Giustizia: il Consiglio d’Europa bacchetta ancora l’Italia "su carceri misure insufficienti" di Eva Bosco Ansa, 7 marzo 2014 Le misure prese finora contro il sovraffollamento delle carceri sono insufficienti. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa avverte l’Italia quando mancano meno di tre mesi al 27 maggio, la scadenza fissata dalla Corte di Strasburgo per risolvere l’emergenza. E invita le autorità italiane a individuare altre misure, anche preventive, e a presentare un piano dettagliato con tempi e cifre. Una patata bollente per il neo ministro della Giustizia, Andrea Orlando, consapevole che l’ultimo decreto svuota-carceri, varato a dicembre e approvato in via definitiva il 19 febbraio, è positivo ma non basta, va accompagnato da "un’azione amministrativa" e "interventi di carattere strutturale". Quel decreto, comunque, preceduto a luglio da un intervento analogo, risultati ne sta dando. Oggi i detenuti sono 60.828, contro i 64.000 di inizio dicembre. Lo scostamento dalla capienza - quella regolamentare è di 47.857 posti - resta alto: circa 13mila unità. E infatti in serata il ministero ha fatto sapere che le preoccupazioni espresse dal Consiglio d’Europa si basano su dati precedenti agli ultimi interventi normativi e che in un prossimo rapporto a Strasburgo saranno fornite le rilevazioni aggiornate. Inoltre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - i cui vertici hanno visto ieri con Orlando e lo rivedranno a breve per un approfondimento - prevede per maggio di scendere a 59mila detenuti e di salire a 50mila posti di capienza grazie all’apertura di nuovi padiglioni (sono in arrivo 300 posti a Catanzaro, 200 a Ariano Irpino, 200 a Frosinone, per citare alcuni casi). Miglioramenti attesi anche dai baschi blu: "Nelle prossime settimane ci aspettiamo dei progressi sul sovraffollamento", spiega Eugenio Sarno, segretario della Uil-Pa Penitenziari, auspicando però anche interventi per la polizia penitenziaria: "Nel 2000 avevamo 43 mila agenti per 40 mila detenuti. Oggi il rapporto è 37mila a 61mila. Solo incentivando misure semplici come meccanizzazione dei cancelli e telecamere per la sorveglianza remota abbiamo stimato un risparmio di circa 2.500 unità di polizia penitenziaria al giorno", suggerisce Sarno, che chiede anche norme più incisive sulla custodia cautelare per deflazionare i penitenziari. Va anche detto che Strasburgo ci chiede sì misure contro il sovraffollamento, ma anche rimedi compensativi in termini di risarcimento o sconto di pena, per rispondere ai detenuti o ex detenuti delle carceri italiane che hanno fatto ricorso e disinnescare le 3mila cause pendenti. Ma delle due misure di compensazione previste nell’ultimo decreto, la liberazione anticipata speciale che aumenta i giorni "condonati" ogni sei mesi è stata in parte ridimensionata e il risarcimento equitativo eliminato. La strategia Orlando non prevede, per ora, nuovi decreti e neppure di sollecitare un’amnistia o un indulto, che avrebbero un effetto immediato ma non strutturale, e soprattutto sposterebbero il problema sul piano politico, visto che parte del Pd condivide l’idea di un provvedimento di clemenza, mentre Renzi l’ha sempre osteggiata già prima di diventare premier e la responsabile Giustizia del Pd Alessia Morani l’ha bocciata. Orlando punta piuttosto a utilizzare meglio l’esistente: ipotizzare una sorta di geografia carceraria; accelerare il piano carceri; agevolare le convenzioni con Regioni e comunità per le alternative alla detenzione, strumento sottoutilizzato; rafforzare gli accordi perché gli stranieri scontino la pena nei paesi d’origine. Giustizia: dichiarazioni di politici dopo il nuovo richiamo dell’Europa sulle carceri Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2014 Verini (Pd): approvare provvedimenti in corso "Fa bene l’Europa a ricordare all’Italia i ritardi sull’emergenza degli interventi carcerari, tuttavia se nelle prossime settimane, come è possibile, il Parlamento (Camera e Senato) approvasse in via definitiva tutti i provvedimenti in corso, la risposta al problema sarebbe efficace". Lo afferma il deputato Walter Verini, capogruppo in commissione Giustizia. "Insieme, provvedimenti approvati e quelli a cui ci riferiamo (messa alla prova, riforma della custodia cautelare, decreto carceri, estensione dei domiciliari e pene alternative, edilizia carceraria, effetti sentenza della Corte sulla Fini-Giovanardi) avranno un effetto importante sulla riduzione della vergogna del sovraffollamento carcerario. Il che non può e non deve escludere misure clemenziali, che a questo punto però non avrebbero più quella centralità di qualche mese fa. E comunque dobbiamo intervenire sulle carceri non solo per evitare le sanzioni europee ma innanzitutto per motivi di civiltà e umanità", conclude. Bernardini (Radicali): situazione chiarissima, ce lo aspettavamo "Il dibattito sul messaggio di Napolitano si è chiuso alla Camera in un modo che ha schiaffeggiato il capo dello Stato". Lo dice a Radio Radicale il segretario di Radicali Italiani, Rita Bernardini. Oggi il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha infatti giudicato "insufficienti" le misure prese dall’Italia contro il sovraffollamento delle carceri, e ha espresso "preoccupazione" per come il nostro Paese sta affrontando la questione in vista della scadenza fissata per il 27 maggio prossimo. "Il Comitato - ricorda Bernardini, che è in sciopero della fame da giovedì scorso - deve verificare, a seguito di condanne, quale misure mette in atto un Paese per risolvere stati di illegalità. Su carceri e giustizia noi siamo pluricondannati". I parlamentari hanno ritenuto, secondo l’ex deputata eletta nelle fila del Pd, "di snobbare il messaggio del capo dello Stato". Le cose che i Radicali hanno "posto alla Corte europea dei diritti dell’uomo - sottolinea Bernardini - hanno sempre avuto un esito, ma c’è chi si arrende. Bisognerebbe invece reagire, noi aspettiamo che il ministro Orlando torni a farsi vivo con noi, vorremmo incontrarlo per spiegargli qual è la situazione". Bergamini (Fi): Necessarie misure urgenti e efficaci "Il ruolo di cassandre non ci piace, tuttavia dobbiamo ancora una volta constatare che nel caso delle carceri, come in molte altre materie, i nostri avvertimenti sono rimasti inascoltati, per essere poi confermati dai fatti. Avevamo ammonito circa l’inadeguatezza del provvedimento svuota carceri, fortemente voluto dal governo Letta, per risolvere le carenze di sistema e il sovraffollamento degli istituti: oggi, il Consiglio d’Europa sancisce l’insufficienza delle misure adottate dall’Italia. Ci auguriamo che il ministro Orlando dia seguito ai suoi propositi, mettendo a punto interventi urgenti e efficaci che rafforzino, tra le altre cose, le misure già previste nella riforma della custodia cautelare di matrice parlamentare. Ne va del grado di civiltà del nostro Paese". Lo dichiara, in una nota, la deputata di Forza Italia Deborah Bergamini, vicepresidente del gruppo Ppe all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. De Cristofaro (Sel): ennesimo monito Ue non resti inascoltato "L’ennesimo monito del consiglio d’Europa, che anche oggi ha esortato l’Italia ad assumere nuove e più drastiche misure contro il sovraffollamento carcerario, non deve restare inascoltato", afferma il senatore di Sel Peppe De Cristofaro. "La data del 27 maggio, quando scatterà la procedura d’infrazione europea, si avvicina, e il consiglio d’Europa ha detto a lettere chiarissime che le misure sin qui assunte dal nostro paese sono insufficienti. Ma un Paese civile non dovrebbe aspettare. Del resto un paese civile non avrebbe bisogno della minaccia di una procedura europea per mettere riaparo allo scempio della condizione carceraria italiana", prosegue il senatore di Sel. "Bisogna agire subito con misure d’emergenza come indulto e amnistia e allo stesso tempo varare misure strutturali come l’abrogazione delle leggi criminogene che hanno ridotto in questo stato le prigioni italiane. Ma prima di tutto è necessario che il governo vari un decreto che dia piena e immediata attuazione alla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Se Renzi vuole davvero muoversi in maniera diversa dai suoi predecessori, questa è l’occasione per dimostrarlo". Patriarca (Pd): per rispondere a Europa spingere su reinserimento "Gli atti di clemenza sono giusti, ma in passato hanno dimostrato di avere molti limiti. Per fermare il meccanismo delle porte girevoli, bisogna che si dia impulso alle politiche per il reinserimento. È questo il modo per rispondere al Consiglio d’Europa". Lo afferma il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della commissione Affari Sociali. "Reinserimento, investimento sul personale carcerario e misure alternative alla detenzione in carcere. Dobbiamo seguire questa strada se vogliamo evitare il fenomeno delle recidive - continua Patriarca - Le politiche giustizialiste in questi anni si sono dimostrate fallimentari". Brogi (Pd): nuovo governo cambi verso, dia segnale forte "Essere preoccupati - come dice di essere il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa - mi pare poca cosa: il nuovo governo dia un segnale forte e cambi verso anche sulle carceri. Dobbiamo sbrigarci, non solo perché ce lo chiede l’Europa, che a seguito della sentenza Torreggiani, esige provvedimenti concreti entro il 27 maggio, altrimenti, rischiamo delle pesanti sanzioni, ma perché questa è una vergogna per il nostro Paese e una questione di civiltà. Condivido quindi le preoccupazioni espresse dal Consiglio d’Europa e sono d’accordo con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sul fatto che i provvedimenti presi finora, nonostante vadano in una giusta direzione, non siano evidentemente sufficienti ad affrontare il problema in maniera efficace". È quanto dichiara Enzo Brogi, consigliere regionale toscano del Pd, riguardo la preoccupazione espressa oggi dal Comitato del Consiglio d’Europa, per come il nostro Paese sta affrontando la questione del sovraffollamento delle carceri, in vista della scadenza fissata per il 27 maggio prossimo. "Le istituzioni, a tutti i livelli, devono mettersi in prima fila in questa battaglia; la Toscana, ad esempio, sta facendo la sua parte predisponendo percorsi di recupero per i tossicodipendenti. Anche in Consiglio regionale - aggiunge Brogi - dobbiamo tornare quanto prima ad affrontare l’argomento, magari entro il mese di marzo. Nella nostra Regione abbiamo uno dei penitenziari più sovraffollati d’Italia, quello di Sollicciano, e strutture piene di problemi e di emergenze quotidiane, dovuti al sovraffollamento, alla mancanza di personale, alla scarsissima manutenzione e alle pessime condizioni igienico sanitarie". Giustizia: Comitato ministri del Consiglio d’Europa "preoccupato" per le carceri italiane di Pino Stoppon L’Unità, 7 marzo 2014 Orlando: "Svuota-carceri insufficiente, servono misure strutturali e amministrative". Nuovo monito dall’Ue all’Italia sulla ormai decennale emergenza carceri. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha stabilito ieri che "le misure prese finora dall’Italia contro il sovraffollamento delle carceri sono insufficienti". Secondo i rappresentanti, in particolare, i provvedimenti presi o messi in cantiere dall’Italia per rimediare al trattamento disumano e degradante dei detenuti, accertati con la sentenza Torreggiani, non sono abbastanza. Il Comitato ha anche espresso "preoccupazione" in vista della scadenza fissata per maggio prossimo, data entro cui l’Italia dovrà mettersi in linea con le indicazioni del Consiglio per ridare dignità ai detenuti e evitare la pesante sanzione. "Il rimedio preso in considerazione sinora per risolvere il sovraffollamento nelle carceri è unicamente compensatorio e utilizzabile solo in casi limitati" ha fatto sapere il comitato che invita le autorità italiane a pensare ad altre misure anche preventive e a presentare un piano dettagliato che contenga non solo i tempi della messa in atto degli interventi ma anche i dati necessari per comprendere se le misure adottate sono efficaci. Se le misure prese dal governo non dovessero essere ritenute sufficienti, a maggio l’Italia dovrà pagare una maxi multa ai quasi 67mila detenuti, per violazione dei diritti umani. Con la "sentenza Torreggiani" dell’8 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a pagare 100.000 euro di risarcimento a 7 detenuti che avevano fatto ricorso perché costretti a dormire in troppi in celle minuscole, nelle quali dovevano passare quasi 20 ore su 24 per mancanza di attività sociali nel carcere. Centomila euro diviso sette detenuti fanno 14.285 euro che lo Stato italiano deve sborsare per ogni carcerato. Secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria moltiplicando la cifra del risarcimento per i circa 20mila detenuti in eccesso, si ottiene una somma che di circa 300 milioni di euro. Se invece lo Stato dovesse risarcire l’intera popolazione carceraria, dovrebbe sborsare quasi un miliardo di euro. "Le criticità permangono e la scadenza del 28 maggio incombe - commentava ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando al termine di un incontro con l’Associazione Nazionale Magistrati - Abbiamo dato una valutazione convergente rispetto alla positività degli interventi, che però, sono insufficienti. È necessario intervenire sia con azioni amministrative che con interventi di carattere strutturale per dare una risposta alla distorsione che si è venuta a creare nel sistema penitenziario". Quello dell’emergenza carceraria, secondo il ministro, è una delle "priorità" da affrontare, e in vista della scadenza che l’Europa ha dato all’Italia per il prossimo maggio, il decreto "svuota carceri" approvato il mese scorso non appare sufficiente e saranno dunque necessari altri interventi. Tra questi, il rafforzamento delle misure alternative alla detenzione e degli accordi con gli altri Stati affinché i detenuti stranieri in Italia possano scontare la pena nel loro Paese di origine. Giustizia: caso Torreggiani, soluzione all’italiana… provvedimenti per evitare condanna di Lorenzo Pispero www.leggioggi.it, 7 marzo 2014 Manca poco ormai alla scadenza del termine entro cui l’Italia è stata chiamata ad eseguire quanto stabilito dalla sentenza-pilota della Corte Edu "Torreggiani e altri c. Italia", e cioè a "istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario". L’appuntamento è fissato per il 28 maggio. Com’è ben noto, la Seconda Sezione della Corte di Strasburgo, in data 8 gennaio 2013, ha condannato il nostro Paese a risarcire i sette ricorrenti per il trattamento disumano e degradante subito durante la permanenza negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza. Nella sentenza è trattato il problema del sovraffollamento. In particolare, nel testo della sentenza i giudici europei parlano di "sovraffollamento grave" per indicare quelle situazioni nelle quali il detenuto viene privato dello spazio vitale necessario, che non può essere inferiore a 3 mq. Un recente studio ha stabilito che lo spazio che ciascun detenuto ha a disposizione nelle carceri italiane è di circa 2,7 mq. Non una decisione positiva, dunque, che costringe il nostro Paese a dotarsi di misure idonee a eliminare il problema del sovraffollamento carcerario entro un anno dal giorno in cui la sentenza Torreggiani è passata in giudicato (essì, perché il Governo ha impugnato la decisione ma il ricorso non è stato accolto dalla Grande Camera). Cosa rischiamo? Il 28 maggio verrà ad essere revocata la sospensione per i 3000 ricorsi già presentati aventi ad oggetto le stesse richieste della sentenza Torreggiani. In più, potranno essere presentati ulteriori ricorsi con la conseguenza che il nostro Paese, se condannato (com’è certo), dovrà risarcire anche gli ulteriori ricorrenti. E se pensiamo al numero dei nostri detenuti (circa 67.000) e a quanto hanno ottenuto a titolo di risarcimento i sette ricorrenti della sentenza in esame (dai 10 ai 20.000 euro), è chiaro a tutti che non basterebbe tassare l’aria per avere i soldi necessari per risarcire tutti. Parliamo dunque di una somma ingente e di un problema concreto che necessita di soluzioni tempestive. In questi mesi ne abbiamo viste davvero tante. Particolarmente discusso è stato il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha invitato il Parlamento ad farsi carico di una legge di amnistia e indulto che riducesse istantaneamente il numero dei detenuti. Provvedimenti che, come si sa, richiedono numeri in Parlamento non di poco conto, che nessun partito o coalizione può contare oggi. Mi vorrei soffermare su questo punto per due motivi: da una parte, non ritengo pienamente legittimo che un Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, si arroghi il potere di rivolgere "ordini" all’organo titolare del potere legislativo, l’organo che rappresenta, o dovrebbe rappresentare, il popolo e incarnare la sovranità popolare; dall’altra parte, la esplicita richiesta di leggi di amnistia e indulto, i cui effetti sono noti a tutti, non mi pare essere la soluzione migliore al caso in esame. Un indulto come quello del 2006 non risolve il problema del sovraffollamento, semmai rinvia la sua risoluzione ad un tempo successivo (già nel 2010 vi erano 67.961 persone detenute nelle 206 carceri italiane, per una capienza massima di 45.000 persone, con un tasso di sovraffollamento del 151%). Non dimentichiamo che questi provvedimenti sono stati definiti da non pochi esponenti della dottrina penalistica il cancro dell’ordinamento penale. Secondo diversi autori, un sistema efficiente non abbisogna di provvedimenti di questo tipo. Risulta quanto mai contraddittorio prevedere delle sanzioni se queste non sono applicate in modo completo. A pagarne le conseguenza è solo la credibilità dello Stato e del suo ordinamento sanzionatorio. Di amnistia e indulto se n’è parlato per pochi mesi, da ottobre a novembre, dopodiché anche questa soluzione è naufragata. Di cambiare il codice penale e il diritto penale sostanziale in generale neanche se ne parla più, nonostante le incessanti richieste provenienti dai vari praticanti del diritto e dall’opinione pubblica. Le grandi riforme sostanziali non sono più prodotte dal Parlamento ma dalla magistratura. Di fondamentale importanza è la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge c.d. Fini-Giovanardi, che equiparava le droghe leggere a quelle pesanti, con un aggravamento delle pene previste per i reati di uso e spaccio di queste sostanze. Con la dichiarazione di incostituzionalità si sono aperti migliaia di incidenti di esecuzione, con l’effetto di congestionare ulteriormente l’attività dei tribunali e dei magistrati. Non rimane che occuparsi di un altro profilo del diritto penale, ovvero quello sanzionatorio. Se il problema è l’eccessivo numero di detenuti, non resta che diminuire la permanenza in carcere. In questa direzione sembra si sia mosso il nostro legislatore con il recente decreto svuota-carceri, n. 146/2013, convertito in legge lo scorso mese, che aumenta lo sconto di pena concesso per ogni semestre (da 45 a 75 giorni) e soprattutto dispone un utilizzo del braccialetto elettronico più frequente. Da pena alternativa eccezionale, il braccialetto diventa uno strumento ordinario. Ci tengo a ricordare che le applicazioni fino ad oggi di questo dispositivo sono state molto limitate (una decina di casi) nonostante l’ingente quantitativo di denaro pubblico speso per il loro utilizzo, parliamo di circa 80 milioni solo per i prossimi 10 anni, che sono finiti in gran parte nelle tasche della società Telecom Italia, grazie ad un accordo sottoscritto dall’ex ministro Annamaria Cancellieri, finito in un recente scandalo. Ma questa è un’altra storia. Giustizia: l’indulto dimezza la recidiva, un saggio di Luigi Manconi e Giovanni Torrente di Stefano Anastasia L’Unità, 7 marzo 2014 Finalmente martedì scorso un’aula parlamentare ha potuto discutere del messaggio rivolto alle Camere dal Presidente della Repubblica l’8 ottobre del 2013 a proposito della gravissima situazione carceraria. Situazione ancora una volta denunciata - proprio in questi giorni - dal Consiglio d’Europa, che ritiene insufficienti le misure fin qui adottate dall’Italia in vista della prossima scadenza (il 28 maggio) del termine di adeguamento agli standard europei concesso con la sentenza-pilota sul caso Torreggiani. Tra le misure sottoposte all’attenzione del Parlamento dal Capo dello Stato vi è anche l’adozione di un nuovo provvedimento di amnistia-indulto, necessario a ricondurre rapidamente la popolazione detenuta entro i limiti della capienza regolamentare. Il saggio di Luigi Manconi e di Giovanni Torrente di prossima pubblicazione sulla Rassegna Italiana di Sociologia (il Mulino) che qui si anticipa, dimostra come un provvedimento di clemenza può non solo non alimentare la recidiva dei detenuti, ma addirittura contenerla - fino quasi a dimezzarla - entro limiti assai più misurati di quelli raggiunti attraverso l’ordinaria esecuzione della pena detentiva. E questo smentisce inequivocabilmente cifre e percentuali così spesso, e irresponsabilmente, fatte circolare anche negli ultimi giorni. Nel 2006 veniva varato il provvedimento: i numeri di chi è tornato a delinquere smentiscono i falsi allarmi e le interpretazioni di parte. In una ricerca tutti i dati. Il 34% di coloro che hanno beneficiato della clemenza è tornato a delinquere. La media fra gli altri, è del 68%. Con la legge del 31 luglio 2006 è stato concesso provvedimento di indulto per tutti i reati puniti entro i tre anni di pena detentiva e con pene pecuniarie non superiori a 10.000 euro. Il provvedimento prevede anche uno sconto di tre anni per coloro che sono stati condannati a una pena detentiva di maggiore durata. Sono esclusi dalla concessione dell’atto di clemenza i colpevoli di un certo numero di reati ritenuti particolarmente gravi. (...) È notorio come il provvedimento di clemenza sia stato oggetto di pesanti critiche legate all’improvvisa liberazione di un elevato numero di persone prima del sopraggiungere del fine pena stabilito dal giudice. Tali critiche si sono sviluppate, in primo luogo, sul piano mediatico, interessando la quasi totalità degli organi di informazione di massa, per poi coinvolgere la gran parte degli attori politici (compresi quanti avevano votato a favore della legge). Il progressivo incremento delle critiche pare aver nel tempo generato una sorta di senso comune secondo il quale l’indulto avrebbe provocato un aumento dell’insicurezza a causa dei reati commessi dagli "indultati". La progressiva rappresentazione degli effetti negativi dell’indulto non pare tuttavia essere stata accompagnata da dati oggettivi che corroborassero tale giudizio negativo. (...) La recidiva dei beneficiari del provvedimento di indulto, dopo 5 anni dall’approvazione della legge, si attesta al 33,92%. Recentemente, uno studio di Fabrizio Leonardi ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia, nei successivi 7 anni, fatto reingresso in carcere una o più volte. Ora, il dato sui reingressi in carcere dei soggetti scarcerati a seguito del provvedimento di indulto mostra una percentuale di recidivi notevolmente inferiore rispetto al quel 68,45% rilevato dall’Amministrazione Penitenziaria. Il dato della recidiva dei beneficiari dell’indulto si colloca quindi su un livello inferiore rispetto a quello rilevato in un monitoraggio "ordinario". (...) Il clamore mediatico e le critiche che hanno associato l’indulto ad un incremento dell’insicurezza appaiono ingiustificati dal punto di vista dei tassi di recidiva dei beneficiari. La lettura proposta può essere integrata con l’analisi di almeno due variabili che possono contribuire a colmare, almeno in parte, il deficit di conoscenza sul fenomeno. La prima riguarda la recidiva in relazione alla nazionalità del beneficiante la misura. (...) I dati mostrano la conferma di un trend già rilevato nei precedenti monitoraggi, là dove mostra un tasso di recidiva fra gli italiani di circa 13 punti percentuali superiore rispetto a quello degli stranieri. Il dato appare sorprendente, perlomeno nelle sue dimensioni, se raffrontato con le retoriche che hanno accompagnato il provvedimento di indulto. Tali retoriche hanno con frequenza previsto la rappresentazione della figura dello straniero, extracomunitario privo di permesso di soggiorno, come uno dei pericoli maggiori per la sicurezza pubblica una volta rimesso in libertà grazie all’indulto. Ora, lo status sociale e giuridico dello straniero privo di permesso di soggiorno valido induce a interpretare con una certa prudenza i dati presentati. Al netto della dovuta prudenza interpretativa, occorre rilevare come una differenza così marcata fra i due gruppi imponga delle riflessioni sulla correttezza delle politiche penali nei confronti delle popolazioni migranti. (...) Ulteriori considerazioni debbono riguardare il confronto fra il tasso di recidiva delle persone scarcerate e quello di coloro che provengono dalla misura alternativa. Anche in questo caso, così come dimostrato da praticamente tutte le ricerche che si sono occupate del tema, emerge come i soggetti provenienti da un percorso di esecuzione della pena di carattere non detentivo presentino percentuali di recidivi inferiori rispetto a quelle rilevate fra coloro che hanno scontato la pena totalmente in carcere. (...) Occorre, infine, rilevare come, fra i soggetti provenienti dal carcere, i dati confermino una stretta correlazione fra il numero di precedenti carcerazioni e l’aumento dei tassi di recidiva. Appare quindi significativo il fatto che meno di uno su cinque fra gli 11.131 soggetti scarcerati che erano alla prima esperienza detentiva abbiano fatto reingresso in carcere nei successivi 38 mesi. È all’interno di questo universo che troviamo i "veri" beneficiari dell’indulto, vale a dire coloro per i quali la clemenza è stata la possibilità di sfuggire agli effetti negativi provocati dall’esperienza detentiva. Per circa 13.000 detenuti alla prima o alla seconda esperienza detentiva l’indulto è stato quindi l’occasione per uscire dal percorso carcerario senza ulteriori aggravi dal punto di vista esistenziale. Giustizia: Radicali; quando il Pd e la minoranza forcaiola risponderanno all’emergenza? di Chiara Rizzo Tempi, 7 marzo 2014 Bernardini (Radicali): il no della Camera alle misure di clemenza è "una nuova pagina buia nella storia della nostra degradata democrazia. Non a caso l’Europa ci ha bocciato di nuovo". "La Camera dei deputati ha segnato due giorni fa un’altra pagina buia che si aggiunge al gigantesco libro della sempre più degradata democrazia italiana". Così la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini commenta la relazione adottata dall’aula di Montecitorio martedì sera, un testo proposto dalla presidente Commissione Giustizia, Donatella Ferranti (Pd), inteso ad accogliere il messaggio del presidente Napolitano alle Camere (ottobre 2013) sulla situazione devastante delle nostre carceri affossandone però il contenuto centrale, ovvero indulto e amnistia. "Relazione scialba e pretestuosa", attacca Bernardini, che invece dà atto "a Forza Italia e al suo capogruppo Renato Brunetta di avere presentato una relazione alternativa, purtroppo respinta dall’aula, dal contenuto profondamente radicale e perfettamente corrispondente agli auspici del messaggio del presidente della Repubblica". Malgrado l’altra sera a Montecitorio tutti abbiano parlato di emergenza carceri, l’ipotesi di concedere amnistia e indulto è stata "buttata fuori dalla porta" grazie ai voti del Pd e anche di Sel. Come commenta quanto avvenuto? Il commento migliore lo ha fatto ieri il Comitato dei ministri al Consiglio d’Europa, chiamato a verificare se le condanne commutate dai paesi avranno un esito: ebbene il Comitato ha detto da Strasburgo che le misure prese sinora dall’Italia sono "insufficienti". In vista della scadenza del 27 maggio, data entro la quale l’Italia deve mettersi in regola, pena una maxi sanzione, il Consiglio ha espresso "preoccupazione perché il rimedio preso in considerazione sinora per risolvere il sovraffollamento nelle carceri è unicamente compensatorio e utilizzabile solo in casi limitati". È il migliore commento su quanto è avvenuto alla Camera, dato che l’aula ha approvato la relazione della Commissione Giustizia che non faceva altro che elencare i provvedimenti presi. Gli stessi che però l’Europa reputa inadeguati a risolvere un problema cronico che rappresenta il volto dell’antidemocrazia. Abbiamo da rispondere a tante domande che ci ha posto il Consiglio d’Europa in merito alle condanne per l’irragionevole durata dei processi, altro problema trattato dal messaggio di Napolitano, a cui l’Italia non è riuscita a dare risposta. Mi chiedo quando la maggioranza, e la minoranza forcaiola, risponderanno a questa emergenza antidemocratica. Dove vogliono portare questo paese? Pensa che la posizione del Pd, maggioranza alla Camera, possa cambiare? Il segretario del partito e presidente del Consiglio Matteo Renzi ha già detto di essere contro amnistia e indulto. Adesso, dopo la risoluzione del Comitato europeo, il ministro Orlando ha ammesso che il decreto cosiddetto "svuota carceri" non basta. Ha ammesso che "abbiamo dato una valutazione positiva su alcuni interventi fatti finora, che però sono insufficienti" e che il governo sarebbe intervenuto sulla "distorsione" che si è creata nel sistema penitenziario. Ma vorrei sottolineare che l’Europa parla di "tortura", non di "distorsione". Orlando dice "interverremo", ma non si sa nemmeno come. Dopo la relazione approvata il 4 febbraio alla Camera, cosa può succedere di nuovo in Parlamento? I provvedimenti di amnistia e indulto sono calendarizzati in Commissione Giustizia, ma i lavori vanno molto a rilento. È tutto bloccato. Per quanto riguarda il messaggio di Napolitano alle camere il Senato invece non prevede alcuna discussione. E voi radicali cosa farete adesso? Io sicuramente attendo di essere ricevuta dal ministro Orlando, che mi aveva chiesto un incontro e poi non si è più fatto sentire. Intanto cerchiamo di sensibilizzare anche i parlamentari sull’illegalità in cui versano le carceri attraverso il satyagraha, la nostra lotta non violenta, che conta già sull’adesione di 930 persone. Molte di queste persone sono impegnate in uno sciopero della fame, personalmente io ne conduco uno a oltranza. Altre ancora ci sostengono scrivendo direttamente ai parlamentari e chiedendo di adottare dei provvedimenti. Mancano 82 giorni alla scadenza dettata dalla sentenza europea. Giustizia: tortura, una brutta legge che… tortura la democrazia di Checchino Antonini www.globalist.it, 7 marzo 2014 Passa al Senato un testo inadeguato. Le larghe intese si inchinano alle pressioni del Viminale. Gli oppositori stanno zitti. Il Senato ha approvato una legge sulla tortura ma il testo la definisce come reato generico e non come reato specifico del pubblico ufficiale. È una differenza non da poco. Gli agenti devono sapere che l’abuso sui detenuti o su persone momentaneamente private delle libertà è un reato odioso e insopportabile per chi veste una divisa e rappresenta lo stato. Non un reato qualunque con una semplice aggravante se commesso da un agente. Il testo originario del senatore Luigi Manconi è stato pressoché manomesso definendo tortura solo se ci sono "più atti di violenza o minaccia" proprio come da anni chiedeva la Lega che, su questo, riuscì a bloccare il parlamento nella scorsa legislatura. Miracoli delle larghe intese col silenzio-assenso di Sel e 5 Stelle. Secondo l’Osservatorio repressione il testo passato in Senato è frutto di precise pressioni esercitate in questi anni dai vertici delle forze dell’ordine, che hanno sempre considerato l’eventualità di una legge ad hoc sulla tortura come un’offesa, quasi un atto d’accusa. Più o meno come l’introduzione del codice alfanumerico per chi opera mascherato e irriconoscibile in ordine pubblico. Ma la formazione del personale nel senso di un rapporto corretto con le persone e la Costituzione non è mai stata in cima alle preoccupazioni di un dipartimento, quello della Polizia di Stato, indifferente e spesso complice con gli scandali di malapolizia che riguardano tutti i livelli della scala gerarchica: per fare un esempio, da chi guidava le volanti a via Ippodromo fino al numero due del Viminale Izzo o al capo del Ros Ganzer passando per i sindacati e i sindacatini che li coprono. L’Italia, secondo l’Osservatorio repressione, conferma di avere seri problemi quando si tratta di garantire i diritti fondamentali delle persone. Anche l’Unione delle camere penali (gli avvocati penalisti) dice che la legge è sbagliata perché non rispetta le indicazioni dell’Onu e crea confusione rispetto a reati già previsti dal codice penale. In teoria la legge potrebbe essere corretta dalla Camera ma questo Parlamento è lo stesso che tortura diritti e violenta la Costituzione in gran parte dei suoi atti. Secondo Lorenzo Guadagnucci, del Comitato Verità e Giustizia per Genova, siamo di fronte a una legge molto più che deludente. Diciamo pure inadeguata. L’Italia, come confermano ormai molti episodi e molti processi degli ultimi anni, è un paese nel quale appartenenti alle forze dell’ordine hanno praticato varie forme di tortura. Approvare una legge che non qualifica la tortura come reato specifico delle forze dell’ordine significa rinunciare a quell’effetto deterrente che una legge del genere dovrebbe avere. Significa fingere di vivere in un altro paese. Nella pratica è un cedimento della politica ai desiderata - in questo caso poco responsabili - dei vertici delle forze dell’ordine, che altrimenti si sarebbero sentiti messi sotto accusa, mentre è ben chiaro che una seria legge sulla tortura (che preveda anche la non prescrizione del reato) è nell’interesse di forze dell’ordine a loro pieno agio all’interno di un sistema autenticamente democratico. Giustizia: "Chi mi ha pestato in carcere ora mi guardi in faccia"… la storia di Giuseppe di Antonio Crispino Corriere della Sera, 5 marzo 2014 Eppure una spiegazione ci deve essere. Quei lividi su braccia, gambe e schiena, quei tagli sulla faccia, quel piede diventato color melanzana, l’occhio sanguinante, le cicatrici sulle guance. Sono tutte cose reali, fotografate, periziate. Non è il solito racconto generico di un pestaggio. Perché, si sa, i pestaggi in carcere non esistono, sono un’invenzione di detenuti scaltri che farebbero di tutto pur di uscire dal "gabbio". Anche per l’Amministrazione penitenziaria è tutto trasparente, sotto controllo, una cosa inimmaginabile negli istituti moderni. Poi ci sarebbero da spiegare fratture e microfratture che in foto non si vedono ma agli occhi dei medici sì. La storia di Giuseppe Giuseppe Rotundo era in carcere, a Lucera, in provincia di Foggia. Tre agenti della polizia penitenziaria raccontano di essere stati aggrediti da lui, così, senza un motivo. Quei segni su tutto il corpo del detenuto sarebbero il frutto del tentativo di sedarlo. Per "calmarlo" arriveranno a cambiargli i connotati. Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, non lo riconosceranno. "La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile" dirà una delle due dottoresse al Pubblico Ministero che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti (ora il processo è in fase dibattimentale). L’altra, una psicologa clinica, nel vederlo scoppia a piangere. Quel Rotundo lo aveva incontrato e ci aveva parlato a lungo il giorno prima. Il 13 gennaio 2011, seduta dietro la scrivania, gli portano un detenuto malconcio e sanguinante. Faceva fatica a camminare. Incuriosita, chiede: "Lei, allora, chi è?". "Come chi sono, dottoressa - risponde il detenuto. Sono quello di ieri... Rotundo". Il viso era così tumefatto da avergli alterato i tratti somatici. La dottoressa resta sconvolta, smarrita. Per qualche attimo impietrita, poi scoppia a piangere. "Non ho mai visto così le condizioni di un detenuto", confiderà al magistrato. Una testimonianza più unica che rara. Le lesioni in carcere "È difficile che le lesioni subite in carcere vengano certificate, tantomeno è probabile che un detenuto violentato venga portato in ospedale" dice Simona Filippi, avvocato dell’associazione Antigone che opera per la tutela dei diritti nel sistema penale. "Il caso Rotundo - ci spiega l’avvocato - rappresenta quasi un unicum perché rientra in quei rari casi in cui al magistrato arriva la notizia del pestaggio e invia subito un perito per farlo fotografare". "Subito" significa dieci giorni dopo. Com’era quel volto? Traviato dagli scarponi, da calci, pugni, gomitate in ogni dove. Non c’è un centimetro quadrato di quel corpo senza lividi o chiazze rossastre. Nel redigere il capo di imputazione, il sostituto procuratore impiegherà dieci righe solo per elencare tutte le lesioni presenti al momento della perizia. Sempre per rispondere all’aggressione del detenuto, in quei frangenti, deve essere successo qualcos’altro. Perché a un certo punto Rotundo perde i sensi e cade a terra. Si risveglierà con 40 giorni di prognosi. Giuseppe Rotundo lo racconta per filo e per segno quello che sarebbe avvenuto nelle celle di isolamento di Lucera: dal momento in cui ammette di aver insultato un agente a quando si risveglierà nudo, a terra, pieno di ematomi. Volutamente non riportiamo nemmeno una parola di quello che dice, perché tanto non verrebbe creduto. È un ex detenuto, un criminale. E poi mentre dice di aver preso "mazzate" da sette agenti (cosa improbabile vista la carenza del personale di polizia penitenziaria; cosa ci facevano sette agenti in una cella?) ha sferrato un pugno a un poliziotto. E quello è tutto documentato, refertato, testimoniato e certificato. Un pugno che è costato all’uomo in divisa un occhio nero, escoriazioni varie, trenta giorni di prognosi e conseguente inabilità al servizio. Il fatto sconvolgerà la psiche del poliziotto. Documenterà una sopravvenuta depressione, in seguito all’aggressione subita senza motivo, che gli ha consentito a malapena di festeggiare lo scudetto del Milan su Facebook vestito da jolly rossonero. Il suicidio Nello stesso carcere dove era recluso Rotundo, proprio qualche mese fa è morto un detenuto. Si chiamava Alberico Di Noia. Era dentro per piccoli reati. Gli restavano da scontare pochi giorni di prigione. Lo troveranno impiccato in cella. La ricostruzione dell’Amministrazione penitenziaria non convince nemmeno il sindaco che per protesta proclama il lutto cittadino. Al funerale partecipa l’intera cittadina di Zapponeta, il comune d’origine di Di Noia. "Hanno voluto chiudere in fretta e furia il caso, non capisco perché - commenta con l’amaro in bocca il sindaco Giovanni Riontino. Così come non capisco perché abbiano impedito alla famiglia di vedere il corpo per 24-48 ore. E ancora: non capisco perché una persona che deve uscire a giorni si impicca in cella? Conoscevo quel ragazzo, eravamo coetanei, non lo avrebbe mai fatto. Come sindaco ero stato informato del suo affidamento ai servizi sociali e so che era contento, voglioso di iniziare. Vuole sapere davvero cosa penso? Da uomo dello Stato credo che lo Stato in questo caso abbia sbagliato". Le donne violentate Colpevoli, criminali, assassini, rapinatori, ladri, spacciatori. Persone alle quali lo Stato aveva inflitto una pena da scontare in carcere. Moriranno prima. Eppure basterebbe non commettere reati per evitare quelli che il sindaco di Zapponeta chiama "sbagli dello Stato". E invece no. Ci sono voluti sette anni per scoprire cosa faceva il comandante dei carabinieri Massimo Gatto nelle celle di sicurezza di Parabiago, in provincia di Milano. Sette anni durante i quali mai nessuno ha visto niente. O magari sentito le grida d’aiuto di undici donne rinchiuse e violentate in cella o nei bagni della caserma. Alcune erano state fermate in strada per controlli o si erano recate dai carabinieri per sporgere una denuncia. La corte d’Appello ha confermato le violenze sessuali a partire dal 2004 ma altre denunce risalirebbero al 1998, ormai prescritte. Per loro non ci sarà mai giustizia. Ma forse, tutto è solo un grosso fraintendimento. Dai 20 anni di condanna in primo grado si è passati ai 16 anni del secondo. Ora si aspetta la Cassazione. Perché... "quelle donne hanno frainteso i miei gesti galanti", dirà in aula il carabiniere. I due ragazzi A Napoli si cerca di capire quali siano le colpe di due ragazzi. Erano seduti su un motorino quando gli si affiancano i "falchi" della Polizia. La Procura di Napoli verificherà violenze gratuite da parte dei poliziotti. Saranno sospesi dal servizio e uno di loro finirà agli arresti domiciliari. Ma quello che succede in strada e in Questura ha davvero dell’incredibile. "Sono stati costretti con la forza ad andare negli uffici della Polizia senza un motivo e sono stati trattenuti senza che gli sia stato contestato alcun reato" dice l’avvocato difensore Riccardo Polidoro. I ragazzi non hanno voglia di parlare. Sono silenti. Non per quello strano invito rivoltogli al momento del rilascio: "Ora che uscite, mi raccomando, fate gli uomini..." ma perché hanno delle attività commerciali in città e temono ripercussioni. Nonostante tutto si sono costituiti parte civile nel processo. Dovranno ripercorrere in un’aula di tribunale quello che è successo, quello che la Procura ha riassunto così: "venivano colpiti ripetutamente con schiaffi, pugni alla testa… buttandoli a terra a pancia sotto, sferrandogli calci allo stomaco, colpendoli violentemente all’occhio destro con la paletta segnaletica… ed ancora, sferrando un pugno all’occhio destro… poi nelle costole, afferrandogli i capelli con entrambe le mani e dandogli ginocchiate allo stomaco, al torace e nei fianchi". Ovviamente nella relazione di servizio che scrivono i poliziotti non c’è niente di questo. Per loro tutto si è svolto secondo le regole. "Sarà un processo lungo e difficile - commenta l’avvocato Polidoro. Eppure basterebbe che la parte sana delle forze dell’ordine, che sicuramente è maggioranza, li isolasse. O, quanto meno, non gli manifestassero solidarietà". Giustizia: per i cittadini un avviso di garanzia è l’inferno… i politici non se ne accorgono di Davide Giacalone Libero, 7 marzo 2014 Bello vedere che il Partito democratico riscopre l’esistenza del secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione, nonché (non lo hanno ancora detto, ma suggerisco con piacere) della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quindi della presunzione d’innocenza. Negli ultimi tempi, iniziando con la riforma del titolo quinto della Costituzione e arrivando all’innocenza dei non condannati in via definitiva, sostengono con forza il contrario di quanto con forza vollero e fecero. Che in caso di avviso di garanzia si diano o si chiedano le dimissioni, da cariche o incarichi pubblici, è, al tempo stesso, civile e incivile. Se la giustizia funziona è civile, direi doveroso. Se la giustizia non funziona è incivile: perché, in quel caso, sono le procure a stabilire chi può mantenere cariche e incarichi. Se per difendersi occorrono più di dieci anni è evidente che l’avviso di garanzia non è presunzione di colpevolezza, ma una fucilata alle spalle. Dato che da noi la giustizia è la peggiore d’Europa, con tempi incivili, si pone il problema che i delinquenti restino ai loro posti pubblici. Ed è questione seria, perché il garantismo, sene ricordino i neofiti, non è innocentismo, ma rispetto del diritto e dei diritti. Fra i quali è compreso quello di vedere condannati i colpevoli. La faccenda, quindi, non si chiude con le pur giuste parole del ministro Boschi, annuncianti che quattro indagati resteranno al governo, ma deve proseguire per assicurare loro un processo equo e rapido. Se innocenti per liberarli dall’accusa, se colpevoli per far loro scontare la pena. Restiamo, quindi, in attesa della riforma della giustizia. Ci piacerebbe ingannarla sapendo in che direzione il governo intende procedere. Al momento è buio totale. Siccome non ci sono solo i sottosegretari, ma anche i cittadini, è bene si sia consapevoli che l’avviso di garanzia è un atto a tutela dell’indagato, ma anche l’inizio di un costoso inferno. Se un sottosegretario non si dimette, un imprenditore smette di lavorare e un impiegato di fare carriera. E va ancora bene, perché sono un esercito i cittadini che finiscono in galera prima d’incontrare un giudice e ci restano senza avere mai visto un tribunale. Somma inciviltà. Pesco a caso dal mazzo. A Torino Francesco Furchì già è in sciopero della fame e inizia quello della sete. Detenuto in custodia cautelare, accusato di omicidio, si dice innocente e attende il giudizio. Il problema è che dal suo arresto è passato più di un anno. Franco Bonanini finì in carcere perché non reiterasse il reato di calunnia. Dopo tre anni un altro pm indaga sul presunto calunniato. Questi due casi, diversissimi, dimostrano che: a. la custodia cautelare non va cancellata, perché esistono anche soggetti potenzialmente pericolosi, ma non può essere protratta, altrimenti diventa pena senza processo; b. non serve a nulla fare le riforme, perché in un caso come il secondo già la legge esistente esclude che si possa privare della libertà una persona in base a un’accusa così ridicola e senza alcuna pericolosità. Maria Elena Boschi e Andrea Orlando non hanno colpe personali. Né per come è ridotta la giustizia, né per le vergognose posizioni difese, fino a ieri, dal loro partito. Ma tutti e due, assieme ai loro colleghi, non sarebbero dove sono se il loro partito non avesse concimato il consenso con quelle idee organiche. E tutti e due sono ministri. Quindi: fateci vedere i risultati, non solo la difesa dei sottosegretari propri compagni. Ci vuole un niente per passare da inutili. Giustizia: intervista alla Cancellieri "Pd finalmente garantista? Purché valga per tutti..." di Silvia Barocci Il Messaggero, 7 marzo 2014 I sottosegretari di cui il governo Renzi non chiede le dimissioni per un avviso garanzia? "È sacrosanto. Plaudo alla linea garantista del Pd. Ma che sia valida per tutti, di qualunque schieramento politico essi siano". Annamaria Cancellieri sta terminando il trasloco dall’alloggio "protetto" messo a disposizione dei ministri della Giustizia, nei pressi del carcere di Regina Coeli. Lei, finita nella bufera (ma non indagata) per la vicenda della telefonata di solidarietà alla moglie di Salvatore Ligresti subito dopo l’arresto dell’ex patron della Fonsai e delle sue due figlie, era tra le persone di cui Renzi aveva sollecitato le dimissioni da Guardasigilli. Prefetto, intende dire che ci sono due pesi e due misure? "È chiaro che fino a sentenza definitiva tutti sono innocenti. Diversamente saremmo un Paese da caccia alle streghe. Certo però che, se l’avviso di garanzia è per un fatto molto grave, allora per la salvaguardia di un ruolo istituzionale si fa un passo indietro". Lei non era indagata, e non lo era neppure Antonio Gentile, il sottosegretario Ncd che invece si è dimesso. Come la mettiamo? "Non so che telefonate abbia fatto Gentile e se le abbia fatte veramente. Non sta a me giudicare. Ma se ha ritenuto di dimettersi è encomiabile: è un segno di grande dignità". E lei ha mai avuto la tentazione di rassegnare l’incarico? "Guardi, da una parte le dimissioni possono essere lette come un’ammissione di colpevolezza; dall’altra come la volontà di fugare qualsiasi ombra rispetto alla figura istituzionale. Io sarei anche andata via. Ma la delicatezza delle mie funzioni non me l’hanno consentito: avrei messo in difficoltà altre persone". In che senso? "La mia è stata una vicenda politica. Sono stata sottoposta a un linciaggio mediatico molto forte per indebolire il governo Letta. Ma le mie ragioni sono state riconosciute dal Parlamento che per due voltemi ha dato la fiducia. Spero che sia altrettanto per i sottosegretari indagati". Si sarebbe dimessa se avesse ricevuto un avviso di garanzia? "Se la magistratura avesse rilevato, e non lo ha mai fatto, un’ipotesi di reato, certo che sì. Ma nel mio caso non c’é stato nulla. Lo stesso procuratore di Torino, Caselli, ha sempre detto che io non ho avuto, e non potevo avere, alcun potere di intervento sulla scarcerazione di Giulia Ligresti. E anche dopo che l’inchiesta è stata trasmessa a Roma, senza ipotesi di reato, non è stato ravvisato alcunché. Detto questo, la mia telefonata di vicinanza umana è stata una leggerezza, alla quale però non ha fatto seguito nessuna azione ma solo l’interessamento per lo stato di salute di una detenuta che sapevo malata. Per lei come per molti altri". Ce l’ha con Renzi per aver auspicato le sue dimissioni e per avere ora "blindato" i sottosegretari indagati? "No, non ce l’ho con nessuno. Anche se tutta la mia vicenda è stata amara. Mi auguro con tutto il cuore che Renzi riesca a fare quel che promette: il nostro Paese deve uscire dalle secche". Giustizia: Senatore Pd Esposito "pena di morte per chi uccide bambini", scoppia polemica di Ester Coppi Roma, 7 marzo 2014 Post su Facebook del senatore Esposito dopo l’omicidio della donna e del figlioletto di 3 anni. Tantissimi i "Mi piace". "Lo so, non è un pensiero di sinistra". E a un giovane che lo contesta, risponde: "Fatti una canna". "Una mamma e il suo figlioletto di 3 anni massacrati perché lei ha detto no alle avance di un uomo malato. Mi dispiace, ma io per gente così vorrei la pena di morte. Lo so non è un pensiero di sinistra, ma come fai ad ammazzare un bambino di 3 anni, cazzo". L’omicidio il 4 marzo, l’arrestato è un salvadoregno. Avrebbe anche stuprato la donna, per lui scatta anche l’accusa di violenza sessuale. A scriverlo su Facebook, con un post di mercoledì non è un "fascista reazionario" bensì il senatore Pd Stefano Esposito, 45 anni, torinese, impiegato. Esposito è noto ai più per le sue numerose iniziative politiche a sostegno della realizzazione della Tav. Tra i primi a commentare negativamente la sortita del senatore, il candidato alle segreteria regionale del Pd, Daniele Viotti: "È una cosa indegna, fuori dalla storia, dalla Costituzione e naturalmente fuori dal Pd". Così i radicali torinesi Igor Boni e Silvio Viale: "Il senatore apre un dibattito interessante sulla pena di morte perché fa venne a galla qualcosa che evidentemente anche a sinistra è rimasto sommerso. La giustizia non deve diventare vendetta". Immediati partono, sulla sua pagina, i "Mi piace" e i commenti (256). Non tutti contrari, anche se in tantissimi lo bacchettano. Alcuni lo fanno in modo tranquillo e bonario ("La pena di morte non ha mai risolto nulla"; "Parli da padre Stefano e lo capisco. Ma non è la soluzione giusta"), altri con toni molto meno pacati: "Stefano, non si tratta di sinistra o destra, è che hai detto veramente una cazzata di cui dovresti vergognarti. Ma come si fa, credevo che certi toni li avessero solo certi No Tav o M5S... invece... ma nasconditi!", gli dice Giovanni. Esposito replica: "Io non mi nascondo mai. Evidentemente sei privo di emozioni, un problema tuo", replica il senatore. Diventa un vero e proprio scontro, quello tra i due. Con Giovanni che replica: "È così che intendi governare?". Ed Esposito ribatte: "Fatti una canna". Esposito proprio non ci sta. Neanche quando un certo Valentino gli scrive: "Se lo uccidi gli fai un favore. Deve marcire per tutta la vita in galera". "Vediamo quanto ci sta", replica il parlamentare. Giustizia: la delinquenza minorile va vista con altri occhi di Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi La Repubblica, 7 marzo 2014 Se sulla scia della provocazione del sindaco di Londra, riportata da Repubblica del 4 marzo ("togliamo i figli agli estremisti"), dicessimo contestualizzando il problema "togliamo i figli ai camorristi", saremmo sommersi nella migliore delle ipotesi dagli insulti, etichettati come fascisti, forcaioli e così via. Se, invece, sulla scia del pensiero unico dei tanti falsi "progressisti", "riformatori" e "rivoluzionari" dicessimo demagogicamente che bisogna chiudere le carceri minorili e le comunità, ci omologheremmo al dire comune e ci metteremmo al riparo da critiche e attacchi. Ma la nostra storia di operatori sociali ci impedisce di soffocare queste contraddizioni perché la criminalità minorile è un fenomeno che non può essere derubricato alla semplice voce "devianza", né tanto meno può essere letto come inevitabile conseguenza di una società soffocata da una grave crisi economica o da una società globalizzata. Il terzo settore, e in particolare quella parte che si occupa di minori dell’area penale nella nostra regione, deve trovare il coraggio per denunciare ed essere motore di un cambiamento, iniziando a smitizzare e ad abbattere i tabù ideologici che impediscono di affrontare i mutamenti: come ad esempio il superamento del modello che prevede la compresenza in comunità di minori con diversi provvedimenti penali e amministrativi consentendo la convivenza di bambini deprivati con giovani adolescenti responsabili di reati anche gravissimi. È il fallimento di un sistema di valori e di modelli culturali che ha generato una nuova antropologia rispetto alla quale non è più possibile girare lo sguardo e far finta di niente. Da questo cambiamento emerge un identikit del minore "deviante" non più sovrapponibile alla vecchia iconografia dello scugnizzo e del moschillo, figure che, a ben vedere, nel panorama attuale della devianza minorile, proprio non esistono più. Questa riflessione è rafforzata dall’ondata di violenza metropolitana che vede ergersi a protagonisti i "clan di minori", che hanno come riferimenti stabili e sicuri i modelli della camorra, e i "branchi di minori", che hanno come obiettivi le loro esigenze di consumo (possesso di oggetti griffati come simboli di forza e di potere) e psicologiche (identità, ruolo, appartenenza). Entrambi i fenomeni hanno un comune denominatore: la violenza e la sopraffazione. È di pochi giorni fa l’episodio di Ercolano, dove ha perso la vita un diciottenne e un diciassettenne è stato accoltellato, ed è ancora vivo il ricordo dei due minori uccisi in maniera cruenta dopo aver commesso una rapina a una coppia di ragazzi quasi loro coetanei al parco Virgiliano di Posillipo e del minore accoltellato alla Riviera di Chiaia per il furto del cellulare. La situazione è complessa, complicata e se si vuole uscire dalle dispute demagogiche occorre innovarsi, adeguarsi ai cambiamenti e fronteggiare questa nuova antropologia con norme, regole chiare e coerenti; sostituire gli attuali servizi scadenti, incapaci di leggere i bisogni e produrre concrete opportunità di cittadinanza, con servizi efficaci ed efficienti in grado di promuovere percorsi di inclusione reale e modelli culturali alternativi a quelli della criminalità organizzata. Ci rendiamo conto che per fare questo ci vogliono intelligenza, volontà e risorse, una classe dirigente (politica e burocratica) che abbia competenza e coraggio per guardare al futuro con una strategia di riforme strutturali e culturali al passo con i tempi che metta al centro il minore con i suoi diritti e i suoi doveri. Lettera: dai detenuti della Sezione Alta Sicurezza della Casa di Reclusione di Sulmona… L’Opinione, 7 marzo 2014 Egregio direttore, la dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’articolo 5 recita: "Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti". A tal proposito, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ritenuto il "fine pena mai" trattamento inumano e degradante, con un’importante decisione depositata il 9 luglio 2013 nel caso Vinter e altri c. Regno Unito. Ha in particolare affermato che l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante e inumano contro il prigioniero, con conseguente violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. "Il nostro sistema è sotto osservazione, terreno dell’effettività delle garanzie, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che pone vincoli e limiti per l’attività giudiziaria e per l’ordinamento nazionale. Rispetto a tali vincoli, l’atteggiamento di chi intende operare per rafforzare la dimensione comune dell’Europa non può essere quella di resistenza o, peggio, di rifiuto. Al contrario, occorre impegnarsi seriamente e in concreto per trasformare tali indicazioni e vincoli in opportunità e occasioni di riforma del nostro sistema e, insieme, di rilancio di una Unione effettivamente fondata su libertà, diritti e giustizia, che rappresentano l’essenza del modello europeo di convivenza in uno Stato costituzionale di diritto. Ciò significa che il giudice è chiamato a confrontarsi non soltanto più con la Corte dei diritti umani il cui "diritto" è tenuto a conoscere e ad applicare" (dott. Ernesto Lupo, ex primo presidente della Corte di Cassazione; apertura dell’anno giudiziario 2012). Una riflessione che ambisca ad una dignità scientifica, deve innanzitutto porre in chiaro i presupposti metodologici che in essa operano. Non si può e non si deve tacere quindi sulle accidentalità particolari che si concretizzano in una forma di vita, unica e irripetibile, qual è quella dell’individuo. Direttore, chi le scrive sono i detenuti del carcere di Sulmona, da quasi un anno divenuto Istituto per detenuti di Alta Sicurezza, dove sono confluiti circa duecento condannati all’ergastolo ostativo, ad eccezione di qualcuno, significando che la probabilità che abbiamo di vedere la libertà è un’utopia, in quanto destinati a morire in carcere per via di un articolo (art. 4 bis, comma 1) della legge penitenziaria, introdotto circa 22 anni fa, quale legge emergenziale, ma mai più rivisto dal legislatore. È giusto e sacrosanto che venga applicata una pena a chi commette un crimine e che tale pena venga espiata ma, come diceva padre David Maria Turoldo, "nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è un’infinita possibilità". Purtroppo le leggi attuali questa possibilità non la consentono a nessuno, neppure a chi potrebbe essere stato condannato innocentemente, oppure a chi, in oltre vent’anni di detenzione, si è ravveduto facendo un percorso di revisione critica consapevole dei propri errori, ai quali comunque non può più porre rimedio non essendo più il soggetto che era al momento del crimine commesso, ma essendo diventato un individuo diverso perché la detenzione lo ha cambiato facendolo maturare negli anni. Perché è a questo che serve la rieducazione e la finalità della pena. Tuttavia non è sufficiente per il legislatore e poco o nulla può fare la magistratura di sorveglianza, che il più delle volte si trova con le mani legate da leggi alquanto discutibili perché in contraddizione tra loro. Quello che vorremmo è di spingere il legislatore e tutti i lettori a un a seria riflessione: che senso ha rieducare per legge una persona che per legge è stata condannata a morire in carcere? Perché attuare nei suoi confronti un trattamento penitenziario che implica farlo lavorare, studiare, colloquiare con educatori, assistenti sociali, psicologi, criminologi e, perché no, anche con il magistrato di sorveglianza che si reca in carcere ad incontrare l’ergastolano ostativo, al quale non concederà mai il beneficio, se poi il tutto non produrrà nessun effetto utile per la società? Ma proprio per cercare di superare questa contraddizione, il 26 Luglio 2012, è stata istituita con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura di Sorveglianza, composta da tre componenti dello stesso Csm, uno dei quali in funzione di coordinatore, tre magistrati designati dal ministro della Giustizia e sei magistrati di sorveglianza, in seno alla sesta Commissione. Il risultato dei lavori, che si sono conclusi il 30 ottobre 2012, è compendiato in un articolato elaborato al quale, però, non è stato dato seguito. Eppure sulla polifunzionalità della pena si è più volte pronunciata la Corte Costituzionale a far data dalla sentenza n. 3131 del 1990, la quale stabilisce che "tutti i soggetti che partecipano alla dinamica della pena rispondono a questo medesimo vincolo teleologico: il legislatore (nella fase della commisurazione della pena), il giudice di sorveglianza al pari della polizia penitenziaria (nella fase della sua applicazione), perché l’evoluzione compiutasi nella giurisprudenza Costituzionale è nel senso di una valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione del reo. Ed è proprio nella sentenza n. 137 del 1999, in materia di permessi premio che ha affermato che "non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione nell’articolo 27, terzo comma, con il precludere l’accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici e di quelle misure". Ribadendo ancora, che l’esperienza dei permessi premio rappresenta parte integrante del programma di trattamento, quale fondamentale strumento di rieducazione in quanto idoneo a consentire un iniziale reinserimento del condannato nella società così da poter trarre elementi utili per l’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione; trattamento al quale, è bene ricordare, è sottoposto anche l’ergastolano ostativo. Purtroppo per l’ennesima volta il legislatore ha fatto una scelta, sulla liberazione anticipata speciale, che in un primo momento includeva tutti i detenuti (con il dl 23.12.2013, n. 146), per poi apportare delle modifiche ed escludere, in sede di conversione in legge, i detenuti per reati di cui all’articolo 4 bis Ord. Pen. Già in passato su questo tema la Corte Costituzionale si è pronunciata riscontrando una palese violazione degli articoli 3 e 27 comma 3 della Costituzione, in quanto tale beneficio non era una misura alternativa e non si applicava in base al reato commesso, bensì sulla base del comportamento e della positiva adesione al trattamento rieducativo del detenuto. Per questo non si comprende perché il legislatore debba penalizzare quella parte di detenuti che pure al trattamento accettano di aderire con convinzione e serietà e vivono, al pari degli altri, tutte le condizioni inumane e degradanti che attualmente il sistema penitenziario attraversa. Venezia: motivazioni sentenza di condanna della Comandante della Polizia Penitenziaria Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 7 marzo 2014 La "cella liscia", la 408, era priva di illuminazione, di riscaldamento, senza sanitari e invasa da un insopportabile fetore di escrementi e di urina"; "un luogo che sottoponeva di fatto i detenuti a misure di rigore non consentite dalla legge...una cella di rigore di fatto illecitamente soppressiva di quel minimo di libertà residua che spettava ai detenuti"; infine, "si trovava in condizioni di conservazione pessime e che configurava logicamente un ambiente tutt’altro che confortevole e sicuramente non in grado di ovviare alle condizioni psichiche alterate, ma semmai idonea a rafforzare la scelta suicidaria". Con queste parole, il giudice veneziano Andrea Comez descrive la cella di Santa Maria Maggiore, dove il detenuto Cherib Debibyaui il 5 marzo 2009 è stato rinchiuso e dove si è impiccato, nelle motivazioni della sentenza con la quale è stata condannata a cinque mesi e dieci giorni di reclusione la comandante della Polizia penitenziaria del carcere veneziano Daniela Caputo. Era stato trasferito nella 408 dopo aver tentato il suicidio in un altra cella, dove a salvarlo erano stati due detenuti. Il magistrato ricorda che i detenuti vi venivano rinchiusi anche d’inverno in mutande e maglietta e spesso senza materasso per diverse giornate. La comandante, che ha scelto il rito abbreviato, a differenza degli altri imputati che sono stati rinviati a giudizio e verranno processati in Tribunale, doveva rispondere di concorso in omicidio e abuso d’autorità. La sentenza ricorda che l’obbligo di protezione della salute dei detenuti spetta alla Polizia penitenziaria e sottolinea che secondo l’articolo 27 della Costituzione le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. La Caputo aveva ratificato la decisione del suo sottoposto di rinchiudere il detenuto che già aveva tentato il suicidio nella cella di punizione, invece "avrebbe dovuto disporre la sua sorveglianza a vista o avrebbe dovuto trasferirlo in infermeria in attesa della visita medica". Nella sentenza si contesta la difesa dell’imputata che da un lato ha sostenuto che toccava al direttore del carcere farsi carico della protezione dei detenuti e dall’altro ha negato di conoscere le condizioni della cella 408. "Appare poco credibile", si legge, "visto che proprio in quell’occasione il comandante aveva avuto modo di vedere quella cella e di accorgersi che era priva di illuminazione, non era riscaldata ed era in condizioni igieniche pessime". Piacenza: poliziotti e detenuti "al fresco" per davvero… niente riscaldamento in carcere www.ilpiacenza.it, 7 marzo 2014 Protestano agenti e detenuti per le basse temperature a cui sono costretti da alcuni giorni. L’impianto non funziona soltanto nel padiglione che ospita le celle e dove ci sono in totale oltre 250 persone. Agenti della polizia penitenziaria e detenuti da un paio di giorni sono letteralmente al "fresco". Non è una facile ironia, ma la dura realtà che stanno vivendo le oltre 250 persone che ogni giorno affollano il vecchio padiglione del carcere delle Novate. Il sistema di riscaldamento non funziona e, al mattino presto e di notte, la temperatura si abbassa facendo battere i denti a chi, per lavoro o per condanna, deve stare nell’istituto di via delle Novate. Inutile sottolineare che ci si sarebbe mossi subito se il fatto si fosse verificato in un altro edificio della pubblica amministrazione, è il commento generalizzato. I detenuti sembra abbiano cominciato a protestare rumorosamente, mentre la polizia penitenziaria ha allertato i propri sindacati dopo le tante segnalazioni avute dal personale che opera nell’istituto. A non funzionare sarebbe soltanto l’impianto di riscaldamento del padiglione che ospita le celle, mentre il resto degli uffici - e anche il nuovo padiglione appena aperto - non avrebbe questi problemi. Massa Carrara: Convenzione con il Comune, sei detenuti al lavoro per pulire la periferia di Melania Carnevali Il Tirreno, 7 marzo 2014 Attivare un reale percorso di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro utile alla comunità, come la manutenzione delle strade, la pulizie delle periferie e tante altre attività che, per mancanza di budget, l’azienda municipale che si occupa di igiene urbana e raccolta rifiuti, non riesce a svolgere. È il senso della convenzione che Comune, istituto penitenziario massese e Asmiu si apprestano a firmare e che porterà alla creazione di un vero e proprio team di detenuti al servizio della comunità. Il progetto, che ha ottenuto il via libera dalla giunta comunale ed è ora in attesa di essere sottoscritto dalle varie parti, nasce da un protocollo firmato lo scorso 20 giugno da Anci (associazione nazionale comuni italiani) e dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, volto proprio a promuovere il lavoro nei vari istituti penitenziari italiani, lasciando la possibilità ai Comuni aderenti di scegliere la forma. La soluzione scelta dalla nostra amministrazione è stata, appunto, quella di utilizzare forza-lavoro per un settore in affanno: quello della pulizia urbana. "I detenuti non si sostituiscono al lavoro stagionale - rassicura il sindaco, Alessandro Volpi - ma andranno a integrare il servizio esistente con uno che attualmente l’Asmiu non riesce a coprire, come la manutenzione delle strade e altri piccoli servizi utili alla comunità". Saranno sei i detenuti che, "armati" di scopa e paletta, coordinati dall’Asmiu, gireranno sul territorio comunale, in particolare nei quartieri lontani del centro storico - quelli notoriamente meno coperti dal servizio di pulizia urbana - e lo cureranno: puliranno le strade, svuoteranno le bocche di lupo stradali otturate, seguendo un progetto di pulizia urbana che Asmiu definirà in base alle varie esigenze del territorio. Un progetto chiaramente importante per la comunità che usufruirà di un servizio finora assente, ma anche, o soprattutto, per lo stesso istituto penitenziario, che già si caratterizza per una forte rilevanza data al lavoro come strumento di rieducazione dei detenuti. "Il lavoro - spiega la direttrice del carcere, Maria Martone - è importantissimo per il percorso riabilitativo dei detenuti. Questo perché consente l’acquisizione di competenze e conoscenze professionali che sono utilmente spendibili, una volta scontata la pena, per un reinserimento sociale e lavorativo. Ma anche perché è molto più educativo trascorrere il tempo producendo qualcosa, che passarlo in cella. Senza dimenticare che permette anche di accusare molto meno il sovraffollamento delle carceri". Lo spirito dell’iniziativa è quindi quello di raggiungere, con un unico strumento, due obiettivi: quello della rieducazione dei detenuti e quello di aggiungere un servizio alla comunità. Pavia: è iniziata l’attività di Moreno Baggini, il Garante provinciale dei diritti dei detenuti La Provincia Pavese, 7 marzo 2014 La figura del garante dei diritti dei carcerati è un servizio volontario, senza alcun compenso. Potrà avere i rimborsi delle spese necessarie per svolgere il suo compito. In un regolamento di sei pagine sono definiti i compiti e anche le caratteristiche del suo mando. Dura in carica 5 anni e l’incarico può essere rinnovato una sola volta. Sul sito della Provincia ci sarà una pagina dedicata al garante con tutti i contatti e i riferimenti. Inizia in modo ufficiale il percorso del Garante dei diritti dei carcerati della Provincia di Pavia, Moreno Baggini. Ieri la presentazione alle associazioni, ai direttori dei tre carceri di Pavia, Vigevano e Voghera. "È il primo garante e quindi è un ruolo impegnativo, dobbiamo lavorare bene - sottolinea Baggini - vorrei e vorremmo fare in modo che politica e opinione pubblica non parlino di carcere solo quando si parla di sovraffollamento. Il carcere fa parte del territorio e io vorrei anche coinvolgere le imprese e le associazioni di categoria in questo percorso". Baggini inizierà una serie di incontri nei tre carceri provinciali, parlerà con i detenuti, ma non solo. "La Provincia mi ha messo a disposizione un ufficio in piazza Italia - spiega - ogni lunedì sarò a disposizione per incontrare cittadini e familiari dei detenuti. Presto ci sarà anche una pagina dedicata sul sito della Provincia con tutti i contatti. E poi ovviamente girerò nei tre carceri". "La presentazione è stata il primo passo per poter mettere a regime il garante nelle sue funzioni - spiega l’assessore Francesco Brendolise - ci saranno una serie di incontri istituzionali e con i detenuti, anche perché il garante dei diritti dei detenuti ha accesso al carcere senza la necessità di nessun particolare permesso". Il garante è una figura che dovrà fare da tramite tra chi vive l’esperienza del carcere e la società civile "per vincere il pregiudizio e per dare ai detenuti la speranza di potersi costruire una vita nuova - spiegano in Provincia. È una figura fondamentale per aiutare chi vive in regime di detenzione a percepirsi come cittadino, a sentirsi parte di una società che un domani lo potrà accogliere". Cagliari: Sdr-Fidapa; per l’8 marzo un "Sorriso oltre le sbarre", solidarietà alle detenute Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2014 Ancora un 8 marzo, per il quinto anno consecutivo, all’insegna della solidarietà con le detenute del carcere di Buoncammino. Una delegazione di socie della Fidapa di Cagliari, coordinata da Silvia Trois, e di Socialismo Diritti Riforme, presieduta da Maria Grazia Caligaris, incontrerà le donne private della libertà in occasione del progetto "Un sorriso oltre le sbarre" che si celebra annualmente in occasione della Festa della Donna. Grazie alla disponibilità della Direzione dell’Istituto Penitenziario e la collaborazione dell’Area Educativa, l’iniziativa prevede a partire dalle ore 10 una visita alle detenute e alle Agenti dell’Istituto di Pena cagliaritano. Vi prenderanno parte, oltre a una delegazione delle rappresentanti delle associazioni promotrici, l’eurodeputata e sottosegretaria alla Cultura e Turismo Francesca Barracciu, la Deputata Romina Mura, la Consigliera regionale della Sardegna Anna Maria Busia e la Preside della Facoltà di Scienze Politiche Paola Piras. In occasione dell’appuntamento, organizzato per festeggiare l’8 marzo con chi si trova in difficoltà, ciascuna detenuta riceverà un pacchetto contenente dei prodotti per la cura personale anche grazie alla generosità di alcune farmacie e profumerie. Sarà distribuito inoltre materiale informativo sull’8 marzo e donata una pianta per la sezione femminile del carcere. L’incontro sarà l’occasione per esaminare le problematiche connesse alla permanenza dentro la struttura detentiva non solo delle carcerate ma anche delle Agenti di Polizia Penitenziaria che condividono quotidianamente i disagi e le difficoltà derivanti dalla perdita della libertà. "Rinnoviamo il nostro impegno solidale - hanno sottolineato Caligaris e Trois - ritenendo che chi ha commesso un reato debba pagare il suo debito con la società in modo da poter essere riabilitato e reinserito positivamente nel circuito delle persone libere. Lo sforzo delle associazioni è quello di ricordare ai concittadini le difficoltà all’interno delle strutture penitenziarie soprattutto della sezione femminile ed esprimere a queste donne, in una giornata speciale, la nostra umana solidarietà". Napoli: a Secondigliano l’impianto di compostaggio pronto a funzionare prima dell’estate Roma, 7 marzo 2014 Un impianto di compostaggio per il trattamento di 10mila tonnellate di rifiuti all’anno potrebbe essere pronto prima dell’estate presso la casa circondariale di Secondigliano. Ad annunciarlo in commissione ambiente è il vicesindaco Tommaso Sodano. Danilo Risi, tecnico dell’assessorato all’Ambiente, ha delineato le caratteristiche principali dell’impianto, il primo che sorgerà nella città di Napoli, realizzato in un’area esterna alla casa Circondariale. La dichiarazione di inizio lavori è avvenuta nell’ottobre del 2013, e adesso si attende la valutazione, prevista per il 18 marzo, dall’apposita Cassa che, per conto dell’Amministrazione penitenziaria, elargisce fondi per progetti tesi al recupero ed al reintegro dei detenuti. L’impianto dovrebbe essere pronto prima dell’estate, ed attrezzato per lo smaltimento di 3.000 tonnellate di rifiuti l’anno, cifra che, con alcuni facili accorgimenti, potrebbe essere portata a 10.000 tonnellate, raccogliendo, come ha spiegato Risi rispondendo alle interrogazioni dei consiglieri, non solo i rifiuti organici e gli spacci vegetali prodotti all’interno del centro penitenziario, ma, si auspica, anche una parte di quelli provenienti dalla raccolta differenziata realizzata a Scampia. In questo modi si contribuirà al risparmio degli attuali costi di trattamento dell’umido, ai quali andrà aggiunto il risparmio delle spese di trasporto, con l’indiscutibile ripercussione sulla riduzione dell’emissione di anidride carbonica. Il direttore del Centro penitenziario, Liberato Guerriero, ha ricordato il forte impatto sociale che un’iniziativa di questo genere comporta, contribuendo con il lavoro ai percorsi di recupero. I costi per la realizzazione dell’impianto sono ripartiti tra Amministrazione penitenziaria (700.000 euro) e la cooperativa Ermeco (1.200.000). Il comunicato stampa del Comune di Napoli La commissione Ambiente, presieduta dal consigliere anziano Marco Nonno, si è riunita oggi per discutere, su richiesta del consigliere Vernetti, dello stato di realizzazione dell’impianto di compostaggio aereobico presso la casa circondariale di Secondigliano. Alla riunione hanno partecipato il vice Sindaco e assessore all’Ambiente Tommaso Sodano, Danilo Risi, dell’assesorato all’Ambiente, il Consigliere del CdA di Asia, Luigi Peluso, il direttore del Centro Penitenziario, Liberato Guerriero, e il tecnico della cooperativa Ermeco che sta realizzando l’impianto, Lorenzo Grignani. In apertura, Danilo Risi ha delineato le caratteristiche principali dell’impianto, il primo che sorgerà nella città di Napoli, realizzato in un’area esterna alla casa Circondariale. La dichiarazione di inizio lavori è avvenuta nell’ottobre del 2013, e adesso si attende la valutazione, prevista per il 18 marzo, dall’apposita Cassa che, per conto dell’Amministrazione penitenziaria, elargisce fondi per progetti tesi al recupero ed al reintegro dei detenuti. L’impianto dovrebbe essere pronto prima dell’estate, ed attrezzato per lo smaltimento di 3000 tonnellate di rifiuti l’anno, cifra che, con alcuni facili accorgimenti, potrebbe essere portata a 10.000 tonnellate, raccogliendo, come ha spiegato Risi rispondendo alle interrogazioni dei consiglieri, non solo i rifiuti organici e gli spacci vegetali prodotti all’interno del centro penitenziario, ma, si auspica, anche una parte di quelli provenienti dalla raccolta differenziata realizzata a Scampia. In questo modi si contribuirà al risparmio degli attuali costi di trattamento dell’umido, ai quali andrà aggiunto il risparmio delle spese di trasporto, con l’indiscutibile ripercussione sulla riduzione dell’emissione di anidride carbonica. Il direttore del Centro penitenziario, Liberato Guerriero, ha ricordato il forte impatto sociale che un’iniziativa di questo genere comporta, contribuendo con il lavoro ai percorsi di recupero. I costi per la realizzazione dell’impianto sono ripartiti tra Amministrazione penitenziaria (700.000 euro) e la cooperativa Ermeco (1.200.000). Nella discussione sono intervenuti i consiglieri: Attanasio, che ha espresso la necessità di approfondire le modalità dell’impiego dei detenuti per evitare di alimentare aspettative a cui non si può garantire continuità; Schiano, che ha chiesto chiarimenti sui controlli del terreno effettuati da geologi e tecnici; Vernetti, che ha chiesto delucidazioni tecniche sui procedimenti di compostaggio; Fellico, che si è espresso sulla necessità di tranquillizzare la cittadinanza riguardo l’assenza di agenti inquinanti. Il dott. Grignani, della cooperativa Ermeco, ha ricordato che le opere ancora da realizzare, come l’impianto di depurazione, la piattaforma di cemento e il montaggio del prefabbricato, necessitano di poco tempo, e che la cooperativa si è impegnata nella fornitura di mezzi, macchinari ed apparecchiature per i processi di compostaggio, oltre all’apporto del necessario know how. Ha poi tranquillizzato e risposto alle domande dei consiglieri sul fatto che non ci saranno disagi di tipo olfattivo con un azzeramento totale delle emissioni maleodoranti. Il vice Sindaco e assessore all’Ambiente, Tommaso Sodano, è tornato sulla necessità, espressa dal consigliere Fellico, di rassicurare i cittadini per evitare allarmi su temi inesistenti, iniziando con questo impianto un processo che dovrebbe portare alla creazione di tanti piccoli impianti sparsi nel territorio che affiancheranno il sito di compostaggio di Scampia per il quale è imminente la definizione delle procedure. Questa gestione dei rifiuti allontana l’emergenza e il ricorso a discariche, tema ritornato alla ribalta con la proposta di riaprire una discarica a Chiaiano per lo smaltimento dei rifiuti provenienti dagli Stir. Il Consigliere del CdA di Asia, Luigi Peluso, ha rimarcato l’importanza ambientale dell’avvio dell’impianto di compostaggio, che aiuta l’azienda Asia a convincere la città che questo tipo di impianti non solo non è nocivo, ma anzi permettono di realizzare un ciclo a km 0, spostando di meno i rifiuti, non coinvolgendo le centraline ed evitando il ricorso, per lo smaltimento, alle altre regioni, abbattendo così i costi. Il Capo ufficio stampa, Mimmo Annunziata La Spezia: Sappe; ritrovati in una cella del carcere telefono cellulare e carica batteria Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2014 "Nel carcere di La Spezia, dopo circa 2 mesi di indagine della Polizia Penitenziaria al fine di individuare la cella specifica, questa sera è scattato il blitz all’interno di una cella con all’interno 5 detenuti magrebini con il ritrovamento di un cellulare e relativo caricabatteria artigianale". Lo dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di categoria. "Quanto avvenuto - continua - ci impone di tornare a chiedere al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria interventi concreti. Come, ad esempio, la dotazione ai reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani", situazioni su cui il Sappe "in più occasioni ha richiamato l’attenzione delle Autorità dipartimentali". "È ormai indifferibile - sottolinea Martinelli - adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo. A nostro avviso appaiono pertanto indispensabili interventi immediati compresa la possibilità di schermare gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Roma: "Ricuciamo", a Rebibbia Miss Italia 2013 sfila con vestiti realizzati dalle detenute Adnkronos, 7 marzo 2014 Miss Italia, Giulia Arena, in visita al laboratorio sartoriale "Ricuciamo" al carcere femminile di Rebibbia di Roma. Secondo Patrizia Mirigliani patron di Miss Italia, "è il primo passo di un cammino insieme al gruppo idee". Al laboratorio sartoriale le donne detenute realizzano abiti e accessori del brand Neroluce. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Gruppo Idee, che da anni opera nell’ambito del reinserimento sociale dei detenuti, ideatrice del progetto del laboratorio Ricuciamo e del marchio Neroluce - realizzato in collaborazione con Casa della Famiglia Città di Marino, la stilista Sabrina Minucci e le insegnanti dell’Accademia Altieri Moda e Arte Adele Del Duca e Laura Zagaglia. "Questo è un primo passo di un lungo percorso che intendiamo portare avanti con l’Associazione Gruppo Idee - ha sottolineato Patrizia Mirigliani - Con Miss Italia Giulia Arena siamo qui per celebrare insieme i successi che le donne ogni giorno raggiungono nella nostra società con il loro apporto significativo". Giulia Arena, Miss Italia 2013, si è detta "felicissima di aderire a questo progetto che ho intenzione di continuare a seguire fattivamente insieme all’Associazione Gruppo Idee, cercando di portare la voce delle donne detenute nel mondo". Tra i presenti la senatrice Silvana Amati e Fedele Grasso, da sempre impegnate nel mondo dei diritti umani, che hanno ricordato come "l’esperienza di oggi, organizzata e proposta dall’Associazione Gruppo Idee, creatrice del laboratorio Ricuciamo e del brand Neroluce, è unica nel suo genere. Ringraziamo quindi con l’occasione le associazioni come il Gruppo Idee per il lavoro svolto nelle carceri in cui operano". Presente anche il Garante dei Detenuti di Roma Capitale Filippo Pegorari, che ha ribadito "l’impegno dell’amministrazione capitolina nel supportare un progetto importante e di rilievo sociale come quello di Ricuciamo, realizzato dall’Associazione Gruppo Idee". La responsabile del progetto Ricuciamo per il Gruppo Idee, Germana De Angelis, ha infine "gioito per il grande successo che il progetto Ricuciamo sta avendo dentro e fuori il carcere". "A questo proposito vogliamo condividere la soddisfazione con la Direzione del Carcere Femminile di Rebibbia - ha detto De Angelis - Ida Del Grosso che ringraziamo per il continuo supporto che ci offre ogni giorno insieme a tutti gli operatori dell’Istituto. Grazie anche a tutte le direzioni delle altre carceri nelle quali la nostra associazione opera da anni impegnandosi in progetti importanti per i detenuti". L’abito realizzato dalle detenute del laboratorio Ricuciamo e che è stato donato a Giulia Arena nel corso dell’evento, sarà indossato da Miss Italia in altre occasioni e messo all’asta, il ricavato sarà devoluto all’Associazione Gruppo Idee a sostegno del progetto del laboratorio sartoriale Ricuciamo presso il Carcere Femminile di Rebibia. Nel corso della mattinata gli ospiti hanno visitato il laboratorio sartoriale e assistito ad una sfilata delle detenute modelle per un giorno, che hanno camminato in passerella accanto alla Miss Giulia Arena. Stati Uniti: "Condannato a morte come un cane, in America i detenuti sono schiavi" di Paolo Mastrolilli La Stampa, 7 marzo 2014 Il testamento choc di Ray Jasper, che sarà giustiziato il prossimo 19 marzo. "Questa lettera potrebbe essere la mia dichiarazione finale sulla terra: il sistema giudiziario è davvero corrotto oltre ogni possibilità, se un prigioniero si rifiuta di lavorare lo chiudono in isolamento. Avete idea di che effetto ha questo sulla mente umana?" "Intendo usare questa lettera come una specie di piattaforma, perché potrebbe essere la mia dichiarazione finale sulla Terra". Così comincia il documento inviato da Ray Jasper al sito Gawker, che sta facendo discutere l’America. Nel 1998 Ray aveva 19 anni ed era stato condannato a morte per l’omicidio dell’impresario David Alejandro. Jasper non era quello che aveva materialmente ucciso, ma il responsabile aveva ammesso la sua colpevolezza e aveva ricevuto l’ergastolo. Ray invece era andato a processo come complice e aveva ricevuto la pena capitale. All’epoca aveva una figlia nata da poche settimane, che adesso ha 15 anni e va a scuola. Il 19 marzo, esauriti gli appelli, lui verrà giustiziato: "Lo stato del Texas ha deciso di uccidermi come un cane rabbioso. State parlando con un uomo che è stato giudicato indegno di respirare la vostra stessa aria". Jasper scrive che "il sistema giudiziario è davvero corrotto oltre ogni possibilità di ripararlo. In base al Tredicesimo emendamento della Costituzione, tutti i detenuti in America sono considerati schiavi. Se un prigioniero si rifiuta di lavorare ed essere schiavizzato, lo chiudono in isolamento: avete idea di che effetto ha questo sulla mente umana?". Ray continua così: "Le sentenze sono ormai fuori controllo. La gente riceve l’ergastolo per reati in cui non c’è stata violenza. Conosco un ragazzo di 24 anni che ha preso 160 anni di prigione per una rapina da 500 dollari, in cui nessuno fu colpito. È pura oppressione. Una moltitudine di giovani sono stati buttati via in questa generazione". Secondo Jasper, "l’altra medaglia di questo problema è il mondo del business che fa soldi con i detenuti. Il punto non è la punizione per il crimine, ma i profitti. Le prigioni sono un’industria miliardaria, con 122 carceri che detengono quasi 2 milioni di persone. Ci sono compagnie che spiegano alle piccole città come aprire altri penitenziari rilancerebbe l’economia e creerebbe lavoro. Come possono queste persone favorire condanne che consentono la riabilitazione dei detenuti? Sarebbe un cattivo affare, e quindi la politica spinge per dare sentenze più lunghe". Naturalmente Ray è contro la pena di morte: "Non la condivido. È una pratica del sud, che viene dall’antica mentalità del linciaggio. Quasi tutte le esecuzioni avvengono nell’America meridionale. La pena capitale va abolita. L’ergastolo è già una condanna a morte. Se deve esistere, la pena capitale è giustificata solo per omicidi di massa o atti terroristici. Pensate, ad esempio, che in Texas non ti condannano a morte per l’omicidio in sé, ma perché l’omicidio era associato ad un altro reato. Che senso ha? Se hai ucciso non vieni giustiziato, ma se poi hai rubato i soldi dal portafoglio della vittima sì. Io, ad esempio, non sono stato condannato perché avevo ucciso, ma per la law of parties. L’omicida ha ammesso la colpa ed ha ricevuto l’ergastolo. Io sono responsabile anche delle sue azioni, come complice, ma solo io sono stato condannato a morte". Anche il sistema usato per le esecuzioni è inaccettabile: "L’iniezione letale viene dalle pratiche dei nazisti nell’Olocausto contro gli ebrei. Adottarla per uccidere le persone, quando è incostituzionale usarla per i cani, significa dire qualcosa di davvero crudele e inumano. Ma alla gente non importa, perché tanto vengono ammazzati esseri orribili". Un altro problema, ovviamente, è la razza: "Io sono finito in prigione a 19 anni, e quando sono entrato ho pensato: non ho mai visto tanti neri in vita mia! Sembrava di essere arrivato in Africa. Come cantava 2Pac, i penitenziari sono colmi, riempiti di neri. È davvero un’epidemia. In larga parte è una crisi di identità. Noi neri non conosciamo la nostra storia. Veniamo da una cultura diversa dai bianchi, ma essendo schiavi, ci siamo persi. Abbiamo perduto le nostre radici. Pensiamo che la schiavitù sia la nostra radice". Il punto finale della lettera di Jasper riguarda la religione: "Diversi predicatori in Texas e nel sud dicono che la pena di morte viene da Dio ed è sostenuta dalla Bibbia. Ma le esecuzioni sono un tema politico, non spirituale. I pastori che le sostengono predicano il male. Se Dio voleva che io morissi, lo avrebbe fatto già da tempo. Io ci parlo ogni giorno, e lui non mi dice che sono una minaccia da eliminare. Come spiegava San paolo, io sono il capo dei peccatori, ma Dio ha avuto pietà di me. Credere che qualcuno sia oltre la possibilità di redimersi è contrario all’intera fede cristiana". L’ultimo pensiero è per la figlia: "Io sono un padre. Mia figlia aveva sei settimane quando fui rinchiuso, ora ne ha 15 e va al liceo. Nonostante le circostanze, ho cercato di essere il miglior padre del mondo. Sapevo che il corso della sua vita sarebbe stato determinato in larga parte da quello che le avrei insegnato. È così per tutti. Come diceva Aristotele, i miglioramenti nella società cominciano sempre con l’istruzione dei giovani. Con sincerità, Ray L. Jasper". P.S. "Scusate la lunghezza della lettera, ma stavo parlando dal mio cuore". Egitto: venti giornalisti Al Jazeera, detenuti in attesa del processo, denunciano torture Ansa, 7 marzo 2014 I venti giornalisti di al Jazeera (quattro europei e sedici egiziani) sotto processo con l’accusa di avere diffuso notizie false parteggiando per i Fratelli Musulmani, nell’udienza del 5 marzo hanno denunciato maltrattamenti durante la loro detenzione in carcere. Uno di loro ha accusato la polizia di avergli procurato una frattura alla spalla. La prossima udienza si terrà il 24 marzo. Libia: il Niger estrada a Tripoli al-Saadi Gheddafi, non è ricercato dalla Cpi La Presse, 7 marzo 2014 Al-Saadi Gheddafi, figlio dell’ex dittatore libico Muammar Gheddafi, è stato estradato dal Niger in Libia. Lo ha annunciato il governo di Tripoli, affermando che al-Saadi verrà trattato "nel rispetto delle leggi internazionali". Un funzionario libico, che ha mantenuto l’anonimato, ha specificato che il figlio dell’ex dittatore ed ex calciatore è arrivato in aereo a Tripoli nelle prime ore di oggi e che è stato subito portato in un carcere della capitale. Poche ore dopo l’annuncio dell’estradizione, sui social network sono circolate immagini di al-Saadi con addosso l’uniforme blu indossata dai detenuti mentre le guardie gli tagliano barba e capelli. Come molti altri lealisti di Gheddafi, al-Saadi era ricercato per il proprio ruolo nella repressione del dissenso e nelle uccisioni di manifestanti nelle proteste del 2011, che alla fine portarono alla deposizione e alla morte del dittatore. Al-Saadi era fuggito dalla Libia mentre il governo del padre veniva rovesciato e si era rifugiato in Niger, dove venne subito fermato e messo agli arresti domiciliari. A differenza di suo fratello Saif al-Islam, al-Saadi non è ricercato dalla Corte penale internazionale. Nigeria: quattro uomini gay frustati in pubblico e condannati a un anno di carcere www.fanpage.it, 7 marzo 2014 Malgrado le condanne provenienti da tutto il mondo in Nigeria continuano le persecuzioni nei confronti degli omosessuali. Oggi infatti il tribunale islamico di una città del nord del Paese ha condannato quattro uomini - ritenuti colpevoli di essere gay e di aver consumato rapporti sessuali - alla pubblica fustigazione. A renderlo noto è stato un attivista per i diritti umani, che ha raccontato come la condanna sia stata eseguita oggi stesso: ognuno dei 4 è stato frustato alla schiena 15 volte. Ma non solo: dovranno anche scontare un anno di carcere e pagare una multa molto salata. Gli uomini hanno un’età compresa tra i 20 e i 22 anni e - a quanto pare - le loro confessioni sono state estorte sotto tortura. Malgrado ciò la condanna è stata resa esecutiva immediatamente, senza che i familiari dei quattro tentassero in alcun modo di imbastire una strategia di difesa: troppa la vergogna provata, in un paese nel quale le tradizioni religiose sono estremamente radicate nella popolazione e l’omosessualità è duramente repressa. Le udienze nei confronti dei quattro erano iniziate già nel mese di gennaio, quando fuori dal tribunale si radunarono centinaia di persone per chiedere la lapidazione dei colpevoli. La folla inferocita ha iniziato a lanciare pietre contro l’edificio e i funzionari della sicurezza, che per disperdere la folla sono stati costretti a sparare colpi di arma da fuoco in aria. Secondo la Sharia, la legge islamica applicata soprattutto nel Nord della Nigeria, gli omosessuali possono essere anche condannati a morte per lapidazione oppure iniezione letale, anche se questa pena finora non è mai stata applicata. Il giudice ha deciso per la fustigazione perché i quattro, benché sotto tortura, hanno ammesso le loro colpe affermando che si trattava comunque di episodi verificatisi in passato. "Ora abbiamo cambiato il nostro modo di vivere", hanno promesso. Ciò, tuttavia, non è bastato per risparmiagli una pena disumana e severissima. I quattro sono stati costretti a confessare sotto tortura. Nei loro confronti una folla inferocita fuori dal tribunale chiedeva addirittura la condanna a morte tramite lapidazione. Tunisia: Amnesty International chiede l’assoluzione per blogger anti-Maometto Aki, 7 marzo 2014 Amnesty International ha chiesto che venga annullata la condanna del blogger tunisino Jabeur Mejri, 29 anni, sotto accusa per aver postato su Facebook caricature del Profeta Maometto svestito. Graziato dal presidente tunisino Moncef Marzouki il 19 febbraio scorso e uscito dal carcere due giorni fa, Mejri resta infatti imputato. "Il rilascio di Jabeur Mejri è un enorme sollievo per la sua famiglia e una vittoria per tutti gli attivisti che si sono battuti in suo nome in tutto il mondo - ha detto il responsabile di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa Philip Luther. La decisione di metterlo dietro le sbarre per due anni per le immagini che ha pubblicato online è stata una parodia che rischiava di schiacciare ogni speranza di progresso sulla libertà di espressione". Ma "una grazia è insufficiente - ha aggiunto Luther. Le autorità tunisine devono ora mettere le cose in chiaro. La sua condanna e la sentenza nei suoi confronti devono essere annullate e il suo nome cancellato una volta per tutte" dal registro degli imputati. Luther ha quindi notato che una grazia presidenziale non ripulisce la fedina penale di Mejri e che le autorità "devono proteggere" il diritto alla libertà di espressione sancito dalla Costituzione adottata di recente. Turchia: violati diritti ex capo forze armate, condannato per un presunto tentativo golpe Ansa, 7 marzo 2014 La Corte costituzionale turca ha dichiarato oggi che sono stati violati i diritti costituzionali dell’ex capo delle forze armate, generale Ilker Basbug, condannato all’ergastolo per un presunto tentativo di golpe contro il governo islamico del premier Recep Tayyip Erdogan. Lo riferisce la stampa di Ankara. Basbug era stato condannato in primo grado l’anno scorso con altri 275 accusati - alti ufficiali, politici, giornalisti, universitari laici - in un processo definito dall’opposizione una "caccia alle streghe" condotta dal governo Erdogan con l’aiuto di magistrati vicini alla confraternita islamica del predicatore Fetullah Gulen, allora alleato del premier. Basbug è stato il capo delle forze armate turche dal 2008 al 2010. La decisione della Corte costituzionale dovrebbe permettere una liberazione dell’alto ufficiale, ora in pensione, ritiene Hurriyet online. Basbug, e tutti gli altri condannati nel processo Ergenekon, hanno sempre respinto ogni accusa. Altri processi sono stati aperti dopo l’arrivo al potere del partito islamico Akp di Erdogan nel 2002, contri i vertici militari, che hanno il ruolo di "guardiani" del lascito laico del 1923 di Mustafa Kemal "Ataturk", fondatore della repubblica turca moderna. Con l’appoggio del governo islamico, la confraternita Hizmet di Fetullah Gulen ha occupato incarichi di rilievo nella giustizia e nella polizia del Paese. Ora Erdogan e Gulen sono impegnati in uno scontro di potere senza esclusione di colpi. Il premier accusa gli ex alleati di avere innescato le inchieste anti-corruzione che ora coinvolgono decine di personalità del regime e fanno tremare il governo.