I figli hanno diritto a dei rapporti veri con i loro genitori reclusi Il Mattino di Padova, 10 novembre 2014 Menzogne, paure, mezze verità: di questo sono spesso infarciti i rapporti delle persone detenute con i loro figli, e oggi non potrebbe essere diversamente: una telefonata a settimana di dieci minuti, sei ore di colloquio al mese, qualche lettera non permettono di avere un rapporto vero, sincero con i figli, non consentono di cercare di essere onesti con loro. Per questo dalle carceri arriva con sempre più forza la richiesta di una svolta significativa nel modo di concepire i rapporti di chi sta in carcere con la sua famiglia. Alla società chiediamo di non girarsi dall’altra parte, di capire che i figli di chi è stato privato della libertà non possono essere privati del diritto ad avere dei rlegami veri con i propri genitori reclusi. La menzogna è come il crimine, non paga mai Mia figlia: "Quand’è che ritorni a casa?" Rispondo: "Presto! Devi portare ancora pazienza, ok?" "Va bene, però mi devi promettere che una volta tornato a casa non ti allontanerai più da me e che non andrai più a lavorare così distante". Rispondo: "Non te lo prometto… te lo giuro! Sai devo dirti una cosa, è vero che in questi due anni ho lavorato, ma non è vero che la sera sono troppo stanco per tornare a casa, la verità è che sono in una prigione perché il tuo papà ha sbagliato". È così che mi sono espresso durante l’ultimo incontro avuto qualche giorno fa fuori dalla Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore qui a Venezia durante un incontro con gli studenti. Sono in regime di semilibertà da qualche mese, mia madre quando può viene a farmi visita con mia figlia, approfitto di quel poco lasco di tempo che ho per rientrare dal posto di lavoro in carcere, per stare insieme a loro. Queste visite sono brevi, ma io preferisco così. Meglio pochi minuti trascorsi all’aperto in libertà e a bordo di un autobus o di un vaporetto piuttosto che avere colloqui in carcere, all’interno di una sala blindata. Ho trovato il coraggio di dire come stanno veramente le cose. Può sembrare facile dire alla propria figlia di cinque anni la verità, ma non è affatto così; mi sono preparato mentalmente per cercare le parole giuste e adeguate per far capire a mia figlia questa situazione familiare anomala e complessa. Mentre spiego alla piccola che il papà in passato ha sbagliato e che ora sta pagando per gli errori commessi, mia madre con gli occhi fuori dalle orbite mi fa cenno di stare zitto, ma non le ho dato retta perché credo che spetti a me decidere cosa dire e come crescere mia figlia. Ci sono un sacco di domande che la piccola si pone spesso, non le si può rispondere sempre: "Sei troppo piccola per capire, quando sarai grande...". Ho scelto di dire la verità a mia figlia per diversi motivi: l'ho fatto per mettere a tacere la mia coscienza, non sono un bugiardo e non voglio diventarlo proprio ora, specialmente nei confronti della persona per me più cara al mondo. Detesto i bugiardi, forse perché spesso le persone cui tenevo mi hanno mentito e continuano a farlo, mi credono ingenuo o stupido, mi spiace vedere che queste persone non hanno capito a fondo che persona sono realmente. Dove c'è menzogna non c'è spazio per amore, affetto, onestà, fiducia e rispetto. Come potrò pretendere che un domani mia figlia possa fidarsi ed essere sincera nei miei confronti se io per primo mento? Prima o poi la verità viene sempre a galla, prima che qualche mala lingua adulta pronunci la frase "Tuo padre è un galeotto", preferisco essere sincero evitando e prevenendo così eventuali possibili traumi e delusioni future. Nel mio percorso di vita ho commesso molti errori, sono stato l'artefice di molti dei miei fallimenti, ho paura di fallire anche come genitore, non me lo perdonerei mai, per questo ho deciso di impegnarmi al massimo per costruire un rapporto leale e sincero con mia figlia. Marcello, Casa circondariale di Venezia Lettere di circostanza: la corrispondenza epistolare con i tuoi affetti "Ciao papy come stai???". Quasi tutte le lettere che ricevo dai miei figli, dal giorno del mio arresto, iniziano così, con la domanda retorica alla quale altrettanto retoricamente rispondo: "Sì tesoro mio, io sto bene tutto tranquillo e a posto sto solo aspettando". Quando sei qui, in questo mondo parallelo che è il carcere, si cerca di non far trapelare alle persone a te care le tue sofferenze e le umiliazioni che subisci. Cerchi di scrivere che tutto fila liscio, ma immancabilmente traspare dalla lettura completa della lettera il tuo stato di disagio, e poi, se hai la fortuna di avere i colloqui, il palco costruito e la messinscena messa in atto cadono immediatamente dinanzi allo sguardo attento e scrutatore di chi ti conosce bene, poiché solo nel guardarti negli occhi capisce il tuo stato di disagio e di sofferenza. Le 12.30, è il momento della consegna della posta, è il momento più bello e crudele della giornata poiché spero sino all’ultimo di aver ricevuto la missiva tanto attesa e, se l’agente viene davanti alla mia cella per un momento mi dimentico di tutto e quando apro la busta per i controlli di routine mi si apre il cuore, viceversa se l’agente si ferma solo davanti alla cella precedente o vicina alla mia il cuore mi si ferma e cado in una tristezza facile da comprendere da tutte quelle persone che, come me, son qui rinchiuse. Apro la busta, respiro un’aria di casa, di amore, di affetto. Poi mi dedico alla lettura cercando un po’ di privacy, immancabilmente mi isolo da tutto e da tutti. Nello scorrere la lettera spero sempre che non ci siano cattive notizie. Oggi, in un mondo in cui l’inchiostro della penna ha lasciato spazio al più comodo e veloce "messaggino" inviato dal telefonino, ho riscoperto il vero valore della scrittura, poiché dal carcere per poter comunicare coi tuoi cari esiste la possibilità della scrittura epistolare e i pochi minuti di telefonata. Così, aprendo la lettera e leggendola, mi immergo nel mio mondo, dal sapore un po’ antico, ma pieno di ricordi indelebili e affetti sinceri. "Ciao papy come stai?? Siamo preoccupati per te, ti abbiamo visto male l’ultima volta e non possiamo pensare che oltre al dolore della lontananza forzata tu possa vivere in queste condizioni di privazioni e sofferenze, perché è successo tutto questo?? Perché non ti fanno tornare a casa???". E così, mentre scorre la lettura, penso già alle risposte e, in alcuni casi, mi devo ingegnare per poter rispondere qualcosa di credibile, perché io stesso non ho risposte da darmi. La lettera continua: "Sei il miglior papy, il più bravo, il più…, ma sinceramente non riesco a capire il perché delle tue assenze, di quante volte hai promesso di venire a trovarci e poi all’ultimo, per impegni di lavoro improvvisi, sei venuto meno alla promessa data. Ora ti dico una cosa forte, spero tu non t’arrabbi e mi capisca. All’inizio il fatto che tu fossi in prigione mi ha dato la certezza che almeno potevo decidere io quando venire a vederti, sicura di trovarti, e ciò mi ha dato un senso di tranquillità, ma poi il primo giorno che son venuta ho capito che era solo un mio forte egoismo e all’uscita ho pianto pensando a dov'eri e a come soffrivi in silenzio. Tu mi dici sempre che stai bene e che devo avere forza e coraggio che tutto si sistemerà, di aver fiducia nella giustizia. Tutte frasi di circostanza, ma io e mio fratello abbiamo bisogno, ora più che mai, della tua presenza, ma non forzata in quel luogo di sofferenza, ma qui libero e vicino a noi. Promettimi che non mi dirai più le solite cose che tutto va bene ecc... sono cazzate, io voglio sapere la verità sapere veramente come stai. Non son più una bambina, ma un'adulta e come tale mi devi trattare. Sì ho ancora tanto bisogno di te, ma ti voglio vicino a me e sincero, basta bugie, mezze verità, sii te stesso e parla tranquillamente perché noi siamo i tuoi figli e ti saremo sempre e comunque vicini e presenti nel bene e nel male". A queste parole non ci son tante risposte, sono combattuto tra il dire ciò che provo veramente o non dirlo per non far star male chi mi è vicino, e soffre con me per la situazione che sto passando, consapevole del fatto che oltre al dolore della pena che sto scontando, ho trasmesso un dolore enorme a chi mi sta vicino, una pena accessoria ed invisibile ma ben marcata nell’animo, la mia forzata assenza. E così, tra i miei conflitti interni e i miei dubbi, prendo la penna e inizio a rispondere, cercando di camuffare la realtà per non far soffrire di più chi mi sta vicino, sperando che le mie mezze verità non vengano subito scoperte. "Ciao ragazzi qui, nonostante la solitudine e la carcerazione, sto bene. Vi ringrazio per le vostre belle parole e le lettere che mi avete inviato e speriamo che presto la situazione si risolva intanto aspettiamo fiduciosi… spero di rivedervi presto". Sì aspetto fiducioso. Io purtroppo, come tutti gli altri detenuti devo, anzi posso solo aspettare fiducioso che qualcosa accada, non posso fare altro che aspettare e sperare che domani sia un giorno migliore, magari se sono fortunato ricevo una lettera che mi può cambiare la giornata, oppure se sono più fortunato ricevere una visita nei giorni stabiliti per i colloqui e così poter incontrare i miei affetti e abbracciarli vivendo intensamente questo magico momento dell’incontro. Ermanno, Casa circondariale di Venezia Giustizia: "Dei delitti e delle pene" dopo 250 anni di Mario Pirani La Repubblica, 10 novembre 2014 Si celebrano quest’anno i 250 anni dell’opera fondamentale di Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", che capovolse la legislazione giudiziaria dei suoi tempi. Ne segnò, anzi, un vero e proprio rivolgimento che dettava il principio per cui la determinazione di pene e delitti dovesse venir eseguita esclusivamente in base a un codice ben fatto e definito di leggi, nulla dovendosi lasciare all’arbitrio o all’influenza del giudice, che per essere uomo, poteva lasciarsi trascinare o influenzare dai propri istinti. Se abbiamo ricordato questo principio è perché immaginiamo che le celebrazioni di Beccaria diano adito a una serie di proposte, di riforme di legge e altre iniziative, da molti anni prementi invano all’ordine del giorno. Da ultimo la diatriba tra Berlusconi e i suoi avversari ha reso ancor più confusa e ingarbugliata la materia del contendere. Ad accavallare ancor più le cose è l’accedere al dibattito di consessi, associazioni, fondazioni ed altre confraternite che si illustrano per la bontà ma anche per il pluralismo dei loro intenti. Così il nostro approccio è avvenuto in modo piuttosto inconsueto, tramite il Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi che, oltre ad onorarci del suo invito alle molte iniziative di studi e formazione sulla sanità e l’oncologia in particolare, ha creduto opportuno coinvolgerci in altre tematiche, concernenti la riforma del sistema sanzionatorio penale, da lasciare in eredità viva alla prossima legislatura. Tra le personalità di maggior spicco figurano nella ricerca che verrà portata avanti nei prossimi mesi l’avvocato Paola Severino, ex Guardasigilli, il professor Antonio Gullo, la professoressa Cinzia Caporale, presidente del Comitato etico della Fondazione ed altri studiosi. Un decisivo impulso al processo di riforma è venuto dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, condannando l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione medesima, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, ha imposto all’opinione pubblica la revisione drastica dell’attuale sistema penale. Punto di arrivo dovrebbe essere l’abolizione del carcere come pena centrale della punizione. Una siffatta rivoluzionaria misura che metterebbe l’Italia alla pari con i paesi più avanzati, ben oltre l’introduzione di penalità sostitutive, sancirebbe una revisione complessiva dell’attuale sistema penale. "L’idea del diritto penale come extrema ratio di tutela riporta non solo alla necessità che l’arma tagliente della pena sia utilizzata, in ossequio al principio di sussidiarietà, esclusivamente laddove non vi siano alternative parimenti efficaci e meno onerose per l’individuo, ma al contempo, è una idea che dovrebbe permeare la scelta del legislatore nella selezione di quale strumento vada impiegato all’interno dell’arsenale sanzionatorio penale. Non solo dunque il diritto penale, ma ancor prima la stessa reclusione in carcere, e in generale la risposta detentiva, devono rappresentare l’ultima ratio" (P. Severino). Nel 2014 la faticosa approvazione di una legge delega ha aperto alla approvazione del Parlamento la formulazione di una legge che nei suoi criteri e principi è sensibile alla esigenza di ampliamento del catalogo delle pene principali a favore, tutte le volte che il giudizio positivo sul futuro comportamento del condannato lo consenta, di ancora nuove strategie sanzionatorie come pene principali. Comincia, perciò, a delinearsi un sistema che non ha più il carcere come fulcro ma che, per i casi di minore impatto lesivo, prevede una risposta non carceraria e che anche per i reati più gravi contempla la possibilità di evitare l’ingresso della persona in carcere. Rimarrà centrale, in sede di esecuzione della pena, la figura del giudice di sorveglianza, con una sempre maggiore specializzazione, nonché un possibile rafforzamento anche sotto il profilo organizzativo. In un paese per tanti versi arretrato che pur tuttavia vanta un numero relativamente basso (60 mila) di carcerati, un salto di questo genere rappresenterebbe un passaggio qualitativo dello sviluppo civile. Nel frattempo nominare un direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), misura che ritarda ormai da mesi, costituirebbe un passo più che doveroso. Giustizia: i magistrati evitano lo sciopero immediato, ma avvertono Renzi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 novembre 2014 "Mobilitazione immediata", senza escludere "ulteriori forme di protesta" in caso di "modifiche della responsabilità civile". È l’avvertimento dell’Associazione nazionale magistrati al governo. Lo sciopero può aspettare, ma un confronto con il governo e l’interlocuzione diretta con i cittadini no. Tuttavia, oltre allo "stato di mobilitazione" immediato, non sono escluse "ulteriori forme di protesta che si rendessero necessarie rispetto a modifiche della responsabilità civile che incidano sulla indipendenza e sulla autonomia della magistratura". Che potranno comportare l’astensione dal lavoro, oppure il rispetto rigoroso di orari e regole: il cosiddetto "sciopero bianco". L’assemblea straordinaria dell’Associazione nazionale magistrati, convocata per discutere una riforma della giustizia (in gran parte solo annunciata) considerata "di scarsa o pessima qualità", si conclude con un documento che indice una "giornata per la giustizia", fissata al prossimo 17 gennaio, in cui si apriranno "i tribunali alla cittadinanza per momenti pubblici di riflessione e confronto, con lo scopo di diffondere la corretta informazione sull’attività giudiziaria e sensibilizzare sulle condizioni in cui essa è svolta". È l’atto finale di una giornata in cui sono emerse unità di analisi e divisioni, anche profonde, sul modo più efficace di reagire. Gli oltre 1.700 voti a favore della mozione presentata dai gruppi di centro e di sinistra dell’Anm (Unità per la costituzione e Area) che guidano l’Associazione rappresentano una maggioranza molto ampia che consente di "assorbire" le spinte a scelte più radicali provenienti dalla destra di Magistratura indipendente (dove però l’area che contesta il leader- sottosegretario Cosimo Ferri ha votato con la maggioranza) e dai cartelli che si definiscono autonomi. "A quanti sono rivestiti di responsabilità istituzionali", quindi in primo luogo al premier Renzi, i giudici chiedono "lealtà e rispetto verso la giurisdizione e verso la magistratura", insieme a un "incontro urgente con il governo per essere effettivamente ascoltati, presentare le proprie proposte, avere serie e concrete risposte". Tutto ciò nel tentativo di contrastare un dibattito sulla giustizia "superficiale, intriso di propaganda, pregiudizi e luoghi comuni". In linea con quanto annunciato in apertura dal presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli: "Non vogliamo privilegi, bensì strutture adeguate e condizioni di lavoro dignitose, norme chiare, efficaci e funzionali; non per noi ma per coloro ai quali e in nome dei quali rendiamo giustizia". Giustizia: sulla responsabilità civile toghe in guerra "sciopero se si lede indipendenza…" di Liana Milella La Repubblica, 10 novembre 2014 Non scioperano sul taglio delle ferie "perché sarebbe un autogol, la gente non capirebbe e sarebbe contro di noi". Ma sulla riforma della responsabilità civile non esitano. Se il testo resta quello del governo o peggiora, sarà sciopero perché, come dicono tanti dei 400 magistrati che si ritrovano nell’aula magna del palazzaccio, "è una misura che lede la nostra autonomia e indipendenza". La maggioranza (1.718 voti per via delle deleghe) batte la minoranza (230). Nel primo gruppo c’è la sinistra (Area), il centro (Unicost), ma pure una parte della destra (Mi). Nel secondo i movimentisti di Proposta B e, ironia del caso, il gruppo dei "ferriani" di Mi, quelli che per anni hanno avuto come riferimento il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, quando era il loro più votato segretario. Sciopero bianco subito perché "il taglio delle ferie senza contraddittorio è un vulnus" (Antonio Racanelli, Mi). Il nome di Renzi non risuona mai. Semmai si parla di governo. Ma sono per lui gli strali più duri, "dibattito pubblico superficiale, intriso di propaganda, di pregiudizi, di luoghi comuni, accuse infondate e ingiuriose d’inefficienza e irresponsabilità". Poi gli "slogan propagandistici", tipo "chi sbaglia paghi" di renziana memoria. "Manteniamo la schiena diritta con l’orgoglio d’essere magistrati" dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli quando apre l’assemblea. Seguono più di 30 interventi. Non si sottrae Henry John Woodcock, il pm di inchieste famose che sembra spiazzare i colleghi. "Le ferie? Un falso problema. Sono favorevole a ridurle purché facciano una riforma globale con auto-riciclaggio, falso in bilancio e prescrizione". Bacchetta sulla responsabilità: "Nessun magistrato dovrà mai rispondere per il solo fatto d’aver svolto indagini, come nessun indagato potrà strumentalmente creare presupposti affinché il processo finisca ad altro giudice". Questa è la paura. Che il Guardasigilli Andrea Orlando tenta di esorcizzare perché "non è un attacco all’indipendenza dei magistrati bensì un intervento a tutela dei cittadini". Più duro il vice ministro Enrico Costa per cui "lo sciopero sarebbe stato uno strappo difficile da ricucire". Ma le certezze delle toghe sono altre. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, pm a Roma: "È sbagliato dire che l’unico problema della giustizia sono i magistrati. Non bisogna cadere nelle provocazioni, stipendi ridotti, età pensionabile tagliata, ferie accorciate, ma tenere i nervi saldi". Giovanni Diotallevi, Cassazione: "Il magistrato, anche se fa il suo lavoro, scontenta sempre qualcuno. Lo sciopero? Ce lo teniamo se toccano la responsabilità". Fabrizio Vanorio, pm a Napoli: "Abbiamo vissuto una stagione difficile di attacchi all’assetto costituzionale della magistratura, ma la gente scendeva in piazza al nostro fianco. Ci offende non il taglio delle ferie ma il modo in cui veniamo dipinti". Ezia Maccora, gip a Bergamo: "A Orlando farei una domanda: perché Grasso ha presentato un ddl che non ha camminato? Dove sono i ddl del governo? Passa il decreto sul civile che toglierà solo il 3% dell’arretrato. L’Anm deve incalzare il governo con domande puntuali". Mario Fresa, Cassazione: "Ci sono processi sulla P3 e P4, ma già lavorano P5 e P6. La nuova responsabilità porterà a un conformismo diffuso. Le riforme sono demagogiche, populiste, ingannatrici. Si cancellino la Cirielli e le altre leggi ad personam". Carlo Fucci: "Questa mi sembra la storia del film "Le parole che non ti ho detto". Allora diciamo subito "sciopero". Giustizia: "Lo sciopero? Ma via, Renzi non aspetta altro. Specie se lo facciamo sulle ferie" di Silvia Barocci Il Messaggero, 10 novembre 2014 Ragionava così uno dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati mentre alla spicciolata circa 400 toghe (per un totale di 2.071 partecipanti tra presenti e delegati) cercavano posto nell’aula magna della Cassazione. Assemblea straordinaria affollata al Palazzaccio, come non se ne vedevano dal 2006, anno dell’ultimo dei quattro scioperi contro le riforme Berlusconi. Ma ora che al governo c’è il segretario del Pd Renzi è difficile decidere il da farsi. Non sono in pochi ad invocare lo sciopero subito, classico o bianco che sia: lo fanno l’"indipendente" Carlo Fucci, Andrea Reale di "proposta B" e Angelantonio Racanelli, ex togato del Csm di quell’ala di Magistratura indipendente - oramai spaccata - il cui punto di riferimento sembra restare l’attuale sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. La soluzione arriva dopo cinque ore di dibattito: nessuno sciopero nell’immediato ma, se le nuove norme sulla responsabilità civile all’esame del Parlamento dovessero mettere a rischio l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, allora "non si escludono ulteriori forme di protesta". Tra le quali, appunto, lo sciopero. A passare, con 1718 voti contro i 230 della mozione più oltranzista, è stata la linea delle correnti maggioritarie di Unicost e di Area, che ha ottenuto anche i voti della corrente non ferriana di Mi. È la linea del presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli: "non chiediamo privilegi" e "rifiutiamo la via delle polemiche e della chiusura corporativa" ma non accettiamo "le offese" degli slogan, che fanno equivalere il taglio delle ferie ai magistrati al recupero di efficienza della giustizia, mentre sulla responsabilità civile "stiamo assistendo a emendamenti e proposte veramente pericolose". Appresa la notizia di uno sciopero non immediato, ma che resta in canna per sparare contro la responsabilità civile, il Guardasigilli Andrea Orlando ribatte: "La modifica della legge Vassalli non è un attacco all’indipendenza dei magistrati, bensì un intervento a tutela dei cittadini". Il tema sarà senz’altro al centro della primo incontro di oggi del ministro col nuovo Csm guidato da Giovanni Legnini. L’eliminazione del filtro ai ricorsi resta la nota dolente nel rapporto tra magistrati e governo. Orlando può disinnescare con un decreto legge la mina dell’emendamento approvato in commissione Giustizia al Senato, secondo cui è colpa grave anche "l’emissione di un provvedimento cautelare fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza specifica o adeguata motivazione", ma sul filtro non sembra che il governo sia intenzionato a fare passi indietro. In Cassazione l’Anm fa scorrere le "sue" slide per chiedere: a quando le vere riforme su falso in bilancio e prescrizione? Le misure del governo sono definite "populiste e demagogiche" dice Mario Fresa, consigliere di Cassazione. Sta passando "il messaggio di Renzi sul lavoro e cioè che si può fare a meno dei giudici", aggiunge Giuseppe Cascini, pm a Roma. Al governo si chiede un incontro urgente. L’11 dicembre assemblee in tutti i distretti giudiziari e il 17 gennaio una "giornata della giustizia" con le porte dei tribunali aperte ai cittadini. Basterà a invertire la rotta? Affondo di Fi: "Ora una legge per i magistrati in politica" "Il Parlamento non legifera sul delicato tema dell’ingresso in politica dei magistrati e sul loro rientro in carriera". Forza Italia torna all’attacco e prende spunto dalle parole del presidente dell’Anm Sabelli che di recente ha sollevato il problema. Il presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma. "Il disegno di legge, approvato quasi all’unanimità dal Senato nel marzo scorso - spiega - è ancora pendente davanti alle Commissioni riunite prima e seconda della Camera". Lo dice ). "Credo - prosegue Nitto Palma - che il problema debba essere risolto in breve tempo, anche perché il suo persistere, ben al di là delle singole posizioni personali, inevitabilmente alimenta le tensioni e le polemiche che tuttora caratterizzano il rapporto tra magistratura e politica". Il deputato di Forza Italia e presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Francesco Paolo Sisto, in una nota raccoglie l’invito di Nitto Palma ad accelerare l’iter del provvedimento. "Se la volontà di regolamentare dignitosamente tale difficile capitolo della nostra democrazia è reale- dice Sisto - ritengo sia possibile, oltre che doveroso, raggiungere l’obiettivo al di là di ogni complicanza, codificata e non. Non resta perciò che invitare la presidente Boldrini - conclude Sisto - a fissare perentoriamente la data per la discussione in Aula: è accaduto e accade per tanti altri provvedimenti, è indispensabile che accada anche per questo". Giustizia: presentate mozioni ad assemblea Anm, c’è anche proposta sciopero Adnkronos, 10 novembre 2014 Ma l’orientamento della maggioranza non sembra andare in questa direzione. C’è anche una proposta di sciopero tra le mozioni presentate all’assemblea generale dell’Associazione nazionale magistrati, riunita a Roma. Anche se non sembra una soluzione destinata a prevalere. A chiedere esplicitamente il ricorso all’astensione la mozione presentata dall’indipendente Carlo Fucci, che si riferisce in particolare alla riforma della responsabilità civile dei magistrati, definita "pericolosa". La proposta del governo, sostiene Fucci, ha "evidenti finalità afflittive" e "mette in campo un sistema che condiziona i magistrati". Per questo, a fronte di una "minaccia per l’esercizio delle funzioni", la proposta è quella della "previsione di un’azione di protesta individuabile solo con la proclamazione di uno sciopero generale". Più sfumata e meno radicale, anche se molto critica, la posizione di Magistratura indipendente, illustrata dall’ex presidente Stefano Schirò e da un altro esponente della corrente, Pasquale Grosso che, in caso di chiusura totale di governo e parlamento ha invitato la magistratura a "cessare le funzioni di supplenza", una sorta di sciopero bianco e mettere in campo "forme progressive di reazione". Schirò, che ha denunciato il "nuovo tentativo in atto di delegittimazione dei magistrati", ha invitato l’Anm ad "aprire una stagione di vertenze per l’adozione di misure che consentano ai magistrati di affrontare le disfunzioni del sistema", attraverso " tavoli con il governo e il Csm" e introdurre una sorta di "moratoria" per avere "risposte in tempi brevi e certi". Posizione ugualmente critica ma più dialogante e propositiva è stata espressa in una mozione presentata da Silvana Sica (Unicost) a nome di 6 giunte distrettuali, quelle di Bari, Catania, Palermo, Napoli, Torino e Trento, e che ricalca le posizioni di Unicost e Area, le correnti che costituiscono la maggioranza nella giunta dell’Anm. Il governo, denuncia la mozione, "non ha adottato alcuna seria riforma" e "il dibattito pubblico è intriso di propaganda". Da qui la richiesta di "ristabilire la verità" e che arrivino "riforme reali", e la proposta "di un incontro urgente col governo, di tenere assemblee distrettuali pubbliche, di proclamare una Giornata della giustizia, con tribunali aperti ai cittadini per trasmettere una corretta informazione, e di pubblicare sui giornali a tiratura nazionale i dati reali sulla produttività dei magistrati e sul funzionamento del sistema". Sabelli: non privilegi ma riforme vere "Non vogliamo privilegi e respingiamo le offese" ma "chiediamo condizioni di lavoro decorose", "norme efficaci e chiare" e "investimenti", tutti interventi che siano "funzionali a una giustizia moderna e al passo coi tempi". Lo ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nel suo intervento di apertura dell’assemblea generale straordinaria, seguito da un lungo applauso. La magistratura italiana, ha sottolineato Sabelli, "ha sempre dimostrato maturità, senso di responsabilità, forte condivisione etica. Vogliamo discutere del nostro ruolo perché sappiamo che è presidio della dignità della nostra funzione" senza rinunciare "alla difesa del nostro stato giuridico" che "è scudo a indipendenza e autonomia". La giurisdizione "non pare godere di buona salute. È una questione di riforme alla cui scarsa o pessima qualità si aggiungono l’assenza di un progetto organico e leggi promosse da ragioni di contrasto politico o da casi di cronaca", ha lamentato Sabelli, e questo si accompagna a "un dibattito pubblico superficiale, intriso di pregiudizi e luoghi comuni, in un fastidio evidente per il controllo di legalità". I magistrati dunque, ha concluso il presidente Anm, "difendono con intransigenza il proprio decoro, la propria funzione e quei valori costituzionali sui quali hanno giurato e dinanzi ai quali manterranno la schiena dritta, per conservare l’orgoglio di essere magistrati". Giustizia: Operazione "Farfalla", martedì audizione con ex Capo ufficio ispettivo Dap Adnkronos, 10 novembre 2014 L’indagine del Copasir va avanti, con l’obiettivo di non lasciare spazio a dubbi sul coinvolgimento dell’intelligence in merito alle presunte operazioni "Farfalla" e "Rientro" che in passato avrebbero portato agenti del Sisde, in accordo col Dap, ad avere accesso ad alcuni detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Martedì, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, presieduto da Giacomo Stucchi, alle 12,30 ha in agenda lavori l’esame degli schemi di regolamento Aise. Alle 16,30, invece, è in programma l’audizione del magistrato Salvatore Leopardi, all’epoca capo dell’ufficio ispettivo del Dap. Mercoledì 12, alle 10, nell’aula del VI piano di palazzo San Macuto è in programma l’audizione del procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, Luigi Ciampoli, e alle 14,30 quella del colonnello del Ros, Felice Ierfone. Giovedì 13, alle 10, toccherà invece al colonnello Mauro Obinu. Tranne Ciampoli, tutte le audizioni riguardano l’approfondimento deciso dal Copasir l’8 ottobre scorso sulle presunte operazioni "Farfalla" e "Rientro". Si conta di chiudere il ciclo delle audizioni con il ritorno a palazzo San Macuto di Marco Minniti, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Poi la parola passerà al vice presidente del Copasir, Giuseppe Esposito, relatore dell’indagine. Il Comitato parlamentare traccerà quindi una relazione che sarà inviata ai presidenti di Camera e Senato. Giustizia: al via processo per irregolarità nella gestione del Centro Amministrativo Dap Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 10 novembre 2014 Silenzi colpevoli, favori omertosi, dirigenti potenti convinti di restare impuniti. Come Claudia Greco - la donna che per oltre trent’anni ha prestato servizio presso il Centro Amministrativo G. Altavista (il polo amministrativo-contabile del Dap), di cui circa un ventennio come direttrice - ora indagata per associazione a delinquere e turbativa d’asta. Adesso, però, tutti i nodi stanno venendo al pettine e la ormai rinominata “banda del bianchetto” è stata smascherata. Le malefatte, (fra cui - appunto - le correzioni con il bianchetto sui documenti ufficiali del Dap) tenute nascoste in ogni modo tra l’omertà generale, sono finalmente diventate pubbliche. Giovedì 13 novembre, infatti, si concluderà la fase dell’udienza preliminare. Dopodiché, con ogni probabilità, partirà il processo. Si può dire che il vaso di Pandora si sia scoperchiato e, difficilmente ora potrà essere richiuso. Intanto, emergono nuovi elementi che infangherebbero, o meglio incastrerebbero inequivocabilmente, Claudia Greco e i suoi fedelissimi collaboratori. La perquisizione nel Centro G. Altavista del 2011, fortemente voluta dall’allora ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, nel corso della quale vennero trovati, fra gli altri, anche documenti relativi alle gare d’appalto indette dal Dap manomessi con il bianchetto, non è la sola ragione di scandalo. La signora Greco, infatti, per 21 anni ha avuto autisti-maggiordomi a sua completa disposizione, che ogni mattina la venivano, gentilmente, a prendere a casa, in via dello Scalo di San Lorenzo e la accompagnavano ovunque. Tutto questo con le due auto, pubbliche (o “blu”, a seconda delle preferenze) messe a disposizione della Direzione del polo amministrativo del Dap per servizi interni al Dipartimento. E che certamente non erano finalizzate al comodo trasporto della signora Greco che, però, le ha usate a suo piacimento. Una macchina, assegnata ad un ufficio, usata come un mezzo personale per 21 anni. Un comportamento che ricorda molto da vicino quello del generale Enrico Ragosa, ex direttore generale risorse materiali, beni e servizi del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, iscritto nel registro degli indagati per peculato, truffa e abuso d’ufficio. Avrebbe usato le risorse del Dap, gestite insieme con i dipendenti del centro Giuseppe Altavista (diretto dalla Greco), come fossero le proprie. E pensare che alcuni magistrati (categoria non propriamente “vittima” dalla Giustizia) sono stati rinviati a giudizio per molto meno, magari solo per aver fatto salire sull’auto di servizio la propria moglie. Greco-Ragosa, dunque, un binomio perfetto. Due dirigenti che per anni hanno fatto i comodi loro: utilizzo dei mezzi, rifornimenti di carburante gratuiti, impiego del personale per interessi propri. Soldi che sarebbero dovuti e potuti servire per cercare di migliorare la situazione nelle carceri, che invece sono sempre più fatiscenti. Nulla da fare, d’altronde, chi sta dentro se la passa male e chi sta fuori, ai vertici, ne approfitta. Proprio perché dentro pensa di non finirci mai. Le domande, a questo punto, sorgono spontanee. I vertici del Dap sapevano? E qualcuno sapeva che l’autista (maggiordomo) di fiducia della signora Greco, l’assistente capo della polizia penitenziaria Massimiliano Evangelista, si recava spessissimo a Piazzale Dunant, (presso la sede del Cra, Centro Riparazioni Auto di Ascoli Leonardo)? Che, oltre a gestire tutta la manutenzione delle macchine del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha beneficiato di quelle “famose” cancellature con le quali sono stati truccati gli appalti? E per quale motivo si recava proprio li così frequentemente? Misteri che, adesso che alcuni di quegli stessi dirigenti (tra cui appunto la Greco) sono in pensione, tutti vogliono scoprire. Sicuramente però, chi davvero merita una spiegazione, quantomeno plausibile, sono quei detenuti costretti ogni giorno a vivere in condizioni vergognose. Nemmeno tutelate da quelle persone che, solamente in teoria, dovrebbero avere a cuore le loro sorti. Giustizia: caso Cucchi, i periti dei pm… ben pagati e condizionabili di Astolfo Di Amato Il Garantista, 10 novembre 2014 La famiglia Cucchi ha presentato un esposto contro il consulente della Procura di Roma, il professor Paolo Arbarello. Il Tribunale di Roma ha condannato, accanto a Luigi de Magistris, il suo consulente informatico nel procedimento Why Not, Gioacchino Genchi. Due vicende, del tutto diverse, che vedono al centro di una indagine il consulente del pubblico ministero. È una buona notizia! Ovviamente questa valutazione non si riferisce a queste due specifiche persone, che vedranno concludersi in un modo o nell’altro i loro procedimenti, rispetto ai quali chi scrive non ha gli elementi per formulare un giudizio. La buona notizia sta nel fatto che, finalmente, ci si rende conto del ruolo centrale, nell’orientamento dell’esito di un processo penale, che hanno di regola i consulenti del pubblico ministero. Per capire cosa realmente accade, è utile ricordare che quando nel processo vi sono delle questioni tecniche le parti, tutte, hanno il diritto di farsi assistere da un consulente tecnico. Il consulente del pubblico ministero interviene già durante le indagini e, con le sue indicazioni, ne condiziona l’esito. Partecipa poi al dibattimento dando conto al Giudice dei suoi convincimenti tecnici. Il consulente della difesa comincia, di regola, ad operare quando le indagini si sono concluse e gli atti sono depositati. Osserva il lavoro dei consulenti del pubblico ministero e formula le sue osservazioni. Anch’egli è ascoltato dal giudice, prima di decidere. Lo stesso accade per la parte civile. E Il giudice? È considerato dall’ordinamento come il perito dei periti. Attraverso una evidente finzione è considerato in condizione di dare un giudizio tecnico su ogni materia. Non è perciò obbligato a munirsi di un proprio consulente, che, in una posizione di terzietà derivante dall’autorità che lo nomina, esprima un giudizio non di parte sugli aspetti tecnici della vicenda. E difatti, a differenza di quanto avviene nel giudizio civile, il giudice penale di regola non lo nomina. Ascolta i consulenti delle parti e sulla base della sua onniscienza sceglie la tesi che ritiene più corretta. Quale? Di regola quella del consulente del pubblico ministero. Il giudizio di quest’ultimo, perciò, finisce con il condizionare non solo le indagini, ma anche l’esito del giudizio. In molti processi, e così ad esempio sembra sia stato nel processo relativo alla morte del povero Cucchi, è il giudizio del consulente del pubblico ministero a decretare l’esito del procedimento. Sarà per la colleganza tra giudice e rappresentante dell’accusa, che rende automaticamente affidabile il collaboratore di quest’ultimo, sarà per gli interessi pubblici di cui la pubblica accusa si pone come portatrice, fatto sta che i consulenti della difesa e delle parti civili sono spesso delle mere comparse. Se il ruolo del consulente del pubblico ministero è così decisivo quando entrano in gioco saperi che non appartengono ai giuristi, quel mondo, e cioè il mondo dei consulenti del pubblico ministero, andrebbe guardati con più attenzione. Si scoprirebbe, allora, che le consulenze della Procura sono incarichi redditizi ed ambiti; che non hanno molte prospettive di reiterazione degli incarichi quei consulenti che non piegano le loro valutazioni alle intuizioni dell’accusa; che vi sono, viceversa, consulenti i quali hanno un rapporto di collaborazione esclusivo, cosicché la loro vita professionale finisce con il dipendere totalmente dalla reiterazione di tale rapporto. Ed è così che capita di vedere sentenze basate su consulenze irrispettose dei più elementari principi della branca del sapere di cui dovrebbero essere espressione, la cui credibilità proviene esclusivamente dalla circostanza che sono l’elaborato del consulente del pubblico ministero". Lettere: morti che testimoniano di Gemma Brandi (Direttore Salute Mentali Adulti Firenze 1-4 e IIPP) Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2014 Ho scritto già molte volte a Ristretti Orizzonti per non lasciare che scivoli via una notizia importante come la morte per auto soppressione di un agente di Polizia Penitenziaria. L’ho fatto senza pretendere di indicare dei colpevoli presunti, ma per provocare una riflessione diversa da quella che si suppone sia portata avanti in un qualche dove della Repubblica Italiana a fronte della diminuzione percentuale dei suicidi dei reclusi, pure in carceri invivibili e non solo per sovraffollamento, e della crescita parallela dei gesti autolesivi estremi dei poliziotti. Torno a proporre oggi il mio punto di vista. Di nuovo si è ucciso un assistente, capo stavolta, in quell’età che muove tra trentacinque e cinquant’anni. Vorrei che questo aspetto epidemiologico non andasse trascurato, perché non coerente con la diffusione del suicidio nella popolazione che non abita, né lavora nei penitenziari. Vorrei chiedere ai rappresentanti sindacali se non sia vero che, quasi sempre, sia questa la categoria colpita dalla disgrazia, che dunque testimonia di qualcosa cui non si è ritenuto importante dare un nome. Prima di generalizzare o piegare un dato alle proprie ipotesi, occorre partire dalla realtà specifica; occorre adeguarsi all’esame di realtà per affrontare davvero un problema. Perché tanta sofferenza si annida nel cuore e nella mente di assistenti e assistenti capo della Polizia Penitenziaria dell’età indicata? Forse se cominciassimo a interrogarci reciprocamente sul problema e a mostrare una attenzione per la fascia anagrafica e occupazionale indicata, potremmo trovare una via di uscita. E invece si continuano a evocare soluzioni miracolistiche e non realistiche come l’attivazione di centri di ascolto intra moenia dai quali, a mio avviso, le persone riguardate dalla innominata difficoltà si terrebbero bene alla larga. Gli operatori del carcere sono cittadini a tutti gli effetti, che possono quindi fruire della stessa assistenza garantita oggi anche al cittadino recluso, là dove si trova. L’operatore ha la libertà di uscire dal posto di lavoro e recarsi all’esterno per trovare accoglienza e cure, con la riservatezza di cui difficilmente godrebbe tra le mura della prigione. Quindi smettiamo di reclamare sportelli dedicati dentro i reclusori, anche se a dare questo suggerimento fossero illustri esperti che però di carcere non sanno niente, e componiamo un pensiero sull’argomento che ci sta a cuore. Lo sfascio istituzionale che mina i luoghi di pena, ormai da qualche anno, anticipa lo sfascio dell’intero sistema pubblico, se non si saprà trarre una lezione da quanto accade nei reclusori del Paese. Ho la presunzione di ritenere che le morti di questi uomini testimonino di tale sfascio. Gradirei non poco che il mio punto di vista ne incontrasse altri e che l’amalgama delle diverse prospettive di chi conosce il sistema penitenziario ci aiutasse ad aiutare compagni di cordata che gettano la spugna in maniera clamorosa quanto inavvertita Lettere: la grigia miopia della giustizia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 10 novembre 2014 L’opinione pubblica è sconcertata. Aspri conflitti nelle Procure di Milano e Roma. Condanne seguite da assoluzioni e poi da nuove condanne. Giudici del lavoro che condannano uffici pubblici per aver adottato provvedimenti disciplinari nei confronti di dipendenti che si assentavano dal lavoro. Altri giudici del lavoro che ordinano la reintegrazione di vigili del fuoco rapinatori e di "ubriachi fissi". Giudici che vogliono giudicare la storia. Infine, e soprattutto, una macchina che lascia la crescente domanda di giustizia insoddisfatta. Le cause iscritte, rapportate agli abitanti, si sono quintuplicate negli ultimi anni. In base alle ultime statistiche Istat disponibili, sono pendenti quasi cinque milioni di cause civili in primo grado, e altrettante cause penali. La durata media dei processi è tra le più alte in Europa. In media, nelle corti americane, è necessario non più di un anno per esaurire tutti e tre i gradi di giudizio. In Italia ne servono otto. Per questo, l’Italia è continuamente sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la fiducia degli italiani nell’affidabilità del ricorso alla giustizia è nettamente inferiore alla media europea, la maggioranza degli italiani è convinta che i giudici non siano imparziali, molte multinazionali americane sono restie a investire in Italia. Questa situazione ha conseguenze sull’intero sistema istituzionale e sui rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, le norme diventano realtà con l’intervento dei giudici, che sono l’anello che chiude la catena del sistema giuridico. Sono le corti che debbono assicurare, in ultima istanza, il rispetto del diritto. Ma giustizia ritardata è giustizia negata. Dal che conseguono l’impunità, la fuga dalla giustizia e l’adattamento all’illegalità (il condominio rinuncia a portare in giudizio il condomino moroso, se sa che occorreranno anni per ottenere giustizia). Insomma, l’insufficienza grave dell’intera macchina giudiziaria produce effetti che si ripercuotono sull’intero vivere civile, impediscono o rallentano gli investimenti, disabituano a quel severo minimo di governo che è necessario in ogni società, inducono a comportamenti illegali. L’ultimo paradosso è quello di un corpo giudiziario composto da persone mediamente egregie, ma chiuso in se stesso, che non riesce a trovare nella sua esperienza le idee per correggersi e che pare incapace di far maturare proposte di ordinamenti migliori e di dialogare con la cultura, le professioni, il mondo politico. Lettere: così Skype migliora la vita familiare e burocratica dei detenuti di Daniela Teresi Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2014 Vedere e colloquiare con i propri familiari, poterli abbracciare, per un detenuto significa aiutarlo a superare la paura più sinistra che si annida in lui. La paura dell’abbandono e della solitudine. Non poterla superare significa renderlo più incerto, più fragile, più insicuro e magari anche più aggressivo. Il demone della paura per l’impossibilità di coltivare i propri affetti e di sopportare i limiti della impossibilità di scelta, tra le tante è tra le più insopportabili perché, sentirsi solo significa anche non potere trovare un rifugio. Tutti i detenuti, in un senso o nell’altro questo rifugio, ho riscontrato per esperienza che lo cercano. Le cose vanno anche molto peggio per quei detenuti che i parenti li hanno lontani e questi non sono solamente i detenuti stranieri. A questo punto non mi sembra improponibile che le nuove frontiere tecnologiche destinate ai tribunali, potrebbero migliorare la vita dei detenuti italiani e stranieri chiamati a telefonare via Skype magari per parlare con il proprio congiunto lontano permettendone l’identificazione. E sebbene sembra utopistica la proposta mi sembra interessante constatare che un prima iniziativa in tal senso è stata realizzata: Skype entra in carcere a Trieste, nel carcere di Coroneo, dove "il direttore ha consentito a un detenuto di collegarsi con gli insegnanti del figlio minorenne per informarsi sul suo andamento scolastico. L’iniziativa è parte di un progetto sperimentale finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, proprio in tema di recupero della responsabilità genitoriale. Grazie anche all’autorizzazione della Direzione penitenziaria di Trieste e del magistrato di sorveglianza competente, il padre ha così potuto colloquiare con gli insegnanti del figlio, seguendo un protocollo di uso vigilato della rete". L’ultra diffuso programma gratuito ha così permesso di spezzare idealmente le sbarre del carcere per rendere la vita carceraria più umana e sopportabile.. "Per realizzare questo progetto sono stati impiegati due anni", ha precisato Enrico Sbriglia, direttore del carcere, nel corso della presentazione dell’iniziativa a cui ha fatto da ponte l’Associazione Auxilia, attraverso i suoi volontari e due computer posizionati uno nella sala riunioni dell’istituto penitenziario e l’altro nella scuola media friulana. Per l’Ordinamento penitenziario, il carcere ha finalità rieducativa e con la massima prudenza non sarebbe un sovvertire l’ordinamento l’applicazione delle nuove frontiere tecnologiche, mentre una condanna senza affetti sarebbe un ingiusto dolore per le persone care che non c’entrano. L’obiettivo del direttore carcere triestino, non so se ha avuto seguiti ma l’idea di poter consentire ad altri detenuti l’utilizzo di Skype, in particolare ai detenuti stranieri, che potrebbero colloquiare direttamente con le ambasciate o i consolati, sia per contattare familiari presenti nelle sedi del Ministero degli Esteri, che per rimediare alla mancanza di documenti di identità. Roma: martedì la mamma di Marcello Lonzi esporrà le foto del figlio morto in carcere Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2014 Con lei anche le Radicali Rita Bernardini e Irene Testa. Martedì 11 novembre dalle ore 10.30 Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, arrestato per tentato furto e morto 4 mesi dopo nel carcere di Livorno, ha indetto un presidio nonviolento dove esporrà le foto che ritraggono il figlio morto nel carcere delle Sughere. A tal proposito Maria Ciuffi ha dichiarato: "Quando un figlio sano viene affidato allo Stato e ti viene restituito con 8 costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e ti si dice che è morto per cause naturali, non è possibile accettare, non è possibile farsene una ragione. Chiedo ai Presidenti delle Camere, così come giustamente hanno fatto con la famiglia Cucchi, di prestare attenzione anche a me e alle altre mamme che chiedono verità e giustizia". In queste ore hanno preannunciato il sostegno a Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, l’associazione Il Detenuto Ignoto con Irene Testa, la Segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, Stefano Pedica PD, Gruppo Sel Comune di Roma, alcuni esponenti dell’M5S. Aosta: agente penitenziario arrestato con 50 gr di cocaina, l’inchiesta si allarga al carcere di Daniele Genco La Stampa, 10 novembre 2014 Nuovi indagati nell’inchiesta sullo spaccio di droga che una settimana fa ha portato l’assistente di polizia penitenziaria David Grosso, 40 anni, di Aosta, prima in carcere a Verbania e poi agli arresti domiciliari nella sua casa in città. L’episodio della droga, 50 grammi di cocaina nascosti nel Suv Hyundai dell’agente, sembra destinato a scatenare l’effetto domino all’interno del carcere di Brissogne in cui lavorava Grosso, perché se è vero, come hanno più volte ripetuto magistrati, polizia e lo stesso legale dell’agente che "la droga non era destinata al carcere", è altrettanto vero che per gli uomini del capo della Squadra mobile Nicola Donadio tutta l’inchiesta è nata dalle segnalazioni di illeciti emersi dietro le sbarre di Brissogne. Non si conoscono i nomi degli iscritti nel registro degli indagati né la Procura ne ha fatto menzione. Non è ancora chiaro se gli indagati siano legati allo spaccio della droga che Grosso si procurava sulla piazza di Torino, oppure se siano implicati in quelli che i poliziotti hanno chiamato "illeciti commessi nella casa circondariale". Gli investigatori vogliono capire se alcuni detenuti abbiano ricevuto, in cambio di denaro, schede telefoniche o cellulari o altro ancora. Tuttavia, dopo il sequestro della droga, giovedì il carcere di Brissogne è stato rivoltato come un calzino da sessanta uomini della polizia penitenziaria con le unità cinofile. A gruppi, gli agenti hanno perquisito tutte le celle e le aree comuni del carcere, compresa la sezione speciale riservata ai collaboratori di giustizia, alla ricerca di droga, schede sim e telefonini o altro materiale utile ad alleviare le giornate di detenzione dei detenuti. Un segnale forte, ma che mette in evidenza anche la "fragilità" della casa circondariale. L’assistente della polizia penitenziaria era seguito da mesi nei suoi frequenti spostamenti a Torino, legati all’attività calcistica dei figli. È stato monitorato, filmato, fotografato ed intercettato. Sabato lo hanno bloccato in flagranza di reato alla periferia di Aosta, mentre rientrava dal capoluogo piemontese. Da tempo, da diversi ambienti investigativi, erano emerse frequentazioni sospette dell’agente, in qualche caso riconducibili anche a personaggi coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata. Su di lui la polizia aveva già in passato aperto un’indagine ma dopo un lavoro di mesi tutto venne archiviato per la mancanza di prove. David Grosso è molto conosciuto nell’ambiente calcistico valdostano per essere stato uno dei più forti attaccanti dei tornei di calcio a 5, vincendo ripetutamente il titolo di capocannoniere nel prestigioso "Claudesport". Pisa: il Ministro Orlando balla con i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza www.gonews.it, 10 novembre 2014 "Ministro ci aiuti a realizzare il nostro sogno e a fare di questa compagnia il teatro Stabile del carcere di Volterra". Lo ha detto Armando Punzo, drammaturgo e fondatore della compagnia della Fortezza composta dai detenuti-attiri del carcere volterrano al responsabile della Giustizia Andrea Orlando al termine dello spettacolo portato in scena ieri e oggi al "Verdi" di Pisa. "Questo va chiesto a Franceschini, ma certamente farò da portavoce delle vostre istanze", ha replicato Orlando. la pièce di Punzo porta dentro lo spettatore nell’opera omnia di Jean Genet, uno dei principali scrittori francesi del Novecento, e lo rende parte dello spettacolo stesso. Anche il ministro in uno dei quadri finali è stato coinvolto ballando insieme agli attori e al resto della platea. "Di sicuro - ha spiegato il ministro della Giustizia - sono molto interessato al fatto di poter replicare anche in altri istituti l’esperienza di Volterra. Incontrerò i giudici di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria per favorire la nascita di queste esperienze". Durante l’incontro tra Orlando e gli attori, Aniello Arena, ex detenuto a Volterra e ora impegnato a pieno titolo nella recitazione anche al cinema, ha ricordato che "è proprio grazie al lavoro di Punzo se da 10 giorni sono un ex ergastolano che ha potuto usufruire della libertà condizionale". "Credo - ha concluso Orlando - che una delle maggiori inefficienze del nostro sistema penitenziario sia la recidiva e quindi il percorso rieducativo. Perciò l’esperienza della Compagnia della Fortezza deve essere vista come un modello cui ispirarsi: non spetta a me dire se può o meno diventare un teatro stabile, ma ne parlerò con Franceschini, tuttavia sono molto interessato, e lavorerò per questo, a fare in modo di replicarla il più possibile affinché le carceri italiane siano anche un luogo di riscatto per chi le abita dopo avere commesso reati ed espiato le sue colpe". Lo spettacolo "Santo Genet" ha conquistato il pubblico pisano con due recite sold out e una lunga standing ovation tributata stasera agli attori al termine della rappresentazione. Napoli: "Permanenze...", la Campania multietnica in mostra a Castel dell’Ovo di Valentina D’Andrea www.napolike.it, 10 novembre 2014 Fino a giovedì 13 novembre 2014 sarà possibile visitare un’interessante mostra fotografica nella Sala delle Carceri di Castel dell’Ovo, che si concentra sul fenomeno culturale e sociale dell’immigrazione a Napoli ed in Campania. "Permanenze. Immagini di una Campania multietnica" è la mostra fotografica è stata curata e realizzata nell’ambito del Servizio Regionale di Mediazione Culturale Yalla, iniziativa finanziata dalla Regione Campania e gestita da Cidis Onlus in partenariato con Gesco, attraverso la Cooperativa sociale Dedalus, con il patrocinio del Comune di Napoli. Autore degli intensi ed emozionanti scatti sul mondo dell’immigrazione è Eduardo Castaldo, uno dei più importanti fotografi indipendenti italiani che ha vissuto per alcuni anni in Medio Oriente, tra Gerusalemme ed Il Cairo dove ha realizzato reportage sul conflitto Arabo Palestinese e sulla Primavera Araba. Ha vinto alcuni premi come un World Press Photo 2012, ed i suoi servizi sono stati pubblicati su importanti riviste internazionali come Le Monde, Time, L’Espresso e tante altre. L’esposizione fotografica allestita nella Sala delle Carceri di Castel dell’Ovo, consente al visitatore un’immersione nella vita sociale e culturale degli immigrati in Campania, scorgendo, per la prima volta, i diversi contesti in cui arabi, indiani, africani, cinesi, russi, ucraini, interagiscono con la nostra realtà quotidiana, dove purtroppo ancora molto spesso sono considerati invisibili. La mostra Permanenze ha come obiettivo quello di rompere i pregiudizi e gli stereotipi appartenenti a molti sul destino degli immigrati nel nostro paese, andando a mostrare ai visitatori una realtà ricca, dinamica ed in continua evoluzione dove, gradualmente, queste persone provenienti da lontano per trovare un destino migliore, vengono sempre più accolti ed integrati dalla nostra popolazione. Ne emerge un’affascinante miscela di lingue, culture, abitudini, tradizioni che lasciano rilevanti tracce nel nostro territorio, arrivando a modificarne l’identità originaria,. Le immagini fotografiche sono suddivise in due percorsi. Una serie di scatti trasmette i pochi gesti di interazione che avvengono con noi, il "ruolo" in cui spesso gli immigrati sono relegati nel nostro paese: quello di precari, alle prese con occupazioni umili che ormai appartengono alla loro permanenza nelle nostre città, nell’immaginario collettivo di ognuno di noi. Il "vu cumprà" che vende ombrelli, quello che vende collanine e braccialetti, quello che sotto il sole cammina per chilometri sulle nostre spiagge per vendere costumi e parei, con l’unico scopo di guadagnarsi da vivere, e riuscire ad arrivare a fine giornata. Un’altra serie di fotografie, al contrario, indaga le modalità con cui tantissimi immigrati di diverse nazionalità sono riusciti ad integrarsi completamente nella nostra società ed interagendo con i cittadini campani attraverso rapporti di lavoro, amicizia, amore e condivisione delle vite e degli stessi spazi. Alcuni di loro sono riusciti a crearsi qui una nuova vita ed una nuova generazione di futuri cittadini che in futuro arricchiranno ancora di più il nostro territorio di interculturalità. Bolzano: anche i detenuti tra i volontari della Caritas per la raccolta di abiti usati Alto Adige, 10 novembre 2014 C’era anche Italo Fumarola, detenuto in affidamento ai servizi sociali, tra i tanti volontari che ieri erano all’opera in via del Macello a fianco degli operatori della Caritas. Anche lui ha deciso di esserci e di dare il suo contributo al progetto di raccolta degli abiti usati e lo ha fatto non solo caricando e scaricando i sacchi gialli pieni di vestiti, ma anche assistendo i ragazzi del Liceo Scientifico Torricelli, coordinandoli nella loro attività, lavorando con loro spalla a spalla. E insieme a lui altri due detenuti, tutti accompagnati dalla cooperativa sociale Ludos. "È un modo per riscattarci agli occhi della società - spiega Fumarola - e di sentirci di nuovo utili. Per noi detenuti in affidamento ai servizi sociali è molto difficile trovare un lavoro. Quando finisci in carcere perdi tutto: la famiglia, là voglia di vivere, la fiducia negli altri. Quindi quando arriva il momento di riavvicinarsi al mondo esterno è davvero problematico rimettersi in gioco". E poi c’è la crisi che se rende, in questo periodo, difficile trovare un lavoro a un incensurato, figurarsi ad uno che è stato in prigione è ha avuto problemi con la giustizia. "Eppure - prosegue Fumarola - anche noi meritiamo una seconda possibilità. La stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere sanno di aver sbagliato ma pagano caro per questo. Io il prossimo mese termino la mia pena e voglio fare di tutto per rimettermi nella carreggiata giusta e ripartire. Quella di oggi è un’opportunità per dimostrare quanto valgo agli altri e a me stesso. Ed infatti questi lavori socialmente utili andrebbero fatti fare molto più spesso ai carcerati. Penso alle catastrofi . naturali come l’alluvione di Genova. Saremmo stati in tantissimi in prigione a voler andare ad aiutare i nostri concittadini in difficoltà. In questa maniera noi ci renderemmo utili, manterremmo il contatto con la società e la comunità ne gioverebbe". Immigrazione: l’accoglienza è un business, il Comune rilascia autorizzazioni ma ci rimette di Gioacchino Schicchi La Sicilia, 10 novembre 2014 Crescono a dismisura le strutture di accoglienza per minori non accompagnati e aumentano, in modo proporzionale, i rischi per gli equilibri di bilancio del Comune di Agrigento. Ad oggi, infatti, sono ben 35 le cooperative che si occupano dell’assistenza dei minorenni che hanno richiesto di essere inserite nel "registro comunale delle strutture residenziali e semi residenziali", passo essenziale per poter svolgere la propria attività sul territorio. Il dato è contenuto in una determinazione del dirigente del settore Servizi socio-assistenziali dello scorso 12 settembre, la quale, appunto, elenca complessivamente coloro che sono state iscritte nel registro, individuando: 33 cooperative per i disabili, 7 per le gestanti e le ragazze madri e 7 strutture per anziani cui si aggiungono, appunto 35 strutture per minori, cui vanno aggiunte altre 6 cooperative le cui richieste sono in fase di approvazione. Un segnale, inequivocabile, di una "fascia di mercato" in costante crescita, complici i fenomeni migratori (ma non solo, ovviamente, dato che i ragazzi assistiti in parte sono anche italiani) e la facilità con la quale, in regime di emergenza, si riesce ad ottenere permessi per la successiva apertura dei centri. Com’è noto, infatti, ad oggi basta affittare un appartamento e ottenere due certificazioni: una di conformità urbanistica dal Comune e una che autorizza il progetto da parte della Prefettura. Per il sostentamento di questi minori, ed è il tema centrale, vengono corrisposti 75 euro, che in gran parte sono a carico del Municipio, il quale dovrebbe anticiparli per conto della Regione anche se, come accade ad Agrigento, gran parte della spesa rimane sulle "spalle" del bilancio comunale. La Regione Sicilia, ad esempio, deve in questo momento a Palazzo San Domenico una somma che si aggira intorno ai 3 milioni di euro per anticipazioni sostenute negli anni passati. Una somma insostenibile, così il Consiglio comunale, su impulso della terza commissione consiliare, nei giorni scorsi aveva votato un atto che impegnava l’amministrazione ad adire alle vie legali contro la Regione per recuperare le somme arretrate. "Nei giorni scorsi la commissione ha avuto un incontro con il dirigente del settore legale - spiega il consigliere Calogero Pisano, Fratelli d’Italia - e ci ha spiegato che si sta lavorando in tal senso, ma questo non risolve il problema. Nel rilascio di queste autorizzazioni si sta esagerando, anche perché non si tiene minimamente in considerazione che questo avrà ripercussioni pesanti sulla situazione economica dell’Ente. Non possiamo - prosegue - poi richiedere ai cittadini di pagare tasse pesantissime per coprire la spesa che nasce dalla speculazione delle coop, molte delle quali tra l’altro hanno la propria sede legale in altri comuni se non in altre regioni". C’è da dire, per correttezza, che l’iscrizione nel registro è un atto strettamente tecnico che non prende, evidentemente, in considerazione gli aspetti politici né tantomeno quelli economici ma solo il rispetto delle caratteristiche richieste dalla legge. Ciò però non rende l’allarme meno concreto, dato che il dirigente finanziario del Comune (lo stesso che ha dato il proprio parere contabile favorevole all’iscrizione nel registro delle coop) ha più volte denunciato in Consiglio comunale il rischio per gli equilibri di bilancio collegato alle strutture per minori. Filippine: il caso dell’ambasciatore Bosio, nel dubbio il governo scappa di Gianni Di Capua Il Tempo, 10 novembre 2014 Nel suo primo giorno da ministro degli esteri, Paolo Gentiloni avrebbe dovuto/potuto fare una terza telefonata. Concluse le conversazioni con i fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, avrebbe dovuto/potuto chiamare un altro servitore dello Stato abbandonato nel limbo della giustizia di un Paese straniero, l’ambasciatore Daniele Bosio. Personaggio noto alle cronache per esser finito al centro di una brutta storia di pedofilia che ampia eco ha avuto sui media nazionali i quali, ovviamente, non hanno riportato la notizia che gran parte delle accuse si sono ridimensionate. Bosio (all’epoca ambasciatore in Turkmenistan, ndr), una vita spesa nel volontariato a favore dei bambini tra Italia, Giappone, Stati Uniti e Algeria, è stato fermato nell’aprile scorso nelle Filippine con l’accusa odiosa di traffico e abuso di minore, sulla base di una denuncia della rappresentante di una Ong locale che lo aveva visto in un parco acquatico in compagnia di bambini di strada cui voleva regalare una giornata di divertimento. Basta questo, nelle Filippine, per essere accusati di reati tanto gravi? Sì, la legislazione lì prevede che, salvo vincoli di parentela, un maggiorenne non possa accompagnarsi con un minore se tra i due vi sono più di dieci anni di differenza. Come la magistratura filippina ha già accertato, non sussistono a carico di Bosio "gravi indizi di colpevolezza", ma le pressioni dell’Ong nei confronti della polizia locale e l’inefficienza della nostra diplomazia in loco hanno aggravato la situazione. Contattata dal nostro quotidiano, l’avvocato Elisabetta Busuito, che coordina la difesa dell’ambasciatore Bosio spiega: "Per 18 ore, l’ambasciata italiana a Manila è risultata irreperibile al numero di telefono di emergenza e ai numeri personali dell’ambasciatore e del suo vicario e poi ha fornito un avvocato che si è dimostrato successivamente essere esperto in diritto di famiglia e che ha suggerito telefonicamente a Bosio di firmare documenti incomprensibili proposti dall’avvocato di ufficio che assisteva il nostro ambasciatore, in quel momento in stato di fermo, che ne hanno prodotto la carcerazione volontaria. A seguito della firma di queste carte, Bosio è finito in una prigione filippina, in una stanza di trenta metri quadri insieme ad altri ottanta detenuti, in condizioni igienico sanitarie inimmaginabili (Il settimanale Oggi ha pubblicato le foto nei mesi scorsi)". L’avvocato spiega che, dopo oltre quaranta giorni di carcerazione, è stato ottenuto, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute il suo trasferimento in ospedale e poi un’udienza straordinaria in cui il giudice filippino, decretando l’assenza di gravi indizi a suo carico, ha rimesso in libertà Bosio il quale, tuttavia, è ora bloccato nelle Filippine solo, senza stipendio e con una quantità di spese colossali. Nel frattempo, in Italia si sono attivati in tanti per aiutare il nostro ambasciatore. Su Facebook ad esempio c’è un "Comitato internazionale di sostegno a Daniele Bosio" che conta oltre 1300 adesioni mentre il senatore Lucio Barani ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri. Adesso, spiega l’avvocato Busuito, il processo a carico di Bosio è iniziato: "In circa tre mesi si sono svolte due udienze alle quali la nostra ambasciata ha incredibilmente inviato non il numero uno o due della missione diplomatica, ma un attaché filippino. Ma mentre la strategia della difesa, punta a chiarire i fatti rapidamente, l’accusa ha preso tempo e riproposto, per ben tre volte, la ricusazione del giudice e lo spostamento del caso ad altro tribunale. Se ciò avvenisse sarebbe disastroso: i tempi si allungherebbero e aumenterebbero anche le pressioni strumentali di chi vorrebbe condannare Bosio per dimostrare che nelle Filippine la tutela dei minori è assicurata". Molti finanziamenti degli organismi internazionali sono proprio legati alla reputazione del paese asiatico su questo delicatissimo fronte. "Ma a fare le spese di questo gioco - sottolinea Busuito - non possono essere l’Italia e l’ambasciatore Bosio (che rischia l’ergastolo, ndr). La strumentalizzazione locale è chiara e, tenuto conto, dell’inconsistente impianto accusatorio abbiamo presentato una "petition for review", che consente al dipartimento di giustizia, dunque al governo, di interrompere il processo. Purtroppo la petition è stata respinta e ciò è avvenuto dopo che il ministro Mogherini ha partecipato a Milano al vertice Asem Europa Asia cui prendeva parte anche il ministro degli esteri filippino". Ci risiamo, sarebbe bastato un intervento diretto del nostro governo per riportare a casa Bosio, come hanno fatto nelle scorse settimane gli Stati Uniti con un loro connazionale. Ancora una volta il governo italiano appare incapace di tutelare i propri cittadini che si trovano all’estero in condizione di difficoltà. Stati Uniti: chiudere le carceri femminili? parliamone di Patricia O’Brien Washington Post, 10 novembre 2014 Se ne parla negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito: "dovremmo smetterla di vedere le prigioni come una parte inevitabile della vita", scrive il Washington Post. Suona come un’idea radicale: smettere di incarcerare le donne, e chiudere tutte le carceri femminili. Ma nel Regno Unito c’è un crescente movimento, sostenuto dalla Camera dei Lord, che vuole ottenere proprio questo. L’argomento in realtà è abbastanza semplice: tanto per cominciare, ci sono molte meno donne in carcere rispetto agli uomini - le donne rappresentano solo il 7 per cento della popolazione carceraria. Significa che queste donne sono sproporzionatamente svantaggiate da un sistema progettato per gli uomini. Ma potrebbero essere eliminate le carceri femminili negli Stati Uniti, dove il tasso di incarcerazione femminile è cresciuto del 646 per cento negli ultimi 30 anni? Il contesto è differente ma molti di quegli argomenti sono gli stessi. Essenzialmente, il motivo per chiudere le carceri femminili è lo stesso di quello per imprigionare meno uomini. È l’argomento contro il complesso carcerario in sé, in favore di trattamenti dove le cose funzionano meglio dell’incarcerazione. Ma ci sono prove che il carcere danneggi le donne più degli uomini, quindi perché non cominciare da lì? Qualsiasi studio sulle donne che si trovano in carceri statunitensi mostra che per la maggior parte di loro si tratta di delinquenti non violente con scarsi livelli di istruzione, poche esperienze di lavoro e molteplici storie di abusi, dall’infanzia fino a età adulta. È anche probabile che le donne, più degli uomini, abbiano dei figli che dipendono dal loro sostegno - 147 mila bambini americani hanno la loro madre in carcere. Gli Stati Uniti sono un paese di carceri. Più di un milione e mezzo di persone sono in carcere. E questa fissazione con le punizioni è costosa. Cumulativamente, gli stati americani spendono più di 52 miliardi di dollari all’anno per i loro sistemi carcerari. Il governo federale spende inoltre decine di miliardi di dollari per sorvegliare, perseguire e catturare persone, sebbene alcune ricerche mostrino che la carcerazione danneggi il benessere individuale e non migliori la sicurezza pubblica. Quale scopo si cerca di inseguire sottoponendo le donne più maltrattate e impotenti, e non violente, all’ambiente costantemente negativo del carcere? I tentativi di far funzionare il carcere per le donne hanno solo perpetuato la crescita dei complessi industriali carcerari, e anche il numero di persone incarcerate continua a crescere. Quindi qual è l’alternativa, considerando i livelli americani di incarcerazione femminile? Nel Regno Unito i sostenitori dell’abolizione del carcere femminile propongono la comunità per le delinquenti non violente, e per quelle violente la custodia in piccoli centri vicino le loro famiglie. Ci sono prove che simili approcci negli Stati Uniti possono funzionare. Le opportunità di testare alternative al carcere stanno aumentando in tutto il paese, e in alcuni posti ci sono stati risultati positivi per le donne che hanno preso parte a queste soluzioni alternative. Per esempio Project Redeply, un progetto finanziato con fondi di stato in Illinois, basandosi sulle prove che le delinquenti non violente vengono trattate in modo più efficace in comunità, ha ottenuto che dal 2011 - anno di fondazione del progetto - al 2013 ben 1376 persone non violente non finissero in carcere. L’Oklahoma è attualmente al primo posto negli Stati Uniti per incarcerazione femminile pro capite. Quasi l’80 per cento delle donne incarcerate in Oklahoma sono delinquenti non violente: sono in carcere prevalentemente per reati legati all’abuso di droga, allo spaccio di sostanze vietate, alla prostituzione, e per reati contro la proprietà. Women in Recovery, un programma avviato cinque anni fa, fornisce un’alternativa per le donne condannate per crimini legati all’alcolismo o alla tossicodipendenza. Questo programma include trattamenti e servizi completi come l’impiego e l’assistenza familiare. Le donne con bambini piccoli sono ammesse al programma con priorità. Quelle che completano il programma, che dura mediamente 18 mesi, presentano un alto livello di recupero dopo essere state rilasciate. Il coordinatore del programma mi ha detto che il 68 per cento delle donne che completano il programma poi non restano più coinvolte in casi con la giustizia. Nonostante questi promettenti risultati ottenuti dai programmi alternativi alla detenzione, siamo proprio sicuri di esser pronti alla chiusura delle carceri femminili? Se consideriamo l’abolizione come una conquista dei cittadini e crediamo che alle donne debba essere permesso di saltare la coda lungo percorso di recupero e di guarigione, ci sono dei passaggi che vanno considerati da una prospettiva femminista. È necessario comprendere il danno "incorporato" nell’attuale sistema carcerario ed esplorare le alternative che già esistono. Per esempio, Susan Burton - fondatrice di A New Way of Life, un gruppo che fornisce abitazioni provvisorie per le donne che escono di prigione a Los Angeles - indica che la prospettiva abolizionista trasforma le vite degli ex detenuti. L’assistenza diretta offerta da questi programmi ricongiunge le donne alle loro famiglie, comunità e città. I circoli in uso in alcune comunità locali negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda forniscono dei modelli per questo genere di pratiche. L’incarcerazione sistematica di massa non può essere risolta semplicemente fornendo assistenza a singole donne in difficoltà. Un altro passo verso l’abolizione richiede che la discussione sia spostata dal piano degli individui e delle comunità maggiormente danneggiati, controllati e cancellati dal sistema carcerario, al piano della sfera pubblica che accetta passivamente tutto questo. In parole semplici, dobbiamo smetterla di vedere le prigioni come una parte inevitabile della vita. Se non possiamo chiudere le carceri femminili, possiamo almeno rallentare la loro espansione. Qualsiasi impegno per isolare le donne dalle loro comunità deve essere identificato e contrastato. A Denver, per esempio, la campagna Fail the Jail ha contribuito a impedire l’aumento dei posti letto. Il direttore del progetto statale di reinserimento nella comunità mi ha detto che le alternative al carcere hanno dimostrato di aiutare le donne individualmente e hanno cambiato l’atteggiamento della comunità. La causa in favore della chiusura delle carceri femminili si basa sull’esperienza di ex detenute e attiviste secondo le quali le donne, madri e figure centrali per la comunità, possono trovare la loro strada quando sono rispettate e sostenute. È possibile immaginare un futuro senza prigioni femminili; la realizzabilità richiede un cambiamento ancora più grande nel modo di pensare. Svizzera: approfitta di un’impalcatura per evadere, in atto ricerche di un 40enne rumeno www.tio.ch, 10 novembre 2014 Un 40enne rumeno detenuto nel carcere di La Chaux-de-Fonds (Ne) è evaso nella notte tra venerdì e sabato. L’uomo, sospettato di furto in banda e in attesa di processo, non è considerato pericoloso, informa un comunicato odierno della polizia cantonale. Il cittadino dell’est ha eluso i sistemi di sicurezza della struttura e ha approfittato di un’impalcatura, piazzata da diversi mesi per svolgere dei lavori, per fuggire, precisano le forze dell’ordine. Le ricerche del fuggitivo proseguono su tutto il territorio nazionale. Egitto: 4 detenuti appiccano incendio ed evadono da stazione di polizia di Kafr al Sheikh Nova, 10 novembre 2014 Quattro individui in stato di fermo in Egitto sono evasi dalla loro cella in una stazione di polizia di Kafr el Sheikh, nella regione del Delta del Nilo, dopo aver appiccato un incendio. Lo riferiscono quest’oggi i media di Stato. I prigionieri sarebbero riusciti a dare fuoco alle lenzuola nella propria cella e avrebbero in seguito aggredito gli agenti sopraggiunti nel tentativo di domare le fiamme. Lo scorso mese, altri 20 detenuti erano riusciti ad evadere con un simile metodo dalla prigione di al Gharbia, sempre nella stessa area. In quel caso, tuttavia, le forze di sicurezza erano riusciti ad arrestare nuovamente i fuggiaschi. Francia: a Nantes maratona in carcere, una "42 km" inedita disegnata dalla direttrice di Giulia Zonca La Stampa, 10 novembre 2014 Non c’è bisogno del pettorale perché chi ha corso la maratona dentro il carcere di Nantes è un detenuto cioè un numero ogni giorno. Correre 42 km tra le recinzioni con il filo spinato, le guardie con il fucile in mano, in mezzo al silenzio in cui si sente solo l’eco di falcate, senza un panorama, ma con un traguardo. La maratona funziona anche in cattività, nonostante un percorso a otto che si ripete monotono per 66 giri. Pare l’antitesi della libertà invece l’idea di fondo, la molla che spinge a reggere la fatica, è la stessa che anima chi decide di correre fuori: superare i limiti e in questo caso i limiti sono il pane quotidiano. Rispettare gli orari, le consegne, le proibizioni fa parte del recupero, della pena da scontare e c’è chi ha fatto dell’ironia quando due ospiti del carcere di Nantes hanno chiesto di correre una maratona: "Per scappare più facilmente?". Uscire per una gara normale era impossibile, un vero invito alla fuga, però la direttrice del carcere, Véronique Sousset, ha preso molto seriamente la questione. Ha parlato con un preparatore atletico, ha chiesto agli esperti come si poteva definire una tracciato dentro uno spazio limitato e ripetitivo, ha aperto le iscrizioni e cinque carcerati hanno deciso di allenarsi davvero, oltre i due che erano già abituati alle lunghe distanze pure tre principianti. La signora Sousset è soddisfatta dell’esperimento: "Ci vuole convinzione e rigore per raggiungere un traguardo così, è un esempio pratico. Hanno lavorato per correre 42 km, possono riutilizzare quella determinazione in altri ambiti". I cinque si sono allenati insieme e su una distanza ancora più ridotta: "C’erano giorni in cui pareva di girare a vuoto ma quella non era una corsa in cerchio, era un modo per andare avanti". Non raccontano perché sono finiti in galera e nemmeno in quanto hanno corso, la loro è una maratona alternativa e non segue i parametri classici. Niente chip nelle scarpe visto che perdersi è impossibile, nessuno ad applaudire lungo il percorso e sforzo doppio vista la noia e le curve continue a spezzare il ritmo. Unico segno di normalità, la linea rossa a segnare il perimetro, come se ci fosse davvero un posto in cui arrivare: "Ed era così, qualche ora di libertà tra i muri".