Giustizia: le sentenze di assoluzione? sono una "vergogna" di Piero Sansonetti Il Garantista, 12 novembre 2014 Le sentenze sono di due tipi. Quelle di condanna e quelle di assoluzione. Se sono di condanna vanno bene, e sanciscono il fatto che il condannato è colpevole. Su tutti i giornali si dichiara in modo solenne e devoto: le sentenze (di condanna) si eseguono, non si commentano. E soprattutto non di discutono, non si criticano, non si protesta contro di loro, non le si dichiara ingiuste. Una condanna vale la verità. Il secondo tipo di sentenze sono le sentenze di assoluzione. Queste sentenze sono una vergogna. Per definizione sono una vergogna. E infatti, in genere, in aula c’è un bel gruppetto di persone che grida: "vergogna, vergogna". E se non c’è, il giorno dopo molti giornali titoleranno così: "Vergogna". Oppure, in modo più efficace, titoleranno: "delitto tal dei tali, non lo ha commesso nessuno". O: "Nessun colpevole". Negando la possibilità che qualcuno abbia commesso il delitto ma non sia stato scoperto, cosa che ogni tanto succede. Le sentenze di condanna, per definizione, non si discutono. Le sentenze di assoluzione, per definizione, sono una vergogna. Come mai? Semplice. Il processo penale, da qualche anno, non si celebra più nelle aule dei tribunali ma molto prima. Quando un Pm emette un avviso di garanzia, il processo è già svolto, di fatto, e l’avvisato, o l’indagato, è - di prassi - considerato colpevole del delitto del quale è accusato. Non c’è bisogno di nessunissima sentenza. Da quel momento si inizia a eseguire la prima parte della condanna che talvolta è il carcere preventivo, il quale può durare anche molti anni, altre volte è la gogna realizzata attraverso giornali e Tv, altre volte è tutte e due le cose. In più c’è spesso la perdita del lavoro, gigantesche spese per pagare gli avvocati, problemi di salute, di tenuta nervosa, eccetera. Poi, molti anni dopo, la magistratura giudicante emette la sentenza, ma è chiaro che la sentenza deve essere di condanna, visto che l’imputato è colpevole, altrimenti non sarebbe stato indagato. E se invece la sentenza è di assoluzione, e dunque nega l’evidenza che l’imputato, in quanto imputato, è colpevole, allora è chiaro che è una sentenza vergognosa. Perché è una vergogna mandare assolti i colpevoli, per di più dopo che comunque hanno già scontato (col carcere e con il letame) gran parte della condanna. E i giudici che mandano assolto un imputato sono corrivi, anzi fetenti. A quel punto conta poco anche il capo di imputazione. Ieri, per esempio, "Il Fatto" ha spiegato che l’assoluzione degli scienziati che erano stati messi sotto accusa (come poteva succedere solo in Corea del Nord) per non aver previsto un terremoto, equivale alla sentenza di assoluzione degli agenti che erano accusati di avere ucciso a botte Stefano Cucchi. Naturalmente, in parte, questo è vero: se non esistono prove della colpevolezza di quegli agenti - lo abbiamo già scritto - è sacrosanto che siano stati assolti. Perché - a occhio - l’assoluzione non dovrebbe dipendere dalla gravità della colpa ma dalle prove raccolte contro l’imputato. Così dicono, almeno, i vecchi libri, polverosissimi, di diritto. E però per giungere ad accostare il reato di omicidio al reato di mancata previsione di un terremoto, bisogna metterci un bel po’ di faziosità e pregiudizio. Credo. Ma forse mi sbaglio, non è faziosità: quelli del "Fatto" credono davvero che gli scienziati dovrebbero prevedere i terremoti, e conoscere gli oroscopi, e indovinare il futuro (almeno il futuro prossimo) e altre cose così. Anche a Salem (Massachusetts) nel seicento, molti credevano che le donne poco "timorate di Dio" fossero streghe, avessero poteri soprannaturali e fossero al servizio del diavolo. E dunque, saggiamente, le bruciavano vive, perché ritenevano che quello fosse l’unico modo per cancellarle per sempre. Ciascuno è bene che sia fedele ai propri principi. Anche Travaglio. Anche Kim il Sung, o come diavolo si chiama suo nipote. Giustizia: una vita sull’orlo dell’indignazione permanente di Cesare Martinetti La Stampa, 12 novembre 2014 "Vergognosa" la sentenza dell’Aquila. "Sconvolgenti" le assoluzioni dei boss della camorra nel processo Saviano. Non parliamo di quelle del caso Cucchi. Va da sé che i parenti delle vittime del terremoto hanno il sacrosanto diritto di chiedere giustizia. È ovvio che ci sembra incomprensibile una sentenza che condanna l’avvocato che per conto dei boss ha proferito miserabili minacce contro uno scrittore e assolve i mandanti. Siamo con il cuore, e non soltanto, accanto alla signora Ilaria che per amore del fratello morto in carcere e con un vivo sentimento di coraggio civile sta battendosi per una causa che dev’essere di tutti. Ciò detto, però, c’è qualcosa che non va in tutte queste indignazioni che si rivolgono contro giudici legittimi che - salvo prova contraria - hanno pronunciato sentenze legittime in legge e coscienza. Questo qualcosa è che nel nostro Paese è caduto il riconoscimento del potere costituito, sia esso politico, scientifico o, come in questo caso, giudiziario. C’è una domanda di giustizia sommaria. O arriva la sentenza sull’onda di un’accusa costruita sull’indignazione popolare e mediatica, rapida e senza appello, o si castigano in modo esemplare gli imputati del caso anche se ricoprivano nella vicenda un ruolo marginale o subalterno, o è "Vergogna, vergogna, vergogna". E tutto questo quasi sempre senza aver analizzato o conosciuto a fondo le prove di accusa e quelle di difesa, collocato nella giusta valutazione le une e le altre mettendosi nel difficile ruolo del giudice che deve decidere. Condannare i sismologi per il terremoto dell’Aquila è certamente molto popolare ed emotivamente compensatorio nei confronti dei parenti delle vittime. Gli scienziati costituiscono un capro espiatorio ideale e paradigmatico per quanto caricaturale: che fa un sismologo se non sa nemmeno prevedere un terremoto? Gli anni di galera fanno un bel titolo sul giornale. Ma poi? Ha detto il professor Enzo Boschi, prima condannato poi assolto: "Spiegai che il terremoto era improbabile, ma non si poteva escludere... il linguaggio della scienza è diverso da quello dei media...". Superata l’emergenza emotiva che chiedeva la condanna immediata ed esemplare di qualcuno in primo grado, si va in appello, l’emozione è rarefatta e le cose appaiono un po’ diverse. Si scopre, come quasi sempre in Italia, che le indagini sono state incomplete (caso Cucchi) che bisognava risalire alla fonte che non è un’onnipresente Spectre italica che obnubila, confonde, occulta una verità alla Pasolini nota a tutti: io so chi è il colpevole, ma non ho le prove... È invece quella frantumazione di responsabilità che si trasforma in de-responsabilità dove la burocrazia si incrocia con la politica in un impasto oscuro e impunito. Ed è in questo strato opaco che sta il vero scandalo, è lì che si costruisce la vera ingiustizia. Trattasi di una procedura antica, quasi costitutiva del sistema Italia, un Paese dove alla parola "stragi" si unisce con tragico automatismo l’aggettivo "impunite" anche quando impunite non sono. C’è dunque un sentimento diffuso di ingiustizia che giustifica il sospetto e l’indignazione. C’è un sistema giudiziario dove alle inerzie corporative si sommano anni di leggi, leggine e circolari costruite apposta per bloccare e rallentare il corso delle indagini e dei processi. C’è un’insopportabile lentezza delle procedure. In Sud Corea ieri è stato condannato (a 36 anni di carcere) il comandante del traghetto affondato in primavera e 300 studenti sono morti. Era accusato di aver abbandonato la nave. Lo chiamavano lo Schettino di Corea. Da noi il vero Schettino, dopo quasi tre anni dal disastro è ancora sotto processo, nel frattempo ha fatto una lezione all’università ed è diventato personaggio da paparazzare per i rotocalchi, drammatica e patetica maschera della giustizia sospesa: ci dicano se è innocente o colpevole. Tutto questo è insopportabile, ma ciò non toglie che quei "vergogna" lanciati contro i giudici senza nemmeno aver letto i perché di una sentenza siano sbagliati, come erano sbagliati gli applausi per le condanne e gli arresti facili contro i nemici politici o il capro espiatorio del momento. I giustizialisti, che prima invocano le manette per gli altri e poi rifiutano le sentenze su se stessi come il sindaco di Napoli De Magistris sostenuto dal Tar di turno, producono quella nebbia in cui ogni "vergogna" si giustifica. Diradare questa nebbia, rendere trasparenti e riconoscibili le responsabilità politiche e amministrative, semplificare le procedure, sarebbe la prima riforma necessaria al Paese perché i cittadini, innocenti, colpevoli e vittime, si riconoscano senza vergogna nel Paese. E nella sua giustizia. Giustizia: siamo il Paese europeo che spende di più per la repressione di Italo Di Sabato (Osservatorio sulla repressione) Il Garantista, 12 novembre 2014 L’80 per cento dei soldi destinati al migranti serve per punire e controllare, solo il 20 per cento per l’accoglienza. Il battere sulla grancassa del "né di destra né di sinistra", oggi tanto di moda, e molto caro a Grillo, è iniziato con le politiche sulla "sicurezza". Da quasi un decennio, ormai, che ce lo sentiamo ripetere con martellante insistenza da leader politici e opinionisti. Oggi, l’idea di sicurezza è divenuta capace di generare consenso vasto e acritico per il solo fatto di essere nominata, E allora, la favola della "sicurezza né di destra né di sinistra" diventa soprattutto per il Pd, ma anche per altre sedicenti forze politiche di "sinistra", la giustificazione per l’adozione di una politica compiutamente di destra. È vietato parlare della concretezza, ma bisogna creare e agire sulla percezione della realtà. Si ingigantiscono i fotti, i dati, gli strilli, e la percezione della realtà si modifica. Un bisogno quotidiano di creare "allarme". E accanto al tema "sicurezza" compaiono i "nemici pubblici" che questa sicurezza mettono in pericolo; di volta in volta i terroristi, i tossicodipendenti, i rom, gli albanesi, gli ultras, i black-block, i rumeni, il racket dei lavavetri, gli occupanti di case, i no tav, i condannati ammessi a misure alternative. E quindi le risposte: pacchetti sicurezza, nuove tipologie di reati, costruzioni di nuove carceri, proliferare di proposte di investimenti in telecamere di sorveglianza, dispositivi di controllo delle telecomunicazioni, braccialetti elettronici. Così le politiche securitarie appaiono non solo accettate passivamente, ma costantemente invocate dai cosiddetti "cittadini". Fatto sta che, oggi, l’Italia è il Paese europeo che in proporzione spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Moltissime risorse che sì perdono negli sprechi dell’amministrazione della giustizia, e vanno a garantire i privilegi di pochi, a fronte di alcune carenze anche molto gravi, alimentando una speculazione sull’insicurezza che porta a situazioni drammaturgiche e a una sorta di neofascismo in cui si invoca solo la tolleranza zero e un regime di autorità. Mai in questi anni si è valutato la produttività e l’efficienza di alcuni dei mezzi più usati per "la sicurezza", spesso costosissimi, come gli strumenti di videosorveglianza. Tecnologie che, andrebbero sostituite piuttosto con operatori sociali sul territorio. Secondo le statistiche, dal 1990 ad oggi il numero dei reati commessi in Italia è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato il numero delle denunce, e a finire in carcere sono sempre di più i cittadini stranieri. Secondo la relazione della Corte dei conti, l’80 per cento dei soldi spesi per i migranti va alla repressione, e solo il 20 per cento alle politiche di sostegno. Mai come, oggi, ci si dovrebbe interrogare sul senso di questa vulgata reazionaria. Siamo un Paese con pulsioni fascistoide. Il fascismo è venuto alla fine di una guerra civile e soffiava sul fuoco, Ora noi siamo in una situazione di uno Stato di Diritto completamente svuotato. Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto governi che si sono comportati come dei dittatori legali. E oggi Renzi è politicamente il più abile di tutti. Il vero problema è che le mosse del governo servono ad arrivare alla distrazione del vero problema: la crisi economica e sociale. Renzi e i suoi ministri non sanno come fronteggiarla e in tempo di crisi non vince la protesta, ma la depressione. Allora si svia il discorso. E dietro di loro non solo maggioranze silenziose, di cui nessuno più conosce la composizione umana e sociale, ma intellettuali perbenisti, giornalisti sbrigativi e sensazionalisti, la merce comunicazione che vende di più quanto più gronda sangue, minaccia e stereotipi a effetto. Una zuppa in cui tutti siamo immersi, e contro cui non vale ricordare le ovvietà che un tempo avremmo chiamato di sinistra: che le pene non sono mai state un deterrente, che le carceri scoppiano, che una logica di investimento sociale, e non di mora repressione, farebbe infinitamente di più per l’immigrazione che non guardie, Cia e carceri, che l’esclusione non può tradursi in devianza, che il razzismo generalizzato inquina la vita di tutti, e non solo offende gli stranieri. Che, soprattutto, questo oscuro senso comune andrebbe combattuto politicamente. Ma per logiche politiche complesse sembriamo disarmati. E questo perché la paura non è combattuta là dove si produce e si traduce in grida, nell’incertezza del lavoro e del reddito, nella sensazione di solitudine palpabile tra chi non è garantito e protetto, nell’abbandono di periferie e quartieri. Come potranno capire anziani, pensionati, lavoratori, piccoli negozianti e imprenditori che il loro nemico non è il romeno, l’albanese, la nigeriana, il lavavetri o il disperato italiano o straniero, ma una degenerazione collettiva e implacabile della socialità, della democrazia reale, della ricchezza collettiva, che il liberismo, estremo o annacquato ci sta procurando? Come far riprendere, tra giovani e cittadini, una speranza che non sia esclusivamente legata ai saldi di gennaio? Come di dire a chi ci governa che la politica di sinistra non può essere limitata alla gestione di un esistente unico privo di conflitti e di immaginazione? Ciò che abbiamo di fronte è una profonda mutazione antropologica. I miti contrattualistici del passato ci avevano tramandato una concezione della paura che cercava risposte politiche attraverso la creazione di patti fondativi. La liberazione della paura stava alla base del contratto che sorreggeva l’adesione alla comunità. Ciò non eliminava le difficoltà. Al contrario la società era animata da uno spietato ma ancora creativo conflitto tra capitale e lavoro. Nella paura di oggi, invece, c’è risentimento malvagio che ha bisogno quotidianamente di disegnare un nemico, un colpevole tra noi. È una passione triste. Si è persa la voglia dì progettare, di costruire percorsi, di perlustrare il nuovo. La ricerca di capri espìa-tori è la soluzione più semplice. L’orgasmo triste della vendetta incarognita, la libidine impotente della cattiveria antropologica sono diventati il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento che non verrà mai, e alla fine, le destre o i "post-ideologici", che oggi si accaniscono sull’osso a buon mercato dell’odio, avranno vinto, perché la cultura della paura, sembra accettata da tutti e ben pochi combattono i fondamenti. Giustizia: domani la firma di un Protocollo tra Cnvg e Dap sul volontariato penitenziario Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2014 Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dap e Elisabetta Laganà, Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia firmano il "Protocollo operativo sullo statuto e le modalità d’azione del volontariato in ambito penitenziario". La firma del Protocollo avverrà giovedì 13 novembre 2014, alle ore 12,00, presso l’Aula Magna del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Largo Luigi Daga 1. Il Protocollo rafforza e potenzia la collaborazione tra Amministrazione Penitenziaria e Volontariato, definisce gli ambiti di intervento e le modalità operative dell’attività del Volontariato in relazione alle specifiche peculiarità di ogni singola struttura penitenziaria. Uno dei punti di maggiore forza previsti dall’intesa è la collaborazione dei rappresentanti delle Associazioni di Volontariato nell’elaborazione del Progetto d’istituto disposto annualmente dalle Direzioni delle carceri. L’accordo prevede, inoltre, specifici interventi per la formazione congiunta dei volontari e delle figure professionali deputate al trattamento che operano negli istituti penitenziari. Il Ministero della Giustizia riconosce la Cnvg (attualmente composta dalle seguenti organizzazioni: Aics - Antigone - Arci - Caritas Italiana - Comunità Papa Giovanni XXIII - Forum Salute Carcere - Libera - Seac - Jesuit Social Network Italia Onlus - e da 18 Conferenze Regionali) come soggetto referente per le scelte programmatiche che riguardano gli ambiti di intervento del volontariato nelle sue diverse forme ed espressioni nel settore penale e penitenziario. Per esigenze organizzative l’ingresso nella sala dovrà avvenire entro le ore 11,45. Giornalisti, fotografi e video operatori possono accreditarsi inviando una mail a stampa.dap@giustizia.it, indicando nome cognome, testata/agenzia di riferimento. Giustizia: Presidente Senato Grasso; accelerare misure alternative a internamento in Opg Adnkronos, 12 novembre 2014 Il malato mentale è una persona che soffre, gli vanno garantite cure e diritti. "Voglio esprimere a voi, che lavorate ogni giorno con impegno e dedizione per la tutela dei diritti dei malati di mente, il mio plauso per l’opera che quotidianamente svolgete, perché un malato, mentale o no, non cessa di essere una persona, una persona che soffre, un essere umano cui la Costituzione attribuisce dignità e diritti inalienabili". Lo ha sottolineato il presidente del Senato, Pietro Grasso, in occasione del Seminario "Salute mentale, ospedali psichiatrici giudiziari e diritti umani" che si è svolto alla Sala Zuccari a palazzo Giustiniani. Grasso ha definito l’incontro un’"importante occasione di riflessione e di dibattito" su una questione di "grande delicatezza" sul quale ha alzato la propria voce anche il presidente della Repubblica Napolitano che nel 2012 disse "basta con i luoghi dell’orrore". "Molti giuristi, psichiatri, politici, opinionisti e cittadini sensibili al tema denunciano l’incostituzionalità della persistenza degli Opg e delle stesse procedure per accedervi". Una sentenza della Corte Costituzionale, ha ricordato Grasso, hanno stabilito che "la pericolosità sociale deve essere vista come una condizione transitoria, non come un attributo naturale di una persona e che, conseguentemente, anche le misure di sicurezza vanno di volta in volta riviste e aggiornate. Altre due sentenze, nel 2003 e 2004, hanno dichiarato incostituzionale la non applicazione di misure alternative all’internamento in Opg". "Vi è un dato positivo - ha ricordato il presidente del Senato - che riscontriamo ultimamente: la tendenza alla diminuzione nel numero delle persone detenute oggi negli ospedali psichiatrici giudiziari, circa 1.000, ovvero circa 350 in meno rispetto a tre anni fa. Ma non è ancora abbastanza. La legge 17 febbraio 2012 , aveva disposto la chiusura definitiva delle strutture per la data del 31 marzo 2013. Il decreto 25 marzo 2013 ha poi disposto una proroga fino al 1° aprile 2014. Lo stesso 1° aprile, tuttavia, il presidente della Repubblica ha promulgato "con estremo rammarico" un decreto legge che fissa al 30 aprile 2015 la data entro la quale dovranno essere chiuse le 6 strutture tuttora funzionanti in Italia". "L’eccessivo ritardo delle Regioni nella costruzione delle nuove residenze sanitarie non ha consentito di agire altrimenti, ma alcune di esse hanno cominciato ad attivarsi e, attraverso un uso avveduto delle risorse e delle opportunità legislative, si può sfruttare questa dilazione per potenziare i servizi socio-sanitari territoriali, che servono a tutti i cittadini, per aprire presidi sul territorio operativi 24 ore su 24, per rafforzare i dipartimenti di salute mentale e per collaborare tra tutti gli operatori e gli enti coinvolti al fine di evitare - ha concluso Grasso - il ricorso all’internamento e far sì che le cure psichiatriche possano svolgersi in ambito territoriale privilegiando le misure alternative". Intervento Presidente Grasso al Seminario "Salute mentale, Opg e diritti umani" Cari colleghi, Autorità, gentili Ospiti, sono lieto di potervi dare il benvenuto nella prestigiosa Sala Zuccari del Senato per un incontro che costituisce un’importante occasione di riflessione e di dibattito su una questione di grande delicatezza sia dal punto di vista istituzionale che da quello sociale e umano, questione che da troppo tempo richiede una soluzione, che si fa, dunque, più urgente ogni giorno che passa. È già la terza volta che io stesso, qui in Senato, mi trovo ad affrontare questo importante tema, e ogni volta debbo sottolineare con dolore che non siamo arrivati ancora ad un punto di civiltà e rispetto, per quanto passi positivi siano stati fatti. Già nel luglio 2011 la Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, con la sua Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, accertò le condizioni di inaccettabile degrado degli istituti e la carenza generalizzata di quegli interventi di cura che motivano l’internamento. A questo proposito, ricordiamo tutti l’accorato appello "Basta con i luoghi dell’orrore!" che il Presidente della Repubblica lanciò nel suo messaggio di fine d’anno del 2012. Molti giuristi, psichiatri, politici, opinionisti e cittadini sensibili al tema denunciano l’incostituzionalità della persistenza degli Opg e delle stesse procedure per accedervi. Ancora nel 1982, infatti, la Consulta si pronunciò stabilendo che la pericolosità sociale deve essere vista come una condizione transitoria, non come un attributo naturale di una persona e che, conseguentemente, anche le misure di sicurezza vanno di volta in volta riviste e aggiornate. Altre due sentenze, nel 2003 e 2004, hanno dichiarato incostituzionale la non applicazione di misure alternative all’internamento in Opg al fine di "assicurare adeguate cure all’infermo di mente e far fronte alla sua pericolosità sociale". Vi è, almeno, un dato positivo che riscontriamo ultimamente, e cioè una tendenza alla diminuzione nel numero delle persone detenute oggi negli ospedali psichiatrici giudiziari, circa 1.000, ovvero circa 350 in meno rispetto a tre anni fa. Ma non è ancora abbastanza. La legge 17 febbraio 2012, n. 9, aveva disposto la chiusura definitiva delle strutture per la data del 31 marzo 2013. Il decreto legge 25 marzo 2013, n. 24, ha poi disposto una proroga fino al 1° aprile 2014. Lo stesso 1° aprile, tuttavia, il Presidente della Repubblica ha promulgato "con estremo rammarico" un decreto legge che fissa al 30 aprile 2015 la data entro la quale dovranno essere chiuse le 6 strutture tuttora funzionanti in Italia. L’eccessivo ritardo delle Regioni nella costruzione delle nuove residenze sanitarie per l’esecuzione della misura di sicurezza non ha consentito di agire altrimenti, ma alcune di esse hanno cominciato ad attivarsi e, attraverso un uso avveduto delle risorse e delle opportunità legislative, si può sfruttare questa dilazione per potenziare i servizi socio-sanitari territoriali, che servono a tutti i cittadini, per aprire presidi sul territorio operativi 24 ore su 24, per rafforzare i dipartimenti di salute mentale e per collaborare tra tutti gli operatori e gli enti coinvolti al fine di evitare il ricorso all’internamento e far sì che le cure psichiatriche possano svolgersi in ambito territoriale privilegiando le misure alternative. Voglio esprimere a voi, che lavorate ogni giorno con impegno e dedizione per la tutela dei diritti dei malati di mente, il mio plauso per l’opera che quotidianamente svolgete, perché un malato, mentale o no, non cessa di essere una persona, una persona che soffre, un essere umano cui la Costituzione attribuisce dignità e diritti inalienabili. Vi cedo, dunque, ora, la parola perché possiate confrontarvi, tra voi e con i legislatori, per individuare, insieme, possibili forme per progredire verso la risoluzione di questa complessa e spinosa questione. Esprimo, inoltre, il mio apprezzamento a tutti i colleghi che nella legislatura precedente e in quella in corso si sono impegnati in questa importante attività di inchiesta e di approfondimento ed auguro a tutti buon lavoro. De Biasi (Pd): nuova proroga uno scacco "Mi preoccupa il risultato finale della relazione presentata dal Ministero della Salute al Parlamento sul superamento degli Opg, e cioè che si richiederà un’altra proroga per la chiusura. Le proroghe hanno un senso se portano a compimento e non se portano a una nuova proroga. Per noi è uno scacco". È quanto sottolineato stamattina dal presidente della commissione Igiene e Sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi (Pd), aprendo i lavori del seminario ‘Salute mentale, Opg e diritti umani’ in corso a Palazzo Giustiniani, a Roma. "Avremmo preferito si fosse arrivati al 31 marzo", data stabilita per la chiusura dalla legge 81 del 2014, "non dico con il problema risolto, ma almeno con il contesto favorevole a risolverlo", ha aggiunto. Purtroppo, però, per tutte le Regioni non è la stessa situazione. Forse dovremmo superare anche qualche burocrazia di troppo. Dovremmo - indica la senatrice democratica - cercare canali più veloci, dovremmo essere tutti un po’ meno sofisticati nel cercare la perfezione". Sono i diritti umani "lo sfondo entro cui si gioca la difficile partita degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e, più in generale, sulla salute mentale", ha sottolineato De Biasi. E se "parlare di diritti umani in un momento di crisi economica è difficile", questo è anche "il momento in cui vengono maggiormente all’evidenza". Quindi, ha concluso, "la difficoltà dei bilanci pubblici" non può mettere in secondo piano "la necessità di incrementare i servizi. È questa la grande sfida se vogliamo lavorare seriamente sul tema della salute mentale". Giustizia: al via Campagna Simspe-Simit sulle patologie infettive e croniche nelle carceri Askanews, 12 novembre 2014 Hiv/Aids, infezione da Hcv, epatite cronica, Tbc sono solo alcune delle "bestie nere" di chi è rinchiuso nelle carceri italiane. Una emergenza sanitaria della quale poco si parla. Dopo il transito delle competenze sulla Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Ssn, le uniche stime oggi a disposizione di chi amministra sulla diffusione di virus epatitici B e C, Tubercolosi, Hiv/Aids, malattie sessualmente trasmesse, Psoriasi e rischio infettivo nelle persone detenute sia italiane che straniere, derivano quasi esclusivamente dai dati prodotti da Esperti iscritti e coordinati dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe-onlus) e dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit) che si accingono a dare il via all’edizione 2014 de "La Salute non Conosce Confini", Campagna d’informazione e sensibilizzazione sulle patologie infettive croniche negli istituti penitenziari italiani. Il progetto, sostenuto da quattro anni da un contributo incondizionato di Gilead Sciences Italia, ha permesso la produzione dei dati più recenti ed attualmente disponibili sulla diffusione delle Malattie Infettive all’interno del Sistema Penitenziario Italiano. In particolare, sottolineano gli specialisti, l’importante diffusione stimata tra il 30 ed il 40% dei residenti, dell’infezione da Hcv e l’epatite cronica attiva con evoluzione in cirrosi epatica che ne consegue, appaiono oggi come la prima emergenza sanitaria da affrontare in questo ambito. Ma i dati dimostrano in modo inoppugnabile come anche per le altre patologie infettive la diffusione risulti preoccupante. Oltre la metà delle persone detenute risulta venuta a contatto con il virus dell’epatite B, anche se coloro che risultano portatori attivi di malattia si attestano intorno al 5-6% dei presenti. I test di screening cutanei sulla Tubercolosi, che non rilevano la malattia attiva ma permettono d’identificare i portatori dell’infezione che, notoriamente, la manifestano solo in caso di riduzione delle difese immunitarie, risultano 15-20 volte superiori alla popolazione generale e, tra i detenuti stranieri, oltre la metà risultano positivi. L’infezione da hiv è ancora oggi ampiamente diffusa tra le persone detenute tossicodipendenti, con prevalenze in questi maggiori del 20% e del 5-7% sulla popolazione generale residente. Le Malattie a trasmissione sessuale appaiono di frequente riscontro in tale ambito e, segnatamente, la Sifilide pur interessando non più del 2-3% dei presenti, mostra un tasso di inconsapevolezza elevatissimo (>85%). La prossima introduzione di nuovi farmaci per il controllo di alcune di queste infezioni, potrebbe permettere una loro cura durante il periodo detentivo, restituendo alla Società uomini liberi sia dalla propria pena che da un’infezione. Giustizia: l’architettura in soccorso del carcere di Cesare Burdese Aiutare/Helfen, 12 novembre 2014 Il comma terzo dell’art. 27 della nostra Costituzione recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". In altri termini, chiunque sconti una pena, deve essere in ogni caso rispettato nei suoi diritti fondamentali di individuo e vedersi consentite ed offerte opportunità di riscatto. L’applicazione della pena della privazione della libertà personale, cosiddetta pena detentiva, che continua a rimanere la pena più applicata tra le pene, deve realizzarsi in tal senso. L’edificio appositamente concepito per l’applicazione della pena detentiva, la prigione, ne diventa strumento funzionale e come tale deve possedere tutte le caratteristiche per realizzare il pieno rispetto degli individui che a vario titolo lo utilizzano - prigionieri, addetti penitenziari, visitatori ecc. - e delle sue finalità riabilitative. Secondo i più avanzati modelli architettonici carcerari, la prigione si configura come uno scampolo di città, fatta di quartieri, di strade, di piazze, di spazi verdi e comprende, all’interno di un recinto murario, quella pluralità di luoghi del mondo libero che comprendono: la residenza, la scuola, lo sport, la cultura, il culto, la cura medica. La prigione deve pertanto essere intesa come un edificio di utilità pubblica, alla stregua di un ospedale, di una residenza per anziani, di una scuola, e come tale deve essere concepita ed apparire, sotto il profilo architettonico, affidabile. Essa funziona secondo le finalità costituzionale per le quali è stata costruita, solo in quanto non è isolata ed è in relazione con il contesto in cui si colloca. La scarsa qualità dei muri della prigione - non concepiti per rispettare fino in fondo i bisogni fisici e psicologici dell’individuo - determina per chiunque la viva o la frequenti, malattie fisiche e psicologiche e pertanto è per gli uni un aggravio di pena ingiustificato e per gli altri un danno immotivato. Recentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani nei confronti di alcuni detenuti perché costretti a scontare la pena in ambienti sovraffollati e degradati, carenti di aria, luce e privi di acqua calda corrente. Anche a seguito di quella sentenza, oggi l’Italia deve mettere al più presto mano alle sue prigioni, per adeguarle al dettato europeo ed alle leggi penitenziarie che da tempo si è data. Ritengo che le buone pratiche dell’Architettura in tal senso, se adottate - da sempre assenti nel nostro Paese nella costruzione delle prigioni - possano contribuire a realizzare condizioni detentive più umane e civili. È urgente una azione, a tempi brevi, che veda la definizione di un modello spaziale penitenziario più umano, imperniato sulla riabilitazione, la normalizzazione e il reinserimento. L’Architettura può svolgere un ruolo determinante nella ristrutturazione e nella edificazione delle nostre prigioni, in quanto per antonomasia è una pratica finalizzata a realizzare condizioni di benessere psico-fisico per i suoi utilizzatori. Purtroppo allo stato attuale dobbiamo fare i conti con la mancanza di una palesata volontà politica e la latitanza della cultura architettonica ad operare in tal senso. A tutto ciò si aggiunga la cronica scarsità di risorse economiche destinate all’edilizia penitenziaria. Giustizia: caso Lonzi "Mio figlio morto per cause naturali? Lo Stato mente" di Gianluca Russo Corriere della Sera, 12 novembre 2014 Manifestazione davanti alla camera per ricordare il caso di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere "Le Sughere": come Stefano Cucchi. "Quando un figlio sano viene affidato allo Stato e ti viene restituito con otto costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e ti dicono che è morto per cause naturali, non è possibile accettare e farsene una ragione". Queste le parole di Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere "Le Sughere" di Livorno. Un sit-in a piazza di Montecitorio organizzato dalla madre di Lonzi e appoggiata dal sostegno di cittadini e politici (l’Associazione Il Detenuto Ignoto, Rita Bernardini Segretaria dei Radicali, Stefano Pedica del Pd e Sel Comune di Roma) per chiedere conto allo Stato sulle responsabilità legate alla morte del figlio e che il caso venga riaperto così come è stato per il caso di Stefano Cucchi. Maria Ciuffi espone pubblicamente le foto del corpo martoriato di Marcello e chiede attenzione da parte dei presidenti di Camera e Senato sulla vicenda che ad oggi, resta un altro giallo irrisolto. Marcello Lonzi fu arrestato per un tentativo di furto e aveva quasi scontato gran parte della sua pena, ma quattro mesi dopo il suo arresto non è arrivato vivo nemmeno all’appuntamento con la libertà, perché l’11 luglio del 2003 è deceduto all’interno del carcere. La madre del ragazzo è stata avvertita solo il giorno dopo del decesso e nel referto è stata subito dichiarata la "morte per cause naturali dovute a infarto". Negli anni poi, due diverse procure hanno archiviato il caso Lonzi, a seguito delle dichiarazioni del Gip della Procura di Livorno, Rinaldo Meroni: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della Polizia Penitenziaria né di terzi". Oggi, come già qualche anno fa, Maria si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per render nota la storia della morte di Marcello e portare la sua testimonianza all’attenzione dell’opinione pubblica. Nel gennaio di quest’anno intanto, sulla vicenda è spuntato un testimone che ha depositato al Pm la sua versione dei fatti, ed ha consentito di riaprire il caso del trentenne morto a "Le Sughere". Il testimone avrebbe infatti svelato l’esistenza di "celle bianche dove i carcerati vengono massacrati di botte", e ricorda che accanto a lui c’era un detenuto che chiedeva aiuto e cercava un medico. La risposta ricevuta del poliziotto è stata: "vuoi che ti curiamo noi, come si è fatto al Lonzi?". Intanto dopo undici anni, il Giudice per le indagini preliminari Beatrice Dani, ha respinto la richiesta di un’ulteriore archiviazione del caso e ha disposto al Pm Antonio Di Bugno (titolare dell’ultima indagine) nuovi accertamenti per dare risposte alle ipotesi mosse dall’avvocato della madre di Lonzi, Erminia Donnarumma e dal consulente, il professor Alberto Bellucco. Nelle archiviazioni delle precedenti indagini infatti, era stata stabilita la morte per cause naturali dovuta a "sindrome della morte improvvisa con maggiori probabilità di aritmia maligna in soggetto portatore di ipertrofia ventricolare". I segni sul corpo di Marcello Lonzi sono stati chiari sin da subito, come raccontano i rilievi fotografici effettuati sul cadavere. Due buchi in testa, la mandibola fratturata e otto costole rotte, tutto lasciano pensare tranne che un semplice infarto. Così il professor Bellucco dichiara invece che si è trattato di: "morte asfittica da sommersione interna da vomito alimentare per conseguenze di politraumatismo e stress cardiocircolatorio", e neanche sull’orario del decesso si è mai fatta chiarezza, perché la versione del carcere segna le 19.50 dell’11 luglio 2003, orario contestato da Bellucco secondo il quale Lonzi sarebbe morto intorno le 17:10. Maria chiede giustizia per Marcello e non si arrende, come si legge anche dal suo profilo facebook in cui scrive ogni giorno: "Buongiorno amore mio, mi manchi", lo scrive a quel figlio che non c’è più e di cui nessuno conosce, ancora oggi, le cause della sua morte. Giustizia: caso Magherini; il pm chiede il processo per 4 carabinieri e tre volontari del 118 Ansa, 12 novembre 2014 Il quarantenne è morto nella notte fra il 2 e il 3 marzo, a Firenze, mentre veniva arrestato Uno dei militari è accusato anche di percosse. La procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per i quattro carabinieri e i tre soccorritori del 118 accusati di omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, il quarantenne deceduto nella notte fra il 2 e il 3 marzo, a Firenze, mentre veniva arrestato. Uno dei militari deve rispondere anche di percosse: un video girato dai passanti lo mostra mentre colpisce con qualche calcio Magherini, quando già era a terra immobilizzato. I familiari di Magherini sono convinti che non finirà come la vicenda di Stefano Cucchi, con le assoluzioni degli imputati. "Ciò che differenzia quella vicenda da quella di Riccardo - ha spiegato il fratello, Andrea - è che a mio fratello è successo tutto in una strada, con testimoni alle finestre". Quella notte i carabinieri intervennero nel quartiere fiorentino di San Frediano dopo l’allarme lanciato da alcuni passanti per una persona in stato di agitazione, che aveva infranto una vetrina e portato via un cellulare a una ragazza. Si trattava di Magherini. Le perizie hanno poi stabilito che aveva assunto cocaina e che era preda di una "excited delirium syndrome". I militari, ha scritto il pm Luigi Bocciolini nell’avviso chiusura indagini, "non senza difficoltà" lo immobilizzarono e ammanettarono. Poi lo tennero per alcuni minuti "prono a terra, esercitando anche pressione sulla regione scapolare e sugli arti inferiori", situazione "idonea a ridurre la dinamica respiratoria". Questa operazione fu "imprudente" e "non conforme alle direttive del Comando generale dei carabinieri". In base alle perizie, dunque, la procura ritiene che la morte di Magherini sia stata causata da una "intossicazione acuta da cocaina associata ad un meccanismo asfittico". Ai tre soccorritori, che arrivarono dopo la telefonata dei carabinieri al 118, viene contestato di non aver valutato correttamente la situazione e di non essere intervenuti per limitare gli effetti dell’asfissia. I familiari di Magherini - che sono assistiti dallo stesso legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo - hanno sempre parlato di "tortura". "Riccardo - dissero dopo l’avviso chiusura indagini - è morto umiliato, picchiato e soffocato. Sarà un processo durissimo". "La richiesta di rinvio a giudizio - ha commentato oggi il legale dei carabinieri, l’avvocato Francesco Maresca - è l’atto successivo alla chiusura delle indagini. Attendiamo di conseguenza fiduciosi l’udienza preliminare. Già in quella sede cercheremo di chiarire la posizione dei carabinieri indagati". Giustizia: storie dal carcere, detenuti liberano loro racconti con l’aiuto di grandi scrittori di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 12 novembre 2014 La scrittura e le parole per uscire dal muro più alto che c’è, quello del carcere. È alla quarta edizione il premio Goliarda Sapienza, "Racconti dal carcere", dedicato a tutti i detenuti italiani e stranieri (donne e uomini, adulti e ragazzi) presenti nei penitenziari italiani e negli istituti di pena minorili, che hanno colto al volo l’opportunità di partecipare alla gara con un racconto di carattere autobiografico. A centinaia si sono cimentati con la riflessione e la scrittura e ventisei di loro sono stati selezionati per il concorso. I loro racconti sono stati pubblicati nel libro "Il giardino di cemento armato" (Rai Eri) e giovedì 13 novembre il Premio, ideato ormai quattro anni fa da Antonella Bolelli Ferrera, autrice radiofonica e scrittrice che ancora ne cura il cammino, verrà assegnato al vincitore. Il concorso, che fa suo lo spirito della Carta Costituzionale e l’obiettivo riabilitativo della pena, anche quest’anno si avvale della Siae come principale sostenitore e dell’appoggio di InVersus Onlus, del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, anche minorile. E dimostra come, attraverso il racconto, si possa acquisire la consapevolezza della propria esistenza, per esprimersi e per sperare che la vita interiore torni ad emergere. I ventisei detenuti sono stati seguiti nel loro lavoro da altrettanti tutor: scrittori e artisti che hanno collaborato con entusiasmo al progetto: da Maurizio De Giovanni a Valeria Parrella, da Carlo Lucarelli a Gianfranco De Cataldo, da Erri De Luca a Antonella Lattanzi, Fiamma Satta, Massimo Lugli, Pino Corrias, e Carlo Verdone. La madrina dell’iniziativa è Dacia Maraini e, a guidare la Giuria, è stato chiamato Elio Pecora. I racconti in gara (quest’anno è stata introdotta anche la poesia) toccano il cuore, ma anche la mente e aprono spaccati di una realtà che normalmente si preferisce dimenticare: c’è la profuga siriana adolescente data in vendita dalle milizie; la madre che insegna a suo figlio bambino a nascondere la droga nello zaino, in modo che lui possa piazzarla, il killer mafioso che uccide il suo miglior amico, il somalo soldato bambino senza futuro. Va in scena un’umanità "brutta e cattiva" che troppo spesso si vorrebbe rimanesse reclusa e nascosta. Senza diritto di parola o di riscatto. E quante percezioni e dettagli nel racconto corale del Giardino di cemento armato. Suggestioni del passato di "fuori", ma anche fatti scanditi dal tempo del carcere, diverso, unico, sospeso, assurdo. Le parole "detenute" servono a ripensare se stessi, ad aprire spiragli in porte sigillate, facendo uscire all’esterno quel "lato oscuro" che, anche se non ci piace riconoscerlo, aleggia tra tutti noi. Ogni racconto è preceduto da una breve introduzione del tutor e tutti insieme accendono i riflettori sulla vita di "dentro", dove tra le celle si urla e si piange, si soffre e si sopravvive tra rituali sempre uguali: le Tv accese, gli odori di sudore e di cibo cucinato sui fornelli, il caos e le solitudini, il sangue e i suicidi. Ma in queste gabbie di dolore è perfino possibile far nascere una scheggia di rinascita. O almeno provarci. Ha detto di sé il detenuto Cosimo Rega, finalista al Premio e che già interpretò Cassio nel film Cesare deve morire dei fratelli Taviani: "Scrivere non serve certo a ripulire l’anima, ma ad assumere la consapevolezza di chi sono stato e potrei un giorno essere, questo sì". Antonella Bolelli Ferrera, Scrittura e carcere, qual è lo scopo del premio Goliarda Sapienza? L’idea di un concorso letterario rivolto a persone detenute è nata anni fa, quando, nel mio percorso di conduttrice radiofonica, mi sono imbattuta nella storia di Goliarda Sapienza. Non sapevo che l’autrice de L’arte della gioia avesse vissuto l’esperienza del carcere e che, una volta libera, l’avesse riportata in un libro, L’Università di Rebibbia. Finalmente un editore accettava di pubblicare un suo testo, se non fosse finita in galera chissà se sarebbe accaduto? Dunque, la detenzione fu per lei fonte d’ispirazione, come lo è stata nel passato per tanti scrittori, ma ha rappresentato anche un’opportunità. Nasce così l’idea del premio Goliarda Sapienza: dare un’opportunità alle tante persone ristrette in carcere di esprimersi e di portare all’esterno la loro voce attraverso la parola scritta. La scrittura, si sa, permette di superare ogni barriera e per chi è stato abituato nella propria vita a privilegiare l’azione, come chi ha commesso dei reati, è anche lo strumento che favorisce il passaggio a una nuova dimensione, quella della vita interiore, della riflessione. È un concetto espresso dalla madrina del premio, Dacia Maraini, che ho scoperto più che mai vero nella mia esperienza a contatto con i detenuti. Persone che si sono macchiate di crimini gravissimi, donne e uomini privi delle benché minime basi culturali, trasformate nel tempo in persone più inclini al pensiero, allo studio, più disposte all’autocritica. E questo non risponde in fondo al principio di rieducazione sancito dall’art, 27 della Costituzione? Il premio Goliarda Sapienza vuole dare un piccolo contributo in questa direzione. Un detenuto di lungo corso, finalista del Premio, ha detto: "Scrivere non serve certo a ripulire l’anima, ma ad assumere la consapevolezza di chi sono stato e potrei un giorno essere, questo sì". Donne, uomini, minori; come arrivano i detenuti a essere seguiti da un tutor? Il Premio Letterario Goliarda Sapienza ha la caratteristica fondamentale di affiancare a persone detenute che aspirano a diventare scrittori, degli scrittori già affermati con il ruolo di tutor. Ma per giungere a questo, occorre che il proprio scritto sia rientrato nella rosa di finalisti. Quest’anno i racconti in concorso sono stati cinquecento. Storie al limite, di forte impatto, molte degne di trasformarsi in un romanzo o nel soggetto di un film. Non è stato facile scegliere le migliori e come sempre abbiamo tenuto conto non solo dell’originalità del testo ma anche della qualità della scrittura e della costruzione della storia. L’abbinamento con i tutor avviene rigorosamente attraverso un sorteggio. In tal modo, per esempio, un ragazzino siciliano del circuito penale minorile, si è trovato Carlo Verdone come tutor, una detenuta della sezione Adulti, Valeria Parrella, un altro ancora Antonella Lattanzi. Ventisei detenuti finalisti (venti fra gli adulti e sei fra i minori) e altrettanti grandi scrittori che hanno il compito d’imprimere una più compiuta espressione letteraria al racconto loro affidato. Alcuni fanno parte della squadra degli scrittori-tutor dalla prima edizione del Premio, come Giancarlo De Cataldo, Massimo Lugli, Giordano Bruno Guerri, Valerio Evangelisti, Cinzia Tani, Federico Moccia e come Erri De Luca che si dice contento di fare da correttore di bozze di un carcerato. Fa bene vedere come tante penne illustri si mettano a disposizione per dare una speranza a chi non ne ha. Anche questo è lo spirito del Goliarda Sapienza. Dopo alcuni anni, un bilancio dell’iniziativa? Dalla prima edizione a quest’ultima - la quarta - quasi duemila detenuti hanno concorso al Premio Goliarda Sapienza e ogni anno il numero dei partecipanti aumenta. Vuol dire non solo che l’iniziativa piace ma soprattutto cresce la voglia (il coraggio) di raccontarsi attraverso la parola scritta, che è qualcosa che rimane, che gli altri potranno leggere. E ciò significa che c’è consapevolezza di quanto si scrive, che si è riflettuto sul proprio percorso prima di darlo in pasto ai lettori. Questo è il primo risultato importante anche perché in direzione dell’obiettivo primo del concorso: la rieducazione del condannato. Brutta parola condannato, ma di questo si tratta. A bilancio porto anche il coinvolgimento di decine e decine di scrittori e artisti (anche la giuria è composta da autori affermati) che s’impegnano sempre di più, non limitando il loro contributo, seppur importantissimo, all’aspetto letterario, ma caricandolo di umanità. Duranti gli incontri fra tutor e detenuto in carcere, diventa tangibile. Il contatto diretto con la persona che ha commesso un crimine, fa comprendere quanto sia sottile il limite tra la cosiddetta normalità e la devianza e costringe a interrogare se stessi come forse non si è mai fatto. Ma altrettanto sottile può essere il confine tra la devianza e la riabilitazione. In questo senso, ha detto qualcuno, il Premio Goliarda Sapienza è un cantiere della speranza. Tanto basta per continuare. Giustizia: l’ex capo del Dap Niccolò Amato accusa Scalfaro "cedette alla mafia" di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2014 Amato al processo Borsellino: "non so se ci fu trattativa ma le cose cambiarono dopo la lettera di Cosa Nostra". E Violante: "così Delfino mi riferì di Di Maggio e Riina". Dopo 21 anni Niccolò Amato si è potuto finalmente togliere la soddisfazione di puntare il dito sull’uomo che decise la sua cacciata da capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel giugno 1993: il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel cambio di vertice non era uno dei tanti ribaltoni ministeriali ma determinò un "cedimento dello Stato alla mafia", come ha detto ieri Amato. Le sue parole sono cadute come pietre nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla Corte di assise di Caltanissetta, in trasferta a Roma per il quarto processo per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Amato ha scandito: "Io considero ci sia una macchia per le istituzioni quando si accerta che il responsabile dell’Amministrazione Penitenziaria (lo stesso Amato, ndr) viene cacciato dall’oggi al domani e questo avviene in relazione e dopo una lettera della mafia, che era il mio nemico, lettera che non mi viene portata a conoscenza". In quella lettera anonima al presidente della Repubblica, i familiari dei boss reclusi chiedevano la sua cacciata. "Le ragioni per le quali io dovevo andare via - ha spiegato Amato - le ho capite dopo proprio attraverso la conoscenza di questa lettera del 17 febbraio 1993 che contiene giudizi molto duri e minacce nella quale la mafia dice anonimamente al presidente Scalfaro: "Manda via il dittatore Amato e gli squadristi al suo servizio". Questa lettera non mi è stata mai fatta conoscere e doveva essermi fatta conoscere". Amato è indignato perché "subito dopo l’arrivo di questa lettera il massimo rappresentante istituzionale di questo Paese (il presidente Scalfaro, ndr) che avrebbe potuto chiamare il presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi o il ministro della Giustizia Giovanni Conso, chiama invece il capo dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni - un testimone lo riferisce testualmente - e gli dice: "Basta Amato!". Io credo che questo sia un fatto straordinariamente fuori delle regole. Se qualcuno si è seduto al tavolo (della trattativa, ndr) io non lo posso sapere - prosegue Amato - ma oggettivamente al di là delle responsabilità c’è stato un cedimento dello Stato alla criminalità organizzata". Amato ricorda che il regime carcerario: "Improvvisamente viene enormemente ammorbidito. Queste cose sono state fatte da giugno del 1993, dopo che io sono stato cacciato, e io non le avrei mai fatte". La Corte ieri ha ascoltato anche la versione di Luciano Violante sui retroscena dell’audizione saltata di Vito Ciancimino in commissione Antimafia. Nel ‘92 era stata sponsorizzata dall’allora colonnello Mario Mori. Poi Violante è tornato su un episodio accennato in un’intervista radiofonica nel 2010: "Tra il 1994 e il 1996, quando ero vicepresidente della Camera, Vittorio Mangano mi scrisse una lettera in cui chiedeva di incontrarmi. Vennero anche dei suoi parenti - ha aggiunto - che parlarono con un mio collaboratore insistendo affinché io avessi un colloquio con Mangano. Un colloquio che non ho mai avuto". Il Fatto, dopo l’udienza, ha chiesto a Violante se la scelta di non parlare con lo "stalliere di Berlusconi" fosse dettata dal clima di pacificazione che si era creato tra il Pci-Pds-Ds e Berlusconi. Violante ha replicato: "Se lo avessi incontrato, sarei addivenuto a una richiesta di Mangano e allora sì che sarei andato verso la pacificazione". Al Fatto che gli faceva notare: "Così non sapremo mai se Mangano volesse dirle qualcosa sui suoi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi", Violante ha replicato: "O le cose si fanno seriamente o non si fanno. Perché dovevo incontrare Mangano? Io facevo il vicepresidente della Camera nel 1995. Non mi sono mai pentito di non averlo incontrato. Nella vita non bisogna essere curiosi ma seri". Violante ha parlato anche dello strano incontro con il generale dei carabinieri Francesco Delfino alla fine del 1992, in merito all’arresto di Totò Riina che poi avvenne nel gennaio 1993. "Nelle vacanze di Natale del 1992 -ha raccontato Violante - il generale Delfino mi telefonò dicendo che voleva venirmi a parlare di una cosa delicata. Mi disse che un sottufficiale della zona di Verbania durante una perquisizione aveva trovato un soggetto (il mafioso poi pentito, Balduccio Di Maggio, ndr) che aveva una pistola non dichiarata e che gli disse che poteva aiutarli a trovare Riina. Delfino si disse certo di arrestare Riina. Io lo consigliai di andarne a parlare con Giancarlo Caselli, già nominato procuratore di Palermo, anche se non aveva preso servizio". L’arresto di Balduccio Di Maggio, che poi portò i carabinieri da Riina, avvenne però non a dicembre ma a gennaio. E quando il 19 gennaio 1993, dopo l’arresto di Riina, La Repubblica scrisse che Violante era stato informato da Delfino "passo passo", l’allora presidente dell’Antimafia dettò alle agenzie una smentita tanto ampia quanto vaga per negare di avere incontrato Di Maggio, senza dire però di avere incontrato Delfino. Giustizia: il magistrato Leopardi al Copasir "mai autorizzato 007 a entrare nelle carceri" Adnkronos, 12 novembre 2014 Mai autorizzato agenti dell’intelligence a entrare nelle carceri, dunque gli 007 del Sisde non hanno mai parlato con i boss ristretti al 41 bis. A quanto apprende l’Adnkronos lo avrebbe detto il magistrato Salvatore Leopardi, ex capo dell’ufficio ispettivo del Dap, audito ieri dal Copasir in merito all’indagine del Comitato sulle presunte operazioni Farfalla e Rientro che in passato avrebbero portato alcuni agenti del Sisde, in accordo con il Dap, ad avere accesso ad informazioni con mafiosi detenuti al regime del 41 bis. Una lunga audizione, quella di Leopardi, iniziata alle 16.30 e durata circa quattro ore. Il magistrato, riferiscono le stesse fonti, ha ricostruito gli scenari dell’epoca dei fatti e ora i contenuti dell’audizione verranno analizzati anche alla luce delle altre audizioni dei soggetti in qualche modo a conoscenza dei fatti già sentiti dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica presieduto da Giacomo Stucchi. Domani, alle 10, nell’aula del sesto piano di Palazzo San Macuto è in programma l’audizione del procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Luigi Ciampoli, e, alle 14.30 l’audizione del colonnello del Ros, Felice Ierfone. Giovedì, alle 10 toccherà invece al colonnello Mauro Obinu. Tranne Ciampoli, tutte le audizioni riguardano l’indagine decisa dal Copasir decisa l’8 ottobre scorso. Si conta di chiudere il ciclo delle audizioni con il ritorno a Palazzo San Macuto di Marco Minniti, autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica. Prima della relazione finale, probabilmente per fine mese, alla quale lavorerà principalmente il relatore Giuseppe Esposito, senatore Ncd e vice presidente del Copasir. Il Comitato Parlamentare traccerà quindi una relazione che sarà inviata ai presidenti di Camera e Senato. Emilia Romagna: 800 detenuti in meno rispetto al 2013, ma eventi critici sempre frequenti Ansa, 12 novembre 2014 Ma ogni giorno, in carcere, ci sono una colluttazione e tre detenuti che si lesionano il corpo: uno alla settimana tenta il suicidio in cella. La denuncia del Sappe. Ogni giorno nelle carceri dell’Emilia Romagna tre detenuti si lesionano il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo ed altri danno vita a colluttazioni. E, ogni settimana, un ristretto tenta il suicidio in cella, salvato in tempo dal tempestivo intervento delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria. È quel che emerge dai dati elaborati dal Sappe, primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri, sugli eventi critici accaduti nelle carceri emiliano-romagnole nei primi sei mesi dell’anno. Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, sarà mercoledì 12 novembre a Bologna per presiedere il Consiglio Regionale Sappe dell’Emilia Romagna, che si terrà nella Casa circondariale Dozza, e successivamente visiterà il carcere minorile del Pratello, accompagnato dal Segretario Generale Aggiunto Giovanni Battista Durante, dal Regionale Francesco Campobasso e dal Vice Regionale Michele Malorni. Spiega il leader del Sappe: "Non so come si possa parlare di emergenza superata, visto che in Emilia Romagna si sono contati, dal 1 gennaio al 30 giugno 2014, il suicidio di un detenuto, 4 decessi per cause naturali, 478 atti di autolesionismo, 52 tentati suicidi, 209 colluttazioni e 74 ferimenti. Bologna, Piacenza e Modena sono le tre prigioni con il maggior numero di episodi di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): 159, 126 e 89. È a Bologna invece che ci sono stati più tentati suicidi sventati dai poliziotti, 13. 74 le colluttazioni a Modena, 57 a Bologna, 24 a Rimini e 16 Reggio Emilia. La situazione nelle carceri resta dunque sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato, in Emilia Romagna, di oltre ottocento unità: dai 3.767 del 31 ottobre 2013 si è infatti passati agli attuali 2.937, mentre a livello nazionale sono oggi detenute 54.207 persone rispetto alle 64.323 dello scorso anno (10.116 in meno)". "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio nelle carceri dell’Emilia Romagna e dell’intero Paese con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", aggiunge il leader del Sappe. Che sul calo delle presenze di carcere precisa: "Se il numero dei detenuti è calato, questo è la conseguenza del varo - da parte del Parlamento - di 4 leggi svuota carcere in poco tempo. Ma l’Amministrazione Penitenziaria non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere e autogestione dei reparti detentivi. Serve una nuova guida all’Amministrazione Penitenziaria, da mesi senza un Capo Dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a cominciare dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri emiliano-romagnole e del Paese tutto". Ammonta, infine, a 16 il numero dei detenuti minori presenti nel carcere bolognese del Pratello, che sarà visitato dalla delegazione sindacale del Sappe. Padova: muore un detenuto, indagati 5 medici. Mal di pancia sottovalutato, era peritonite di Nicola Munaro Corriere della Sera, 12 novembre 2014 Francesco Amoruso, morto in ospedale a Padova la sera di sabato 8 marzo dopo un interminabile calvario tra dolori e operazioni disperate, era stato visitato cinque volte nel giro di un giorno e mezzo. E cinque erano i medici che nell’infermeria del carcere Due Palazzi si erano dati il cambio, lo avevano visto e avevano sottovalutato, secondo il sostituto procuratore Francesco Tonon, i sintomi di un mal di pancia lancinante, costato poi la vita al 45enne detenuto, originario di Crotone. Perché Francesco Amoruso nella città del Santo c’era arrivato il 14 marzo 2006, da Rebibbia, per scontare una condanna (con traguardo fissato al 15 luglio 2023) per i reati di rapina, omicidio e spaccio. La sua strada per la libertà però è stata interrotta a inizio marzo da una peritonite perforante, causata da una stepsi fecale non diagnosticata e per cui ora quei cinque medici dell’istituto penitenziario di via Due Palazzi che l’avevano visitato si trovano indagati con l’accusa di cooperazione in omicidio colposo. Quello che le indagini stanno cercando di capire, mentre nei prossimi giorni verrà affidata una seconda consulenza medico-legale (la prima, vergata dal dottor Matteo Corradin di Bologna aveva evidenziato il buono stato di salute del detenuto e le ottime possibilità di sopravvivenza all’occlusione intestinale se, però, fosse stata presa in tempo), è come mai nessuno dei cinque medici, sia riuscito ad evidenziare la giusta diagnosi. E come mai, per di più, gli sia stata somministrata solo una terapia antibiotica, del tutto inutile. Per questi motivi la polizia giudiziaria si è messa sulle tracce dell’infermiera che aveva somministrato i farmaci prescritti dai vari medici, che si erano dati il cambio nei turni e avevano seguito il caso di Amoruso. La testimonianza della donna, non più impiegata in carcere a Padova e difficile da trovare, potrebbe essere la chiave di volta delle indagini, fornendo al pm l’anello mancante per capire le varie responsabilità dei camici bianchi. Ovvero: chi ha deciso la cura applicata al paziente prima di trasferirlo - d’urgenza, ma ormai inutilmente - al Pronto Soccorso dell’Azienda ospedaliera, è la domanda a cui devono rispondere gli inquirenti. A puntare l’attenzione sulla storia del detenuto sono proprio le carte spedite l’8 marzo dagli uffici dell’ospedale alla Procura di Padova, diventate un corposo fascicolo d’indagine sul tavolo del pm Tonon, dopo che la collega Maria Ignazia D’Arpa (destinataria della segnalazione come magistrato di turno in quei giorni) aveva chiesto una prima integrazione all’istituto penitenziario. È il 6 marzo scorso e Francesco Amoruso viene visitato per la prima volta: da giorni non riesce ad alzarsi dal letto, ha male allo stomaco e sente l’addome pesante e duro. Il medico di turno però non se ne preoccupa e lo rispedisce in cella. Alcune ore dopo Amoruso viene visitato ancora, con un altro nulla di fatto. Con il passare delle ore le cose si complicano e tra la notte e la mattina di venerdì 7 marzo il detenuto entra ed esce dall’ambulatorio altre tre volte: in totale cinque visite, tutte con medici diversi, che però più che dargli qualche calmante e ordinare una terapia farmacologica ad un’infermiera (il teste chiave cercato dalla Procura), non fanno. È grave la situazione quando alle 10 dell’8 marzo dal carcere chiamano un’ambulanza per il trasferimento in ospedale: in Pronto soccorso l’uomo viene visitato, sottoposto a radiografia e operato d’urgenza, nel disperato e vano tentativo di salvargli la vita. Durante l’intervento (che si chiude alle 16 dell’ 8 marzo) Francesco Amoruso ha due arresti cardiaci e i medici confermano la diagnosi: è arrivato in ospedale con "un quadro clinico gravemente compromesso - scriverà il direttore sanitario nella segnalazione alla magistratura - da una peritonite stercoracea con perforazione del passaggio retto-pelvico per abnorme stasi fecale". Firenze: Fp-Cgil; incendio Opg Montelupo, operatori ormai a livelli di stress elevatissimi Ansa, 12 novembre 2014 "L’incendio della cella da parte di un internato e l’intossicazione di un agente di Polizia Penitenziaria è l’ennesimo episodio di violenza che vede coinvolti gli agenti della Polizia Pen. all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Il lavoro all’Opg di Montelupo sottopone gli operatori ormai a livelli di stress elevatissimi". Lo afferma in una nota Donato Petrizzo, responsabile Giustizia della Fp-Cgil di Firenze, il quale denuncia "le difficoltà e i rischi che comporta lavorare all’interno dell’Opg, una struttura ancora aperta nonostante che la legge ne abbia previsto la sola funzione sanitaria. Vi sono stati già due rinvii della chiusura e nel frattempo la struttura si trova in un limbo che sta creando notevoli danni ai lavoratori che si trovano a operare nella massima incertezza delle norme e delle funzioni". "I continui tagli dei finanziamenti al Ministero della Giustizia - prosegue la nota, la mancanza cronica di personale non aiutano, anzi mettono in grave pericolo lo svolgimento di qualsiasi servizio. È ora che il Governo, la Regione e l’Amministrazione penitenziaria mettano mano a quei provvedimenti che consentano di definire il destino dell’Opg una volta per tutte. Così non si può andare avanti, non è giusto che i lavoratori si facciano carico e subiscano le conseguenze della incapacità della politica di decidere. La Fp-Cgil chiede che la Direzione dell’OPg convochi immediatamente le OO.SS. per metterle al corrente di cosa intende fare per garantire ai propri dipendenti la possibilità di lavorare con la sicurezza che spetta a tutti quelli che svolgono con coscienza il proprio lavoro. La Fp-Cgil esprime inoltre solidarietà nei confronti dei colleghi di Polizia Penitenziaria che sono stati coinvolti nel grave episodio mentre erano intenti a compiere il proprio dovere in difesa dei valori di legalità e civile convivenza propri della società italiana. Così non si può più andare avanti". Rieti progetto "Carcere Verde", quando il riscatto passa dalle buone pratiche ambientali di Maria Tomaseo www.greenplanner.it, 12 novembre 2014 Le buone pratiche ambientali diventano un’opportunità di riscatto per i detenuti. Accade a Rieti, dove nella Casa Circondariale è stato avviato Carcere Verde, un progetto che punta a ridurre i rifiuti prodotti dalla struttura coinvolgendo in prima persona i detenuti e permette di ottenere importanti risparmi sia in termini economici che ambientali. Sono stati avviati anche una serie di incontri finalizzati alla sottoscrizione di un protocollo di intesa per la formazione del personale interno, la manutenzione della compostiera e il monitoraggio con analisi dell’ammendante organico. La tracciabilità e analisi dell’intero ciclo potrà essere verificata da una collaborazione con il centro Enea. La corretta gestione degli scarti organici alimentari, unitamente alla loro valorizzazione e reimpiego, sono la base di questo progetto rieducativo in ambito detentivo che punta a diventare un modello da estendere a livello nazionale. Il progetto Carcere Verde, presentato dalla Provincia di Rieti, City Net e da Achab Group, che ne hanno curato la realizzazione, prevede di trattare in loco il rifiuto organico prodotto dalla mensa carceraria, che da solo costituisce circa il 30%-40% del totale degli scarti prodotti all’interno della struttura, attraverso la trasformazione di questo rifiuto in compost. Il metodo utilizzato per il trattamento del rifiuto organico è il cosiddetto compostaggio di comunità con sistema Aerobico, pratica che prevede l’utilizzo di una compostiera elettromeccanica Big Hanna. Si tratta di macchine che permettono di trasformare direttamente in loco lo scarto della preparazione dei pasti e gli avanzi di cibo in ottimo compost riutilizzabile. Il processo di compostaggio è naturale, senza impiego di additivi chimici ed è completamente automatizzato. La Provincia di Rieti, prima Provincia nel Lazio, all’interno del proprio programma di prevenzione e riduzione dei rifiuti, ha acquistato e conferito alla Casa circondariale una compostiera elettromeccanica Big Hanna T120 per trattare sul posto gli scarti organici e trasformarli in compost. Una volta ottenuto il fertilizzante, questo potrà essere impiegato all’interno del carcere per la realizzazione di orti e serre, dove i detenuti avranno l’opportunità di coltivare varie tipologie di prodotti, da destinarsi al consumo interno e/o alla commercializzazione esterna di una linea di prodotti biologici da poter mettere sul mercato. Oltre agli aspetti educativi e di coinvolgimento sociale, il compostaggio di comunità è una pratica che riserva notevoli vantaggi dal punto di vista ambientale. L’impatto ambientale del rifiuto è praticamente azzerato mentre le emissioni di CO2 equivalente, legate ai trasporti di questa tipologia di rifiuto, si riducono drasticamente, dato che il trattamento avviene sul posto e non prevede trasporti a distanza: si stima che per ogni tonnellata di materiale compostato sul posto, si ottenga un risparmio in emissioni di CO2 equivalente in atmosfera, pari a 461 kg (fonte fronteverde.net). Ma i vantaggi non si fermano qui. Attraverso il progetto Carcere Verde, l’amministrazione penitenziaria potrà avere la possibilità di beneficiare di importanti sconti e/o riduzione sulla tariffa rifiuti grazie all’auto-compostaggio del rifiuto organico. Un ulteriore vantaggio offerto da questo sistema è infine legato alla sicurezza della Struttura Penitenziaria che deriva dalla riduzione degli accessi da parte di personale esterno e automezzi per il servizio di raccolta dei rifiuti. Genova: alluvione in Riviera, anche la Casa circondariale di Chiavari è finita sott’acqua La Presse, 12 novembre 2014 Anche la Casa circondariale di Chiavari la scorsa notte, nell’alluvione che ha investito la cittadina del Levante, è finita sott’acqua. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Uil, che spiega che ad essere colpiti sono stati soprattutto i sotterranei "dove sono custoditi gli archivi dell’istituto e il magazzino vestiario - spiega il segretario Fabio Pagani - con 80-90 centimetri di acqua presenti. "Solo grazie alla professionalità e alla dedizione al servizio della Polizia Penitenziaria e di Direttore e Comandante che si sono attrezzati - dice il sindacalista - si è riusciti a garantire il controllo e la salvaguardia nei limiti del possibile dell’istituto privo di detenuti per ultimazione lavori". "I poliziotti penitenziari - aggiunge Pagani -sono in servizio continuativo da ieri alle 16 e continuano anche in queste ore a salvare il salvabile in attesa dell’arrivo dei vigili del fuoco per la stima dei danni e il recupero del materiale". Castrovillari (Cs): si è svolto il convegno "Lavoro e integrazione dei detenuti Aib 2014" www.cmnews.it, 12 novembre 2014 Nella sede della Associazione sociale Anas di Castrovillari con la collaborazione della Casa Circondariale di Castrovillari e dell’Ente Parco Nazionale del Pollino, si è svolto il convegno dal tema "Lavoro e integrazione dei detenuti Aib 2014: un nuovo modello di inclusione". Il progetto ha inteso creare un nuovo modo di promozione e sostegno dell’avviamento al lavoro di persone detenute, attivando un intervento sperimentale destinato al trattamento rieducativo ed inclusivo. Lo stesso nasce da un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Ambiente e il Ministero di Giustizia e, nel suo genere, è stato il primo realizzato in Italia. L’associazione Anas, promotore dell’attività, ha inteso realizzare con questo progetto una doppia finalità, quella di contrastare il fenomeno degli incendi boschivi nell’area del Parco del Pollino e promuovere l’inserimento e la conseguente inclusione sociale di persone svantaggiate. Al convegno sono intervenuti il Presidente del Parco, On. Domenico Pappaterra; il Presidente Provinciale dell’Anas Cav. Giuseppe Lufrano; il Direttore dell’Istituto Penitenziario di Castrovillari, Dott. Fedele Rizzo; Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale V. Comm. Grazia Salerno; Il funzionario giuridico pedagogico della stessa Casa Circondariale Dott.ssa Maria Pia Patrizia Barbaro; il responsabile del Piano Aib dall’ente Parco Ing. Arturo Valicenti. I lavori sono stati coordinati dalla Dott.ssa Tullia Lio. In occasione dell’evento sono stati, altresì, consegnati ai volontari gli attestati di partecipazione che hanno suggellato il percorso effettuato. Taranto: progetto "Fuori… gioco", i magistrati incontrano i detenuti Asca, 12 novembre 2014 Il progetto di rieducazione dei detenuti "Fuori…gioco!" che si basa sull’insegnamento dei valori e delle regole dello sport, in corso anche quest’anno presso la Casa Circondariale di Taranto prosegue senza interruzioni. Grande la soddisfazione della direttrice della Casa Circondariale Dott.ssa Stefania Baldassari, del Comandante della Polizia Penitenziaria Dott. Giovanni Lamarca per i risultati ottenuti. Davvero eccezionale l’attenzione prestata dai detenuti nel corso degli incontri e la loro partecipazione attiva attraverso questioni poste ai relatori che via via si stanno alternando. I detenuti-corsisti hanno modo di apprendere interessanti contenuti riguardanti la disciplina e la regolamentazione del settore sportivo, senza trascurare gli aspetti civili e penali che possono riguardare lo svolgimento di attività agonistica e non. Tra i docenti si sono già succeduti Giovanni Di Leo (Presidente Sezione Arbitri Taranto), Christian Greco (Assistente di gara Lega Pro), gli avvocati Gianluca Mongelli e Carlo Raffo in rappresentanza della Fondazione Taras, Mimmo Ranieri e Giuseppe Tisei (rispettivamente Presidente Regionale e Provinciale dell’Associazione Allenatori di Calcio) gli avvocati Angelo Cellamare, Paolo Vinci e Giulio Destratis, il laureando in Giurisprudenza Manolo Gennari ed i giornalisti Mimmo Mazza e Giuliano Foschini. Per il secondo anno consecutivo sono poi da sottolineare i significativi interventi di due illustri magistrati, il dott. Maurizio Carbone ed il dott. Martino Rosati i quali nel corso delle lezioni hanno illustrato ai detenuti in modo esaustivo ed efficace i rapporti tra sport e norme penali, dando spazio anche ad un divertente scambio di battute e di "opinioni calcistiche" sugli argomenti trattati. Ora sarà il turno dei dottori Guido Petrocelli e Francesco Settembrini, del fisioterapista Marco Cordella e della psicologa Loredana Mastrorilli che analizzeranno i profili inerenti la medicina dello sport. Al termine delle lezioni, i detenuti saranno impegnati in sedute di allenamento, in vista dell’incontro di calcio di beneficienza che si terrà allo Stadio Iacovone di Taranto in prossimità del Natale. Il quadrangolare prevede che ad incontrarsi saranno le selezioni di Magistrati, Polizia Penitenziaria, Avvocati e detenuti. Come avvenuto lo scorso anno con la presenza di Gianni Rivera, nel corso del progetto interverranno testimonial di spicco del calcio italiano. È già certa la presenza dell’arbitro di serie A Angelo Cervellera e dell’ex calciatore della Nazionale Nicola Legrottaglie. Napoli: "Nella memoria di Giovanni Paolo II", borse lavoro a giovani detenuti dell’Ipm www.catanzaroinforma.it, 12 novembre 2014 Aprire i cuori alla solidarietà per abbattere il muro del pregiudizio ed offrire una seconda opportunità ai giovani detenuti. Con questo obiettivo l’evento "Nella memoria di Giovanni Paolo II" ha fatto tappa nei giorni scorsi all’Istituto penale per minorenni di Napoli-Nisida nell’ambito del progetto promosso dalla "Life Communication produzioni televisive e grandi eventi" in collaborazione col Ministero della Giustizia - Dipartimento della Giustizia Minorile e patrocinata dalla Conferenza Episcopale Italiana - Ufficio delle Comunicazioni Sociali, dall’Arcidiocesi di Napoli, dalla diocesi di Pozzuoli, dalla Regione Campania, dal Comune di Napoli, dalle Camere di Commercio di Napoli e di Catanzaro. Dallo scorso anno l’evento si svolge all’interno degli Istituti Penali Minorili con l’obiettivo di promuovere e favorire il pieno riscatto e reinserimento lavorativo dei giovani provenienti dal circuito penale. La manifestazione - ideata da Domenico Gareri, autore e conduttore televisivo, e giunta alla sua decima edizione - oltre a ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati nella storia della Chiesa e diffondere i suoi messaggi dal profondo significato sociale, culturale ed evangelico alle nuove generazioni, ha rappresentato un momento di grande vicinanza ai giovani detenuti ai quali sono state donate due borse lavoro grazie all’impegno della segreteria nazionale del progetto Policoro promosso dalla Cei e della cooperativa sociale "Il germoglio" della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi e alla sensibilità dell’associazione Giffas Onlus. A riceverle idealmente sul palco sono stati il Sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, e il Capo Dipartimento per la Giustizia minorile, Annamaria Palma Guarnier, in sinergia con il mondo della chiesa, rappresentato dal vescovo di Pozzuoli, S.E. mons. Gennaro Pascarella, e le istituzioni locali con il presidente della X Municipalità del Comune di Napoli, Giorgio De Francesco. Nel corso della serata, condotta da Domenico Gareri e dall’attrice Tosca D’Aquino, è stato consegnato il premio "Nella memoria di Giovanni Paolo II", realizzato dal maestro orafo Michele Affidato, ad un artista napoletano doc che da sempre si è distinto per la sensibilità e l’impegno profuso nel campo del sociale: Gigi D’Alessio. Il noto cantautore ha ritirato il riconoscimento dalle mani del vicepresidente della Vallecchi 1903, Maria Paola Corona, che ha donato dei volumi alla biblioteca dell’istituto. Serenella Pesarin, del Dipartimento Giustizia Minorile - Direzione Generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, ha consegnato il premio agli "artisti speciali" del Giffas Onlus, presieduto da Armando Profili, realtà operante a Napoli da diversi anni in attività di riabilitazione psico-motoria. Altri riconoscimenti per l’impegno profuso all’insegna dei valori della pace e della solidarietà sono stati consegnati da Giuseppe Centomani, direttore del Centro Giustizia Minorile Campania, all’Associazione italiana maestri cattolici - ha ritirato il premio Maria Marino su delega del presidente nazionale Giuseppe Desideri - e da Gianluca Guida, direttore dell’istituto di Nisida, a Emiliano Abramo, portavoce siciliano della Comunità di S. Egidio. Nel corso della manifestazione hanno offerto la propria testimonianza, intervenendo in video, anche l’Arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, il cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, che fu segretario di Giovanni Paolo II. Presente all’evento anche don Antonio Tarzia, direttore del mensile Jesus edito dal gruppo San Paolo, che ha donato i Vangeli e i testi sacri ai ragazzi dell’Istituto in collaborazione con l’Associazione dei Bibliotecari Ecclesiastici Italiani, presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Milito, e l’associazione Cassiodoro. Il direttore dell’Istituto "Malaspina" di Palermo, Michelangelo Capitano, ha raccontato l’esperienza vissuta lo scorso anno, mentre il vaticanista Rai, Enzo Romeo, oltre a ricordare il santo Papa, ha letto un estratto della lettera inviata da Andrea Bocelli ai ragazzi protagonisti dell’evento. Presente anche il cav. Camillo Galluccio, presidente del Consiglio regionale Ente Nazionale Sordi Campania. Grande emozione hanno suscitato le performance delle aggregazioni sociali e dei gruppi artistici che sono stati ospitati a Napoli grazie anche alla collaborazione dell’Aig (Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù): l’Ars Canto "G. Verdi" - coro di voci bianche giovanile del teatro Regio di Parma, l’Orchestra Giovanile di Laureana di Borrello e il Coro dell’Unione Italiana dei Ciechi di Catanzaro. Le coreografie sono state dirette dal maestro Giovanni Calabrò e realizzate dal Centro Studi Artedanza. Anche in questa edizione "Nella memoria di Giovanni Paolo II" porterà nelle case degli italiani un messaggio dal notevole significato educativo, proponendosi quale momento di incontro tra le diverse voci della società civile, del mondo delle istituzioni laiche e religiose e dell’associazionismo e abbracciando quello che è il vero significato del servizio pubblico. La "Life communication" comunicherà nei prossimi giorni i dettagli della messa in onda televisiva. Droghe: Cassazione, stop alle pene illegittime di Luigi Saraceni Il Manifesto, 12 novembre 2014 In un momento di appannamento, se non di declino, della ragione giuridica (e non solo), è confortante leggere le parole scritte dal massimo vertice giurisdizionale, le Sezioni Unite della cassazione, nella sentenza depositata il 14 ottobre scorso in materia di esecuzione di pene "incostituzionali" (presidente Santacroce, estensore Ippolito). Il quesito cui la cassazione doveva rispondere era, in sommaria sintesi, il seguente: la sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittima una norma di legge che prevede un aggravamento di pena, si applica solo ai processi in corso o anche alle condanne passate in giudicato? Il problema è diventato, in questi ultimi tempi, molto pressante, a causa di una legislazione insensata che, accanto alle leggi ad personam, e per coprirne l’indecenza, si è accanita contro l’emarginazione sociale, producendo una serie di norme repressive che hanno costretto la Consulta a intervenire per ripristinare la legalità costituzionale. Intanto, nelle more delle decisioni della Consulta, molte condanne (in particolare per fatti di droga o contro gli immigrati), sono diventate definitive e allora in seno alla magistratura ordinaria, compresi i giudici della cassazione, è nato un contrasto. Per alcuni la parte di pena dichiarata illegittima va eliminata dalla condanna, essendo evidente che stare in carcere per scontare una pena irrogata in base ad una legge che non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento, è una palese iniquità. Per altri invece, la "intangibilità del giudicato" non consentirebbe di ritoccare le pene in corso di espiazione. Su questo contrasto sono intervenute le Sezioni Unite che hanno optato per la prima soluzione, con una motivazione che, al di là del caso specifico, scrive un pezzo di storia dell’esercizio della giurisdizione penale. Due erano le questioni di principio implicate nella decisione dei giudici di piazza Cavour: la particolare incidenza delle pronunce di incostituzionalità sulle leggi penali; i limiti e la funzione del "giudicato penale". Su entrambi i temi si sono affrontati, sin dall’entrata in vigore della Costituzione, le due contrapposte anime della magistratura sul terreno dell’esercizio della giurisdizione penale: l’una dominata dalla esigenza di continuità con il passato e influenzata, come scrive la Cassazione, "dall’affermato ed egemone primato del potere statuale su qualsiasi diritto della persona"; l’altra che, invocando il primato dei nuovi valori costituzionali, ha rivendicato la massima espansione dell’efficacia "retroattiva" delle pronunce della Consulta e "con la proclamazione dei diritti fondamentali, ha dato l’avvio ad una mutazione del significato totalizzante dell’intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato, rafforzandone per contro la valenza di garanzia individuale". La decisione della cassazione avrà certamente le sue ricadute positive sulle condanne passate in giudicato, in particolare a riguardo delle insensate pene per le cosiddette droghe leggere, comminate dalla Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel febbraio scorso. Per quanto non strettamente vincolante in via generale, la decisione del massimo organo giurisdizionale dovrebbe spazzare via le residue resistenze che la parte conservatrice dei nostri giudici ha finora opposto all’applicazione equa e ragionevole delle ripetute pronunce di illegittimità di norme repressive incompatibili con i principi costituzionali. Ma intanto il documento va segnalato perché consente di sperare che sul terreno giudiziario ci sia ancora uno spazio per l’affermazione della ragione. India: italiani detenuti; il loro appello sarà esaminato con urgenza dalla Corte Suprema Ansa, 12 novembre 2014 La Corte Suprema indiana ha accolto oggi una richiesta per trattare in via d’urgenza l’appello di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i due italiani condannati all’ergastolo in India per l’uccisione di un loro compagno di viaggio. Lo ha appreso l’Ansa da fonti diplomatiche. I giudici della terza sezione del massimo tribunale indiano hanno stabilito che la causa sarà esaminata martedì prossimo in via prioritaria dopo aver sentito le ragioni dell’avvocato Haren Rawal che difende i due giovani. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono detenuti in un carcere di Varanasi da oltre quattro anni. Nell’agenda odierna il ricorso era al ventesimo posto e c’erano scarse possibilità che venisse trattato. In aula era presente anche l’ambasciatore d’Italia a New Delhi, Daniele Mancini, che insieme allo staff diplomatico sta seguendo da vicino la vicenda ed è in costante contatto con le famiglie. Siria: amnistiati 11mila detenuti, ma per Ong oltre 200mila persone ancora nelle carceri Asca, 12 novembre 2014 Ong: oltre 200mila persone nelle carceri del regime Damasco. Circa 11mila persone sarebbero state rilasciate in virtù del decreto di amnistia approvato nel giugno scorso dal regime del presidente siriano Bashar al-Assad: lo ha reso noto il Ministro per la Riconciliazione nazionale siriano, Ali Haidar. Secondo le organizzazioni siriane per la difesa dei diritti umani oltre 200mila persone sono detenute nelle carceri del regime dall’inizio della rivolta, nel marzo 2011, ed il numero di detenuti amnistiati no supererebbe in realtà i 7mila rispetto agli almeno 70mila che rientrerebbero nelle categorie contemplate dal decreto. In alcuni casi i servizi di sicurezza si sarebbero rifiutati di cooperare con le commissioni incaricate di vigilare sull’applicazione del decreto, mentre in altri gli stessi tribunali avrebbero cambiato i capi di accusa in modo da evitare l’amnistia. Algeria: legge sulla "privacy legale", i detenuti vedranno riconosciuti i loro diritti sessuali Adnkronos, 12 novembre 2014 Presto anche i detenuti algerini, al pari di quelli degli altri Paesi arabi, vedranno riconosciuti i loro "diritti sessuali". All’inizio del prossimo anno, infatti, il parlamento di Algeri prenderà in esame la creazione all’interno delle carceri di aree riservate in cui i prigionieri potranno intrattenersi alcune ore con i rispettivi coniugi. Ne parla il quotidiano algerino "Echorouk", che spiega come questa pratica sia già realtà nella maggior parte dei penitenziari arabi. Il ruolo di avanguardia nel settore spetta all’Arabia Saudita, che già nel 1978 riconosceva e applicava quello che viene definito il diritto alla privacy legale e nelle cui carceri esistono appositi spazi da destinare ad "alcove" in cui i detenuti possono incontrare le proprie spose. Di recente, le autorità di Riad hanno deciso di mettere a disposizione delle coppie dei veri e propri appartamenti dotati di ogni comfort. La pratica è diffusa anche in Kuwait, Yemen, Libia, Tunisia, Marocco, Qatar, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, mentre la Giordania ha espresso l’intenzione di introdurre le visite coniugali al più presto, si legge sul giornale, secondo cui "l’Algeria è l’unico Paese arabo in cui la privacy legale nelle carceri è vietata". Ma per gli attivisti per i diritti umani, così come per gli specialisti e i rappresentanti dei detenuti, la pressione vissuta dai prigionieri che si vedono negare una vita sessuale soddisfacente rischia di trasformarsi in una "bomba ad orologeria" e di sfociare in varie forme di "devianza morale" cui di fatto si assiste all’interno delle carceri, soprattutto tra i detenuti più giovani. Dal canto suo, l’attivista per i diritti umani Fatima Zohra Ben Barham ha ricordato che "la questione non è nuova, se ne parlava già negli anni Ottanta del secolo scorso", puntando il dito contro le autorità delle carceri che, a suo avviso, "ignorano i diritti umani dei detenuti, come il diritto di voto o quello ad avere una vita sessuale con i legittimi sposi". Ma secondo Yousef Hantabli, docente di sociologia all’Università di Blida, "la sanzione non ha senso se si permette al detenuto di avere rapporti con la moglie". Per Hantabli, "la filosofia stessa della sanzione prevede che chi commette un reato debba essere punito o con l’allontanamento dal gruppo, come accadeva nelle società tradizionali, o con il carcere, come previsto oggi". Di conseguenza, "se al detenuto vengono riconosciuti alcuni privilegi, come quello della privacy legale, allora significa che non vi è stato allontanamento dalla società e la pena non ha alcun senso", conclude.