Giustizia: il punto sulle tre proposte di legge di iniziativa popolare www.camerepenali.it, 4 marzo 2014 Si avvicina la data di fine maggio 2014 assegnata dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani. I detenuti sono diminuiti di 4 mila unità in un anno. La campagna di sensibilizzazione ha contribuito a favorire una diversa e più qualificata attenzione per il sistema carcerario da parte dei media, delle istituzioni e più in generale dell’ opinione pubblica. Ora si apre l’ incognita del nuovo Governo. Proposta di legge sulle droghe La Corte costituzionale ha giustiziato la Fini-Giovanardi; rivive ora la Iervolino Vassalli. Per le pene detentive inflitte ancora da espiare si contrappongono sostanzialmente due orientamenti: uno secondo il quale si potrà operare la rideterminazione della pena, l’altro, più restrittivo, secondo cui per i processi già definiti con sentenza passata in giudicato la pena è intangibile. Link al documento sugli effetti della sentenza della Corte Costituzionale del 12 febbraio 2014. Proposta di legge sulle carceri Misure alternative. La detenzione domiciliare per chi deve scontare pene inferiori ai due anni è ora la regola. L’affidamento in prova si applica alle pene residue inferiori ai 4 anni e non più ai 3. Per un periodo di tempo limitato sarà possibile fruire della liberazione anticipata speciale, ovvero di uno sconto di 75 giorni di pena ogni semestre in caso di buona condotta. Ne sono esclusi, però, i detenuti ristretti per i reati di cui all’ art.4bis O.P. C’è, peraltro, ancora molto da fare in materia di immigrazione clandestina, messa alla prova, custodia cautelare e recidiva rispetto alla quale la legge 94/2013 di conversione del decreto non ha apportato tutte le modifiche sperate. Proposta di legge sulla tortura Su questo punto il dibattito parlamentare langue. La Commissione Giustizia ha approvato una proposta del tutto insoddisfacente che configura il reato di tortura un reato comune, che può essere commesso da chiunque, anziché qualificarlo come reato proprio. è, dunque, necessario ripartire con una nuova campagna di opinione. Giustizia: amnistia-indulto, oggi e domani manifestazioni e presidi davanti alle carceri www.contattonews.it, 4 marzo 2014 Sono nate nuove iniziative per sensibilizzare il Governo Renzi sulla questione del sovraffollamento carcerario. Mentre prosegue dal 27 febbraio lo sciopero della fame di massa promosso dai Radicali italiani guidati dalla leader Rita Bernardini, il "Movimento Unito detenuti ed ex detenuti Uomo Nuovo" promuove nelle giornate del 5 e 6 marzo manifestazioni a sostegno dei provvedimenti di amnistia e indulto 2014 davanti alle carceri di Rebibbia e Regina Coeli a Roma. Vi saranno presidi di militanti davanti a tutte le carceri italiane "contro la politica elusiva del problema carceri del Governo Renzi e con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e solidarizzare con i diritti alla dignità e alla vivibilità delle carceri". Un’altra importante manifestazione è stata da poco annunciata dai Radicali per domani, Martedì 4 marzo, davanti a Montecitorio in occasione del dibattito sulla relazione che la Commissione Giustizia della Camera ha elaborato sui temi oggetto del primo e unico messaggio del suo mandato che il Presidente della Repubblica Napolitano ha inviato al Parlamento scegliendo i temi della giustizia negata in Italia e del sovraffollamento carcerario. "Colpisce - si legge in una nota di Rita Bernardini - che il dibattito della Camera dei deputati giunga a 5 mesi di distanza dall’atto costituzionale (art. 87, secondo comma) del Presidente della Repubblica e si prova rammarico nel constatare che la Camera abbia deciso di discuterlo attraverso il "filtro" delle osservazioni della Commissione giustizia. Da parte nostra con Marco Pannella, leader storico della battaglia per la "giustizia giusta" in Italia, comunichiamo che oggi è il quarto giorno del nostro Satyagraha che abbiamo lanciato attraverso un mio appello che porta anche la firma della Segretaria dell’Associazione "il Detenuto Ignoto" Irene Testa. Un appello che vuole scandire l’iniziativa nonviolenta - che vede già coinvolte 792 persone fra le quali molti parenti dei detenuti - segnando il tempo che ci separa dal prossimo 28 maggio, termine ultimo fissato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo allo Stato italiano per porre fine alla tortura praticata nei confronti dei detenuti ristretti nelle nostre carceri. Fra i primi sottoscrittori si segnalano L’Associazione Ristretti Orizzonti, il Senatore Luigi Manconi, la Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Elisabetta Laganà, Gustavo Imbellone dell’associazione "A Roma Insieme - Leda Colombini", il Presidente della Società italiana di Psicologia Penitenziaria Alessandro Bruni e il Presidente di Antigone Stefano Anastasia. Intanto, la Presidente di Radicali italiani Laura Arconti ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Andrea Orlando (che appena nominato guardasigilli ha telefonato alla Segretaria Bernardini auspicando un incontro immediato) sottolineando l’urgenza dell’incontro con la delegazione radicale e perorando la causa dell’amnistia ed indulto non solo per le condizioni disumane e degradanti delle nostre carceri ma, soprattutto, "per liberare le scrivanie dei giudici e gli armadi delle cancellerie da un mucchio di carte inutili destinate comunque alla prescrizione". Giustizia: carceri inumane, dibattito prezioso se aprirà una fase nuova Avvenire, 4 marzo 2014 Gentile direttore, prendo spunto dalla lettera del signor Pietro Balugani e dalla sua risposta sul tema "Carceri: legalità è certezza della pena e rifiuto di ingiustizie e disumanità" ("Avvenire" del 1° marzo scorso), per formulare alcune osservazioni che vorrei fossero di qualche utilità in vista del dibattito alla Camera sull’argomento, fissato per il 4 marzo. Non v’è il minimo dubbio che l’attuale situazione delle carceri italiane, per il loro sovraffollamento, sia lesivo dei diritti delle persone. Lo ha messo in rilievo il messaggio del Presidente della Repubblica inviato al Parlamento nello scorso ottobre e, come lei osserva, "l’ultimatum, con scadenza a fine maggio, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha riservato per il trattamento disumano e persino, nei fatti, di "tortura", al quale in Italia arriviamo a sottoporre i carcerati". L’idea di intervenire con un’amnistia è stata evocata in diverse circostanze e senza seguito, probabilmente perché l’amnistia ha come effetto l’estinzione del reato e quindi l’integrale venir meno di ogni condanna ed essa, per ragioni di giustizia, non potrebbe essere applicata ai reati più gravi. Si è parlato anche di un indulto che, ai sensi dell’art. 174 del Codice Penale, non cancella il reato ma condona la pena inflitta senza estinguere le pene accessorie (salvo che il decreto che lo concede non disponga diversamente) e gli altri effetti penali della condanna. Ma di indulto non si è più parlato, probabilmente perché ritenuto contrario alla esigenza di certezza della pena. Ciò di cui non mi risulta si sia tenuto conto è che il citato art. 174 prevede anche un indulto parziale, cioè che l’indulto può condonare solamente "in parte" la pena inflitta o commutarla in altra specie di pena stabilita dalla legge. La possibilità di un condono parziale della pena mi pare meriti particolare attenzione nell’attuale situazione. Essa infatti, se il condono riguardasse un quinto o un quarto, o altra misura, delle pene inflitte, qualunque sia stato il reato per cui è intervenuta condanna, otterrebbe due distinti risultati: il primo consisterebbe in una giustificata riduzione della pena, in ragione della maggiore afflizione della detenzione subita a causa della situazione di affollamento delle carceri; il secondo effetto sarebbe quello di una scarcerazione immediata di un numero di detenuti tale da determinare migliori condizioni della detenzione per gli altri carcerati. Tale risultato sarebbe tanto maggiore quanto più rilevante fosse l’ammontare del condono concesso, determinazione spettante al potere legislativo e che potrebbe portare alla normalizzazione della situazione carceraria. Il prospettato indulto parziale potrebbe trovare applicazione, in forza della norma che lo disponesse, non solo con riferimento alle condanne già inflitte, a seguito di sentenza definitiva, ma altresì con riferimento alle condanne da infiggersi nei processi in corso; il giudice dovrebbe determinare la pena in base alla legge vigente e su tale pena applicare la diminuzione disposta con l’indulto parziale, diminuzione da rapportarsi alla durata della detenzione in condizione di sovraffollamento. Spero di aver portato un contributo alla riflessione comune. Giulio Gavotti, presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione e già componente del Csm Francamente non so, gentile presidente Gavotti, se ci siano le condizioni politiche per imboccare la strada di un atto di clemenza, anche solo nella forma di un "indulto parziale", condizionato e limitato secondo le previsioni di legge (articolo 174, e ultimi tre commi dell’art.151 del Codice Penale). Penso anch’io che un colpo di spugna totale e indiscriminato non sarebbe oggi possibile e accettato dall’opinione pubblica, e perciò credo che la sua riflessione su un provvedimento mirato sia certamente opportuna e utile. Nonostante i rimedi tentati attraverso provvedimenti che via via sono stati etichettati come "svuota carceri", le condizioni di vita negli istituti di pena italiani restano infatti disastrose, un sovraffollamento che infligge quella che papa Benedetto XVI, incontrando i detenuti di Rebibbia pochi giorni prima del Natale del 2011, definì una ingiusta "doppia pena" e che umilia anche il lavoro di tutti gli operatori carcerari: dirigenti, agenti, assistenti, psicologi, educatori, cappellani, volontari... Toccare questo tasto, oggi persino più di ieri, significa attirarsi i fulmini di tutti coloro che considerano l’ultimo dei problemi del nostro Paese l’avere carceri "inumane", stavolta l’aggettivo è quello usato da papa Francesco nel messaggio per la Giornata della Pace 2014. In questi anni, sulle nostre pagine, abbiamo spiegato e rispiegato perché, invece, lo stato dei penitenziari sia un cruciale indicatore di civiltà. E lo abbiamo fatto anche raccogliendo storie che dimostrano quanto bene facciano alle singole persone e alla società intera le esperienze - che, pure, ci sono - di detenzione e di recupero umano realizzate secondo la Costituzione e le leggi. Per questo servono soluzioni strutturali, ma probabilmente anche atti straordinari. Non ho paura di ripetermi: infine, e per principio, siamo davanti a un aspetto essenziale della grande "questione legalità" che si pone nel nostro Paese. Torno perciò ad augurarmi che oggi, a Montecitorio, il dibattito sul messaggio inviato al Parlamento dal capo dello Stato sia davvero all’altezza delle attese. Spero, cioè, che indichi una via concreta per uscire dall’indegno pantano nel quale vivono troppi essere umani e dove, dopo la severa condanna e l’ultimatum della Corte europea dei diritti dell’uomo, è finito anche un altro po’ della credibilità dell’Italia. Marco Tarquinio Giustizia: i Radicali al ministro Orlando; serve amnistia, oggi manifestazione a Roma Agi, 4 marzo 2014 Una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando, per sottolineare che "non c’è da perdere un giorno, non un’ora, non un minuto. Occorre un provvedimento di clemenza completo". A scriverla è stata la presidente dei Radicali italiani Laura Arconti, affrontando il drammatico tema delle carceri con il nuovo Guardasigilli. Proprio sull’emergenza carceraria, i Radicali tengono oggi una manifestazione davanti a Montecitorio, in occasione del dibattito sulla relazione che la Commissione Giustizia della Camera ha elaborato sui temi oggetto del messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato al Parlamento nello scorso ottobre. "Colpisce - si legge in una nota della segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini - che il dibattito della Camera dei deputati giunga a 5 mesi di distanza dall’atto costituzionale del Presidente della Repubblica e si prova rammarico nel constatare che la Camera abbia deciso di discuterlo attraverso il filtro delle osservazioni della Commissione giustizia. Da parte nostra, con Marco Pannella, leader storico della battaglia per la giustizia giusta in Italia, comunichiamo che oggi è il quarto giorno del nostro Satyagraha che abbiamo lanciato attraverso un mio appello che porta anche la firma della segretaria dell’associazione "Il Detenuto Ignoto" Irene Testa. Un appello che vuole scandire l’iniziativa nonviolenta, che vede già coinvolte 792 persone fra le quali molti parenti dei detenuti, segnando il tempo che ci separa dal prossimo 28 maggio, termine ultimo fissato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo allo Stato italiano per porre fine alla tortura praticata nei confronti dei detenuti ristretti nelle nostre carceri". Anche la presidente Arconti, nella lettera inviata al Guardasigilli, ricorda la scadenza imposta dall’Europa all’Italia per affrontare l’emergenza nei penitenziari: "non solo indulto - scrive Arconti - ma soprattutto amnistia, che cancella il reato e libera le scrivanie dei giudici e gli armadi delle cancellerie da un mucchio di carte inutili destinate comunque alla prescrizione". E "con altrettanta urgenza - continua la presidente dei Radicali - occorrono provvedimenti coraggiosi di riforma strutturale dell’intero sistema giustizia: questa seconda parte - si legge nella lettera - richiederà qualche tempo in più, ed è proprio per questo che soltanto un provvedimento immediato di clemenza può fornire alla Cedu la prova della concreta decisione del nostro Governo e del nostro Parlamento di uscire da una situazione indegna di un Paese che è stato storicamente considerato la culla del diritto". Giustizia: Italia giù in classifica, è al 35° posto in Europa per l’efficienza del sistema di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 4 marzo 2014 L’elaborazione ministeriale su dati della Banca mondiale e del Consiglio d’Europa. L’Italia è al trentacinquesimo posto in Europa per l’efficienza del sistema giudiziario. Se si considera che i Paesi complessivamente monitorati sono 42 si può ricavare che non siamo proprio messi bene. Lo studio è il frutto di una elaborazione dell’Ufficio statistico del Ministero della giustizia che usa quali parametri di riferimento, il Rapporto Doing Business della Banca mondiale e il rapporto European Judicial Systems, realizzato dalla commissione del Consiglio d’Europa specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari (Cepej). La Banca mondiale analizza i modelli organizzativi giudiziari in quanto strettamente correlati alla efficienza economica di un Paese e alla sua capacità di sviluppo nonché di attrazione degli investitori privati. Tra gli indicatori considerati vi sono la durata di una controversia commerciale, il numero di procedure attivate per la soluzione della controversia e il costo della stessa. Il tutto corroborato da interviste agli operatori specializzati del settore. Il caso studio usato dalla Banca Mondiale è quello del contenzioso relativo a un fornitore che dopo la consegna di un ordine non riceve il pagamento dal suo cliente e, una volta adite le vie giudiziarie, pur vincendo la causa di primo grado, riesce a ottenere il pagamento del suo credito solo a seguito di una procedura di esecuzione forzata. In Italia l’esito finale della controversia risulta giunto a distanza di ben 1.266 giorni dal suo avvio. Il Consiglio d’Europa, interessato a una giustizia equa oltre che efficiente e rapida, usa un più vario numero di indicatori e non si ferma a un solo case-study. Si tiene conto della spesa pubblica in materia di giustizia, del fondo per la difesa d’ufficio e per il patrocinio gratuito, del numero di magistrati e avvocati, del flusso dei procedimenti trattati, del tasso di litigiosità e di quello di criminalità, dei sistemi di risoluzione alternativa delle controversie quale ad esempio la mediazione. Il Consiglio d’Europa valuta non solo il sistema della giustizia civile ma anche quello penale. Il Ministero della giustizia italiano, a sua volta, ha elaborato un proprio maxi-indicatore FB-Index che è una sintesi di quelli presenti nei due Rapporti della Banca mondiale e del Consiglio d’Europa. L’Fb-Index non è altro che la media aritmetica dei punteggi ottenuti da ciascun sistema giudiziario nei 14 indicatori selezionati tra quelli usati da Banca mondiale e Cepej. Il ranking italiano non è proprio gratificante. I primi posti sono tutti appannaggio dei Paesi scandinavi con la sorpresa portoghese che si colloca al secondo posto tra la Danimarca (prima) e la Finlandia (terza). La Francia è ottava. La Germania è tredicesima. La Grecia trentunesima. Il nostro Paese può solo vantarsi di collocarsi prima della Spagna, ultima dopo la Polonia e la Turchia. Il punteggio del Regno Unito, in considerazione della tipicità del suo sistema giudiziario, non è stato rilevato. Usando i soli indicatori della Banca mondiale, l’Italia si collocherebbe a un poco commendevole ultimo posto. Quali sono le vie per rimediare a tale pessimo posizionamento? Sicuramente va ridotta l’ipertrofia della giurisdizione a cui in Italia vengono devoluti tutti i conflitti, civili e penali. Va costruito un diverso modello di giustizia dove le garanzie, ad esempio in ambito penale, siano più dirette a garantire i diritti che non a dilazionare gli esiti finali del giudizio. Nella giustizia civile il tempo è denaro. Non si può non tenerne conto. Giustizia: la Commissione antimafia divisa sul "protocollo Farfalla" di Giuseppe Pipitone www.antimafiaduemila.com, 4 marzo 2014 L'accordo fra servizi segreti e Amministrazione Penitenziaria per poter far visita ai boss detenuti senza lasciare traccia? Per il presidente Rosy Bindi "non esiste", per il suo vice Claudio Fava sì. Per il magistrato Ardita, c'è ma è coperto da segreto di Stato Il protocollo Farfalla? Non esisteva. Parola di Rosy Bindi, arrivata a Palermo per presiedere i lavori della Commissione Parlamentare Antimafia, e subito incalzata su uno degli oggetti più oscuri che avrebbe regolato i rapporti tra i servizi segreti e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Un vero e proprio accordo segreto per regolare, all’insaputa dell’autorità giudiziaria, il flusso delle informazioni provenienti dai boss mafiosi reclusi in regime di 41 bis: in pratica uno dei frutti della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, ancora oggi oggetto d’indagine della procura di Palermo. "Per quello che ci riguarda abbiamo fatto un pezzo di strada, questo protocollo non esisteva, magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare" è stata la risposta fornita dalla presidente della Commissione Antimafia. Che tipo di comportamenti? E messi in pratica da chi?. "Non siamo ancora in questa fase: siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto" ha replicato nettamente Bindi. Risposta che stona completamente con quanto dichiarato da Claudio Fava, vice della Bindi a Palazzo San Macuto. "Ho rivolto una specifica domanda al ministro della Giustizia e al ministro degli Interni - dichiara nel gennaio scorso l’esponente di Sel in un’intervista al direttore di AntimafiaDuemila Giorgio Bongiovanni - Tale domanda riguarda il contenuto di quel documento riservato, noto come Protocollo Farfalla, il quale avrebbe legato il dipartimento di polizia penitenziaria al Sisde, tanto che avrebbe previsto la possibilità da parte degli agenti del Sisde di incontrarsi con i detenuti sottoposti a regime di 41 bis senza lasciare alcuna traccia della propria visita. Ecco, sono fatti come questo, poco chiari, che lasciano una percezione opaca di questo Stato, che vanno assolutamente portati alla luce. Ed è altrettanto intollerabile che tutto ciò sfugga al controllo giudiziario. Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico". Per Fava quindi non solo il protocollo scritto esisterebbe, ma disciplinerebbe anche la possibilità per gli 007 di visitare i boss mafiosi in carcere senza lasciare alcuna traccia di quei colloqui. A parlare per la prima volta pubblicamente del Protocollo Farfalla era stato l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto a Messina, che deponendo come teste al processo contro Mario Mori il 23 dicembre del 2011, raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato. Ed è proprio il segreto di Stato ad essere stato invocato nel processo che a Roma vede imputati Salvatore Leopardi, in passato funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona: sono accusati di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo. Siciliano è oggi direttore del carcere di Opera, dove il boss Totò Riina è stato intercettato dalla Dia di Palermo mentre emetteva la sua condanna a morte per il pm Nino Di Matteo, colloquiando con il boss pugliese Alberto Lorusso. Bindi però sul capitolo protocollo Farfalla è stata netta: non esisteva alcun protocollo scritto. La Commissione Antimafia ha deciso di effettuare alcune audizioni a Palermo dopo la dichiarazioni del prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’agenzia per i beni confiscati, che aveva denunciato alcune anomalie nella gestione delle aziende che un tempo furono dei boss. "Ci siamo sentiti in dovere di conoscere la motivazione delle sue affermazioni" ha detto Bindi, mentre davanti la prefettura palermitana - che ospita i lavori della commissione antimafia - alcuni lavoratori di aziende confiscate ai boss manifestavano il loro dissenso per l’errata amministrazione che starebbe portando le società da cui dipendono sull’orlo della chiusura. La Commissione Antimafia ha anche incontrato i pm della procura di Palermo che indagano sulla trattativa. "Assistiamo a degli attacchi nei confronti della nostra attività e, soprattutto, dell’impianto accusatorio del processo per la trattativa che riteniamo immotivati", ha dichiarato il sostituto procuratore Nino Di Matteo, che insieme a Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi rappresenta la pubblica accusa al processo sulla Patto Stato - mafia in corso davanti la corte d’assise di Palermo. Recentemente proprio la Bindi ha lanciato l’idea di utilizzare la Commissione Antimafia per promuovere alcuni dibattiti il 22 marzo, in occasione della giornata dedicata alle vittime della mafia da Libera. Oltre al regista Pif e al giornalista Lirio Abbate è previsto anche un dibattito con il giurista Giovanni Fiandaca, autore insieme allo storico Salvatore Lupo di un saggio in cui la Trattativa è considerata legittima, perché "legittimata dalla presenza di una situazione necessitante". Giustizia: Ucpi; allarme per interventi sul sistema processuale, siamo pronti a mobilitarci Ansa, 4 marzo 2014 "Le iniziative politiche provenienti dagli ambienti governativi, dagli incontri del nuovo ministro di Giustizia con magistrati in servizio presso le Procure in qualità di consulenti tutto fare, all’insistenza con la quale si ritorna sul problema della prescrizione, legandola a tattiche dilatorie dei difensori" fino alla "ipotesi di interventi sul sistema processuale che si vorrebbero attuare persino a mezzo di una vera e propria abiura del principio costituzionale del contraddittorio, trasformando il rito abbreviato in ordinario, destano profonda preoccupazione e allarme nell’avvocatura penale". Così in una nota l’Unione Camere Penali (Ucpi), secondo cui "un ritorno al passato in nome di un decisionismo dal tratto illiberale che si vorrebbe emblema della modernità" incontrerebbe "l’opposizione decisa dei penalisti italiani". Per l’Ucpi, che chiede di tener conto dei "risultati delle commissioni ministeriali insediate dal Ministro Cancellieri che, non più tardi di due mesi fa , avevano messo a punto una serie di proposte organiche e bilanciate" e non "ricette indigeribili da parte di chi ha a cuore il Giusto Processo", la "demagogia che sta alla base di alcune delle proposte che si ascoltano in questi giorni, lascia comprendere come il vuoto in tema di Giustizia, che si era colto dalle indicazioni programmatiche del Presidente del Consiglio nei suoi discorsi di insediamento, nascondeva opzioni che segnerebbero una profonda involuzione del sistema e un arretramento del diritto di difesa", che riguarda "i cittadini tutti". "Non una sola parola" invece "sullo scandalo delle disumane condizioni di detenzione nelle carceri, su cui l’Europa ha chiesto conto oltre un anno fa". In questo panorama "non stupisce - concludono i penalisti - che anche la legge in discussione in Parlamento sulla custodia cautelare rischi di trasformarsi nell’ennesima occasione mancata". L’Unione delle Camere Penali non può che denunciare questi segnali e preannunciare la mobilitazione dell’avvocatura penale a difesa del Giusto Processo, così come avvenuto nel corso degli anni 90, visto che il nuovo si preannuncia identico al vecchio". Giustizia: Meloni (Clemenza e Dignità); ottemperare Corte Strasburgo è obbligo di civiltà www.informazione.it, 4 marzo 2014 Non ottemperare a quanto imposto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non significa solo pagare una maxi multa. In gioco c’è anche qualcosa di diverso: il patrimonio di civiltà della nostra Nazione, la credibilità ed il prestigio internazionale dell’Italia. "Il 28 maggio 2014 scade il termine ultimo entro cui l’Italia dovrà mettersi in regola per quanto concerne la situazione delle carceri". Lo dichiara Giuseppe Maria Meloni, responsabile di Clemenza e Dignità. "Non ottemperare - prosegue - a quanto imposto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non significa solo pagare una maxi multa, un enorme esborso di risorse pubbliche, perché trattandosi di diritti umani, è chiaro che in gioco c’è anche qualcosa di diverso, ovvero il patrimonio di civiltà della nostra Nazione, la credibilità ed il prestigio internazionale dell’Italia". "Il mondo della ricerca, - aggiunge - specialmente quella giuridica, il mondo del volontariato, il mondo della cultura, dello spettacolo, le autorità religiose, e tutti coloro che hanno la possibilità di essere ascoltati, ci diano una mano in questa battaglia." "Fornire un aiuto mediante una comunicazione di supporto ai provvedimenti clemenziali, - conclude - non significa voler mettere in discussione il principio per cui chi ha sbagliato debba essere punito, ma solo voler salvaguardare il dna della legalità, ovvero i diritti fondamentali della persona umana, i diritti garantiti dalla nostra Costituzione." Giustizia: Pm Palermo; mafiosi possono uscire prima con svuota carceri? problema esiste Adnkronos, 4 marzo 2014 "Non abbiamo fatto ancora un monitoraggio, ma non c’è dubbio che l’eventualità che possano beneficiare dei provvedimento di liberazione anticipata è stato calcolato nel rapporto costi-benefici del provvedimento. Devo supporre che il bilanciamento di interessi sia stato fatto, comunque certo il problema esiste". Così il Procuratore di Palermo Francesco Messineo risponde all’Anm di Catania che ha lanciato l’allarme sulla possibilità che una decina di mafiosi catanesi possa uscire anticipatamente dal carcere, grazie alla riforma dello svuota carceri. Lettere: un sorriso fra le sbarre di un uomo ombra ad Agnese Moro di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 4 marzo 2014 La vita dell’ergastolano è una lunga marcia attraverso la notte e si avanza al buio per tutta la vita. ("L’Urlo di un uomo ombra" di Carmelo Musumeci. Edizioni Smasher). Cara Agnese, ho letto il tuo articolo su "Famiglia Cristiana" dal titolo "Giustizia, perché sono contro l’ergastolo" e il mio cuore ti dice grazie delle tue umane parole e di avere avuto il coraggio di aderire nel sito www.carmelomusumeci.com a "Firma contro l’ergastolo", proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo. Agnese, ti confido che a volte mi sento come se non esistessi. Da un po’ di tempo le giornate mi sembrano più corte e le notti più lunghe. E il fatto che dopo tanti anni di carcere mi sento ancora vivo spesso mi sembra una specie di maledizione. Ci sono delle notti che mi domando perché continuare a stare in questo strano mondo, perché ci sono dei momenti che mi sento l’unico abitante di questo pianeta. E mi viene difficile superare la solitudine con la sola forza di volontà perché quando mi sento in questo modo mi sembra che la cella si restringa a vista d’occhio. Probabilmente è giusto che la società ci punisca e ci chiuda in una cella, ma se non vuole diventare una società crudele e cattiva forse è meglio che un giorno si ricordi di aprire le nostre celle. Agnese, quando s’invecchia in carcere non si cerca più nulla, non perché non lo si desideri, ma perché non hai più nulla da cercare. Ormai la mia unica preoccupazione è di trovare il modo per fare sera, e poi arrivare al mattino. All’inizio della carcerazione speravo un giorno di poter uscire, ma poi gli anni sono passati, un giorno dopo l’altro. E ormai per me svegliarmi al mattino è sempre più faticoso. E mi viene tanta voglia di arrendermi, perché alla mia età non posso aspettare più nulla di buono. Posso solo sperare di morire presto per finire la mia pena. Agnese, per San Valentino alla mia compagna che mi aspetta da ventitré anni e che di me avrà solo il mio cadavere, ho scritto: Amore Bello, ti penso sempre . Non mi è rimasto più nulla a parte il tuo amore. E anche se non posso stare con te mi dai tanta forza a sapere che ci sei. E continuo a esserci perché tu mi fai esistere. Buon San Valentino. Tuo Carmelo. E ti confido che oggi ho pensato di dire alla mia compagna di arrendersi. E di riprendere a vivere senza di me, ma dopo tutti questi anni che mi aspetta, inutilmente, non ho avuto il coraggio di farlo, anche perché ho paura che si arrabbi e che mi dia un pacco di botte al colloquio. Agnese, il mio cuore ti dice grazie delle tue belle parole: Noi non buttiamo via nessuno, e rivogliamo tutti indietro. In questo progetto di vita l’ergastolo è decisamente un corpo estraneo, una contraddizione insanabile con la nostra Costituzione. Ti voglio bene. E ti mando un abbraccio fra le sbarre. Veneto: il Provveditore Pietro Buffa "è prioritario umanizzare il modello giudiziario" www.novionline.net, 4 marzo 2014 A Cultura e Sviluppo, insieme al provveditore dell'amministrazione penitenziaria in Emilia Romagna e Triveneto, Fabio Scaltritti, presidente dell'Associazione San Benedetto al Porto, Piero Monti, presidente dell'Ordine degli Avvocati di Alessandria e Paolo Bellotti, funzionario giuridico pedagogico della Casa di Reclusione di Alessandria, hanno raccontato l'allarmante situazione delle carceri italiane. La Corte Europea dei diritti dell'Uomo con una sentenza del gennaio 2013 ha giudicato le condizioni dei detenuti italiani "inumane e degradanti", quindi non conformi ai principi dell'articolo 3 della Costituzione Europea. Il carcere nel nostro Paese è un sistema che soffre e che fa soffrire. È possibile amministrare la sofferenza? Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria in Emilia Romagna e nel Triveneto, ospite lunedì 3 marzo dell'Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria ed autore del libro "Prigioni: amministrare la sofferenza", risponde che negli istituti di reclusione e nelle case circondariali italiane ciò avviene quotidianamente. Proprio nel suo libro il Provveditore Regionale a lavorato per scoprire i meccanismi decisionali interni al carcere per individuare le cause della loro scarsa funzionalità. "La presunta ineluttabilità di questa precaria condizione ha, infatti, portato ad una sorta di immobilismo istituzionale, - dice Buffa - che negli anni ha causato un progressivo peggioramento della situazione". Paolo Bellotti, Funzionario giuridico pedagogico della Casa di Reclusione di Alessandria, sostiene che è necessario stimolare nell'opinione pubblica un cambiamento di percezione delle strutture penitenziarie e del ruolo dei detenuti nella società. "Da scomodi problemi devono diventare preziose risorse, deve instaurarsi un forte dialogo tra gli istituti di detenzione e le amministrazioni locali. Il recupero di un individuo che ha commesso un reato più o meno grave può realizzarsi attraverso modalità differenti ed utili all'intera comunità. Un passaggio culturale e tecnico-amministrativo certamente di non facile attuazione, ma non impossibile da raggiungere". Fabio Scaltritti, presidente dell'Associazione San Benedetto al Porto, fa riferimento alle incongruenze e alle esasperazioni legislative promosse negli ultimi anni nel nostro Paese. "La proporzionalità della pena dovrebbe essere un elemento fondante del nostro sistema giuridico, che invece ha alimentato un aumento della sproporzione tra il reato commesso e la pena comminata. Il sistema penitenziario viene quindi usato come soluzione ad un fenomeno al quale lo Stato non è grado di fornire alternative praticabili causando, tra l'altro, un sovraffollamento delle strutture detentive". Secondo Scaltritti, inoltre, i detenuti che offrono gratuitamente il proprio contributo lavorativo al Comune di appartenenza dovrebbero avere diritto ad uno sconto di pena. Piero Monti, presidente dell'Ordine degli Avvocati di Alessandria, stimolato da una domanda di Paolo Bellotti riguardo alla maggiore attenzione che lo Stato riserva alla fase processuale rispetto alla successiva fase detentiva, spiega che per gli stessi difensori è molto difficile districarsi tra le presunzioni amministrative di un sistema giudiziario che spesso sembra troppo impegnato ad ostacolare qualunque possibilità di interlocuzione o di opposizione a vantaggio dell'imputato. Pietro Buffa conclude sostenendo che la priorità è umanizzare il modello giudiziario, passare da un sistema punitivo che riguarda chi commette il reato ad un sistema risarcitorio nei confronti di chi il reato lo subisce, sostituendo quindi il concetto di colpa con il concetto di danno. È seguita una testimonianza di un ex detenuto del locale carcere di San Michele che ha raccontato la sua esperienza in alcuni dei più duri istituti di pena italiani, tra i quali Poggioreale e Secondigliano, del nuovo modello carcerario trovato nella casa di reclusione di Alessandria dopo aver ottenuto il trasferimento per questioni di studio e della successiva assunzione presso una cooperativa alessandrina che lo ha reinserito nel mondo del lavoro. Al termine dell'incontro è stato presentato il progetto "Il pane e le rose", realizzato con il sostegno della Compagnia di San Paolo e la collaborazione della Cooperativa Company, dell'Associazione San Benedetto al Porto, dell'Associazione Cultura e Sviluppo e di Alessandria News Quotidiano. Il progetto prevede il reinserimento lavorativo ed abitativo di quattro detenuti e due ex detenuti attraverso attività di mantenimento di aree verdi e roseti nel comune di Alessandria e di gestione di appartamenti con il tutoraggio dell'Associazione San Benedetto al Porto. Lazio: Fns-Cisl; adeguare regolamento Polizia penitenziaria, serve confronto con governo 9Colonne, 4 marzo 2014 "Pur continuando a diminuire i detenuti nelle carceri del Lazio, al 28 febbraio 2014, si persiste a rappresentare che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione risultano essere 6.756 (oltre 1.918 in più rispetto ai 4.838 posti disponibili). Rispetto al 31 gennaio 2014 i detenuti sono diminuiti di poche unità. I numeri del sovraffollamento dei detenuti che il neo Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si troverà a gestire (unitamente all'altro dato ancor più corposo a livello nazionale) risultano essere ancora dati rilevanti pur se riferiti alla sola Regione Lazio". Lo sottolinea il segretario della Fns Cisl Lazio Massimo Costantino. Che aggiunge: "Il dato certo è che la nuova Legge cosiddetto svuota carceri produrrà in questi mesi gli effetti sperati e utili a far sì che si applichi quanto richiesto dalla Commissione Europea (Cedu) in merito al miglioramento del sovraffollamento e rispetto della dignità della persona detenuta, vedasi sentenza Torreggiani. Purtroppo giova ricordare che la mancanza di un confronto reale e pragmatico con le OO.SS., sia a livello regionale che periferico, fa venir meno quel comune intento alla realizzazione di un nuovo modello organizzativo, vedasi differenziazione circuiti detentivi, etc. etc.. Le riforme debbono essere condivise, ma le responsabilità che determinano certi processi, innovativi, non possono cadere sul personale di Polizia Penitenziaria senza alcun adeguamento legislativo e novellamento del regolamento del Corpo di Polizia Penitenziaria". Liguria: avviato gruppo lavoro sulla salute nelle carceri, in collaborazione tra Asl e Prap Ansa, 4 marzo 2014 Migliorare l’assistenza sanitaria per i detenuti per garantire risposte ai problemi della salute, sia di chi è in carcere, sia delle persone che ci lavorano. è questo l’obiettivo del programma regionale della salute nelle carceri liguri per il triennio 2014-2016 approvato dalla Giunta regionale e presentato quest’oggi dall’assessore alla salute della Regione Liguria, Claudio Montaldo, presente il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria ligure, Carmelo Cantone, alle organizzazioni sindacali degli agenti penitenziari e alle associazioni di volontariato che operano nelle carceri della Liguria. Un programma frutto del lavoro tra il dipartimento regionale della sanità, le aziende sanitarie e l’amministrazione penitenziaria, spiega in una nota la Regione, per garantire risposte concrete alle esigenze di salute nelle carceri. "Dobbiamo soprattutto tenere conto - ha spiegato Montaldo - che le carceri liguri godono di un primato poco felice con un numero di tossicodipendenti superiore alle media nazionale. Se infatti in Italia il 35% della popolazione carceraria è tossicodipendente, in Liguria siamo intorno al 50%". Oltre al problema della tossicodipendenza vi è anche quello della salute mentale e dei detenuti con una doppia diagnosi e cioè portatori di più di una patologia, in almeno 6 casi su 10. "Vi è poi - ha continuato Montaldo - il problema della presenza dei detenuti stranieri che ammonta al 50% della popolazione detenuta e che ci dice come sia importante entrare in contatto con tale utenza che spesso in carcere prende atto della proprie patologie per la prima volta. A questo si deve aggiungere la necessità della prevenzione che rientra in un processo di crescita della popolazione detenuta per fare in modo di evitare un ritorno nel circuito". Brescia: 42enne agli arresti domiciliari s’impicca in casa "il Comune non poteva aiutarlo" di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2014 Aveva una piccola ditta individuale edile inghiottita dalla crisi Giorni fa il tentativo di rapinare un benzinaio Era finito ai domiciliari. La luce è accesa da troppo tempo. Molto strano. Davanti a quella casa, ormai da settimane i carabinieri ci passano più volte. Sanno chi abita lì. La situazione di quell’inquilino non è semplice: il lavoro che manca, poi quella rapina finita nel peggiore dei modi, gli arresti domiciliari, la fuga della famiglia. Meglio entrare, riflettono i militari. La porta è aperta. Basta un attimo e davanti si ritrovano il corpo di un uomo impiccato alla trave della sala con la cintura dei pantaloni. Non respira. È morto. Nessun biglietto in giro. Solo lo squallore della scena. Scatta l’allarme. E così nei libri neri della cronaca finisce anche la storia di Giampaolo G., 42enne lavoratore di Travagliato. Una morte resa ineluttabile da un destino forse segnato a sentire il commento di Renato Pasinetti, sindaco del paese dell’operosa bassa Bresciana: "C’è rammarico, ma il Comune non ha risorse per chi è rimasto senza lavoro". Figlio della crisi, dunque, come molti prima di lui. Come Renzo Rasperini, 61 anni, imprenditore di Pontenure (Piacenza) sposato con due figli. Scomparso il giorno della Befana, il suo corpo senza vita sarà ritrovato il 23 febbraio scorso nel Po all’altezza di Cremona. La lista è lunga. La contabilità macabra. Ne fa parte un ristoratore di Monza che otto giorni fa si è dato fuoco per protesta contro la costruzione di alcune barriere anti-rumore che danneggerebbero la sua attività commerciale. Sarà salvato da due vigili urbani eroi. Giampaolo G, invece, era disoccupato da due anni. Perché la crisi economica che morde il Paese, mordeva anche la sua impresa individuale. Edilizia in genere. Tradotto: muratore. Difficile da spiegare in casa. A una moglie pure lei senza lavoro, a tre figlie, tutte minorenni e due diversamente abili. Eppure per mesi ha tirato avanti con la dignità di quella gente che abita questa zona della bassa tra Milano e Brescia. Lavoratori sui cantieri di tutto il Nord Italia. Residenza: Travagliato, comune di 15mila anime dove ci si conosce tutti. Poi il crollo psicologico. In una giornata di pioggia ghiacciata. L’undici febbraio scorso, quando Giampaolo sceglie l’obiettivo più semplice, quello che conosce meglio: il distributore Tamoil dove fa benzina ogni due giorni. Sotto il giubbotto si tiene una pistola giocattolo. Ci ha pensato per giorni interi, mandando a memoria un piano disperato: rapinare l’impiegata Miriam Venturi che tiene il marsupio con l’incasso della giornata. Il muratore si cala in testa il cappuccio della giacca. Arriva in via Orzinuovi poco dopo le 16 e 30, parcheggia la sua macchina a qualche metro di distanza. Quindi minaccia, spiana l’arma e porta via il denaro, circa mille euro. La donna, però, avverte il titolare che non ci pensa due volte e si getta all’inseguimento. La fuga dura qualche centinaio di metri. Nemmeno il tempo di arrivare all’auto e il 42enne viene bloccato. Lui non scappa, non si dimena, perché quello non è il suo mestiere. Non è un criminale, ma un genitore disperato. Attende l’arrivo dei carabinieri. Nel frattempo, il benzinaio gli tira giù il cappuccio e lo riconosce. Subito capisce di trovarsi davanti a un suo concittadino, quello che veniva a fare qualche euro di super. Il caso di questo "padre rapinatore" finisce sulle cronache dei giornali locali che registrano il commento di Pierluigi Calegari, titolare della stazione di servizio. "Se siamo arrivati al punto che la gente è così disperata da rapinare i propri concittadini - dice - mi chiedo di questo passo dove andremo a finire". Giampaolo finisce nel carcere di Canton Mombello con l’accusa di rapina aggravata. Davanti al sé il carcere, evitato perché l’uomo è incensurato. Viene mandato agli arresti domiciliari seguito dai servizi sociali. Nel frattempo, però, la moglie con le tre figlie lo lascia e va a vivere dai genitori. Giampaolo resta solo nella sua vecchia casa alla periferia di Travagliato. Non può uscire nemmeno per fare la spesa. Il cibo lo porta la Caritas. Quindi la terribile scoperta all’alba di domenica mattina. Firenze: muore d’infarto mentre lo arrestano… accuse ai carabinieri, indaga la procura di Franca Selvatici e Luca Serranò La Repubblica, 4 marzo 2014 Il 40enne immobilizzato e ammanettato da quattro militari, poi il malore. Era in preda a una crisi di panico. Un giovane uomo corre nella notte, la camicia aperta, il torso nudo nel freddo. Lancia urla agghiaccianti. "Aiuto, vogliono uccidermi". Nessuno lo insegue ma le sue invocazioni squassano il quartiere di San Frediano. Le sentono anche al di là dell’Arno. "Aiuto non respiro". Non ha il cellulare, chissà dove è finito. Entra in una pizzeria, strappa il cellulare all’unico dipendente rimasto, sale in corsa su un’auto, scende, entra in un’altra pizzeria dove lo conoscono e cercano di calmarlo. Ma lui schizza fuori. È terrorizzato, travolto da una crisi di panico. Arrivano i carabinieri, tentano di rassicurarlo e di fermarlo. Lui scalcia, si dimena, si ribella. Arrivano rinforzi. Lo immobilizzano e lo ammanettano dopo un lungo parapiglia (quattro carabinieri si faranno medicare). Decine di persone assistono dalle finestre. Lui urla, urla, urla: "Non mi ammazzate, ho un bambino". Qualcuno dalle finestre grida: "Smettete, così lo ammazzate". Improvvisamente tace. Arriva un’ambulanza, poi un’automedica. Tentano a lungo di rianimarlo, ma non c’è nulla da fare. Il pm d’urgenza apre un’inchiesta, oggi verrà eseguita l’autopsia. Riccardo Magherini aveva 40 anni, una moglie da cui si stava separando e un figlio di due anni che amava teneramente. Suo padre, Guido Magherini, è stato un noto calciatore, ha giocato nel Milan, nel Palermo e in molte altre squadre. "Mio figlio era un bravo ragazzo, non so spiegarmi quello che è successo, ma di certo non era un ladro. È morto d’infarto in circostanze da chiarire, abbiamo già preso contatto con un medico legale che prenderà parte all’autopsia. Solo dopo aver saputo l’esito dell’esame decideremo se presentare una denuncia". Sei persone hanno dichiarato che l’intervento dei carabinieri è stato regolare, ma altri parlano di violenze. L’avvocato della famiglia sta raccogliendo alcune testimonianze. Bianca Ruta, una studentessa di 26 anni che ha assistito alla scena dalla finestra, dichiara: "La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere". Un altro testimone dà una versione opposta: "Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani". Milano: il killer disabile che da dieci anni vive in ospedale, costo 700 euro al giorno di Paolo Berizzi La Repubblica, 4 marzo 2014 Killer in sedia a rotelle a spese dello Stato. Condannato all’ergastolo per tre omicidi e detenuto all’ospedale Niguarda da dieci anni. Stanza doppia a uso singolo. Senza piantone. Parenti e amici che vanno e vengono. Uscite in permesso accordate dal giudice di sorveglianza. Assistenza medico-sanitaria garantita. Costo per il sistema sanitario nazionale: 700 euro al giorno, 4 mila e 900 euro a settimana, 235 mila euro l’anno. Il sogno di tutti i detenuti ergastolani abita qui - in senso letterale: qui ha la residenza, al terzo piano del padiglione Dea dell’ospedale Niguarda. Lui si chiama Francesco Cavorsi, 51 anni, boss di San Giovanni Rotondo trapiantato a Milano negli anni 90 quando, assieme ai tre fratelli (Antonio, Paolo e Mario), diventa "ambasciatore" della Sacra Corona Unita (la mafia pugliese). Dal fortino della Bovisa stringe alleanze con feroci organizzazioni criminali serbo-albanesi attive all’ombra della Madonnina. Insieme controllano il traffico di droga e armi provenienti dai Paesi dell’ex Jugoslavia. Cavorsi è bloccato su una sedia a rotelle dal 1988: spari ordinati dal capo ndranghetista Pepè Flachi che vuole eliminarlo. Lui rimane paraplegico, ma questo non gli vieta di eseguire personalmente i suoi regolamenti di conti. La tecnica è sempre la stessa, una specie di marchio di fabbrica: il padrino pugliese si fa accompagnare in auto da due gregari; fa salire le vittime a bordo per parlare. Poi lascia la parola alla sua pistola calibro 7,65. "Bum, bum, bum, bum, bum... cinque colpi ci ho sparato, perché quello non meritava di morire troppo velocemente": così, nell’estate del 1992, intercettato dalle cimici piazzate dal pm Maurizio Romanelli, un compiaciuto Cavorsi racconta l’omicidio, eseguito sei mesi prima, di un piccolo trafficante di droga, Virgilio Famularo. È il suo terzo delitto in tre anni: nel ‘90 uccide il veterano della mala milanese Oreste Pecori; nel 1991 tocca a Antonio Di Masi, spacciatore legato agli slavi. Tre omicidi confessati davanti ai giudici della terza Corte d’assise di Milano. E dunque: nel ‘96, due anni dopo l’arresto (operazione "Inferi"), il 33enne Cavorsi è condannano all’ergastolo con la teorica aggiunta di altri 53 anni di carcere. Qui inizia un’altra storia. Imbarazzante. La perdita dell’uso delle gambe costringe il boss a una serie di cure e trattamenti particolari, spesso invasivi. Soggetto pericoloso, sì. Ma i giudici decidono che Cavorsi non può stare dietro le sbarre. Le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione in carcere. La pena viene dunque "differita": al posto della cella, una comoda stanza d’ospedale. Doppia, perché lo stato di detenuto impedisce la condivisione con un paziente "normale". Tecnicamente Cavorsi diventa un detenuto agli "arresti ospedalieri". Un detenuto di lusso, che costa molto. Non soltanto perché occupa due posti letto; anche e soprattutto per l’assistenza a cui è sottoposto, emergenza o no. Nella seconda metà degli anni ‘90 gira una serie di ospedali. Poi trova una casa "fissa". Nel 2001 al Niguarda - 1.300 letti, 131 mila ricoveri all’anno, il più grande ospedale del Nord - si inaugura il Dea, padiglione che ospita tra gli altri il reparto di chirurgia di emergenza (plastica e maxillofacciale). Non passa molto tempo e il boss pugliese viene ricoverato qui. E qui rimane. Cinquantunenne, risulta domiciliato all’ospedale Niguarda Cà Granda, piazza dell’Ospedale Maggiore, 3, Milano. Per essere un ergastolano con alle spalle tre omicidi vive, diciamo, in condizioni non particolarmente restrittive: non c’è nessun agente di piantone che lo controlla; riceve normali visite; gira liberamente in ospedale su quella stessa sedia a rotelle dalla quale vent’anni fa - quando era un killer e muoveva da un ristorante di via Padova, base logistica della mafia pugliese - chiudeva per sempre la bocca ai suoi nemici. Ogni tanto Cavorsi esce in permesso: il via libera arriva via fax dal giudice di sorveglianza. Secondo la direzione sanitaria del Niguarda, Francesco Cavorsi è detenuto in chirurgia "da quattro anni". A quanto risulta a Repubblica, la lungo degenza, anzi, la lunga detenzione, risale a molto prima. Almeno dieci anni fa, appunto. Quel che si può apprezzare con certezza è l’imbarazzo provocato tra i vertici ospedalieri, e non da ieri, dalla presenza del paziente ergastolano, e da un’"anomalia" che viene a galla solo adesso. "Abbiamo presentato alla magistratura diverse relazioni chiedendo di individuare un percorso e un luogo di detenzione più idoneo - dice il direttore sanitario, Giuseppe Genduso, insediatosi tre anni fa. Finora nulla si è mosso. Noi curiamo tutte le persone, chiunque siano, ma questo paziente non ha bisogno di una struttura di degenza per malati acuti". Nemmeno a 700 euro al giorno. Foggia: i Radicali dell’associazione "Mariateresa Di Lascia" in digiuno per l’amnistia www.statoquotidiano.it, 4 marzo 2014 Mancano meno di 90 giorni a quell’ultimatum che - con la sentenza Torregiani - la corte europea dei diritti dell’uomo ha dato all’Italia per riportare nella legalità la situazione delle carceri. Dal 28 maggio prossimo, infatti, la Corte sarà tenuta a prendere in esame le centinaia di ricorsi depositati da detenuti italiani e tornerà certamente a condannare l’Italia, come ha già fatto numerose volte, per violazione dell’articolo 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo, ovvero quello che va sotto il titolo "tortura". "Abbiamo contato gli anni, ora contiamo i giorni" è il titolo dell’appello che la segretaria di radicali italiani, Rita Bernardini ha lanciato per impegnare i militanti, le famiglie dei detenuti, tutti i membri delle comunità penitenziarie in un grande Satyagraha, una lotta nonviolenta di sciopero della fame e mobilitazione. All’iniziativa hanno già aderito oltre 800 persone in tutt’Italia e da oggi 3 marzo si alterneranno a digiunare in staffetta anche i radicali dell’associazione "Mariateresa Di Lascia": il segretario Norberto Guerriero, Matteo Ariano, Antonella Soldo, Anna Rinaldi, Elisabetta Tomaiuolo, Antonio Trisciuoglio, Marzia Guerriero e Paolo Bisciotti. Da oltre due anni i radicali, anche nel territorio foggiano, portano avanti una battaglia per porre fine a quella che definiscono una "flagranza di reato" da parte di uno Stato che si fa carnefice, assassino di oltre 700 detenuti suicidi, di oltre 100 agenti di Polizia penitenziaria suicidi, di centinaia di morti da accertare. In tutto questo tempo i radicali si sono impegnati per cercare interlocutori istituzionali che finalmente portassero all’attenzione del Parlamento l’emergenza mai risolta delle carceri. Degli interlocutori importanti ci sono stati, a partire dallo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha inviato l’unico messaggio alle camere formulato dall’inizio del suo primo mandato proprio su questo argomento. "non c’è da perdere nemmeno un giorno" ha detto in quel messaggio il Presidente della Repubblica e invece il suo messaggio è caduto nel vuoto, lasciando degna di nessuna attenzione da parte delle istituzioni questa strage di Stato. "Noi saremo tra gli 800 che finora hanno dato la loro adesione a questo sciopero - spiega il segretario dei radicali foggiani Norberto Guerriero - ma il nostro digiuno non sarà nemmeno questa volta una lotta passiva, uno strumento di remissione: non siamo soli e non sono soli quei cittadini che dietro le sbarre vengono torturati e uccisi da quello Stato che dovrebbe tenerli in custodia. Nei prossimi giorni continueremo con varie iniziative a tenere alta l’attenzione dei nostri concittadini su questa emergenza. Tra le altre cose pubblicheremo sui giornali locali le lettere dei detenuti che ci arrivano dai penitenziari di Foggia, Lucera e San Severo. Se la gente avesse la possibilità di sapere saremmo ben presto in migliaia a sostenere questa lotta. Noi nel nostro piccolo ci proviamo e chiediamo ai nostri concittadini di unirsi a noi in questo sciopero della fame, anche per un solo giorno, e di comunicarci la propria disponibilità via mail all’indirizzo: associazionedilascia@gmail.com o telefonicamente al numero 345.2887496". Mantova: flop della riforma… via dal carcere i "protetti", ritornano i detenuti "comuni" La Gazzetta di Mantova, 4 marzo 2014 Frana la rivoluzione che aveva trasformato via Poma in istituto specializzato La polizia penitenziaria: "Programmazione sbagliata, colpa dei burocrati". La promessa era quella di una sorta di rivoluzione: la casa circondariale di via Poma trasformata in un carcere per sex offender (molestatori, stupratori e pedofili) e "protetti", detenuti che non possono stare nelle sezioni comuni, pena il rischio di subire violenze e persecuzioni. Un centinaio di posti per loro contro una ventina per i detenuti comuni, proporzioni invertite rispetto a prima, quando i "protetti" occupavano solo una piccola sezione. La rivoluzione avrebbe dovuto dare respiro a un carcere penalizzato da cronico sovraffollamento e consentito di sviluppare progetti riabilitativi a lungo termine prima impossibili per la permanenza dei detenuti spesso limitata a meno di un anno. A poco tre mesi dal varo, la riforma è franata. Il dietrofront dell’amministrazione penitenziaria centrale ha cancellato la riorganizzazione prevista dal Provveditorato regionale. In questa settimana dovrebbe concludersi il trasferimento di un centinaio di detenuti protetti nelle carceri di Bollate (Milano) e Pavia con l’arrivo a Mantova di altrettanti detenuti comuni che ne prenderanno il posto. Quanto è costato il flop dell’amministrazione penitenziaria? Qualcuno sarà chiamato a pagare per una sperimentazione che ha fatto fiasco in poche settimane? "S’è trattato di una programmazione sbagliata - è il commento di Raffaele Donnarumma, rappresentante sindacale della polizia penitenziaria per la Cisl - chi ha pianificato il progetto l’ha fatto senza guardare i numeri e non s’è reso conto che in via Poma c’erano troppi ingressi per i quindici-venti posti disponibili nella sezione detenuti comuni". Il problema insorto, in sostanza, è quello dell’impossibilità di garantire ai detenuti comuni, a fronte di così pochi posti disponibili, la cosiddetta territorialità della pena, il diritto di ogni detenuto di scontare il debito con la giustizia il più vicino possibile alla propria famiglia. Cosa sancita anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che ha condannato il sistema penitenziario nazionale per il trattamento inumano e degradante inflitto agli ospiti delle strutture carcerarie. Negli ultimi due mesi, appena entrava nel carcere di via Poma un nuovo detenuto comune, questo veniva dirottato al penitenziario di Cremona. Un problema per lui e una spesa per l’amministrazione costretta a continui viaggi con furgone e agenti del nucleo traduzioni di scorta. Insomma, il progetto di revisione del sistema carcerario lombardo, su cui il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria aveva tanto lavorato - così almeno era dato a pensare - sarebbe stato gestito con cecità burocratica. Così si spiega la rapidità con cui il progetto è andato in frantumi. "Un esperimento giocato sulla pelle di detenuti e lavoratori - insiste Donnarumma - gli agenti di polizia penitenziaria non sono stati né coinvolti, né informati. Addirittura sulla fine del progetto "protetti" non c’è stata alcuna comunicazione, semplicemente abbiamo visto partire in blocco i detenuti". Da giorni sono in atto i nuovi trasferimenti. Sabato da Cremona e Milano sono arrivati venticinque detenuti comuni. Per completare le sezioni manca ormai solo qualche posto. Ferrara: Garante dei detenuti; condizioni del carcere migliori, ma molti tossicodipendenti www.estense.com, 4 marzo 2014 Pur rimanendo importanti criticità, sembrano essere migliorate le condizioni della Casa circondariale di Ferrara. Secondo quanto riferito dal Garante dei detenuti Marcello Marighelli nella sua relazione al Consiglio comunale, alcuni degli importanti problemi palesatisi negli scorsi anni sono stati risolte così come è migliorata la gestione degli spazi in cui vivono i detenuti. "Nell’ultima relazione si segnalavano le diverse annose esigenze di intervento già rappresentate anche in tutte le precedenti relazioni (docce, cucine, copertura degli edifici che in qualche punto presentano segni di infiltrazione d’umidità) - spiega Marighelli ai consiglieri comunali. Con particolare preoccupazione ho descritto la situazione del padiglione prefabbricato in cui si svolgono le attività lavorative dei detenuti ed il laboratorio teatrale che, dopo gli eventi sismici del maggio 2012, era stato dichiarato non utilizzabile con conseguenze negative sulle attività lavorative e di formazione professionale interne. La situazione attuale - rivela il garante nella sua relazione - è molto migliorata. Sono stati realizzati significativi interventi sulle coperture degli edifici destinati alle attività e all’interno delle cucine. Tra breve saranno terminati i lavori di adeguamento sismico dei prefabbricati. Come in passato continuo a constatare una buona condizione degli ambienti per quanto riguarda l’ordine e la pulizia. Posso quindi confermare anche per il periodo trascorso che gli ambienti sono utilizzati e mantenuti al meglio e si presentano in condizioni dignitose". Miglioramenti anche per quanto riguarda il numero dei detenuti e la gestione degli spazi: se prima una cella veniva generalmente occupata da 3 detenuti, oggi la normalità parla di 2 detenuti anche se rimangono alcune eccezioni. "I numeri cambiano - spiega Marighelli - io ho iniziato con 500 detenuti, adesso siamo sui 350 (il numero regolamentare è di 228 mentre la capienza massima tollerabile è di 446, ndr). Quasi tutte le celle erano occupate da 3 detenuti, oggi è invece una situazione temporanea che riguarda solo 6-7 celle: non si tengono sezioni vuote, ma viene impiegato tutto il carcere". Non mancano però le note negative come la presenza di 101 detenuti tossicodipendenti. "Quello che non cambia è la drammatica presenza di tossicodipendenti in uno stato grave - spiega Marighelli -. Nel carcere di Ferrara il problema viene trattato in maniera importante con un servizio Sert che funziona molto bene e con dei medici all’interno del carcere che hanno esperienza in tal senso. Rimane però la scarsa possibilità di accedere alle pene alternative con le restrizioni Fini-Giovanardi - afferma il garante, vedremo cosa accadrà ora dopo con l’abolizione della legge". Un’altra criticità - rivolta al futuro - è la prossima realizzazione di un nuovo padiglione da 200 posti inserito nel "Piano Carceri": "Le perplessità sulla costruzione di edifici negli spazi verdi all’interno sono già state più volte espresse e stiamo lavorando per organizzare nella nostra città una giornata seminariale sull’edilizia penitenziaria, proponendo un confronto sul tema tra i diversi soggetti istituzionali ed accademici interessati" afferma Marighelli che rileva anche il problema nell’effettivo rispetto della territorialità nell’esecuzione della pena: "Il detenuto dovrebbe scontare la pena vicino a famiglia e propri interessi però così non funziona, conosco pochi detenuti che hanno un avvocato a Ferrara: le lagnanze riguardano per la maggior parte i trasferimenti che sono lo strumento disciplinare principe anche se nessuno capisce la logica con la quale vengono effettuati. Hanno l’effetto di disorientare persone e recidere legami ma recidono anche i percorsi di orientamento, inserimento, di studio e lavorativi". Benevento: Sinappe, con la vigilanza dinamica meno conflittualità all’interno del carcere www.ntr24.tv, 4 marzo 2014 Al convegno presente anche l’europarlamentare, Clemente Mastella, che ha evidenziato la necessità di introdurre riti alternativi contro il sovraffollamento delle carceri. "La vigilanza dinamica è stata sperimentata da noi sin dal 2012 e ora sta entrando nella fase di sedimentazione". è quanto ha dichiarato la direttrice della Casa Circondariale di Benevento, Maria Lusia Palma, durante il convegno su "La vigilanza dinamica e la polizia penitenziaria", organizzata dal Sindacato Nazionale Autonomo Polizia Penitenziaria. Una sperimentazione che diventa realtà, mettendo a regime la videosorveglianza e applicando la normativa attuale sulle ore di libertà dei detenuti. Otto ore al di fuori della cella controllati a distanza dalle videocamere e da una ronda formata da tre poliziotti: Sarà una sorta di premio per i detenuti che abbiano avuto una certa condotta ma che soprattutto abbiano instaurato una sorta di patto con la l’amministrazione penitenziaria. Gli effetti più immediati della nuova tecnica di controllo che entrerà a pieno regime entro la metà del 2015 si ravvisano nella minore conflittualità tra guardia penitenziaria e detenuto. Non è certo una soluzione del sovraffollamento che sconta anche il carcere di Capodimonte, ma sicuramente "si va verso una maggiore dignità del corpo di polizia penitenziaria cui bisogna essere grati per la grande collaborazione e l’umana solidarietà che mostrano di avere nello svolgere il proprio lavoro spesso non compensato da un congruo corrispettivo economico". è quanto sottolineato dall’europarlamentare, Clemente Mastella, che ha evidenziato la necessità di misure alternative alla restrizione carceraria per affrontare il problema annoso del sovraffollamento per la quale l’Italia ha avuto sanzioni dall’Europa. L’ex ministro della Giustizia ha auspicato che al più presto emergano le lacune e le colpe del legislatore, impegnandosi al massimo per ottenere tale obiettivo. L’occasione utile sarà proprio la visita nelle carceri italiane dal 26 al 28 marzo prossimi. Torino: "La Drola", ecco la prima squadra di rugby composta interamente da detenuti di Adriano Moraglio Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2014 È la prima e per ora unica squadra di rugby in Italia composta da detenuti che partecipi a un campionato regolare della disciplina. Si tratta de "La Drola" (la palla ovale, in piemontese), formazione che gioca le partite all’interno della Casa circondariale di Torino "Lorusso e Cutugno" dove sono ristretti tutti i giocatori, raccolti insieme in una sezione speciale a loro dedicata. La Drola Rugby, nata dall’impegno dell’Associazione L’Ovale oltre le sbarre Onlus, milita dalla scorsa stagione nel campionato regionale di serie C piemontese e anche in quella in corso sta facendosi onore con posizioni di vertice in classifica. L’unica differenza rispetto ai propri avversari è che La Drola gioca sempre in casa… A questa singolare esperienza è stata dedicata una mostra fotografica intitolata "Play Fair"con le foto di Roberto Quagli che si apre il 3 marzo e chiuderà l’8 marzo presso Palazzo Birago della Camera di commercio di Torino (via Carlo Alberto 16). La mostra fa parte del progetto Everlast "Strike your balance". "Lo sport - dice Walter Rista, nazionale di rugby negli anni 70 e oggi presidente dell’associazione L’Ovale - è uno degli strumenti più validi per aiutare i detenuti a recuperare ruolo sociale e dignità personale". Rista, col figlio Stefano, allena quasi tutti i giorni della settimana i possenti giocatori della Drola nel campo interno alla sezione "Arcobaleno". Con il sostegno finanziario della Compagnia di San Paolo, l’associazione ha realizzato il suo progetto nel carcere di Torino a partire dal 2010, con laboratori propedeutici al gioco del rugby coinvolgendo 40 detenuti coadiuvati da tecnici abilitati Fir e da personale medico. Dal 2013 attività analoghe sono state avviate anche nelle carceri di Alessandria e Asti. Genova: Sappe; bimbo di 5 mesi in cella con madre, inattuata legge su custodia attenuata Adnkronos, 4 marzo 2014 Ancora un bambino in carcere, nonostante una legge dello Stato preveda un circuito penitenziario differenziato per le detenute madri. Accade a Genova Pontedecimo e a segnalarlo è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, da sempre concretamente sensibile su questo tema. "Da alcuni giorni c’è in carcere un bimbo di soli 5 mesi, con la mamma straniera detenuta per violazione della legge sugli stupefacenti Eppure il carcere non dovrebbe essere un luogo per bambini - denuncia il segretario generale aggiunto Roberto Martinelli. Da più di due anni tutte le forze politiche hanno approvato una legge per effetto della quale le mamme detenute non dovrebbero più stare chiuse in cella, a meno di particolari esigenze cautelari di eccezionale rilevanza come può avvenire, ad esempio, per i delitti di mafia o per terrorismo". La legge "prevede che in alternativa alla cella si disponesse la custodia cautelare negli ‘Istituti a custodia attenuata per madri detenute. Ma il sindaco e la giunta comunale di Genova non hanno ancora trovato il tempo per individuare una struttura dove realizzare questa nuova tipologia di Istituto, in grado di conciliare l’esigenza di far scontare la pena a chi ha commesso un reato con quella di far crescere un bambino in una struttura penitenziaria senza eccessivi traumi. E invece - sottolinea Martinelli - tutto ricade, ancora una volta, sulle spalle delle poliziotte penitenziarie". Il Sappe ricorda infine che il rilevamento nazionale alla data del 31 dicembre 2013 ha accertato la presenza in Italia di 15 Sezioni nido funzionanti nelle carceri del Paese (in Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana e Umbria) che ospitano 40 madri con altrettanti figli conviventi in cella e 17 detenute in stato di gravidanza. Immigrazione: il ritorno della Guantánamo d’Italia, riapre il Cie di Palazzo San Gervasio di Alessandro Tricarico Il Manifesto, 4 marzo 2014 Chiuso per le condizioni estreme inflitte ai migranti, un tempo luogo d’integrazione nato sui terreni confiscati alla mafia, il Cie di Palazzo San Gervasio sta per risorgere con i milioni stanziati dal governo Monti. "Quello che fa più rabbia è che da quando ha chiuso siamo stati costretti a cambiare il nostro modo di operare, ora non pensiamo più all’accoglienza ma soltanto all’emergenza". Gervasio Ungolo, responsabile dell’Osservatorio Migranti Basilicata, si riferisce al campo di accoglienza di Palazzo San Gervasio (Potenza) che fino al 2009 ha ospitato 1.500 lavoratori migranti stagionali per la raccolta del pomodoro. Quello che era simbolo di integrazione e accoglienza, sorto tra l’altro su un bene confiscato alla mafia, oggi non c’è più. Al suo posto c’è un Cie, chiuso e abbandonato dal giugno 2011 dopo un’inchiesta giornalistica. Il centro di identificazione ed espulsione è salito agli onori della cronaca nazionale con il nome di "Guantánamo d’Italia" grazie a un video girato dai tunisini reclusi al suo interno. Contiene immagini forti, tra queste una in particolare: un migrante giace a terra, immobile, dopo esser caduto da una recinzione alta 5 metri. I soccorsi tardano ad arrivare. Due poliziotti, anche loro immobili, guardano il ragazzo non sapendo cosa fare. Dall’interno della recinzione si sollevano le urla, le uniche comprensibili sono "perché" e "terroristi". Fabrizio Gatti ha paragonato quell’immobilità dei poliziotti all’immagine che "l’Italia sta dando sui suoi rapporti con il nuovo Nord Africa". Aperto come Cai (Centro di accoglienza e identificazione) cambia il nome in Cara (Centro di accoglienza richiedenti asilo) nel febbraio 2011. In piena emergenza Nord Africa diventa Cie grazie a un decreto dell’allora presidente del consiglio emanato il 21 aprile dello stesso anno che, con effetto retroattivo, ha fatto in modo che si innalzassero mura di cinta e recinzioni alte 5 metri intorno ai tunisini detenuti sbarcati dopo il 5 aprile, e cioè dopo quella data spartiacque che ha vietato loro il tanto discusso permesso umanitario temporaneo. Permesso con il quale codardamente l’Italia ha fatto un passo indietro dinanzi agli sbarchi e alle vittime del mare. Preferendo rilasciare, invece di far fronte all’emergenza, un permesso di libera circolazione di sei mesi sul territorio italiano: è la politica dello "scaricabarile". Chi gestisce questi centri spesso non ha nessuna qualifica o esperienza, partecipa semplicemente a una gara di appalto dove ai detenuti viene assegnato un valore che oscilla tra i 30 e i 60 euro. La cosa strana è che nel Cie di Palazzo la gestione era stata affidata, senza partecipare ad alcuna gara d’appalto, alla società trapanese Connecting People, tuttora in attesa di giudizio con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa dello Stato e inadempienze di pubbliche forniture per aver "fatturato" un numero di ospiti maggiore di quelli realmente presenti nel Cie di Gradisca, per un danno complessivo di quasi 1,5 milioni di euro. Un vero e proprio business a scapito degli immigrati. Secondo la Caritas ogni anno la spesa pubblica per la gestione di questi centri è di 55 milioni di euro, ma stiamo parlando di stime perché un dato ufficiale non è mai stato fornito dal ministero della Giustizia. Stando invece al dossier di Lunaria, nel periodo 2005-2011 lo stato ha speso 1 miliardo di euro per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare i centri. Un impiego di forze e di denaro non indifferente per contrastare l’immigrazione irregolare. I risultati? Ridicoli: il totale dei trattenuti rappresenta lo 0,9% degli immigrati irregolari presenti in Italia, e a oggi meno della metà dei trattenuti è stato rimpatriato nel suo paese di origine, nonostante abbiano aumentato i tempi di permanenza per l’identificazione da 6 a 18 mesi di reclusione. Parliamo di una detenzione preventiva in vere e proprie carceri speciali e isolate dal resto del mondo. Prigionia arbitraria spesso perpetrata ai danni di innocenti, colpevoli solo di essere arrivati in Italia sprovvisti di un documento. Proprio come Zied, tunisino, che nel Cie di Palazzo San Gervasio ha passato un mese e un giorno: "Il tempo non passava più, è come esserci stato per 3 o 4 anni", mi dice al telefono. "Non sono mai stato in carcere, ero in ansia e non riuscivo a dormire, ho chiesto delle medicine per la testa (tranquillanti, ndr) e mi hanno dato medicine per la pancia". Ora Zied vive in Italia, ha ottenuto l’asilo politico e lavora al mercato, "ho la carta d’identità, la patente e la tessera sanitaria. Tu ce l’hai la tessera sanitaria?" mi dice ridendo. Gli chiedo com’era la permanenza nel Cie di Palazzo: "Come porci ci trattavano", e non aggiunge altro. Lo credo bene. Il Cie di Palazzo San Gervasio consisteva in una colata di cemento di un ettaro con 18 tende della protezione civile, nelle giornate calde diventava un forno a cielo aperto senza altra possibilità di ombra se non quella delle stesse tende roventi. Un non-luogo dove ogni diritto civile veniva meno, dall’acqua calda alla possibilità di parlare con un avvocato. La chiusura di questo centro è stata una vittoria effimera, dato che nel novembre dello scorso anno si sono regolarmente aperte le buste con i vincitori del bando per la ristrutturazione del Cie di Palazzo San Gervasio e quello di Santa Maria Capua Vetere. Sono stati stanziati 18 milioni di euro, sbloccati da un’ordinanza del capo della protezione civile Franco Gabrielli che ha attinto ai fondi elargiti dell’allora governo Monti per l’Emergenza Nord Africa. È un caso emblematico quello di Palazzo San Gervasio, che ci interroga sul perché proprio ora che il sistema di detenzione dei Cie sta crollando ci sia ancora chi continua ad erigere queste inutili e costosissime carceri. Ancora una volta i fatti ci hanno dimostrato che non siamo tutti uguali e che per colpa di un passaporto c’è chi è destinato a passare la sua esistenza a testa bassa, chiedendosi il perché non può sperare di sognare una condizione migliore. E poi c’è invece chi può liberamente oltrepassare i confini senza essere arrestato, e forse non si è mai chiesto il perché di così tanta fortuna. India: Onu; marò italiani detenuti da troppo tempo, ipotesi violazione dei diritti umani Ansa, 4 marzo 2014 "I marò italiani sono detenuti da troppo tempo. C’è preoccupazione sul rispetto dei diritti umani". L’Alto commissario dell’Onu Navi Pillay, dopo l’incontro con il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, esprime solidarietà all’Italia e ai fucilieri Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. "Secondo le Nazioni unite vi è un profilo di violazione dei diritti umani che sarà presto approfondito", ha reso noto Della Vedova. "C’è l’impegno ad approfondire questo profilo in sede di Nazioni Unite", ha aggiunto Della Vedova ai giornalisti dopo aver incontrato Pillay. "Credo che sia un’affermazione importante" poichè si tratta di considerare "questo profilo di violazione dei diritti umani" con la restrizione della libertà di movimento dei due maro’ da due anni "senza che sia stato formulato un capo di imputazione e l’eventuale avvio di un procedimento giudiziario", ha concluso. Il papà di Girone: "Li riporteremo a casa" "Speriamo di risolvere quanto prima questa situazione perché i nostri ragazzi e i loro familiari sono stanchi e preoccupati. Continuiamo, però, ad essere fiduciosi nelle nostre istituzioni e siamo sicuri che riusciremo a riportarli a casa". Lo ha detto Michele Girone, padre di Salvatore, intervenendo a Salerno in occasione della manifestazione "Salerno Capitale per i Marò d’Italia", organizzata dalle associazioni "La Nostra Libertà" e "Prima Luce". Oggi sit-in Idv davanti a ministero difesa Stamattina, martedì 4 marzo, alle 11, il segretario nazionale dell’Italia dei valori, Ignazio Messina, sarà a Roma, presso il ministero della Difesa in via XX settembre 123, (Angolo Piazza San Bernardo), per partecipare ad un sit-in a sostegno dei due Marò italiani detenuti in India. "Anche alla luce delle ultime rivelazioni giornalistiche in cui si parla di prove insabbiate - spiega Ignazio Messina - torniamo a chiedere verità e giustizia che dobbiamo in primis alle famiglie di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma anche a tutti coloro che da mesi hanno preso a cuore questa vicenda. Questa è solo la prima delle iniziative che porteremo avanti fino a quando non raggiungeremo il nostro obiettivo, che è quello di riportare a casa i nostri marò". Canada: "drug courts", è il tribunale della droga il vero svuota-carceri di Ivano Abbadessa Reuters, 4 marzo 2014 Un gruppo di deputati francesi si è recentemente recato in missione in Canada, incuriosito dal funzionamento delle drug courts. Speciali tribunali che si occupano della gestione di delinquenti tossicodipendenti. Attraverso un modello che opera una sorta di "coercizione volontaria". L’accordo tra il piccolo criminale e la giustizia, infatti, è chiaro: se l’imputato si dichiara colpevole e accetta di seguire un programma di disintossicazione e riabilitazione, giudice e pubblico ministero si accordano per trasformare la pena detentiva in una sanzione più lieve (es. servizi sociali), fino a cancellarla. In caso contrario viene giudicato in un procedimento ordinario. Questi tribunali sono nati dal basso. Furono i magistrati, infatti, a constatare di trovarsi a sottoporre a giudizio sempre gli stessi individui. Le procedure tradizionali semplicemente non funzionavano. Coloro che sfilano davanti le drug courts, infatti, sono persone che commettono reati come il possesso e l’uso di crack, cocaina o eroina. Nonché furti, prostituzione o piccoli traffici necessari a pagarsi gli stupefacenti. Aggressioni e violenze sessuali sono escluse dal programma. Un modello giuridico che i cugini d’Oltralpe guardano con attenzione. Anche per capirne l’effettiva applicabilità sul territorio francese. Il sistema canadese, in sostanza, vuole evitare di infliggere ulteriori lesioni ai tossicodipendenti. I quali, secondo alcuni analisti, nel 90% dei casi hanno già sufficienti traumi alle spalle. Nelle drug courts i piccoli delinquenti vedono nell’autorità qualcuno che finalmente si interessa a loro. La figura del giudice, infatti, assume un ruolo fondamentale. Il programma dura 1-2 anni. Ed è intensivo: i partecipanti sono convocati tre volte a settimana dal magistrato. Si sottopongono periodicamente all’analisi delle urine e seguono un trattamento medico. Inoltre, partecipano a gruppi di discussione e a laboratori per la gestione della rabbia. Vengono anche aiutati a trovare alloggio, lavoro o una formazione. All’origine, il concetto di fori specializzati nella gestione di delinquenti tossicodipendenti era nato negli Stati Uniti. Precisamente in Florida, nel 1989, in seguito al record nel numero di carcerazioni causate dallo scoppio della cosiddetta "guerra alla droga" degli anni 1970-1980. In Canada il primo "tribunale della droga" è stato istituito a Toronto nel 1998. In seguito altri ne sono sorti in città come Vancouver o Montreal. Non tutti, però, credono all’efficacia reale di questi fori. Secondo alcuni, infatti, è particolarmente difficile seguire il percorso di tossicodipendenti e delinquenti a lungo termine. Altri mettono in dubbio l’efficacia della "giurisprudenza terapeutica". Ovvero, l’idea che l’azione legale, basata su premi e sanzioni, possa avere effetti terapeutici sui soggetti coinvolti. Eppure Campbell Collaboration, un’organizzazione internazionale indipendente, ritiene che il tasso di recidività dei nordamericani passati attraverso i "tribunali della droga" sia del 38%. Contro il 50% per coloro che hanno sperimentato il sistema di giustizia tradizionale. Svizzera: trovato morto in cella detenuto 39enne, era in carcerazione preventiva www.tio.ch, 4 marzo 2014 Un uomo in detenzione preventiva è stato ritrovato morto questa mattina in una cella del carcere di polizia a Zurigo. Si tratta di un 39enne del Nord dell’Africa incarcerato dallo scorso mese di novembre perché sospettato di furto, ha reso noto l’Ufficio cantonale per l’esecuzione delle pene. Le autorità escludono l’intervento di terze persone ed hanno ordinato un’autopsia. Afghanistan: evasi 12 talebani dal carcere di kandahar Aki, 4 marzo 2014 Almeno 12 talebani sono riusciti a fuggire da un carcere di Kandahar, ex roccaforte del movimento nell’Afghanistan meridionale, grazie a un documento falsificato in cui comparivano i loro nomi insieme a quelli di altri detenuti per i quali era stato disposto il rilascio. è quanto riferiscono i media afghani, che citano fonti della polizia locale secondo le quali i Talebani sono stati rilasciati "per errore". Tra i Talebani evasi negli ultimi giorni dalla prigione di Sarposa ci sarebbero alcuni esponenti del movimento, compresi seguaci del mullah Dad Mohammad Munib, comandante dei Talebani a Kandahar ritenuto la mente di attacchi suicidi e omicidi nella provincia. L’evasione sarebbe stata organizzata falsificando un documento della Procura. I Talebani hanno sostenuto di essere riusciti a riportare in libertà 23 detenuti. "I mujahidin dell’Emirato islamico delll’Afghanistan con una mossa a sorpresa sono riusciti a ottenere mercoledì il rilascio di 23 mujahidin da una prigione di Kandahar", si legge in un comunicato pubblicato sul sito web dei Talebani. Nel 2008 la prigione di Sarposa era finita nel mirino di un attacco dei Talebani in cui erano state uccise 15 guardie. Al termine dell’attacco erano stati liberati 1.200 prigionieri. Poi nel 2011 altri 476 prigionieri, tra i quali alcuni insorti, erano riusciti a fuggire dal carcere. Egitto: uccisero attivista nel 2010, 2 poliziotti condannati a 10 anni di carcere La Presse, 4 marzo 2014 Due poliziotti egiziani sono stati condannati a 10 anni di carcere per l’uccisione, nel 2010, del blogger Khaled Said, la cui vicenda è stata uno dei fattori scatenanti della rivolta del 2011 contro Hosni Mubarak. Gli agenti Mahmoud Salah Mahmoud e Awad Ismail Suleiman erano sotto processo con l’accusa di aver torturato e picchiato in carcere il 28enne Said, dopo averlo arrestato presso un Internet cafè di Alessandria, a giugno 2010, perché era in possesso di alcuni video compromettenti sulla polizia. Le immagini del corpo del blogger con ferite ed evidenti segni di percosse fecero il giro della Rete e fu creato un gruppo su Facebook, chiamato "Siamo tutti Khaled Said", moderato dall’altro noto blogger Wael Ghonim. Il gruppo sul social network contribuì a diffondere consapevolezza sui crimini commessi dalla polizia del regime e a far montare la protesta esplosa poi a gennaio 2011. Khaled Said è considerato un martire del regime di Mubarak e il suo volto è ritratto in molti murales al Cairo e in altre città egiziane. Gli agenti Mahmoud e Suleiman erano già stati condannati a sette anni di carcere a ottobre 2012, ma sia l’accusa che la difesa impugnarono la sentenza. Oggi è arrivata dal tribunale penale di Alessandria una condanna ancora più pesante di quella del primo grado.