di pena, derivante dall’indulto, pari a due anni di reclusione. Gregorio Durante soffriva di crisi epilettiche associate a crisi psicomotorie a causa di una encefalite contratta nel 1995, quando aveva 17 anni. Una malattia tenuta sotto controllo negli anni grazie ad una terapia adeguata che però era stata bruscamente interrotta al momento dell’ingresso in carcere, a novembre del 2009. Durante doveva scontare sei anni di reclusione per uno schiaffo dato, mentre era in regime di sorveglianza, a un ragazzo che aveva messo lo sgambetto alla compagna Virginia, all’epoca incinta. Secondo i familiari, la direzione dell’istituto si era giustificata spiegando che la terapia era stata sospesa poiché la Asl non passava quel tipo di farmaco, vitale per Gregorio. Intanto le condizioni le sue peggioravano giorno dopo giorno, al punto che in una lettera indirizzata alla compagna Virginia un mese prima della morte, Gregorio chiedeva aiuto: "Ho paura", "Venite a prendermi, vi prego", scriveva. L’ultimo incontro con la compagna è del 10 dicembre 2011. A raccontarlo la compagna stessa: "Sono andata in carcere, al colloquio: non mi riconosceva, girava tra la gente, nella sala, con una bottiglia d’acqua in mano e io l’ho abbracciato forte. Pochi secondi dopo ha avuto una crisi epilettica, davanti a tutti. Lo hanno trasferito, su nostra insistenza, a Bisceglie. "Suo marito - mi ha detto lì il medico - non è da reparto di psichiatria, non lo posso tenere qui, deve essere curato in un reparto di neurologia". E il 13 dicembre è stato dimesso da Bisceglie ma è tornato in carcere". Racconta ancora la donna: "Il 27 dicembre il professor Specchio, su nostra richiesta, lo ha visitato in carcere e ha prescritto un ricovero immediato: una istanza che è stata inviata con urgenza al magistrato di sorveglianza e al direttore del carcere. Ma non è successo niente e mio marito è morto. Gli ultimi giorni anche gli altri detenuti avevano le lacrime agli occhi. Mio marito, per quelli del carcere, invece, simulava. Sta simulando ora, in quella bara? Qualcuno mi deve dare una risposta". Si spera che in tribunale ci sarà la risposta giusta. Giustizia: per la morte di Gregorio Durante medico carcere condannato a 4 mesi Ansa, 15 novembre 2014 Il Gup del tribunale di Trani Luca Buonvino ha condannato alla pena di 4 mesi di reclusione il direttore sanitario del carcere di Trani, il dottor Francesco Monterisi e ha assolto "per non aver commesso il fatto" gli altri quattro medici imputati per la morte di Gregorio Durante, il detenuto 33enne di Nardò (Lecce) morto in cella il 31 dicembre 2012. La sentenza è stata emessa al termine di un processo celebrato con rito abbreviato. La procura di Trani contestava al personale medico del carcere l’omicidio colposo, per non aver disposto il ricovero in ospedale nonostante le gravi condizioni di salute di Durante, che - secondo i legali della sua famiglia - non sarebbe stato in grado di camminare, di nutrirsi e di assumere farmaci autonomamente. Per i medici legali che effettuarono l’autopsia, l’uomo morì a causa di una broncopolmonite sopraggiunta ad una intossicazione da Fenobarbital, un noto barbiturico. "È vergognoso. Gregorio per uno schiaffo prese sei anni (in primo grado dal giudice monocratico a Nardò nel 2009 per aver aggredito il figlio di una guardia giurata), il suo assassino invece solo pochi mesi", ha detto Virginia Marzano, la compagna di Gregorio Durante. "Dovevano essere condannati tutti - ha aggiunto - con una pena congrua a quanto hanno fatto ma non ci fermiamo, andremo in Appello e se servirà anche oltre". La donna, parte civile nel processo insieme con i due figli minori, assistiti dall’avvocato Nicola Martino, ha ottenuto dal giudice il risarcimento danni che sarà però quantificato in sede civile. Giustizia: per i giudici fuori dal carcere Provenzano morirebbe, quindi rimane detenuto Ansa, 15 novembre 2014 In mancanza delle cure alle quali è sottoposto nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano, il boss Bernardo Provenzano morirebbe in brevissimo tempo. Lo scrive il tribunale di sorveglianza di Bologna che, a distanza di circa due anni dalla richiesta dei legali del capomafia, ha rigettato, quando ormai non ha più la competenza per decidere in merito, l’istanza di differimento dell’ esecuzione pena per le condizioni di salute del boss. I giudici bolognesi erano stati interpellati dai difensori di Provenzano, Rosalba Di Gregorio e Francesco Marasà, perché all’epoca padrino corleonese era detenuto nel carcere di Parma, quindi l’autorità giudiziaria competente a decidere un eventuale differimento della pena era quella di Bologna. Per i giudici, che citano un parere del tribunale di Milano che ha respinto una istanza analoga degli avvocati, Provenzano non sopravvivrebbe senza cure, quindi, paradossalmente, "la condizione detentiva presso l’azienda ospedaliera di Milano è la soluzione migliore a tutela della sua salute". Lettere: caso Lonzi; Irene Testa (Detenuto Ignoto) scrive ai Presidenti delle Camere www.radicali.it, 15 novembre 2014 Gentili Presidenti, nei giorni scorsi la signora Maria Ciuffi, mamma di Marcello Lonzi, detenuto nel 2003 e morto nel carcere delle Sughere di Livorno mi ha chiesto di sostenerla politicamente e umanamente, in un sit-in svoltosi appena due giorni fa davanti a Montecitorio, cosa che ho fatto coinvolgendo la Segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini e altri gruppi politici. Maria Ciuffi, ha mostrato in pubblico, ai media e alla politica, le foto che ritraevano il figlio morto in una pozzanghera di sangue, un buco in testa, otto costole rotte, un polso fratturato e due denti rotti. Le immagini che la signora Ciuffi ha mostrato in piazza rappresentano un pugno allo stomaco a cui non si può rimanere indifferenti. Credo che questa mamma meriti risposte perché è davvero difficile sforzarsi di pensare che un corpo possa ridursi da solo in quelle condizioni a causa di morte naturale. Le immagini parlano da sole, basta guardarle. Per questo ve le allego, affinché possiate anche voi prenderne visione. Il motivo della mia lettera, vuole essere quello di tradurre il desiderio espresso dalla mamma del ragazzo di poter essere ricevuta dalle istituzioni, così come in altre circostanze si è fatto. Confidando in un vostro interessamento. Vi saluto cordialmente. Irene Testa Segretaria dell’Associazione il Detenuto Ignoto Membro della Direzione di Radicali Italiani Lettere: cari Boldrini e Grasso… lo Stato ha ucciso mio figlio, non archiviate la sua morte di Maria Ciuffi Il Garantista, 15 novembre 2014 Otto costole rotte, un buco in testa, due denti rotti e un polso fratturato. Come potrei accettare la tesi che sia stato un infarto? Marcello, a soli 29 anni fu arrestato nel 2003 per tentato furto, mancavano pochi mesi perché tornasse a casa. Lo Stato che lo custodiva avrebbe dovuto restituirmelo vivo e non morto. Aveva 8 costole rotte, un buco in testa, due denti rotti e un polso fratturato immerso in una pozzanghera di sangue. Vorrei che i Presidenti delle Camere si interessassero alla questione che mio figlio e mi ricevessero come hanno fatto con i familiari di Cucchi. "Dopo 11 anni voglio la verità su mio figlio": a chiederlo è Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, arrestato per tentato furto e morto 4 mesi dopo, l’11 luglio del 2003, nel carcere livornese delle Sughere. Una vicenda che noi de "Il Garantista" abbiamo già trattato alla vigilia del sit in a Montecitorio organizzato dall’associazione Radicale "Il detenuto ignoto", dove hanno chiesto l’apertura di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Il caso era stato inizialmente archiviato, e Marcello dichiarato morto per cause naturali, un infarto. Dopo la riapertura delle indagini nel giugno di quest’anno a 11 anni dal caso, ora il rischio è quello di una nuova archiviazione. Maria Ciuffi, durante la manifestazione, ha esposto le drammatiche foto del cadavere del figlio, che lo ritraggono a terra con il viso tumefatto e lacerato, e nudo sopra un lenzuolo, con il corpo livido e una copiosa scia di sangue dalla testa. "Quando un figlio sano viene affidato allo Stato e ti viene restituito con otto costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e ti si dice che è morto per cause naturali, non è possibile accettare, non è possibile farsene una ragione", ha detto la madre di Lorenzo, aggiungendo: "Chiedo ai presidenti delle Camere, così come giustamente hanno fatto con la famiglia Cucchi, di prestare attenzione anche a me e alle altre mamme che chiedono verità e giustizia". Il sit in è stato organizzato anche per scongiurare l’ennesima archiviazione. Di seguito riportiamo la sua lettera che ha inviato al "Garantista" e rivolta alle istituzioni. In questi anni atroci, li ho contati giorno per giorno, sono tanti e sono troppi, 11, che cerco giustizia per mio figlio. Marcello, a soli 29 anni fu arrestato nel 2003 per tentato furto, mancavano pochi mesi perché tornasse a casa. Ci tengo a ribadire, che non giustifico mio figlio per gli errori commessi ma condanno invece lo Stato che lo custodiva perchè avrebbe dovuto restituirmelo vivo e non morto. Aveva 8 costole rotte, un buco in testa, due denti rotti e un polso fratturato immerso in una pozzanghera di sangue. Come potrei accettare la tesi che sia morto per cause naturali dovute a un infarto? Quale mamma potrebbe mai accettare una cosa del genere? Quale madre si arrenderebbe di fronte a una tortura così atroce? Io non accetterò mai questo verdetto e mi appello ai giudici di buon senso affinché non archivino ancora la vicenda di Marcello. Facciano il possibile per far emergere la verità e anche se mio figlio non mi sarà mai restituito, potrò morire in pace. Vorrei che i presidenti delle Camere si interessassero alla questione di mio figlio e tramite alcuni parlamentari ho espresso il desiderio di essere ricevuta come giustamente hanno fatto col caso Cucchi. Mi sono recata appositamente lì, davanti a Montecitorio nei giorni scorsi e ho mostrato le foto che ritraevano mio figlio Marcello perché volevo che tutti vedessero il corpo martoriato del mio ragazzo, sono anni che le pubblico ovunque. Finora, nessuno dei due Presidenti delle Camere mi ha fatto sapere alcunché. Nel 2010 accompagnata dalla Radicale Irene Testa e grazie al sostegno dell’associazione Il Detenuto Ignoto, ho persino fatto uno sciopero della fame ma il caso è stato anche in quella occasione archiviato, fortunatamente sono riuscita in seguito a farlo riaprire ma a breve, tutto potrebbe nuovamente concludersi con una archiviazione. Mi auguro che non sia così e che chi ha le responsabilità si metta una mano sulla coscienza e faccia emergere la verità. Io comunque andrò avanti, lo devo a mio figlio e ai tanti altri ragazzi che sono entrati in carcere per scontare una pena e sono stati restituiti morti alle famiglie. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; il nuovo carcere di Uta è circondato da rifiuti tossici Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2014 "Le nuove notizie in merito alla presenza di materiali tossici disseminati nell’area industriale di Macchiareddu, il territorio dove sorge il Villaggio Penitenziario di Uta, stanno destando preoccupazione tra i detenuti di Buoncammino e i loro familiari per le conseguenze sulla salute". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente della associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento all’inchiesta della Procura della Repubblica di Cagliari che intende accertare se esistano situazioni di mancato rispetto delle norme in materia di protezione ambientale. "Mentre da Buoncammino sono stati avviati i trasferimenti dei detenuti in altri Istituti sardi e della Penisola per predisporre le misure più idonee a garantire in totale sicurezza e rapidità il passaggio dei ristretti nel nuovo Penitenziario di Uta, la cui apertura è prevista nelle prossime settimane, ha generato una diffusa preoccupazione - evidenzia Caligaris - l’avvio della verifica ambientale affidata al Corpo Forestale, anche per le caratteristiche del territorio in cui sono stati edificati i Padiglioni del Villaggio". "In prossimità delle strutture di reclusione, oltre a un impianto fotovoltaico e uno eolico e a una vasca per la raccolta dell’acqua di irrigazione, si trova - ricorda la presidente di Sdr - l’Agrolip Sarda, ex Valriso, stabilimento specializzato nello smaltimento e trasformazione degli scarti di allevamenti e macellazioni da cui si sprigionano miasmi che viziano l’aria rendendola irrespirabile soprattutto in alcuni giorni". "Le preoccupazioni insomma non sono infondate anche perché nel nuovo sito penitenziario quotidianamente e con continuità convivranno oltre un migliaio di persone tra detenuti, familiari, Agenti di Polizia Penitenziaria, personale dell’Amministrazione, insegnanti, Medici e Paramedici, senza contare Magistrati, avvocati e volontari. Un realtà complessa che corrisponde numericamente a un paese di media grandezza per la Sardegna. Si pone quindi l’esigenza improcrastinabile di effettuare da subito dei controlli approfonditi con carotaggi e monitoraggi ambientali che scongiurino qualunque risvolto negativo per la salute. Ciò consentirebbe, aldilà delle polemiche legate alla scelta del sito in una landa desolata e difficilmente raggiungibile, di confermarne la salubrità oppure di risanarlo in tempi brevi con opportuni interventi. Rasserenare i cittadini ed evitare conseguenze sulla salute - conclude Caligaris - deve essere una priorità anche se ciò dovesse comportare un ulteriore ritardo nella tabella di marcia dei trasferimenti". Padova: ispettori del Dap nel carcere Due Palazzi, dopo l’inchiesta della procura di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 15 novembre 2014 È arrivata l’ispezione ordinata dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, il carcere per i detenuti condannati in via definitiva trasformato in un "supermarket fuorilegge" dove tutto aveva un prezzo, dal materiale informatico alla droga. Carcere protagonista di una delicatissima inchiesta ancora in corso che ha svelato un sistema di crimini, abusi e complicità tra alcuni agenti di polizia penitenziari e un gruppo di detenuti. Senza che nessuno si sia mai accorto di nulla all’interno delle mura blindate della struttura di massima sicurezza che ospita in media 870 reclusi affidati a 370 agenti di polizia penitenziaria (in parte distaccati per incarichi "extramoenia" cioè esterni). "Non sapevo nulla dello spaccio e dei favori che avvenivano all’interno del carcere, altrimenti sarei intervenuto" aveva spiegato il direttore della casa di reclusione, Salvatore Pirruccio, quando era stato interrogato dal pubblico ministero Sergio Dini, titolare dell’inchiesta. Ispettori al lavoro. Droga, telefonini, chiavette usb, schede sim: per un anno e mezzo, o forse più, è stata permeabilissima la casa di reclusione, in particolare il quinto blocco dove, chi non stava alle regole di pochi, rischiava pestaggi e (pare) violenze sessuali. Sul piano penale il magistrato inquirente sta portando avanti gli accertamenti giudiziari. Ora sono in corso i controlli amministrativi a oltre quattro mesi dal blitz dell’8 luglio scorso che ha portato all’arresto di 15 persone (finite in parte in carcere, in parte ai domiciliari): tra loro, sei agenti di polizia penitenziaria, un’avvocatessa rodigina, alcuni detenuti o ex detenuti, familiari di reclusi. Al momento gli indagati sono 35. Non poteva stare immobile il Dap che è l’organismo di vertice preposto alla gestione delle carceri italiane, dipendente direttamente dal Ministero della giustizia: "L’ispezione era nell’aria" ammette più di qualche operatore. Nel mirino la gestione. Martedì scorso si è presentata all’ingresso del Due Palazzi la delegazione di ispettori formata da un dirigente con l’incarico di provveditore, un commissario e due ispettori di polizia penitenziaria: tra oggi e domani dovrebbe concludere il lavoro, poi la stesura della relazione finale. L’obiettivo è verificare la gestione amministrativa del carcere e il trattamento sanitario garantito ai detenuti (non a caso è stato chiamato per un colloquio il dirigente medico dell’Usl 16 responsabile della sanità penitenziaria). Ma soprattutto analizzare come sia potuto succedere quanto sta emergendo dall’indagine penale su quel carcere-modello per "fotografare" eventuali omissioni, manchevolezze, negligenze sotto il profilo strettamente amministrativo. Non solo: gli ispettori vogliono capire se l’istituto, visto quello che è accaduto, offra adeguate garanzie di sicurezza. Un dato che non sarà trascurato è relativo alla popolazione carceraria presente, ben oltre gli standard di legge (è pari a più del doppio di quello previsto). Sono stati sentiti pure alcuni detenuti. L’inchiesta penale. Anche al Dap era stata trasmessa l’ordinanza di custodia cautelare sfociata nei 15 arresti, firmata dal gip Mariella Fino che ha evidenziato "... una spregiudicata complicità tra i vari agenti indagati dediti all’acquisto e al consumo di stupefacenti... privi di qualsiasi senso del dovere". Guai a sottrarsi a quel sistema di illegalità da parte dei reclusi decisi a rispettare le regole. Sempre nell’ordinanza si legge di una "prevaricazione da parte dei servitori dello Stato nei confronti di soggetti di minorata difesa, perché privi della libertà e in balìa degli agenti, indotti a drogarsi, a collaborare ad attività delittuose, minacciati e picchiati quando si sono sottratti". Insomma non comandava lo Stato al 5° blocco dove spadroneggiava un padrino dell’Alleanza di Secondigliano, alcuni boss della mafia salentina e un criminale di guerra serbo. Bastava pagare. E si poteva avere tutto, eroina, cocaina, hashish e metadone. In cambio di che cosa? Soldi e altri stupefacenti reclamati dai sei agenti, tossicodipendenti, talvolta capaci di sniffare durante il turno di servizio. Agli arresti sono finiti l’assistente e l’agente di polizia penitenziaria Pietro Rega e Luca Bellino, i quattro agenti Giandonato Laterza, Angelo Telesca, Roberto Di Profio e Paolo Giordano. Tragica la fine di quest’ultimo che si è suicidato nell’agosto scorso. Nasce la sezione a custodia attenuata Si chiama Icat. È la sezione detentiva a custodia attenuata ospitata in un padiglione della casa circondariale (il carcere per i detenuti in attesa di giudizio): un progetto pilota per la nostra Regione, frutto della collaborazione tra il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto e l’Usl 16. Verrà inaugurata a giorni. Gli ospiti? Detenuti con problemi di alcolismo o tossicodipendenza, pronti a intraprendere un percorso terapeutico e lavorativo. La Regione finanzia il progetto con 200 mila euro annui. "Un progetto" nota Giampiero Pegoraro della Cgil Funzione pubblica-polizia penitenziaria, "che vivrà attraverso la collaborazione di varie figure, tra cui gli agenti di polizia penitenziaria, diventati promotori del reinserimento e dell’integrazione dei detenuti". Cagliari: Pili (Unidos); soppressa Scuola penitenziaria Monastir, decisione da respingere Ansa, 15 novembre 2014 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato il decreto che sopprime la scuola penitenziaria di Monastir, alle porte di Cagliari. Lo denuncia su Facebook il deputato di Unidos Mauro Pili, che ha anche pubblicato il decreto che reca la data del 6 novembre. "È una decisione irrazionale da respingere in ogni modo - attacca il parlamentare sardo - nel contempo nasce il ghetto per 500 immigrati al posto della scuola. La Regione rivendichi il patrimonio in base all’art.14 e blocchi questo piano scellerato". Secondo il deputato, "si tratta di una vera e propria mannaia con argomentazioni generiche che non tengono nel minimo conto le condizioni insulari della Sardegna. I costi gestionali della formazione sono destinati a salire in maniera esponenziale considerato che gli agenti dovranno obbligatoriamente varcare il Tirreno per andare verso le strutture dislocate nel continente". "Questo - argomenta Pili - comporterà costi sempre maggiori di trasporti e pernottamento, oltre il disagio per gli stessi lavoratori. Il decreto è accompagnato da un’altra comunicazione del provveditore del Dap Sardegna che dice chiaramente che il patrimonio deve essere ceduto al demanio. Trasformare quella struttura in un centro per immigrati alla periferia di Cagliari - sottolinea ancora il deputato - significa mettere in atto un’azione che denota la spregiudicatezza di coloro che stanno continuando a considerare la Sardegna una vera e propria colonia. Una decisione che contrasteremo in tutti i modi sperando che le amministrazioni locali si attivino e soprattutto che la Giunta regionale la smetta di essere tappetino di questo governo nefasto". Lecce: arrivate le prime condanne ai detenuti coinvolti nella maxi rissa in carcere www.corrieresalentino.it, 15 novembre 2014 Arrivano le prime condanne per una maxi rissa avvenuta in carcere nel maggio di un anno fa. Dinanzi al giudice monocratico Silvia Minerva hanno scelto la via processuale più breve sei dei dieci imputati, tutti condannati a quattro mesi di reclusione: Emanuele Toma, 33enne di Tricase; Vincenzo Marino, 37, di Mesagne; Alessandro Mazza, 35, di Castel Volturno e i tre rumeni Iulan Petrisor Saria, 24 anni, Ionut Tenchi, di 29 e Ovidiu Dumitru Constantin, 28. Hanno scelto il rito ordinario, invece, Massimiliano Cordella, 34, di Nardò; Donato Parrotto, 46, di Casarano; Loris Pasquale Casarano, 40, di Alliste e il dichiarante Mauro Ingrosso, 30enne, di San Cesario. La maxi rissa si verificò nel corso dell’ora d’aria. Il cortile del carcere si trasformò in breve tempo in un ring. Nella scazzottata rimasero coinvolti dieci detenuti che se le diedero di santa ragione colpendosi violentemente con calci e pugni per motivi probabilmente legati a faccende legate alla supremazia all’interno del carcere. Quattro contendenti rimasero anche feriti e furono medicati nell’infermeria di Borgo San Nicola. In particolare Parrotto subì escoriazioni a due dita della mano destra; Saria riporto ecchimosi all’occhio sinistro, Tenchi un graffio sul naso mentre Constantin un arrossamento della mandibola. Alcuni dei feriti sporsero denuncia e scattò un’indagine interna che consentì di risalire ai presunti responsabili dell’ennesima rissa scoppiata all’interno di un carcere sempre ribollente. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Ezio Maria Tarantino, Mario Coppola, Carlo Gervasi, Francesco Fasano, Biagio Palamà, Valerio Centonze e Antonella Toma. Reggio Emilia: l’architetto Daniele Galli "per prevenire i disastri impieghiamo i detenuti" www.4minuti.it, 15 novembre 2014 Usare i detenuti della Pulce per la pulizia dei corsi d’acqua. Lo chiede architetto Daniele Galli, consigliere comunale a Castelnovo Sotto e candidato di Forza Italia alle elezioni regionali del 23 novembre "In un momento in cui il territorio reggiano sembra un colabrodo, è necessario agire celermente con l’emissione di alcune semplice ordinanze da parte dei Sindaci del nostro territorio - afferma l’architetto. Ad esempio, gli scarichi delle acque piovane ,che per anni abbiamo dovuto convogliare con due reti diverse , acque nere e acque bianche ,in attesa che i Comuni facessero le reti solo delle acque bianche e che poi non hanno mai fatto, devono rimanere a casa propria, nel proprio giardino o cortile. Con una semplice ordinanza si possono obbligare a togliere i pluviali delle grondaie ,dai pozzetti/pluviale, e con l’innesto di una semplice curva convogliare l’acqua nei giardini o cortili. Questo contribuirebbe a non aumentare il carico della fognatura tombata e a non ingrossare fossi e canali". Aggiunge Galli: "Per la pulizia programmata nei mesi estivi di fossi, torrenti ,canali che attualmente non viene fatta molto bene ,se sono questi i risultati (si veda il Crostolo che è sempre pieno di alberi , salici, arbusti di ogni tipo) si potrebbero impiegare , visto la scarsità di fondi coloro che attualmente sono detenuti nel carcere della Pulce e che hanno commesso reati minori , naturalmente dopo un adeguato addestramento e sorvegliati mediante braccialetto elettronico e da forze armate". Milano: l’Assessore Mantovani visita carcere di Opera "garantire buona salute a tutti" Italpress, 15 novembre 2014 Regione Lombardia prosegue il suo impegno nel verificare e garantire condizioni migliori anche all’interno delle strutture carcerarie. Nel tardo pomeriggio di ieri il vice presidente e Assessore alla Salute Mario Mantovani, dopo le recenti visite all’interno dei penitenziari di Pavia, Bergamo e Busto Arsizio, si è infatti recato presso la Casa Circondariale di Opera. "In questi ultimi mesi la Giunta lombarda ha portato avanti progetti tesi a migliorare il benessere della popolazione carceraria, soprattutto in ambito sanitario". A questo proposito Mantovani ha ricordato le recenti inaugurazioni delle strutture poliambulatoriali all’interno delle carceri di Bergamo e di Busto Arsizio, oltre alla risoluzione approvata nel maggio scorso dal Consiglio regionale, con la quale si sollecita un maggiore intervento da parte del Ministero della Giustizia al fine di individuare le soluzioni più idonee per migliorare la qualità della vita all’interno delle carceri lombarde. "La civiltà di un Paese - ha osservato il vice presidente lombardo - si misura dalle condizioni delle sue carceri e per questo ancora una volta constatiamo come da Regione Lombardia arrivi un segnale che mi auguro venga raccolto da tutti". Il vice presidente ha infatti ricordato lo stanziamento da parte della Giunta lombarda di 2 milioni e mezzo di euro per garantire migliori condizioni di vita e di lavoro a detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria. "Di questa somma quasi 930 mila euro sono stati assegnati a Opera. Segno, quindi, di un’attenzione che si realizza in azioni concrete". Il vice presidente, accompagnato dal direttore della casa di reclusione, ha quindi dedicato particolare attenzione alle condizioni delle strutture sanitarie di Opera. "Ho trovato un centro funzionante ed in ordine, con personale sanitario attento e molto professionale. Ho avuto modo di parlare anche con i detenuti ricoverati, riscontrando un giudizio positivo". Ad Opera è in funzione un centro diagnostico terapeutico di primo livello, a cui affluiscono detenuti da tutta Italia. Gli specialisti, dipendenti dell’azienda ospedaliera San Paolo di Milano, effettuano all’interno dell’Istituito un totale di circa 12.000 visite all’anno con un Centro Clinico che dispone di 84 posti letto. "Il nostro obiettivo - conclude Mantovani- è garantire una buona sanità per tutti e certamente Opera è davvero un punto di eccellenza in questo settore". Salerno: al Pronto soccorso poliziotto pestato da un detenuto. La Uil: "stanchi di subire" La Città di Salerno, 15 novembre 2014 Un assistente capo della polizia penitenziaria è stato preso a pugni da un detenuto che aveva accompagnato al Pronto soccorso del "Ruggì". L’ennesimo episodio di violenza ai danni delle guardie carcerarie della casa circondariale di Fuorni si è consumato all’ 1.30 di mercoledì notte. L’agente aveva portato in ospedale il detenuto, un cinquantenne salernitano che soffre di problemi psichiatrici, perché l’uomo stava molto male ed aveva iniziato a dare in escandescenza, Una volta giunti all’ingresso dell’Azienda ospedaliera, il detenuto ha perso completamente le staffe e ha iniziato ad inveire contro l’assistente capo, colpendolo ripetutamente sia al volto che ad una spalla. È stato necessario l’intervento delle guardie giurate del "Ruggi" per riportare la calma, Il poliziotto è stato medicato: nella colluttazione ha riportato alcune ecchimosi al volto e la lussazione della spalla. L’aggressore è stato invece ricoverato nella sezione detenuti del nosocomio, dove ancora si trova sotto stretto controllo medico, L’episodio ha scatenato le polemiche delle organizzazioni sindacali, anche perché non si è trattato di un caso isolato. "Sono mesi che protestiamo contro le carenze di personale che espongono a fortissimi rischi tutti gli agenti e purtroppo la situazione del carcere di Fuorni diventa ogni giorno più drammatica - ha sottolineato Daniele Giacomaniello, vice coordinatore provinciale della Uil penitenziaria. Un’altra battaglia del sindacato, che finora non ha purtroppo prodotto ì frutti sperati, è quella per rivendicare che i detenuti che soffrono di problemi psichiatrici siano curati in strutture adeguate. È impensabile che debbano convivere con gli altri e che non abbiano l’assistenza di esperti che hanno gli strumenti per gestire eventuali situazioni critiche". Marocco: detenuti islamici in sciopero fame, protesta contro "restrizioni e prevaricazioni" Nova, 15 novembre 2014 È ripresa la protesta dei detenuti islamici marocchini presenti nel carcere di Sila. È iniziato infatti uno sciopero della fame per protestare contro "le restrizioni e le prevaricazioni" denunciate dai detenuti islamici nei loro confronti da parte dell’amministrazione carceraria. In una nota diramata dai familiari dei detenuti si denunciano "maltrattamenti da parte dell’amministrazione carceraria nei loro confronti" e si chiede la fine dell’isolamento per i capi dei detenuti salafiti.