Le domande degli ergastolani "ostativi" a Papa Francesco di Francesca de Carolis e Nadia Bizzotto Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2014 Caro Papa Francesco, quelle che seguono sono le domande che tredici ergastolani hanno pensato di rivolgerle. Ergastolani "speciali", ostativi, che in seguito a un meccanismo di leggi nate con "l’emergenza mafia" degli anni 90, vengono esclusi dall’applicazione dei benefici di legge perché non collaboratori di giustizia. Diversamente da quanto comunemente si crede, e ancora sui mezzi d’informazione spesso si dice, sono la smentita, in carne ed ossa, del fatto che "l’ergastolo in Italia non lo sconta nessuno". Appartenuti in passato a varie organizzazioni di stampo criminale, anche solo a livello regionale, sono in carcere da decenni, molti per lunghi periodi in regime di 41 bis, e scontano una pena che, in base alle nostre leggi, non finirà mai. In questi anni molto hanno riflettuto sul proprio passato, hanno seguito percorsi di studio, continuano a lavorare su se stessi. Basti dire che fra questi c’è chi in carcere si è laureato in giurisprudenza, chi si è diplomato in un Istituto d’arte, c’è chi è prossimo alla laurea in filosofia, chi ha approfondito la storia d’Italia e le vicende del nostro Meridione… Convinti pure che "la vita, se sarai capace di non soffocarla dentro di te, ti offrirà di vedere e capire". Ma al pentimento morale il nostro ordinamento non riconosce alcun valore giuridico. Negando loro di fatto il diritto alla riabilitazione. Eppure "alcuni di noi sono ormai giunti ad un livello di maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle vittime", con la certezza "che non esistano pene in grado di rafforzare l’autorevolezza della legge o tali da raggiungere l’obbiettivo di cancellare il dolore delle vittime dei reati". Tredici dei tanti, in Italia si calcola siano più di mille, destinati a morire reclusi. Ci hanno affidato queste domande, senza nascondere la profonda emozione di chi nello scrivere si accorge "di quanto sia difficile scegliere le parole", o il sussulto di chi temendo di essere la persona meno adatta a porre domande al Papa chiede "scusa dell’arroganza di questo peccatore, ma la sfrontatezza è tanta"… La sfrontatezza è tanta e tante sono state le domande, alcune simili, ma abbiamo preferito lasciarle perché emergessero le sfumature, le sottili differenze che ognuno ha portato, riflettendo sul tema della colpa, del castigo e del perdono. Con uno sguardo anche alla vita generale della Chiesa e al mondo intero, di cui pure, nonostante il sentire comune li voglia esclusi dal mondo, ciascuno di loro si sente parte. In un momento in cui si richiede l’impegno di tutti nella lotta contro le mafie, pensiamo che non si possa essere indifferenti alla voce di chi, dopo aver sofferto e aver raggiunto un profondo intimo cambiamento, potrebbe offrire alla società la testimonianza del suo percorso. Con una sola voce, si rivolgono a Papa Francesco nella speranza di un confronto, anche solo di un pensiero in risposta a tante domande… perché "sarebbe bello un giorno poterla incontrare"… "conoscersi serve giacché per costruire una strada occorre aiuto, e io non mi vergogno di avanzare a Sua Santità un’umile richiesta d’aiuto". Insomma, "Papa Francesco, aiutaci a vivere o a morire". Un forte abbraccio. Francesca de Carolis, giornalista e scrittrice Nadia Bizzotto, Comunità Papa Giovanni XXIII Giugno 2014 Una premessa importante… Non voglio la morte del peccatore, dice il Signore, ma che egli si converta e viva (Ezechiele, 33 II). Vi è un dramma rappresentato con grande maestria nel Vangelo di Giovanni, in esso si recita: chi è di voi senza peccato scagli la prima pietra. C’è da restare senza fiato… "Chi è di voi…"! Queste sono veramente le cose essenziali. Ma non si trovano in alcun manuale di psicologia. Piuttosto si imparano in chiesa o nelle carceri. Curioso anche questo avvicinamento, no? Tra Chiesa e carcere; qualcosa come mettere insieme inferno e paradiso. Ma l’errore, il tremendo errore, sta nel credere che quelli che sono rinchiusi nel penitenziario siano dannati. Il giudizio, per esser giusto, dovrebbe tenere conto non soltanto del male che uno ha fatto, ma anche del bene che farà, non solo della sua capacità a delinquere, ma anche della sua capacità a redimersi. Dunque, caro Papa Francesco, a proposito del peccato Lei ha detto: se uno non pecca non è un uomo. Dobbiamo supporre che Dio ammette il peccato oppure che nella realtà il peccato, così come noi lo conosciamo, non esiste? Il male e il bene di una persona è il bene di noi tutti, lo ha detto Carlo Maria Martini. Papa Francesco, pensa che Dio sia così severo da gettare un’anima all’inferno e condannarla ad essere cattiva e colpevole per sempre come accade sulla terra? Dio perdona. Possono farlo anche gli uomini o il perdono è solo "cosa divina"? Ma se il perdono è anche umano, cosa ne pensa e cosa direbbe a quegli Stati che promuovono la pena di morte e il carcere a vita per chi ha commesso reati di sangue? La condanna all’ergastolo senza fine è disumana. Più che una condanna fisica è una pena dell’anima, una pena che ti ruba l’amore, ti mangia vivo, ti succhia la speranza… che ti ammazza lentamente. Si passa l’esistenza a osservare il proprio passato perché non ci sono giorni davanti che ci aspettano, ed è difficile diventare buoni con una pena del diavolo da scontare. Perché i buoni cristiani, che magari vanno a messa la domenica, ci fanno questo? Mi chiedo se dal punto di vista cristiano, umano, tale pena, così come configurata in Italia, (osta a qualsiasi beneficio di legge, quindi non dà speranza, annienta l’individuo giorno dopo giorno riducendolo a un vegetale, non più persona, ma solo corpo, svuotandola della sua essenza umana) sia priva di senso, sia compatibile con il precetto evangelico. Tenendo conto che l’Italia è definita, per antonomasia, culla del diritto, ma soprattutto è il centro della cristianità, chiedo: è accettabile questa pena disumana nel paese in cui risiede il cuore della fede cristiana? Sapendo che per un ergastolano ostativo la pena non finirà mai, come può un uomo resistere e superare tutto questo? E dopo aver superato questa prova, può un uomo ancora considerarsi una persona normale, umana? Santo padre, secondo lei, il fatto che in Italia non venga eseguita una vera e propria pena di morte, sostituita da un "pena di morte viva", chiamata appunto ergastolo ostativo, permette alle nostre istituzioni di mettersi la coscienza al riparo dal senso di colpa che potrebbe procurargli la messa a morte del reo? Non crede che in questo modo, nonostante l’Italia abbia una costituzione molto chiara su ogni punto, si ha solo la mera "illusione" di essere in un paese civile e democratico? Santo Padre, secondo lei, che differenza passa tra il vero condannato a morte e noi che, seppure non veniamo uccisi all’istante, siamo lasciati vivi in agonia tutta la vita, venendo però uccisi giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio, senza che lo Stato si sporchi le mani di sangue? La nostra pena è senza fine perché non abbiamo fatto i nomi dei nostri ex compagni. Negli oratori siamo stati educati al motto di "chi fa la spia non è figlio di Maria" e con la figura di Giuda, che per aver tradito Gesù e averlo consegnato allo Stato romano si è impiccato. Oggi ci è chiesto di fare gli opportunisti e accusare un nostro "fratello in Cristo" per non morire in carcere. Come nelle peggiori dittature. Una condizione immorale, anche per il pensiero di un ateo. Una legge che ricatta, lede la dignità, la libertà religiosa, che è applicata anche a chi si è ravveduto o all’innocente che non può dimostrare di esserlo. Purtroppo questo ricatto, che non lascia via d’uscita, quando diventa insostenibile porta molti di noi al suicidio. Per la Chiesa è un peccato, ma non commette una corruzione più grave chi ci costringe al suicidio? Santità, ritiene cristiana la tortura del 41 bis? Si può essere pentiti di puro cuore pur non avendo collaborato con la giustizia. Non si sbaglia, forse, nel guardare a questo ultimo parametro come unico elemento indicatore dell’avvenuta conversione? Non è illegittimo il trattamento a noi riservato? A noi che siamo in stragrande maggioranza meridionali… Vien da fare un paragone con quanto letto nel testo "Patrologia" di Berthold Altaner citando l’Apologeticum, dove emerge chiaramente la differenza di trattamento fra imputati cristiani e imputati accusati di altri crimini: per questi la tortura era mirata alla confessione, per i primi diretta invece ad ottenere un rinnegamento… Per noi ostativi non esiste nessuna Apologia che possa farci sperare in un futuro da uomini liberi… Cosa deve fare e come si deve comportare una persona per essere "redenta", per poter essere accettata dalla civiltà esterna senza essere continuamente additato come criminale? È capitato che a persone condannate per reati connessi alla criminalità organizzata siano stati negati funerali religiosi (persone magari morte in carcere dopo 20 anni di pena), nulla sapendo se tale persona abbia convertito il suo cuore al bene dopo tanti anni. Considerando la natura di non esclusività della dottrina cristiana, non crede sia contraddittorio questo comportamento adottata in seno alla Chiesa cattolica? Giusto condannare sempre il fenomeno della criminalità organizzata, non ritiene però sbagliato condannare per sempre e comunque l’uomo? Guai a girarsi dall’altra parte quando sono violati i diritti di qualcuno, gli orrori della storia lo insegnano: "un giorno vennero ad arrestare tutti i negri, ma io non ero un negro e non dissi nulla, il giorno dopo arrestarono gli ebrei, poi gli zingari e vagabondi. vennero di nuovo ma non c’era più nessuno e arrestarono anche me". Nel Meridione, ieri briganti, oggi basta etichettare qualcuno come mafioso per sospendergli ogni diritto con il plauso di tutti, Chiesa inclusa. Ma la Chiesa di Gesù non avrebbe paura di ricordare pubblicamente, a questa società votata all’indifferenza, che tutti gli uomini hanno la stessa dignità ed ognuno è un caso a sé? Qualunque sia l’etichetta data da altri uomini. I.N.R.I. non dovrebbe ricordare qualcosa? A torto o a ragione noi siamo in carcere con una condanna ( anche se non sempre con un giusto processo -v. "leggi d’emergenza"), ma le nostre madri, mogli, figli, non hanno altra colpa che di amarci. Nessuno pensa che tra le vittime ci sono anche loro. Il dolore di Maria per il figlio incarcerato e condannato, ricorda qualcosa? Condannate a "vite sospese nel dolore", di privazioni. Nelle nostre famiglie non esiste un Natale, Pasqua o altra ricorrenza, perché il pensiero è sempre velato di tristezza per noi, rinchiusi come animali. Queste "vittime dell’amore" hanno qualche diritto? Molte cose della fede fino ad oggi era impensabile che venissero rivoluzionate, ma ecco che arriva Papa Francesco a stupirci. Oggi ci ha stupito con il battesimo in Vaticano del bambino di una coppia sposata con il rito civile. Viene da chiedere… come mai ancora un divorziato non può avere accesso al sacramento della comunione? Caro Papa Francesco, noi cristiani, credenti, comunità, nel professare Gesù Cristo, la nostra fede, veniamo derisi e criticati dai non credenti, e da quelli che si sono allontanati dalla fede. Le cause di tutte le continue diatribe sono: la secolarizzazione, il relativismo e principalmente l’arricchimento personale che attecchisce nella Chiesa. È possibile da parte sua dare un segnale ancora più forte, di concretezza, nel correggere questi comportamenti di una parte della Chiesa, che non sono più tollerabili? Nel terzo millennio, ritiene naturale la monarchia assoluta della Chiesa? Non crede che sia giunto il momento che sia la democrazia a guidare i cattolici? Vedranno un giorno i cattolici l’abolizione dell’ordine dei cardinali e l’elezione del Papa da parte dei Vescovi di tutto il mondo? Pensando al mondo, pensando al cuore della cristianità… Oltre l’annuncio della sua visita in Terra Santa, non sarebbe utile anche un suo discorso all’Onu per cercare di toccare il cuore marmoreo dei potenti della Terra per risolvere l’eterno scontro tra i poveri Palestinesi e Israeliani? Se si aspetta che arrivi la pace da un accordo tra quei due popoli dovremmo aspettare che inizi un’evoluzione nuova dell’umanità e un’altra volta il figlio di Dio dovrà morire sulla croce… Sotto la sua guida il Vaticano ha abolito l’ergastolo. Lo ha fatto perché aveva perso la sua forza d’applicabilità oppure perché ritiene che condannare al carcere a vita un essere umano vada contro il senso di civiltà che ogni popolo si vanta di detenere? La Chiesa è in prima fila per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Interverrà il Papa in prima persona per chiedere allo Stato italiano e ai politici "cattolici" di abolire l’ergastolo ostativo, questa forma camuffata di pena di morte? Considera possibile sostenere l’ambizione di quanti - pur patendo sulla propria pelle l’ergastolo- desiderano realizzare, nonostante tutto, il ritorno nella società attraverso gli affetti, il lavoro, l’istruzione? E come? È ancora possibile sostenere un ergastolano ostativo, l’uomo, a credere di poter trovare una ragione per ridare i colori a un’esistenza segnata da dolore e angoscia? E come abbattere il muro dell’alterità che separa il dentro dal fuori e sviscerare in tal modo la paura del diverso che non si conosce? Paolo Amico Claudio Conte Pasquale De Feo Marcello Dell’Anna Antonio Di Girgenti Giovanni Farina Domenico Ferraioli Giovanni Lentini Giovanni Mafrica Carmelo Musumeci Santo Napoli Alfredo Sole Mario Trudu Giustizia: quando in prigione ci vanno i bambini di Giuseppe Del Bello e Alice Gussoni La Repubblica, 11 novembre 2014 Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri, assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review. Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla madre. Tutti tranne il piccolo S., che all’epoca non aveva neanche un anno e l’ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino alla scarcerazione della mamma. S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili per l’intera popolazione carceraria del Lazio che arriva a 5mila 680 presenze, di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di 7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri. Mancanza di strutture. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono contemplati interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono 2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni italiani, forniscono il quadro di un’Italia spaccata a metà ma nell’insieme ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario. Lo stato del diritto. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l’affidamento ai servizi sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi ha subito un’amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano ad aiutare come possono i loro compagni di cella. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo una rilevazione dell’Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere architettoniche. Il problema dell’Hiv. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da Hiv (circa il 3,8% dell’intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se rimane loro poco da vivere, restano dentro. È una legge spietata, ma il carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo: "L’incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto". La galassia dei reclusi senza diritti Chi resta in cella. Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha sanzionato l’Italia per le condizioni inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l’ultimo censimento, datato 31 ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero 54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità effettiva, secondo il X rapporto dell’Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente inferiore, pari a circa 37mila unità. La soluzione domiciliare. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa, cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto all’assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono stati ulteriormente ridotti (Milano è l’unica città italiana ad avere un Centro di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale). Investimenti scarsi. Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse, contro i 123 euro spesi all’interno delle carceri. Il 32% di tossicodipendenti. La considerazione che il carcere sia anche un deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come indica una ricerca su base europea svolta dall’Emcdda, l’European monitoring center for drug and drugs addicted. Comunità terapeutiche solo per 1 su 6. L’affidamento alle comunità terapeutiche rimane l’ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del sistema, come denunciato dall’associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere, spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente rischiano di essere antitetici". Nessuna dignità della persona. Il trattamento penitenziario in Italia è stato però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece l’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario (legge 354/75). Gli stessi ospedali psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del 1978, avrebbero dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva - assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi. Il miraggio delle case famiglia. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista, coordinatore dell’Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma, suggerisce di assegnare all’istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati alla mafia. Un’idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334 solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo. Custodia attenuata per le madri. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna), anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi. Gioia Passarelli, presidente della onlus "A Roma Insieme", da anni impegnata a favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L’idea di partenza era quella di rendere l’ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le madri, ma a parte l’abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare l’ora d’aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli effetti che sottostanno all’ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre l’età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3 ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di loro non hanno mai visto com’è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione anche Lia Sacerdote dell’associazione "Bambini senza sbarre", firmataria insieme al Garante per l’infanzia e l’adolescenza e il Ministero della Giustizia di un Protocollo d’Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l’iniziativa della creazione di uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed educatori si cerca di rendere comprensibile l’esperienza del carcere ai piccoli visitatori. Dietro le sbarre con lievi condanne. La mancanza di strutture ricettive è un problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall’Osservatorio Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale (inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100% dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq, sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione (sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013). Giustizia: in carcere senza cure né assistenza, ecco i casi più gravi di Alice Gussoni La Repubblica, 11 novembre 2014 Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006 Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai, senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa. Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel 1976 perché dormiva in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di certificare l’avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30 anni, uscito con l’indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli ospedali psichiatrici ne sono pieni. Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l’incompatibilità con il regime carcerario (articolo 47 comma 2) è l’esigenza di un trattamento che non sia possibile ricevere nell’ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha dell’incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi, fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l’uso delle gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all’altezza e così viene rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l’assistenza adeguata. Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede l’innalzamento dell’età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non c’è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande per affrontare una nuova vita senza il trauma. Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che all’epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici, durata per l’intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell’area verde del carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può entrare solo una volta al mese. Giustizia: gli ergastoli bianchi degli Ospedali psichiatrici giudiziari di Giuseppe Del Bello La Repubblica, 11 novembre 2014 Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più drammatico a causa dell’emergenza Opg, gli Ospedali psichiatrici giudiziari da chiudere entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo, nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant’Eframo (chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un’ala quasi interamente crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto terapeutico riabilitativo individuale) nell’ottica della dimissione entro il 31 marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti saluti al risparmio e a un’assistenza dignitosa. Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell’altro Opg, il Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e, quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto. Ma le Rems, come osserva il presidente dell’Associazione "Sergio Piro" (recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è d’accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case famiglie. Giustizia: le imprese "belle dentro" (quanto vale il Pil recluso in carcere?) Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2014 Sono abituati a sentirsi chiedere: perché dare lavoro a chi è in carcere quando ci sono tanti disoccupati che non si sono macchiati di alcuna colpa? Loro rispondono con altre domande: quanto Pil è recluso nelle carceri italiane? E quanto vale dare a chi sta scontando una pena la possibilità di guadagnarsi uno stipendio, aiutare la famiglia, concedersi libri o sigarette, e soprattutto non avere bisogno di chiedere aiuto - un aiuto spesso a doppio taglio - una volta usciti, nel momento di maggiore fragilità? Nei giorni scorsi, a Venezia, il Salone d’Impresa ha messo a confronto i "nuovi modi" per far girare l’economia. In prima file anche molti rappresentanti delle cooperative che hanno fatto nascere imprese "belle dentro". Al 4 novembre 2014 i detenuti in Veneto erano 2.534; 280 quelli lavoranti, fra borse lavoro, corsi di formazione e tirocini. A Belluno occhiali e formazione Lavanderia e cerniere per mobili, ma anche parte delle lavorazioni necessarie al distretto dell’occhiale: nel carcere bellunese Lavoro associato SCS Onlus ha stretto legami con aziende come Fedon Spa, Da Rold e Cafiero. Tre detenuti assemblano astucci per occhiali, altri sei impacchettano pezzuole (quelle che servono a pulire le lenti), altri ancora eseguono controlli di qualità e confezionano occhiali. Per un’azienda di tutt’altro genere, la Unifarco (prodotti cosmetici, dermatologici, nutraceutici e di make-up) viene invece curato l’assemblaggio e completamento di materiali pubblicitari, e sono altri quattro posti di lavoro. Belluno in questo momento ha ben otto commesse; altre ditte sono Bortoluzzi (cerniere per mobili da assemblare), Redel, Elettroplast. La cooperativa "Lavoro associato", dopo un iniziale contributo della Fondazione Cariverona che ha sostenuto le spesa per sviluppare le attività in carcere, è giunta a un buon livello di autosostegno economico ed è alla continua e costante ricerca di lavoro per permettere anche ai detenuti, attraverso l’agenzia formativa Metalogos, di acquisire anche a livello formale attestati e crediti spendibili sul territorio nazionale. Treviso, archivi e prodotti bio Due le cooperative, "Alternativa" e "Alternativa ambiente". Le attività in carcere vanno dall’assemblaggio all’incisione del vetro, dalla falegnameria alle riparazioni di hardware: il lavoro in carcere qui è entrato 25 anni fa, per iniziativa degli amministratori pubblici del tempo. L’idea alla base, come racconta Antonio Zamberlan, presidente della coop l’alternatva, è stata quella di iniziare un percorso con i detenuti capace di farli sentire coinvolti in un miglioramento della società. A cominciare dall’agricoltura, condotta con l’uso di meno inquinanti possibile (oggi i prodotti, biologici, sono venduti in un negozio), per arrivare alla raccolta rifiuti in collaborazione con il consorzio Priula (www.consorziopriula.it). Da marzo 2013 nella Casa Circondariale di Treviso è stato avviato un nuovo progetto con Contarina Spa (che si occupa della gestione dei rifiuti dei Comuni appartenenti ai Consorzi Priula e TvTre, nella provincia di Treviso): la trasformazione di 415mila pratiche cartacee appartenenti agli archivi storici dei Consorzi in documenti elettronici grazie al lavoro dei detenuti di Santa Bona (tempo previsto circa 3 anni). "Capita di non poter raccontare all’esterno quello che facciamo: date lavoro ai delinquenti? E perché? - racconta Zamberlan - Ma con noi ci sono persone uscite dal carcere da anni, e con zero recidive". Come a dire che il lavoro è il migliore antidoto alla ricaduta. I dolci di Padova (e le biciclette) Nel Due Palazzi operano più coop. La "Altracittà" produce oggettistica (legatoria, nella foto le agende) con un negozio per le vendite all’esterno dell’istituto patavino e occupa i detenuti con un laboratorio di digitalizzazione documenti. La Giotto ci è entrata negli anni Novanta, con un corso di giardinaggio che prosegue tuttora e ha coinvolto finora oltre 250 detenuti. Insieme ai reclusi è stato anche realizzato un Parco Didattico nelle aree esterne della Casa di reclusione, per la formazione pratica degli allievi e la riqualificazione della nuova area colloqui, per rendere più accogliente lo spazio nel quale i detenuti ricevono le famiglie. Biscotti del carcere di Padova Biscotti del carcere di Padova Negli anni in carcere sono cresciute molte altre esperienze lavorative: è stata sviluppata una linea di montaggio biciclette, con una squadra formata e istruita che realizza oltre 200 bici al giorno, spesso di elevata complessità tecnologica, per la ditta Esperia (che detiene marchi quali Bottecchia, Torpado, Fondriest). Nel 2005 è stato attivato anche il call center per sondaggi, campagne informative, telemarketing; oggi i lavoratori in carcere operano soprattutto per l’azienda Illumia proponendo a privati la fornitura di energia elettrica, ma tra i clienti storici del call centre c’è anche Fastweb, per la quale sono stati gestiti servizi di customer satisfaction. E poi c’è l’alimentare, a cominciare dalla "Pasticceria Giotto", che opera all’interno del Due Palazzi dal 2005. I detenuti impastano e sfornano panettoni, colombe e altri prodotti artigianali che hanno ricevuti molti premi. Nel 2004 le cucine della casa della casa di reclusione sono state completamente rinnovate, e da allora sono gestite dai detenuti che, dopo una lunga formazione sulle procedure di sicurezza e igiene, cucinano 900 colazioni, pranzi e cene per 365 giorni l’anno. Da qui ogni giorno partono per l’esterno semilavorati che giungono freschissimi a hotel a quattro stelle, ristoranti, catering e mense universitarie: insalata tagliata e lavata, macedonie, tramezzini, canapè, torte e pasticceria. Venezia, la moda, gli orti e i saponi Qui c’è da raccontare l’impresa al maschile e al femminile perché gli istituti sono due. In entrambi è operativa anche la Cooperativa "Il cerchio" che gestisce la lavanderia e il laboratorio di sartoria, con detenuti semiliberi o in articolo 21 che svolgono servizi per l’azienda di trasporti Actv e pulizia cantieri del Mose. Il negozio Banco Lotto a Venezia Nel negozio di moda Banco Lotto Numero 10, che ha sede nel Sestiere di Castello, si possono acquistare gli abiti disegnati e realizzati, sotto la direzione di Annalisa Chiaranda, dalle detenute della "Casa reclusione donne" della Giudecca. Nell’istituto femminile c’è anche una lavanderia che dà lavoro ad altre donne, e oggi soddisfa le necessita dei tre istituti penitenziari di Venezia. L’Orto biologico (i cui frutti sono messi in vendita una volta alla settimana davanti all’istituto) e il laboratorio di cosmetica vengono invece gestiti da un’altra coop, la Rio Terà dei pensieri; si realizzano artigianalmente prodotti di bellezza di alta qualità, ispirati all’antica tradizione degli speziali veneziani e arricchiti dagli estratti naturali provenienti dall’orto, e linee di cortesia personalizzate per alberghi. "Abbiamo cercato attività capaci di dare, insieme a un reddito, un significato - spiega la presidente Liri Longo - Anche il riutilizzo di materiale altrimenti destinato a essere smaltito, che viene invece recuperato e valorizzato, ha un senso profondo". Borse Malefatte Borse Malefatte Da questa idea nascono le Malefatte - un nome deliziosamente ironico per la linea di borse, shopper e T-shirts prodotte nel Carcere Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia, dove sono attivi due laboratori: una serigrafia e un recupero e riutilizzo di Pvc da cui si ricavano borse e accessori unici ed originali. Chi ha dei banner pubblicitari in Pvc che non usa più può donarli per farli diventare borse eco friendly: basta una mail (e.botter@riotera-ve.it). Vicenza, saldature e grissini Saldo & Mecc è una cooperativa dal taglio decisamente pratico: forma detenuti sulla base delle richieste del mercato, e nel momento in cui nel Veneto servivano saldatori e carpentieri, questo è il "campo d’azione" che si è data la Cooperativa vicentina. I detenuti al lavoro fra saldatura e carpenteria metallica sono attualmente otto. La Saldo si occupa prevalentemente di lavori di saldatura e carpenteria metallica. È attenta al mercato e si propone per quelle attività che normalmente non vengono più esperite o che procurano guadagni poco appetibili. Recentemente si è proposta anche per lavori di lucidatura delle giunture per impalcature. Inoltre ha da poco avviato un laboratorio di pasticceria secca e panificazione con particolare attenzione alla qualità dei prodotti da forno (grissini ai cereali, pan-biscotto, dolci della tradizione vicentina, ecc.). Verona, casa di reclusione con bar La cooperativa "Vita" gestisce un panificio, "Progetto riscatto" una pelletteria, "Aghespha" un bar interno con assunzione di detenuti. Ma a Verona c’è anche una vera Srl, che nella sua unicità meriterà un post… appost. Da segnalare anche "Oltre il forno", un laboratorio professionale di prodotti di alta qualità all’interno delle mura della Casa Circondariale di Verona. Qui hanno fatto visita fra le altre le classi 5a del Liceo Scientifico e Scienze Umane A. M. Roveggio di Cologna Veneta e studenti e professori del Liceo Statale "Giovanni Cotta" di Legnago. Per loro i fornai galeotti hanno preparato un buffet sfornando pizze con lievito madre, focacce, biscotti e una monumentale crostata. Giustizia: l’ex capo Dap Capriotti "dopo la lettera dei detenuti mi attivai sul 41-bis" di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014 Per comprendere bene la differenza tra i due volti dello Stato italiano nella stagione delle stragi del 1992-1993 bisognava essere ieri nell’aula bunker di Rebibbia e guardare in faccia l’ex capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Adalberto Capriotti (già indagato a Palermo per false dichiarazioni al pm nel procedimento "Trattativa") mentre rispondeva tra molte contraddizioni e amnesie alle domande dei pm di Caltanissetta, Domenico Gozzo e Gabriele Paci, e dell’avvocato di parte civile di Salvatore Borsellino, Fabio Repici. Capriotti ieri era sentito come testimone e ha sostanzialmente detto di avere accettato l’incarico di capo dell’Amministrazione Penitenziaria sulla soglia della pensione ma di non avere mai voluto sapere nulla della gestione dei 41 bis. Materia incandescente gestita dal suo vice Francesco Di Maggio e sottoposta alla decretazione del ministro di allora Giovanni Conso. Durante la direzione del Dap di questo magistrato, ma senza la sua firma come ha tenuto a sottolineare, sono usciti dal regime di isolamento del 41 bis anche un paio di boss che facevano parte della Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra. Il presidente Napolitano nella sua audizione davanti ai pm del processo "Trattativa" ha detto che lo Stato dopo le stragi del 92-93 era saldo e fermo nella volontà di contrastare con il 41 bis Cosa Nostra. Capriotti ieri non ha dato questa impressione. Questo magistrato con i capelli imbiancati dai suoi 91 anni, è l’uomo al quale lo Stato si è affidato nel 1993 durante la stagione delle bombe di Cosa Nostra nel "Continente", per dare una risposta alla mafia che sfidava le istituzioni. Come ha chiarito Giorgio Napolitano, lo Stato aveva chiarissimo il ricatto della mafia: Riina e compagni facevano saltare in aria basiliche e musei, uccidevano bambine e passanti, perché volevano concessioni sul regime carcerario. E lo Stato, dopo aver spedito al massacro Falcone e Borsellino, mostrando il suo volto duro, decise di mostrare ai boss reclusi (grazie al lavoro di Falcone e Borsellino) un volto diverso: quello di Adalberto Capriotti. Pochi mesi prima dell’inizio della stagione delle bombe al nord al presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, giunse una lettera dei familiari dei detenuti al 41 bis stufi di fare lunghi viaggi da Palermo a Pianosa per portare la biancheria ai loro cari ma soprattutto stufi della linea dura del capo del Dap di allora, Nicolò Amato. È la stagione in cui i cappellani carcerari organizzano convegni e fanno campagne contro il 41 bis. Scalfaro convoca il capo dei cappellani carcerari, Monsignor Cesare Curioni e gli chiede di scegliere il nuovo capo del Dap. Curioni suggerisce un nome ma Scalfaro non lo vuole perché è troppo duro. Meglio Adalberto Capriotti, un tipo "tutta Chiesa" che dopo 22 giorni dall’insediamento, chiede al ministro di non prorogare subito i decreti in scadenza per una cinquantina di detenuti al 41 bis per dare "un segnale positivo di distensione". All’udienza del quarto processo per la strage di via D’Amelio tenuta a Roma con la Corte d’Assise di Caltanissetta in trasferta per sentire una serie di personaggi autorevoli (domani tocca a Luciano Violante e Giuliano Amato) ieri tutti attendevano la deposizione di Carlo Azeglio Ciampi e Giovanni Conso. Invece il Presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia di allora non si sono presentati per ragioni di salute. Per illuminare la strage di via D’Amelio il processo si interessa anche della stagione delle tentate e riuscite stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. La deposizione di Capriotti ieri si è fatta interessante quando ha preso la parola l’avvocato Fabio Repici. Il legale di Salvatore Borsellino ha chiesto a Capriotti se avesse letto la lettera dei familiari dei detenuti (nella quale l’estensore anonimo dava del "dittatore" al suo predecessore Amato, prima di scusarsi per "l’arroganza" usata contro il capo dello Stato) l’ex capo del Dap ha risposto in modo sorprendente: "era uno scritto anonimo come fatto dai familiari scritto molto bene e in maniera precisa". La lettera è scomparsa dagli archivi del Quirinale ed è divenuta di pubblico dominio nel 2011, quando il magistrato Sebastiano Ardita l’ha pubblicata nel libro "Ricatto allo Stato". Capriotti ha ammesso ieri di averla vista allora al Dap: "La vidi così di sfuggita quando ero già direttore del Dap. Tra le carte c’era anche questo. Ricordo che era un breve scritto". All’avvocato Repici che chiede: "la lettera aveva un carattere particolarmente duro e drastico nei toni?". Capriotti replica: "No, assolutamente no. Faceva rilevare questa pesantezza anche nei confronti del familiare che non era detenuto e naturalmente furono presi dei provvedimenti perché anche dopo questo scritto venne... questi detenuti non furono più spostati dando loro un certo fastidio ma soprattutto ai loro familiari che volevano ma si fece un provvedimento speciale per fare queste videoconferenze in modo che i familiari quando era il loro turno potevano trovarli in questo istituto". A prescindere dalla vaghezza del ricordo è molto interessante quello che Capriotti ieri ha ammesso davanti alla Corte: la lettera non fu cestinata, ma ebbe un seguito e (anche se sembra poco chiaro il riferimento alle videoconferenze) qualcosa lo Stato fece per andare incontro alle richieste dei parenti dei detenuti. L’ennesima dimostrazione che nel muro contro muro tra mafia e Stato in quegli anni il muro stava da una parte sola. Giustizia: vi spiego perché le proteste dei magistrati sono infondate di Beniamino Migliucci (Presidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 11 novembre 2014 L’assemblea generale dell’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di non deliberare, per il momento, un’astensione, probabilmente perché sarebbe stato impopolare e incomprensibile per la debolezza degli argomenti di natura corporativa e sindacale. Non sarebbe stato compreso da nessuno il motivo per cui incidere sulle ferie e sulla responsabilità dei magistrati, adeguandosi alle raccomandazioni europee, dovesse ritenersi un attentato o un rischio per l’autonomia e per l’indipendenza della magistratura, come paventato anche ieri al ministro Orlando dal vice Presidente del Csm Giovanni Legnini. Che lo Stato risponda per i danni causati con dolo o colpa grave è, invece, un fatto normale, che nulla ha a che vedere con la libertà, il prestigio e l’indipendenza della magistratura, anzi serve a rafforzarne la credibilità. L’Assemblea ha deciso, tuttavia, lo stato di mobilitazione e indetto per l’11 dicembre 2014 assemblee distrettuali pubbliche con eventuali "brevi sospensioni delle udienze". Ha altresì stabilito per il 17 gennaio 2015 la "Giornata per la giustizia", al fine di diffondere la "corretta" informazione sull’attività giudiziaria. Di fatto, sia nel primo che nel secondo caso, si tratta di astensioni "mascherate", nelle quali si intende diffondere, in modo unilaterale, la posizione espressa nella delibera, indifendibile nel caso avesse trattato solo di ferie e responsabilità civile: e allora, ecco che l’Assemblea di Anm ha ritenuto di nobilitare il proprio dissenso facendo riferimento a sacri principi da difendere e a istanze di carattere generale. Si è così sottolineato che la riforma della giustizia non deve passare attraverso "la riforma dei giudici e del loro stato giuridico", che il processo penale deve essere semplificato nel rito, che è urgente riformare la prescrizione escludendo il suo decorso almeno dopo la sentenza di primo grado "eliminando le storture di un sistema che vanifica anni di lavoro", e che è necessario rafforzare gli strumenti di contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata ed economica. L’Anm ha, infine, sottolineato le disfunzioni organizzative e le mancanze di organico anche del personale amministrativo. L’unico punto su cui siamo d’accordo è quest’ultimo: il resto corrisponde, in parte, a un deja vu, e in parte, al desiderio di avere ancora maggiori strumenti d’indagine, di allungare i tempi del procedimento, di semplificare il rito che, tenuto conto dei pareri precedentemente espressi dall’Anm, sembrerebbe evocare qualche taglio delle impugnazioni. Su questi aspetti, sia chiaro, siamo pronti e da sempre a confrontarci in un dibattito non ideologico, ma, in realtà, nel caso sono argomenti riempitivi di un vuoto di idee che vogliono fornire contenuti a una protesta invece autoreferenziale, che nasconde insofferenza per decisioni assunte senza subire pressioni. Tanto per replicare, comunque, diciamo subito che la vera riforma della giustizia passa necessariamente proprio attraverso l’intervento sul Titolo IV della Costituzione e l’ordinamento giudiziario, al fine di dare completa attuazione all’art. 111 Cost. perché senza un giudice strutturalmente terzo le altre riforme perderebbero di significato. L’Anm "rifiuta" di discutere in merito, il che rappresenta un ingiustificabile arroccamento culturale, che non tiene conto della separazione dei poteri, della circostanza che l’ordinamento della magistratura riguarda tutti i cittadini e della necessità, in questa prospettiva, anche di riformare il Csm. L’idea di sospendere i tempi della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è tanto sbagliata quanto improvvida, perché allungherebbe i tempi del procedimento invece che abbreviarli e non considera che le prescrizioni negli ultimi anni sono diminuite di quasi la metà, mentre il 70 per cento delle stesse matura già nella fase delle indagini preliminari. La cura, dunque, sarebbe ancora peggio della malattia! Il tema della prescrizione viene riproposto strumentalmente senza tener conto che per rendere ragionevole la durata del processo bisogna innanzitutto eliminare disfunzioni organizzative, attuare riforme organiche che devono riguardare anche il diritto penale sostanziale e avere un giudice realmente terzo che eserciti un controllo effettivo nella fase delle indagini anche sul momento di iscrizione nel registro degli indagati. Il richiamo al rafforzamento della lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, per come proposto, rivela anch’esso l’intento di sollecitare facili adesioni, perché si tratta di temi che, avulsi da un dibattito serio anche sul fronte delle garanzie, trovano terreno fertile in un’opinione pubblica sensibile al tema della sicurezza. La genericità dei riferimenti alla base della mobilitazione rivela, tuttavia, il vero scopo, e cioè di condizionare la politica per quanto riguarda le decisioni che sembrano assunte in particolar modo rispetto alla responsabilità civile dei magistrati. La delibera proclama, infatti, lo stato di mobilitazione "non escludendo le ulteriori forme di protesta che si rendessero necessarie rispetto a modifiche della responsabilità civile che incidano sulla indipendenza e sulla autonomia della magistratura" e svela le vere ragioni di una protesta tutta sindacale ed esercitata ciecamente. Se l’Anni intende protestare per ferie e responsabilità civile è evidentemente libera di farlo poiché nella sua natura sindacale, ma è bene non confondere la lana (delle rivendicazioni corporative) con la seta (del dibattito sulla giustizia). Vogliamo sperare che il Governo e la politica respingano pressioni totalmente inopportune, che non favoriscono il confronto e il dibattito sulla giustizia e l’evoluzione del Paese verso forme più responsabili di esercizio della giurisdizione. Ha ragione, in questo senso, il ministro Orlando quando rammenta che "la riforma della giustizia è una sfida per tutti e richiama ognuno di noi all’esigenza del cambiamento. Credo che nessuno possa chiamarsi fuori, nessuno può puntare il dito sulle inefficienze altrui, senza avere prima esaminato le proprie". Giustizia: il ministro Guardasigilli al Csm "sulla responsabilità civile vado avanti" di Errico Novi Il Garantista, 11 novembre 2014 A un certo punto il ministro fa una domanda, anzi tre: "L’attuale disciplina della responsabilità civile garantisce la tutela del cittadino? È auspicabile che sia solo lo Stato a risponderne? E questo gioverebbe al prestigio della giustizia e dei giudici?". Si dà pure una risposta: "Credo di no". E poi spiega perché l’attuale normativa va migliorata, sciorina i numeri che spiegano come la Vassalli sia stata una presa in giro, e così via. Nel suo primo intervento davanti al plenum del nuovo Csm il guardasigilli Andrea Orlando sfodera dunque l’arma delle domande retoriche, della persuasione dolce. Ma non arretra. Parla poche ore dopo il preavviso di sciopero notificato dall’Anni, si rivolge a un Consiglio superiore che pare spesso espressione ristretta del sindacato delle toghe. A tale uditorio il Guardasigilli dice chiaro e tondo che non intende rimangiarsi la riforma. E dunque lancia una sfida. Magari piccola, magari timida. Ma agli occhi della magistratura, tenere il punto sulla riforma della responsabilità civile è cosa ai limiti dell’oltraggio. L’occasione è troppo istituzionale perché possa scadere in un suk di rivendicazioni. Così il vicepresidente Giovanni Legnini, un po’ imbarazzato, si limita a dire che è compito ineludibile del Csm tutelare "non già una corporazione" ma "la libertà, l’indipendenza, il prestigio della magistratura, a partire dal delicato tema della responsabilità civile". Come a dire: sfornare pareri che fanno a pezzi la sua legge, caro ministro, per noi è un obbligo. In realtà non sarebbe proprio così. Orlando lo ricorda. Parla con i numeri: "Dall’approvazione della Vassalli (cioè dal 1988, ndr) al 2010 sono state proposte 400 cause per responsabilità civile: ebbene, solo 34 hanno superato il vaglio di ammissibilità, di queste 18 sono state decise e soltanto in 4 casi si è arrivati a una condanna dello Stato. I numeri parlano chiaro: c’è un obiettivo deficit di effettività della tutela dei cittadini. Qualunque analisi dovrebbe partire da questo". A fine plenum i cronisti gli chiedono: ha paura dello sciopero dei magistrati? E lui, con la solita irriducibile flemma: "Ho paura di fare una cattiva riforma". Poi dice chiaro chiaro cosa pensa della questione che più irrita i giudici, la rimozione del filtro di ammissibilità: "Saremo attenti a non ingolfare la macchina. Ma finora il filtro ha prodotto una sostanziale inutilizzabilità dello strumento". Deve difendersi anche da altre insinuazioni. Riassumibili nell’assioma secondo cui la sua riforma è inefficace visto che, per citare Legnini, "mancano risorse e personale". Il ministro Orlando si permette di far notare che "nessuno può puntare il dito sulle inefficienze altrui senza prima aver esaminato le proprie". Altra botta. Non manca un passaggio sul taglio delle ferie, ulteriore molla di un eventuale sciopero delle toghe: "La norma che riduce la sospensione feriale ha assunto rilevanza più per l’enfasi che per la sua sostanza. Nessuno pensa che sia un intervento decisivo". E qui l’allusione pare riferita a Renzi, che avrebbe potuto sbandierare la questione con meno baldanza. Segnali non proprio rassicuranti arrivano dal Guardasigilli a proposito del futuro ddl sul processo penale, con la conferma delle limitazioni alle impugnative in secondo e terzo grado, anche per "evitare le prescrizioni". Se ne parlerà a fine mese. Intanto Orlando riconosce che un’altra urgenza riguarda le carceri, e il "rispetto della dignità umana dei detenuti", che ha ricevuto uno "straordinario stimolo dalla Torreggiani". E qui forse c’è il solo attimo di eccessivo ottimismo che il guardasigilli si concede. Giustizia: Orlando; non temo lo sciopero dei magistrati… ma di fare una cattiva riforma di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2014 Il ministro: governo contro ogni compressione dell’autonomia dei magistrati ma il cittadino va tutelato. "Ho paura di fare una cattiva riforma" risponde il ministro della Giustizia a chi gli chiede se teme lo sciopero minacciato dall’Anm domenica, qualora la riforma della responsabilità civile pregiudicasse l’indipendenza dei magistrati. "Il governo ha detto "no" alla responsabilità diretta del magistrato ma è necessario un intervento affinché il cittadino sia tutelato" spiega Andrea Orlando aggiungendo che il meccanismo va "disegnato con attenzione per evitare che la responsabilità diretta uscita dalla porta rientri dalla finestra". Il guardasigilli esclude "finalità punitive". Il governo "contrasterà qualsiasi ipotesi di compressione" dell’autonomia del magistrato e della sua attività interpretativa, assicura. Quanto alle critiche sull’eliminazione del filtro di ammissibilità delle domande di risarcimento (con un effetto boomerang sul contenzioso), ribatte che il sistema vigente non funziona ma si impegna a trovare soluzioni che "non ingolfino la macchina". Orlando parla davanti al nuovo Consiglio superiore della magistratura, all’indomani dell’affollata assemblea straordinaria dell’Anm che ha denunciato le riforme "inutili e di facciata" del governo, le "mistificazioni" e le "offese" rivolte alla magistratura a cominciare dal premier, l’assenza di condizioni "decorose" di lavoro e di personale (giudici e cancellieri), e che, pur non proclamando lo sciopero, non esclude di utilizzarlo qualora le riforme (in primis quella sulla responsabilità civile) dovessero comprimere l’indipendenza dei magistrati. Il primo incontro Orlando-Csm diventa quindi l’occasione per replicare anche a quelle accuse e rilanciare la "sfida al cambiamento". Che il plenum raccoglie esprimendo un sia pur moderato "ottimismo" (ferme restando alcune critiche). Anzitutto le riforme. Finora, di tutte quelle varate il 29 agosto, in Parlamento sono arrivati solo il decreto sull’arretrato civile (convertito in legge) e la responsabilità civile. Orlando dice: "In poco più di sei mesi abbiamo prodotto la più significativa, almeno per dimensioni, elaborazione normativa degli ultimi decenni" che però ha dovuto fare i conti con "un calendario parlamentare già fitto di scadenze". I testi ancora non ci sono ma il ministro azzarda un pronostico: "La gran parte dei provvedimenti proposti" sarà approvata definitivamente "entro i primi mesi del prossimo anno". Assicura che la delega sul processo civile e il Ddl sulla criminalità economica "saranno incardinati la prossima settimana". Quanto all’auto-riciclaggio, anticipato con un emendamento al Ddl sul rientro dei capitali dall’estero approvato dalla Camera il 15 ottobre - ma di cui il governatore della Banca d’Italia ha di recente sollecitato l’approvazione definitiva - "vi sono tutte le condizioni - ha detto Orlando - affinché questa norma sia tra le prime ad assumere vigenza, tra tutte quelle deliberate dal Consiglio dei ministri, corrispondendo così all’invito di Visco". Il Csm gli chiede di farsi carico anche delle ricadute negative di alcune misure, come quella che ha riportato a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati e che secondo il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani porterà la suprema Corte alla "quasi paralisi" col 30% di scoperture. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha ricordato, tra l’altro, che "le riforme, anche le migliori, non bastano senza un adeguato supporto organizzativo, senza recuperare il grave deficit quantitativo e qualitativo di personale amministrativo determinatosi da anni, senza adeguati e avanzati supporti informatici e tecnologici". Ma Orlando rivendica il grande impegno del suo dicastero proprio sul fronte organizzativo, come dimostra anche lo sblocco delle assunzioni del personale amministrativo: 2.000 nuove unità saranno anche una goccia nell’oceano, ha detto, ma è pur sempre un quarto delle 8.000 scoperture esistenti. Giustizia: terminata prima serie di scioperi, i Giudici di Pace già pronti a nuove proteste 9Colonne, 11 novembre 2014 Terminato lo sciopero dei giudici di pace, iniziato lo scorso 4 novembre, con adesioni a livello nazionale superiori all’80%, ma i giudici di pace sono pronti a proclamare nuovi scioperi. Lo annuncia l’Unione Nazionale dei Giudici di Pace in una nota che informa come già domani verranno riavviate le procedure per la proclamazione di un nuovo sciopero, preventivato per la prima settimana di dicembre. "Avevamo annunciato già a settembre una lunga stagione di scioperi e così sarà fino a quando il Governo non accoglierà le nostre elementari richieste - dichiara il segretario generale Alberto Rossi: trattamento economico e previdenziale congruo e continuità del rapporto, come imposto dalle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e dai principi fondamentali dell’Onu sull’indipendenza della magistratura, anche a tutela della dignità della funzione, che è onoraria solo sulla carta, ma di fatto è continuativa ed a tempo pieno". Sono inoltre previste ulteriori forme di protesta e l’imminente avvio di procedure giudiziarie, anche a livello internazionale, contro il ministero della Giustizia. Giustizia: dalla Svizzera "apertura" sulle estradizioni, riconosciuto impegno per le carceri di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2014 Dalla Svizzera arriva un riconoscimento per gli sforzi compiuti dal legislatore italiano nel rimediare all’emergenza carceri. A differenza di quanto avvenuto nella primavera scorsa con la decisione della Westminster Magistrates Court del 17 marzo 2014, con la quale i giudici inglesi avevano negato l’estradizione di un cittadino italiano a causa delle condizioni dei nostri istituti di pena, il Tribunale penale federale della Confederazione svizzera ha fornito una patente di credibilità alle misure messe in campo in Italia per rimediare al sovraffollamento dei detenuti. Di fronte a una richiesta di estradizione avanzata dall’Italia nei confronti di un cittadino accusato di reati in materia di stupefacenti, i giudici svizzeri fanno i conti con l’opposizione avanzata dalla difesa, calibrata anche sulla rilevanza della sentenza Torre-giani, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione da parte dell’Italia per le condizioni di detenzione. Il Tribunale penale federale, nell’affrontare la questione, prende in esame le principali misure, successive alla sentenza Torreggiani, che si sono occupate del tema carceri. Centrale è il decreto legge 146 del 2013. Con il provvedimento, ricorda la pronuncia, è stato modificato in particolare il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario, il testo unico stupefacenti e il testo unico immigrazione; vengono introdotte più ampie garanzie per i soggetti reclusi nel procedimento di reclamo invia amministrativa e in quello giurisdizionale davanti alla magistratura di sorveglianza, presso la quale è previsto anche un giudizio per assicurare l’osservanza dell’amministrazione penitenziaria alle prescrizioni del giudice. È stato inoltre istituito presso il ministero della Giustizia il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La pronuncia riconosce all’Italia "una provata cultura del diritto" che già la pone in una situazione di preliminare affidabilità quanto a rispetto delle garanzie dei detenuti. È vero che la sentenza Torreggiani ha sottolineato come il sovraffollamento carcerario in Italia ha un carattere strutturale e sistemico, tuttavia sono in esecuzione norme che all’emergenza mettono rimedio e comunque l’impegno dimostrato è di portata tale da non rendere attuale un declassamento dell’Italia a Paese privo di cultura del diritto. Lettere: Sdr a Pagano (Dap) per estendere telefonate via Skype a detenuti con Circolare Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2014 Gentile dott. Pagano, i volontari dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme Onlus", che mi onoro di presiedere, hanno raccolto numerose richieste in Sardegna sulla possibilità per i cittadini privati della libertà di poter svolgere colloqui telefonici visivi (tipo Skype), specialmente in presenza di bimbi in tenera età e/o quando la distanza impedisce ai familiari di poter raggiungere i propri congiunti nelle strutture penitenziarie. Abbiamo pertanto deciso di farci interpreti di un’esigenza che, a nostro avviso, potrebbe risolvere molte problematiche umane e sociali delle famiglie, anche perché, com’è noto, sempre più spesso chi vive la detenzione incontra particolari difficoltà a tenere i contatti con i figli e a vivere consapevolmente la genitorialità. Negli ultimi anni inoltre è aumentato notevolmente negli Istituti Penitenziari sia il numero di stranieri - comunitari e non - sia quello di unioni e/o matrimoni tra residenti in Paesi diversi da quelli della persona in stato di detenzione. La possibilità di accedere a un servizio tipo Skype, opportunamente regolamentato con una semplice Circolare, non comporterebbe alcun onere per l’amministrazione in quanto, così come avviene per le telefonate, sarebbe a carico del richiedente. Costituirebbe però un ulteriore importante segnale nel solco dell’umanizzazione della pena. Permetterebbe infine a molti bambini e ragazzi di vivere in modo meno traumatico l’esperienza detentiva del proprio genitore. È risaputo infatti che soprattutto in età adolescenziale i rapporti genitori-figli diventano sempre più difficili con conseguenze talvolta particolarmente negative. L’opportunità di fruire di un contatto diretto con i genitori, potrebbe agire positivamente anche nel senso di limitare i casi di devianza giovanile. Agirebbe quindi come supporto alla compagna o moglie, sulla quale il più delle volte ricade interamente la responsabilità della famiglia, proprio perché verrebbe tenuto costantemente in atto un rapporto "fisico" con l’intero nucleo familiare. Riteniamo infine che il coinvolgimento visivo possa giovare al reinserimento sociale del condannato, potendo vedere crescere i propri figli e i nipoti, e migliorando la qualità della sua vita con una maggiore espressione di affettività. Campania: condizioni carcerarie inaccettabili, l’On. Caputo scrive al Parlamento Europeo www.interno18.it, 11 novembre 2014 "Il sovraffollamento è il problema principale nelle carceri europee. È necessario fornire sostegno agli Stati membri per migliorare le condizioni delle carceri, anche attraverso opportuni interventi per l’adeguamento delle strutture e lo sviluppo di misure alternative alla detenzione carceraria". È quanto si propone una "dichiarazione scritta" presentata al Parlamento europeo dall’europarlamentare (S&D) Nicola Caputo e sottoscritta da altri parlamentari appartenenti a diversi gruppi: Caterina Chinnici, Paolo De Castro, Miriam Dalli, Michela Giuffrida, Nicola Danti, Isabella De Monte e Cecile Kyenge per S&D, Aldo Patriciello per il Ppe, Eleonora Forenza e Barbara Spinelli per Gue/Ngl. "Un recente rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa - si legge nella dichiarazione - identifica nel sovraffollamento il problema principale nelle carceri europee". "Condizioni carcerarie inaccettabili - spiega Caputo si riscontrano in particolare in Italia Grecia e in Francia. La maggior parte degli Stati membri non rispettano gli standard minimi europei previsti dai regolamenti elaborati dal Consiglio d’Europa". "Sono necessarie azioni immediate per prevenire le conseguenze del grave sovraffollamento carcerario che impedisce anche di fornire un’adeguata assistenza psichiatrica e medica ai detenuti". "La Commissione - conclude la dichiarazione - è chiamata ad esaminare tutte le risorse disponibili per fornire sostegno agli Stati membri per migliorare le condizioni delle carceri, attraverso opportuni interventi per lo sviluppo di misure alternative alla detenzione carceraria, considerata la particolare importanza che l’Ue attribuisce al rispetto dei diritti fondamentali". Velletri (Rm): assistente capo di polizia penitenziaria uccide la moglie e si suicida Comunicato Sappe, 11 novembre 2014 Era stato appena trasferito nel carcere di Velletri dal Nord Italia, dove prestava servizio. Oggi A.G., di circa 40 anni, Assistente Capo di Polizia Penitenziaria, ha ucciso con l’arma d’ordinanza la moglie e si è tolto successivamente la vita. "È una altra terribile e agghiacciante tragedia che coinvolge appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Allo stato non si conoscono ragioni e motivazioni di questo grave fatto di sangue, ma mi limito ad osservare che è il secondo suicidio di un poliziotto in soli tre giorni. Dall’inizio dell’anno, poi, altri casi sono avvenuti 2 volte ad Ariano Irpino e Padova e poi, ancora, a Vibo Valentia, Siena, Volterra, Novara, Roma, Saluzzo. Come può l’Amministrazione Penitenziaria, che è da mesi senza un Capo Dipartimento, assistere inerte a questi gravi fatti, che hanno ormai una cadenza mensile, visto che nulla fa per favorire il benessere dei poliziotti penitenziari?", dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, turbato da quel che è avvenuto in queste ore nella cittadina laziale. Capece torna a sottolineare che "negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 35 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Lo ripetiamo da tempo: bisogna intervenire con soluzioni concrete, con forme di aiuto e sostegno per quei colleghi che sono in difficoltà. Bisogna comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere. Ma il Dap, senza mesi un Capo Dipartimento e da anni incapace di affrontare e risolvere il disagio lavorativo dei Baschi Azzurri, non fa nulla di concreto per favorire il benessere dei nostri poliziotti: neppure fornisce i dati ufficiali sul numero degli agenti suicidi, che raccogliamo noi attraverso i nostri dirigenti sindacali presenti in tutte le sedi d’Italia". Lodi: il Tar sospende la revoca della Mussio, l’ex direttrice può tornare al suo posto di Nicola Palma Il Giorno, 11 novembre 2014 Stefania Mussio, vince il primo round contro il Ministero della Giustizia. Ieri il Tar ha accolto la richiesta di sospensiva cautelare avanzata dall’ex direttrice del carcere di Lodi: fuori dal legalese, il Tribunale amministrativo ha sospeso sia il provvedimento di revoca dell’incarico datato 27 giugno che la successiva nomina della reggente Stefania D’Agostino. Tutto bloccato, in attesa dell’udienza di merito. Dall’ordinanza però pare già delinearsi un preciso orientamento del collegio presieduto da Adriano Leo: "gli atti impugnati, sottolineano i giudici, sono stati assunti da soggetto incompetente, non potendosi ritenere, quale valido atto di ratifica il provvedimento del 2 luglio del direttore generale del personale e della formazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria", per di più in "assenza di qualsivoglia coinvolgimento del destinatario del provvedimento". Come dire: a un primo esame l’allontanamento della Mussio distaccata al penitenziario di opera, sembra illegittimo. Arrivata da Voghera nel 2007, a inizio del 2014 la dirigente era finita nel mirino dei delegati della polizia penitenziaria che lamentavano in particolare il "mancato rispetto delle corrette relazioni sindacali, turni di lavoro troppo pesanti e condizioni igieniche carenti in alcuni reparti dovute anche alla presenza di alcuni cani". Risultato: dichiarazione di stato di agitazione permanente. Seguita a stretto giro da una ispezione disposta dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Qualche mese dopo la decisione del provveditore Aldo Fabozzi: spostamento della Mussio a Opera e arrivo della reggente D’Agostino. "Ho fatto questa scelta nel tentativo di riportare un po’ di tranquillità: da un anno a questa parte e soprattutto negli ultimi mesi, la situazione era degenerata - disse allora Fabbozzi. Penso che anche la dr. Mussio dovrebbe cogliere il lato positivo della vicenda". Invito rispedito al mittente dalla direttrice interessata che ha subito impugnato il provvedimento. E ora lo stop del Tar rischia di creare un vuoto di potere. Sì, perchè stando all’ordinanza la questione verrà affrontata nel merito solamente il 17 dicembre 2015. Cioè tra tredici mesi. Firenze: detenuto dà fuoco alla cella nell’Opg di Montelupo, intossicato un agente www.grnet.it, 11 novembre 2014 "Sabato notte un internato italiano ristretto nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino ha dato fuoco alla sua cella in evidente stato di agitazione psico-motoria. Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari in servizio, uno dei quali - nella concitazione dei tragici momenti - ha subito una intossicazione delle vie respiratorie con una prognosi di 7 giorni". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Sul tema del rinvio della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, il Sappe rileva "Quanta grave superficialità contraddistingua questa grave specificità penitenziaria. È grave che, dopo tutto quello che è stato detto sulla precarietà delle strutture, non si è stati in grado di realizzare le alternative per il superamento degli Opg: questo segna il fallimento delle politiche della giustizia in questo Paese sulla detenzione degli internati. È assurdo che si sia perso così tanto tempo e vi siano ancora tante incertezze sul dove e come saranno successivamente custoditi i malati di mente che sono oggi detenuti nelle varie strutture. E l’Amministrazione Penitenziaria è colpevolmente silente su questo tema e si guarda bene dall’informare i Sindacati anche sul futuro lavorativo dei poliziotti impegnati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma è grave che non essere stati in grado entro il termine previsto dalla legge di sapere dove andranno gli oltre mille responsabili di gravi reati oggi detenuti negli Opg. Se il percorso è lo stesso che, dall’oggi al domani, ha trasferito la sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale siamo preoccupati". E aggiunge: "Lo avevamo previsto: troppo semplice dire "chiudiamo gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". E poi? Quel che serve sono strutture di reclusione con una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno risentito nel tempo dei molti tagli ai loro bilanci. Ma colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria, confermata dall’incapacità di superare davvero gli Opg. Se i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnavano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si fossero fatti carico del loro ruolo istituzionale, avrebbero per tempo messo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria". Il leader del Sappe evidenzia infine "la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti gli internati e i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". Biella: detenuto incendia cella, agente intossicato e ricoverato in ospedale Agi, 11 novembre 2014 Un agente di polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di Biella è in ospedale da questa mattina a causa di un’intossicazione provocata dai fumi nocivi che si sono sviluppati quando un algerino 29enne, detenuto per reati a sfondo sessuale e con ancora nove anni da scontare in carcere, ha dato fuoco alla cella in cui si trovava con un altro detenuto, approfittando del fatto che il compagno si era recato a fare una doccia. Le fiamme hanno distrutto materassi e indumenti e, dopo aver spento l’incendio, l’uomo si è barricato in cella minacciando con olio bollente, bomboletta e accendino, chiunque tentava di avvicinarsi. Milano: inaugurata la "Casa-Laboratorio" per una cultura avanzata della legalità Italpress, 11 novembre 2014 Con incontri, seminari, ricerche e presentazione di libri, un mosaico di attività aperte a tutti, dagli studenti della Facoltà di Scienze politiche della vicina Università Statale ai cittadini che in via Curtatone 12 e nel quartiere abitano da tempo e forse ricordano il vecchio laboratorio artigiano di qualche anno fa. Un tempo utilizzato dalla malavita per il traffico di stupefacenti tra Italia, Messico e Usa e oggi sede di una associazione che aiuta i ragazzi finiti in carcere. Questo diventerà la Casa della Legalità inaugurata, nei giorni scorsi, dalla prima speciale "lezione" tenuta da Don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Con lui Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera e docente di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano, Giuseppe Vaciago, presidente dell’Associazione Suoni Sonori (che gestisce lo spazio di via Curtatone) e l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino. L’evento si è svolto nell’ambito del Terzo Festival dei Beni confiscati alle mafie. Verona: il taglio dei Patronati mette a rischio la presenza del Patronato Acli nelle carceri di Marco Geminiani (Responsabile del Patronato Acli di Verona) Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2014 Vista la volontà del Governo di ridurre pesantemente, tramite la legge di stabilità, il "Fondo Patronati", il Patronato Acli ha deciso di avviare la campagna "Al Patronato ti tuteliamo", mettendo in campo un crescendo di iniziative per contrastare i tagli che si vorrebbero attivare e una raccolta firme per la Petizione "No ai tagli ai Patronati" presente nel sito www.tituteliamo.it. Non si tratta di chiudere degli sportelli ma di sottrarre ai cittadini l’accesso ai diritti sociali; con i tagli non riusciremo più a sostenere il servizio nella Casa circondariale di Verona. Le Acli sono associazioni di promozione sociale create da lavoratori per lavoratori e, attraverso il Patronato Acli ed il finanziamento del fondo Patronati, consentono ai lavoratori stessi, a chi il lavoro lo ha perso ed alle loro famiglie, di fruire gratuitamente dell’assistenza necessaria per accedere alle prestazioni previdenziali e socio-assistenziali del sistema di welfare. In molti pensano che Patronati e Sindacati siano la stessa cosa e che un taglio del finanziamento ai Patronati non sia un danno perché "tanto i Sindacati son pieni di soldi". In realtà i tagli alle risorse dei Patronati, messi nero su bianco nella legge di Stabilità, sono un attacco diretto contro i cittadini. Se venissero confermati, il Patronato Acli, così come tutti gli altri patronati, non potrebbe più garantire i servizi finora offerti gratuitamente. Inoltre il numero di coloro che rischiano di perdere il lavoro si attesta attorno al 70% dell’organico complessivo, ovvero un numero rilevante di persone. Questo si traduce in una chiusura degli sportelli della cittadinanza e dei diritti sociali. Il taglio previsto è una scelta scellerata che colpisce e mette in ginocchio la rete di solidarietà dei Patronati. Questo significa che il Governo lascerà i cittadini completamente disarmati davanti alla burocrazia e soli dinanzi alle istituzioni. L’intero sistema dei Patronati fa risparmiare alla pubblica amministrazione ben 657 milioni di euro ogni anno e permette l’erogazione di servizi gratuiti per tutti. Si tratta di una cifra superiore di oltre 200 milioni rispetto alla somma mediamente destinata ogni anno al "Fondo Patronati". Il taglio di 150 milioni di euro al fondo patronati e la riduzione del 35% dell’aliquota previdenziale destinata ad alimentarlo non costituiscono un risparmio per nessuno. Lo 0,226% dei contributi sociali versati da circa 21 milioni di lavoratori oggi assicura a oltre 50 milioni di persone la possibilità di usufruire dei servizi gratuiti dei patronati. Il taglio programmato dal governo obbligherà dunque i cittadini a pagare i servizi di cui hanno bisogno e allo stesso tempo i Patronati a rivedere l’intera struttura e presenza territoriale. Il Patronato Acli ha pertanto definito un piano di informazione e sensibilizzazione, con la mobilitazione di tutti gli operatori, per informare correttamente i cittadini e i lavoratori della situazione che si potrebbe creare, chiedendo la loro solidarietà nel loro stesso interesse. Le nuove iniziative si vanno a sommare alla "campagna di comunicazione" già avviata, e presente nella pagina facebook: www.facebook.com\patronatoaclivr. Napoli: se i baby-detenuti dell’Ipm di Nisida cucinano per i senzatetto di Antonio Mattone Il Mattino, 11 novembre 2014 Tutto è cominciato con un invito. Lo scorso Natale, dieci ragazzi del carcere minorile di Nisida hanno partecipato al pranzo con i senza fissa dimora della Comunità di Sant’Egidio. Alcuni hanno aderito per curiosità, per altri era l’occasione per uscire dall’istituto ed assaporare qualche ora di libertà. Altri ancora non avevano capito neanche bene di cosa si trattasse. Sono ragazzi difficili quelli di Nisida, tanto spesso segnati da un’infanzia vissuta in contesti familiari e abitativi dove la violenza e la camorra sono il pane quotidiano e dove l’appartenenza a un clan o a un quartiere diventa uno stigma indelebile, da cui è difficilissimo sottrarsi. Una generazione indecifrabile e impermeabile di cui fanno parte anche quei giovanissimi che nei giorni scorsi sono stati protagonisti di brutali aggressioni, colpendo le loro vittime con una ferocia inverosimile per essere commessa da un adolescente. L’incontro con la debolezza di chi ha perso la casa e la dignità è stato per alcuni di quei ragazzi la scoperta di una realtà talvolta solo sfiorata. Una realtà durata il tempo di uno sguardo incrociato casualmente mentre si percorre una strada della città. "È bello fare qualcosa per gli altri" dice Gianni. "Aiutare chi sta in difficoltà ti fa sentire più forte - sostiene Rosario - perché ti fa capire che se dai una mano a qualcuno vuol dire che anche tu ce la puoi fare". Per altri è stata la presa di coscienza che "c’è chi sta peggio di te", e che alla fine i tuoi problemi non sono i più gravi e la tua situazione non è quella più difficile. Un grande sorriso e una grande tenerezza accompagna i racconti dei ragazzi di Nisida. "Mi hanno chiesto chi fossi, ma io non ho detto che sono carcerato", racconta Ciro. Così come quando un ragazzo ha chiesto a un clochard da dove venisse, si è sentito rispondere "da tutte le parti della città". È la delicatezza di due fragilità che con ironia e simpatia sono incappate in una inattesa conversazione. Tuttavia c’è stato chi invece si è chiuso a riccio, affermando che non lo rifarebbe più, come Salvatore. La sofferenza è come uno scandaglio che penetra in profondità non esplorate, davanti a cui tanto spesso mettiamo una barriera di protezione. Succede soprattutto a chi ha subito un grande dolore e non vuole più vedere qualcun altro patire, come è stato per quel ragazzo davanti alla vista di tutta quella gente finita a vivere per strada. Un incontro così straordinario non poteva finire lì. E così l’amicizia dei giovani detenuti di Nisida con i barboni napoletani è continuata in un modo molto concreto e singolare. Da alcuni mesi, infatti ogni venerdì si prepara da mangiare per i senzatetto conosciuti dalla Comunità di Sant’Egidio che gravitano nella zona flegrea. Guidati dall’esperienza di don Peppino, lo chef dell’istituto, hanno cominciato a sfornare manicaretti prelibati: dai panini con le verdure ai primi piatti, fino ai saltimbocca preparati con il forno che hanno a disposizione. I clochard hanno apprezzato e gradito. E dai 40 pasti iniziali oggi a Nisida se ne preparano oltre 100. Anche questa iniziativa, una tra le tante e straordinarie portate avanti con generosità e coraggio dal direttore Gianluca Guida, ha destato un grande entusiasmo tra i giovani detenuti che non pensavano che dal carcere potessero aiutare i poveri. "Nella mia vita ho fatto molte cose cattive - afferma Francesco - mentre faccio l’impasto per i panini, qualcosa di buono la faccio". Questi giovani non sono dei mostri e non nascono con i coltelli in mano. I mostri simboleggiano e rappresentano soltanto la nostra oggettiva incapacità di comprendere. Fermo restando che c’è bisogno di un maggiore controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine e che vadano assicurati alla giustizia gli autori di gravi reati, emerge una grande solitudine che avvolge questa gioventù disagiata. Chi parla ai giovani oggi? Chi li fa appassionare? Chi li responsabilizza? Chi li strappa da destini già segnati? I giovani sono il futuro di Napoli. Non possiamo sottovalutare il loro malessere tra impotenza e silenzi, salvo scandalizzarci quando le loro peggiori azioni sono sotto la luce dei riflettori mediatici. Occorre intervenire prima. Prima che varchino quella soglia dolce e amara dell’isola di Nisida. Opera: il Festival di Teatro Carcere, aperto a un pubblico misto di detenuti e "civili" www.voceditalia.it, 11 novembre 2014 Dal 13 novembre all’11 dicembre le porte del Teatro Stabile in Opera (la sala teatrale da 350 posti della Casa di Reclusione di Milano - Opera) si apriranno nuovamente, per ospitare spettacoli interpretati da attori reclusi o legati a tematiche correlate al mondo delle carceri. Le compagnie si esibiranno nel contesto del Festival "Prova a sollevarti dal suolo". La rassegna, alla sua seconda edizione, è coordinata e promossa dalla Direzione della I Casa di Reclusione Milano - Opera e dall’Associazione Opera Liquida, compagnia teatrale residente presso lo Stabile in Opera, grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, Regione Lombardia e Comune di Milano. Il Festival vuole essere una finestra aperta sul profondo sentire degli esseri umani, nelle sue debolezze e più grandi fragilità, attraverso l’arte teatrale che spazia dall’ironia alla più intima corrispondenza. Opera Liquida, che incontra ogni giorno gli uomini reclusi e agisce, attraverso la prassi teatrale, in assenza di giudizio, vuole con questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’uomo, anche se ristretto. Il festival apre il 13 novembre con lo spettacolo "Anime cosmetiche", riallestimento di uno spettacolo di Opera Liquida del 2010, che parla di crisi economica, amore recluso, paura e colpa. In scena gli attori reclusi di Opera Liquida per la regia di Ivana Trettel. La rassegna prosegue il 27 novembre con "Antigone per Opera" di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, Special guest: Cesar Brie. Lo spettacolo è tratto dalla prima web series italiana ambientata nelle carceri, vincitrice del Premio della critica nel contesto del concorso dell’ultimo Milano Film Festival. Al termine della rappresentazione verrà proiettata La puntata pilota "La banalità del male". Il 4 dicembre è la volta di "Che ne resta di noi?", pièce ispirata al pittore tedesco Josef Albers, portata sul palcoscenico dalla compagnia E.s.t.i.a, di attori detenuti e non della II Casa di Reclusione di Milano - Bollate, con la regia di Michelina Capato Sartore. La rassegna si conclude l’11 dicembre con lo spettacolo "Ma i sogni li ho presi?", prima produzione "esterna" produzione della Compagnia Opera Liquida, scritto e interpretato dall’attore ex detenuto, Roger Mazzaro. Narrazioni Video Civica Milano Scuola di Cinema e Televisione. Anime Cosmetiche parla di crisi economica, di amore "recluso", di paura, di colpa, parla di noi. A partire da una riflessione sulla società contemporanea, la Compagnia Opera Liquida giunge a immaginare un futuro indefinibile, dove per far ripartire il volano dell’economia, ai venditori di un centro commerciale viene imposto un mese di "Solenne dedizione alle vendite" e ai compratori una settimana di "Solenne dedizione agli acquisti". Tutti i reclusi visitano strane botteghe: lo Psicologo a Gettone, dove è possibile sfogare il proprio sconforto più buio; lo Scambiatore di Paure, che permette di portare i propri timori più neri e averne restituiti altri in cambio, più sopportabili; lo Smarritore di oggetti seminuovi, che smarrisce per noi ciò che ancora funziona e che il senso di colpa ci impedisce di sostituire con un nuovo acquisto; il Confessionale Elettronico, che accoglie le colpe e regala assoluzioni, come fossero una raccolta punti. Infine, il Rottamatore di Anime, che riattiva l’acquisto compulsivo quando questo, insieme alla carta di credito, è scaduto. Per partecipare È possibile accedere esclusivamente compilando il form di prenotazione scaricabile sul sito www.operaliquida.it. Il form va completato con i dati anagrafici e con i dati relativi al documento di identità e va inviato, alla mail: prenotazionistabileinopera@gmail.com. L’ingresso è previsto alle ore 20.15 e l’inizio degli spettacoli alle ore 21.00. Le prenotazioni possono essere accolte sino a due giorni prima della data dello spettacolo cui si intenda partecipare. L’ingresso in sala può avvenire sino a 20 minuti prima dell’orario di inizio dello spettacolo. Gli spettatori devono presentarsi 30 minuti prima all’ingresso principale del carcere per la verifica dell’autorizzazione all’entrata, la consegna del documento di identità ed il ritiro del pass per l’ingresso al teatro del carcere. Il biglietto verrà acquistato direttamente a teatro. Il parcheggio dei propri automezzi potrà avvenire nelle aree interne preposte, fino ad esaurimento posti. Ricordiamo che all’ingresso verrà ritirato un documento di identità (carta d’identità, patente, passaporto) ed ogni apparecchio e materiale elettrico e/o elettronico (cuffie, cellulari, palmari, computer, smartphone, tablet, hard disk, chiavette usb, cavi di qualunque natura, batterie, caricabatterie, etc.), e da taglio (compresi prodotti da unghie) che sarà custodito e conservato fino alla riconsegna, all’uscita. Non è possibile portare all’interno del teatro cibi e bevande. Immigrazione: la Corte di Strasburgo vieta alla Svizzera di respingere i rifugiati in Italia di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 11 novembre 2014 Sentenza della Corte per i diritti dell’uomo "salva" una famiglia di profughi afghani. "I richiedenti asilo politico rischiano di restare senza un luogo in cui abitare o di essere alloggiati in strutture insalubri". E una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è un verdetto che condanna la Svizzera ma che al tempo stesso muove pesanti moniti all’Italia. Il 4 novembre scorso i giudici di Strasburgo con il provvedimento 326 del 2014, hanno ordinato allo stato elvetico di non rimandare in Italia una famiglia di afghani (genitori e quattro figli minorenni) arrivata in Europa dopo un’odissea su barconi, camion e treni proprio perché quei profughi, nel caso venissero restituiti all’Italia, rischiano di non avere un’adeguata assistenza umanitaria. Il verdetto suona sicuramente ingeneroso nei confronti di quanti, da Lampedusa e su fino a Milano si occupano quotidianamente di soccorrere i disperati giunti a centinaia di migliaia dalle aree più tribolate del pianeta; ma contemporaneamente si inserisce in una diatriba sempre più accesa tra Roma e Berna. Come è noto, i migranti che approdano sulle coste italiane solo in minima parte scelgono di fermarsi nel nostro paese; quasi tutti decidono di proseguire la fuga fino a paesi del Nord o centro Europa dove possono chiedere asilo politico. La Svizzera è una delle mete e la vicenda di Golajan Tarakhel, di sua moglie Maryam e della loro prole di cui si è occupata la Corte di Strasburgo rientra in pieno in questa casistica. Di più: Tarakhel potrebbe diventare simbolo di una svolta nel trattamento dei migranti in Europa. Approdato in Calabria con la famiglia il 16 luglio 2031 dopo tappe in Pakistan, Iran e Turchia, viene alloggiato a Bari; pochi giorni dopo il gruppo, scappa e cerca di entrare in Austria; tentativo fallito che li induce a provare il passaggio in Svizzera. Qui viene avanzata la richiesta di asilo politico. La risposta delle autorità locali è però negativa e per i migranti, ospitati in un centro di accoglienza di Losanna, si prospetta l’espulsione verso l’Italia. Lo stop arriva grazie al ricorso alla Corte Europea, secondo la quale Tarakhel e i suoi hanno diritto a restare in Svizzera. Motivo? "Tenuto conto della situazione attuale del sistema di accoglienza in Italia - è scritto nella sentenza - non è infondato che i richiedenti asilo corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri o dove si verificano episodi di violenza". Perché non vengano violati i diritti degli individui dei rifugiati, sanciti dal trattato di Dublino, in pratica, la Svizzera dovrebbe accertare che i profughi possano ricevere adeguata assistenza e solo a quel punto procedere all’espulsione. Ma Berna da tempo accusa l’Italia di non controllare a sufficienza le sue frontiere e di favorire la fuga dei migranti oltreconfine. L’ufficio immigrazione elvetico, dal canto suo, ha annunciato che non terrà conto di Strasburgo e che continuerà a rinviare gli immigrati in l’Italia, limitandosi a chiedere garanzie per l’accoglienza dei minori. Sorpreso da alcuni passaggi del verdetto si dice invece in un comunicato Christopher Hein, del Consiglio italiano dei rifugiati (Cir): "È importante comunque che la Corte riconosca che i richiedenti asilo appartengono a una popolazione svantaggiata e vulnerabile. Sappiamo che il sistema di accoglienza in Italia, nonostante i passi avanti degli ultimi mesi, presenta ancora lacune molto gravi. Speriamo che la sentenza dia l’impulso a ulteriori sforzi per l’adeguamento del sistema agli standard europei". Immigrazione: Onu indaga su campi detenzione Australia e trattamento richiedenti asilo Ansa, 11 novembre 2014 Un’udienza di un comitato dell’Onu a Ginevra, che esamina il comportamento dell’Australia come firmataria della convenzione contro la tortura, è stata dominata da preoccupazioni sul trattamento dei richiedenti asilo intercettati nel tentativo di raggiungere l’Australia via mare e rinchiusi in centri di detenzione nelle isole del Pacifico, Manus in Papua Nuova Guinea e nel minuscolo stato insulare di Nauru. Sotto la lente del "Comitato contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e umilianti", anche l’eccessiva presenza di aborigeni nelle carceri e le leggi antiterrorismo da poco introdotte. È la prima volta dal 2008 che il comitato esamina la condotta dell’Australia. Secondo quanto riferiscono i media australiani, il presidente Claudio Grossman, che guida il comitato di 10 esperti indipendenti, ha espresso preoccupazioni per le condizioni dei centri di detenzione nel Pacifico, che sono stati descritti come "inumani" dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati e da Amnesty International. Grossman ha interrogato la delegazione australiana, guidata dall’ambasciatore presso l’Onu John Quinn, anche su informazioni secondo cui l’esame delle domande di asilo richiede almeno 10 mesi a Nauru e due anni a Manus Island. "Questo deve causare un’ansia tremenda e gravi problemi mentali", ha detto. "Non posso immaginare quante persone sono là dentro che non sanno dove sono e quale sarà la loro sorte". Il comitato ha anche chiesto un aggiornamento sulle denunce di abusi sessuali a minori nel centro di detenzione a Nauru. Il suo rapporto dovrebbe essere presentato il 28 novembre. Nuova Zelanda: progetto per rimuovere tatuaggi ai detenuti e facilitarne il reinserimento Asca, 11 novembre 2014 I detenuti in Nuova Zelanda avranno la possibilità di rimuovere i propri tatuaggi, a patto che paghino di tasca propria il servizio offerto a prezzo ridotto. Lo riporta il sito internet della Bbc. Finalizzate a dissuadere il popolo carcerario a delinquere di nuovo, le sedute serviranno a cancellare tatuaggi dal volto, dal collo e dagli arti inferiori a un costo di 30 dollari neozelandesi (circa 25 euro) ciascuna. Sono offerte all’interno del carcere e della casa circondariale femminile di Auckland da un’organizzazione no-profit, secondo cui rimuovere i tatuaggi aiuterà gli ex reclusi a trovare lavorare dopo la scarcerazione. A seconda della grandezza e della complessità del tatuaggio, sono necessarie dalle quattro alle sei sedute per rimuoverlo. Un precedente, analogo progetto era rimasto in vigore fino al 2006, quando venne a galla che un uomo in carcere per aver accoltellato un poliziotto aveva beneficiato della rimozione di un tatuaggio dalla faccia a spese dei contribuenti, per circa 4.500 dollari neozelandesi (più o meno 3.600 euro). In base a quel progetto, i detenuti dovevano essere scortati in una struttura interna per sottoporsi alle sedute; ora invece ne beneficeranno in prigione, a un prezzo decisamente concorrenziale. Nord Corea: per Obama la liberazione dei due cittadini Usa detenuti non allenta tensioni Adnkronos, 11 novembre 2014 La liberazione di Kenneth Bae e Matthew Todd Miller, i due cittadini statunitensi detenuti in Corea del Nord e rilasciati sabato scorso, non riduce in maniera decisiva le tensioni tra i due Paesi. Lo ha affermato il presidente americano Barack Obama da Pechino, dove è arrivato oggi per il vertice Apec dei leader dell’area Asia-Pacifico. Il loro rilascio, ha spiegato Obama, è stato solo un "piccolo gesto" ed il riarmo atomico nordcoreano resta il problema centrale. Washington, ha aggiunto il presidente americano, continua ad essere disposta a riprendere i colloqui sul nucleare con Pyongyang non appena il regime avrà accettato la denuclearizzazione. Gli Stati Uniti ritengono che la Corea del Nord abbia la capacità di costruire una testata nucleare per un missile intercontinentale. I colloqui a sei - cui partecipano, oltre alla Corea del Nord e agli Stati Uniti, anche Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone - per porre fine al programma nucleare nordcoreano sono congelati dal 2009. Mauritania: peggiorano condizione salute detenuto salafita in sciopero della fame Nova, 11 novembre 2014 Sono peggiorate le condizioni di salute di uno dei leader dei detenuti salafiti presenti nel carcere di Nouakchott, in Mauritania. Secondo quanto ha reso noto l’agenzia di stampa mauritana "Ani", il detenuto islamico Ould Yusuf ha subito un peggioramento rapido delle sue condizioni di salute a causa dello sciopero della fame intrapreso per protestare contro le condizioni di vita in carcere per i detenuti islamici. È da circa un anno che va avanti la protesta del leader islamico il quale è stato trasportato in ospedale dopo essere entrato in coma e si teme che la sua morte possa innescare una rivolta carceraria.