Giustizia: emergenza carceri… ministro, parta da qui di Mauro Palma Il Manifesto, 2 marzo 2014 Fascicoli pesanti attendono il nuovo ministro della Giustizia. Soprattutto per quanto riguarda il carcere, la cui caratteristica e la cui situazione concreta sono gli indicatori reali del funzionamento della giustizia penale: da là bisogna partire per capire quale sia di fatto la fisionomia di tale sistema, se e come esso sia in grado di ricostruire equità, senza essere investito di funzioni improprie di gestione regolativa dei comportamenti individuali e delle contraddizioni sociali. La fisionomia del carcere italiano connotata come è dalla prevalente presenza di soggetti socialmente deboli, rende plasticamente l’immagine di un luogo che è diventato in molti casi strumento, inutile e dannoso, per affrontare contraddizioni che potrebbero essere invece preventivamente risolte con un maggiore intervento sociale. Un luogo che è interno alla crisi sociale e al taglio degli investimenti positivi nel territorio ed è frutto della funzione simbolico-pedagogica assegnata alla detenzione da parte di chi ha inteso affrontare con il continuo ampliamento del ricorso a essa i timori di una collettività ansiosa per il venir meno delle proprie reti protettive sociali. Questo carcere ha trovato solo negli ultimi mesi un’attenzione diversa. Certo, la spinta è stata la sanzione internazionale, prima nel 2009 con una sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato l’Italia per le condizioni di detenzione di uno specifico detenuto, ritenendole in violazione della tutela della sua dignità; poi nel 2013 con una nuova sentenza della stessa Corte che ha ritenuto che tale situazione non riguardasse più singoli casi, ma il sistema nel suo complesso. In sintesi, che quelle condizioni, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani che vieta in modo assoluto e inderogabile la tortura e i trattamenti disumani o degradanti, fossero ormai la cifra di un sistema, la sua peculiarità: per quanto riguarda sia lo spazio ristretto oltre il limite di accettabilità minima, sia il modello meramente segregativo che caratterizza la vita al suo interno. Ci si è mossi da qui, con il tempo stretto dato dalla Corte per rimediare a tale situazione, pena la possibilità di un alto numero di sanzioni corrispondente all’altrettanto ampio numero di ricorsi presentati da detenuti che in tali condizioni vivono; ricorsi per ora accantonati, proprio per dare tempo agli interventi possibili. I tempi scadranno alla fine di maggio. L’intervento avviato in questi mesi ha cercato di volgere al positivo la negatività di tale sentenza Il Piano di azione presentato alla comitato di Strasburgo che vigila sulla esecuzione delle sentenze della Corte è stato articolato su più linee. La prima è stata quella degli interventi normativi per ridurre il numero di detenuti e abolire gli aspetti inutili e iniqui di alcune leggi degli ultimi anni: da qui i due decreti per ridurre l’incidenza della legge cosiddetta ex-Cirielli che funziona da tappo per la concessione di misure alternative proprio ai soggetti socialmente deboli, per ampliare la concessione della liberazione anticipata, per introdurre un effettivo sistema di ricorso giurisdizionaliste tutelato, come da tempo richiesto dalla Corte costituzionale, per ridurre la sanzione penale per consumatori di sostanze i cui reati sono definiti dalla norma stessa come "di lieve entità"; infine per iniziare a introdurre una figura di monitoraggio indipendente dei luoghi di privazione della libertà, quale garante nazionale di chi vi è ristretto. Interventi parziali, è vero, ma i primi in controtendenza dopo anni di decretazione sistematicamente centrata sull’estensione della penalità e della detenzione. Interventi resi a volte ancor più parziali da un percorso parlamentare cauto e timoroso rispetto a una opinione pubblica frequentemente sollecitata dai cultori del clangore delle manette che non mancano in ogni schieramento politico. Ma, interventi che trovano certamente un aiuto nella recente sentenza sull’incostituzionalità della legge del 2006 sulla droga. I primi effetti sono stati una riduzione di 8mila detenuti dal 2010 a oggi e il processo di contenimento si amplierà gradualmente nei prossimi mesi. La seconda linea d’intervento ha riguardato la vita in carcere, cioè quei molti aspetti di dignità quotidiana che la Corte di Strasburgo ha per ora non esaminato, data la prevalenza del parametro del sovraffollamento, impegnandosi a riaffrontarli non appena almeno lo spazio minimo vitale sarà assicurato. Qui, ci si è basati sul lavoro dimolti, riuniti in un’apposita commissione, le cui indicazioni sono state inviate, come ultimo atto del ministro Cancellieri, a tutte le diramazioni dell’Amministrazione penitenziaria quali linee di indirizzo per l’azione da svolgere. L’idea è stata di utilizzare l’occasione della sentenza per cambiare progressivamente il modello di detenzione arretrato e passivo che, salvo alcune lodevoli eccezioni, caratterizza il carcere del nostro Paese. Intervenire in questo ambito vuol dire modificare alcuni nodi della vita giornaliera dietro le sbarre: dalla possibilità di avere un numero ben più consistente di ore da spendere fuori dalle celle e dalle sezioni, alla richiesta pressante alle direzioni perché organizzino tale tempo con attività e opportunità lavorative, alla ridefinizione delle modalità di rapporti con le famiglie, anche utilizzando le forme di comunicazione che oggi la tecnologia offre, alla revisione degli scandalosi livelli di impegno finanziario per il vitto dei detenuti, alla riorganizzazione del lavoro, dando senso e direzione agli stanziamenti in tale settore, spesso dispersi in mille rivoli di natura episodica e non strutturale. Fino a cambiare anche la qualità di chi in carcere lavora e il modello stesso di sicurezza negli istituti. Questi interventi, che si muovono in linea con le Regole penitenziarie europee e con il mai pienamente attuato Regolamento italiano del lontano 2000, richiedono attività di progettazione da parte di tutte le diramazioni dell’Amministrazione - e quindi un’azione di chiaro indirizzo nei loro confronti - e implicano anche la rimodulazione degli spazi nel carcere. Proprio per questo, si è limitato lo stanziamento complessivo per la costruzione di nuovi istituti - se non dove strettamente necessario - tendendo più alla riqualificazione e rimodulazione del patrimonio edilizio esistente. Un’azione più snella che costituisce la terza linea di azione, quella di natura strutturale, logistica, e che contraddice la risposta solo edilizia che alcuni avrebbero voluto e vorrebbero dare al problema affollamento. Resta, infine, la linea d’intervento per risarcire in qualche forma coloro che le condizioni definite dalla Corte "disumane e degradanti" hanno subito: la Corte lascia aperte più ipotesi, dal dare un "peso" maggiore, ai fini del computo complessivo della pena, a una giornata di detenzione spesa in tali condizioni, fino al risarcimento in forma economica. Tema, questo, rimasto aperto e da affrontare con urgenza. Certamente questi interventi avrebbero avuto più effetto in tempi brevi se fossero stati accompagnati da un provvedimento di eccezione, quali amnistia e indulto, così come richiesto dal Capo dello Stato. Ma, essendo tale decisione nella disponibilità del Parlamento e non di chi ha compiti esecutivi, non era possibile prenderla come pre-condizione per agire. E l’azione messa in campo deve assumere un ritmo accelerato che tenga conto della scadenza di Strasburgo, ormai imminente, e ancor più delle attese che un inizio di intervento riformatore ha suscitato in un mondo troppo a lungo tenuto distante da qualsiasi tensione positiva, lasciato come simbolica cristallizzazione di una cattiva coscienza sociale. Giustizia: Sabelli (Anm); governo si occupi di arretrato civile e lotta a corruzione e mafie Ansa, 2 marzo 2014 "Chiediamo al governo di affrontare i veri problemi della giustizia, della corruzione e della criminalità diffusa". Lo ha detto il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, elencando durante il Comitato direttivo centrale i temi di confronto nell’appuntamento di giovedì col Guardasigilli. Sabelli ha parlato della necessità di risorse "materiali e umane", adeguando gli organici di giudici e personale amministrativo alla nuova geografia giudiziaria; sul piano penale l’Anm torna a chiedere di "rottamare" le riforma del 2002 sui reati societari e il falso in bilancio, e di introdurre il reato di auto riciclaggio. "A fronte della condizione di grave difficoltà viene chiesto ai magistrati uno sforzo ulteriore", ma l’Associazione mette in guardia dal trasformare il giudice in "burocrate, con l’ossessione dei ritardi", "sotto minaccia di sanzioni disciplinari e della responsabilità civile diretta". In Commissione Giustizia del Senato - ha ricordato Sabelli - procede l’esame "in silenzio senza che l’Anm né altri siano stati chiamati a esprimere il proprio parere" su alcuni disegni di legge in tema di responsabilità civile dei magistrati che contengono l’introduzione dell’azione diretta e intervengono su processo disciplinare e incompatibilità dei magistrati: "Vedremo quale determinazioni avrà il governo davanti a queste e ad altre proposte, che rischiano di deprimere il sistema. A fronte di questo chiediamo di affrontare i veri problemi della giustizia, della corruzione e della criminalità diffusa". Parlando delle difficoltà nell’organizzazione del lavoro Sabelli ha ricordato che "sono 17 anni che non vengono banditi concorso per personale amministrativo. Negli anni ‘90 c’erano 52mila dipendenti a fronte di 7.500 magistrati, oggi sono 36.400 con 9mila magistrati". "Per questo la magistratura non è più in grado di assicurare la presenza in aula dei cancellieri, né l’esecuzione delle sentenze, per non dire della magistratura di sorveglianza che con il decreto carceri ha visto aumentare il carico di lavoro del 100%", ha aggiunto. "Siamo tutti d’accordo che sulla giustizia civile si fonda il rilancio dell’economia", ha detto ancora, eppure "nel processo civile non sono stati fatti investimenti e interventi seri per abbattere l’arretrato che la soffoca". Nel penale "sono insufficienti" gli interventi sulla messa alla prova e processo agli irreperibili "di cui aspettiamo gli esiti". "Occorre liberare il processo da inutili bizantinismi. E occorre una riforma serie del sistema sanzionatorio e dell’irrilevanza del fatto", inoltre "di prescrizione non si parla, nonostante gli studi e gli inviti del Consiglio d’Europa". "A fronte della condizione di grave difficoltà viene chiesto ai magistrati uno sforzo ulteriore", ma secondo il leader dell’Anm, "il rimedio non può essere lavorare sotto minaccia di sanzioni disciplinari e responsabilità civile". "È evidente che la capacità di lavoro non è illimitata ed è chiaro che in alcuni casi abbiamo raggiunto il termine massimo. Dobbiamo pretendere risorse materiali e umane da chi ha responsabilità di leggi e del sistema giustizia risorse. Noi dobbiamo metterci impegno individuale ed organizzativo. Non rinunciamo - ha quindi concluso - alla dignità, al decoro e alla bellezza della nostra funzione". Giustizia: un "flash" mattiniero sulle carceri italiane di Tania Nardi Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2014 Vi siete mai imbattuti, verso le 7:00 della mattina, a Roma in via Della Lungara? Beh già a quell’ora potreste incontrare quella schiera di familiari tristi che portano il pacco (indumenti e cibo) ai loro cari, detenuti, presso la Casa Circondariale di Regina Coeli. Questi familiari sono, per la società e soprattutto per la legge, la parte non lesa, quella che per la struttura carceraria è solo un cognome da chiamare a colloquio. Eppure quella gente ha un’anima, e quell’anima ormai troppo appesantita dal dolore che ha dentro, non riesce a volare al di là delle mura e attraverso le sbarre. Li puoi riconoscere perché tra le mani stringono un sacchetto di carta marrone all’interno del quale il detenuto mette i suoi vestiti sporchi da lavare, e in quel momento è l’unica cosa che gli rimane aspettando il colloquio della settimana successiva. Sono genitori, compagni, fratelli e figli, tutti accomunati dal legame di dolore che si può provare nel lasciare dentro quelle mura penitenziarie una parte di sé, quella parte che in qualche modo si sente di non essere stato in grado di saper aiutare. Anche loro, e forse nessuno lo sa, pagano in silenzio senza nessun diritto d’appello, la loro pena. Alle ore 8:00 aprono gli uffici per lasciare il pacco e mettersi in fila per fare il colloquio. Chi può inoltre, versa soldi sul conto del detenuto, poiché ogni cosa all’interno del carcere ha un costo. A gruppi di quindici si è chiamati, dopo un’attenta perquisizione, per fare il colloquio. Qui finalmente puoi vedere il tuo familiare detenuto. Le sale per il colloquio sono strette e lunghe, con un unico bancone centrale ai lati del quale si trovano le panche. Il momento più forte ed emozionante è quello iniziale. In quei pochi minuti ognuno lì dentro si dimentica chi è ed il motivo per il quale si trova lì. Per pochi istanti ci si sente tutti a casa. La parte di te spezzata si riunisce. E chi è carcerato, sente di non essere stato abbandonato. Durante il colloquio nessuno può scavalcare il tavolo, e gli abbracci e i baci devono durare poco. Le mani si stringono forte, gli occhi, velati dalle lacrime si guardano, e la dura realtà istantaneamente spazza via i sussulti iniziali. Si è in galera, e la guardia carceraria che è lì a vigilare te lo ricorda. Nulla può in quei momenti aiutare quella mamma che davanti a sé ha magari il figlio tossicodipendente, che lei stessa non è riuscita a salvare da libero. Quella mamma sa che a fine colloquio non potrà portarselo a casa e curarlo con il suo solo amore. Questa è la vita e lei sarà costretta a salutarlo e ad andare via con solo una busta di carta piena di vestiti da lavare. E quella stessa madre magari si siederà davanti a te in metro, a te che sei ignaro della tremenda realtà che si porta nel cuore. E ti stupirai nel vederla sorriderti, perché non potrai mai immaginare che in te lei ora sta vedendo quello che il figlio poteva essere. Quel figlio che ora si trova a Regina Coeli a scontare la sua pena. Giustizia: Antigone; Federico Perna non poteva stare in carcere, chi si è posto il problema? www.fanpage.it, 2 marzo 2014 Mario Barone, Presidente di Antigone Campania e componente dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia: "Le condizioni del giovane non erano compatibili con la detenzione". Ricovero in ospedale psichiatrico, un passato di tossicodipendenza, gravemente malato e trasferito continuamente di carcere in carcere. Morto, infine, nel penitenziario più affollato d’Europa: Poggioreale. Federico Perna in pochi anni è stato in tantissimi istituti, troppi. "Come si fa a instaurare un rapporto stabile tra un detenuto malato e un medico in così poco tempo? Come può un detenuto essere curato e riabilitato in queste condizioni?". A porsi queste domande è Mario Barone - Presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia - sul complesso e delicato caso di Federico Perna, il giovane gravemente ammalato morto nel carcere di Poggioreale l’8 Novembre 2013. La perizia della Procura di Napoli, nell’ambito dell’indagine avviata dopo il decesso del giovane, individua la causa della morte in un problema cardiaco cronico del ragazzo, l’occlusione di un’arteria, ed esclude le percosse; i legali e la madre Nobila Scafuro non escludono, invece, che Federico Perna, già malato, possa aver subito anche violenze durante la detenzione. La perizia della Procura di Napoli ha escluso le percosse, ma la madre di Perna ha dei dubbi al riguardo. "Guardi, tengo ad una premessa: rappresento un’organizzazione che preserva le garanzie nel sistema penale: essere garantisti significa anche avere consapevolezza che c’è un’indagine della Procura in corso, la quale sta svolgendo accertamenti. La signora Scafuro è portatrice di un interesse che potrebbe anche contrapporsi agli esiti delle indagini e attraverso i propri legali e consulenti medici di parte potrà dare un contributo di non secondo rilievo: l’accertamento della verità passa anche lungo questa strada". Velletri, Cassino, Viterbo, Secondigliano, Benevento, di nuovo Secondigliano e poi l’ultimo, Poggioreale. Tante carceri in tre anni. Tutto normale? "No: evidentemente, l’apparato penitenziario non si è curato molto di questo individuo. È poi c’è una questione, secondo me, centrale" Quale? "Negli ultimi mesi di vita, Federico Perna è stato ristretto a Poggioreale, in un carcere dotato di Centro Clinico: eppure, è stato allocato in spazi detentivi comuni, come se fosse un detenuto sano. A Poggioreale, c’è il Centro Clinico "San Paolo", con 40 posti disponibili e 80 ricoverati effettivi: perché un cittadino come Federico Perna non è stato ricoverato lì? Sarà la magistratura ad emettere un giudizio sulla responsabilità penale della morte di Perna; nel frattempo, occorre aprire una riflessione su di un sistema penitenziario che ha in custodia delle persone e che, pur avendo le strutture interne per la cura medica, non se ne fa carico, compromettendone seriamente la salute" Ma Federico Perna poteva stare in carcere? "No. Le sue condizioni non erano compatibili. Nel 2012, a Viterbo il responsabile dell’area sanitaria dell’istituto lo aveva dichiarato incompatibile con lo stato di detenzione a causa di una grave compromissione epatica con tendenza cirrotica. I sanitari che hanno preso in carico Perna negli ultimi mesi di vita dovevano conoscerne la storia clinica, hanno affrontato il problema della compatibilità? E come l’hanno risolto?" Lettere: una legge che tutela le detenute-madri, pur non trascurando la sicurezza pubblica di Silvano Bartolomei Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2014 Da tempo mi occupo di detenzione e sovraffollamento carcerario, e di tutti quei problemi che affliggono i detenuti all’interno delle strutture carcerarie. Questioni da tempo sollevate dalla Corte Europea del Diritti dell’Uomo, e per le quali l’Organismo Comunitario ci ha più volte sanzionato. Esiste, tuttavia, un altro problema connesso alla detenzione, del quale poco si parla poiché coinvolge solo una minima parte dei reclusi, circa il 10%, ma che ritengo sia altrettanto importante, ed è quello delle detenute madri con evidenti risvolti di natura psicoaffettiva nei confronti dei figli costretti a vivere una segregazione consequenziale. In passato, alla fine del diciottesimo secolo, la carcerazione femminile veniva fatta espiare con intenti purificatori e risocializzanti all’interno delle cosi dette "case penali", luoghi ove tali finalità erano perseguite. Le strutture edificate perlopiù in campagna o, comunque, in zone lontane da centri abitati, erano rette da religiose che costringevano le recluse in sacrificanti turni lavorativi di ben 12 ore nell’adempimento di attività di cucito, ricamo, orticultura e cucina. Ma quel che è più grave non era loro consentito di potere tenere i figli con se, ed in caso di parto in costanza di detenzione il nascituro veniva subito affidato, senza la possibilità di contatto alcuno con la madre. Oggi la normativa, allontanandosi da quegli schemi restrittivi e penalizzanti per le detenute madri, affronta il tema con il duplice intento di punire la donna salvaguardando la madre. Praticamente, una normativa che è riuscita a coniugare sicurezza sociale non trascurando il legame affettivo ed il rapporto filiale. Mi riferisco alla legge n. 62 del 21/4/2011, entrata in vigore il 20/5/2011, che ha inteso valorizzare il rapporto tra figli minori e madri, allorquando queste ultime si trovano in stato di privazione della libertà personale. Una legge di pochi articoli, soltanto cinque, ma che esplica la propria efficacia sia nella fase processuale che in quella della esecuzione della pena. Una normativa che, modificando il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario, ha mostrato quanto sensibile sia stato il legislatore nell’affrontare il tema. Nello specifico la legge , infatti, modificando l’articolo 275 del c.p.p., ha previsto un aumento da tre a sei anni l’età del bambino, al di sotto della quale non può essere richiesta la custodia cautelare in carcere, salvo particolari ed eccezionali esigenze, estendendo al padre tali benefici allorquando la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, facendo prevalere, anche in questa ipotesi, le esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari. Peraltro, la normativa in vigore con un nuovo articolo (285 bis c.p.p.) ha introdotto una particolare figura di custodia cautelare in carcere presso i cosiddetti Istituti Custodia Attenuata per detenute Madri, che pur assicurando l’espiazione della pena, consentono il mantenimento di un adeguato legame genitoriale. Gli Icam sono, infatti, strutture carcerarie che non serbano le caratteristiche di tale edilizia, le aperture appaiono senza sbarre ed il personale che vi opera non indossa la divisa. Un ulteriore contributo al rapporto madri/figli è stato dato con dei correttivi all’ordinamento penitenziario ed in questa ottica, l’art 21 ter, rubricato "visite al minore infermo", consente alla madre condannata (o al padre) di visitare il figlio che versi in imminente pericolo di vita o, comunque, versi in gravissime condizioni di salute, previa autorizzazione del giudice o, in caso di urgenza, del direttore dell’istituto. Il legislatore ha, inoltre, previsto la possibilità di accudire il minore durante le visite specialistiche, attraverso l’istituto con la "detenzione domiciliare speciale" . Con la vecchia disciplina, il legislatore prevedeva che in mancanza di presupposti per l’applicazione della detenzione domiciliare, ed in assenza di un reale pericolo di reiterazione di reati, al fine di mantenere il rapporto madre figlio, le detenute potevano espiare la pena nella propria abitazione o, in alternativa, in centri di assistenza, accoglienza o luoghi di cura, dopo avere espiato almeno un terzo della pena o 15 anni in caso di condanna all’ergastolo. Oggi la citata normativa, sempre nell’ottica di mantenere, favorire e consolidare il rapporto tra le detenute ed i figli, consente di espiare sia il terzo della pena o i 15 anni in, caso di ergastolo presso centri di custodia attenuata (Icam), o, alternativamente, in luoghi di cura, assistenza accoglienza, purché non vi sia pericolo di recidiva o di fuga. È bene precisare, comunque, che tale normativa non potrà trovare applicazione nei confronti di condannate per reati di particolare allarme sociale, i cosi detti "reati ostativi", elencati all’art. 4 bis del regolamento penitenziario, e le detenute saranno sottoposte ad un regime ordinario. Lettere: noi detenuti, il Papa e la pietra d’angolo di Carlo Scaraglio (detenuto del carcere di Pisa) Il Tirreno, 2 marzo 2014 È mercoledì 19 febbraio, le nove di mattina. In Vaticano si è appena conclusa la Messa officiata per noi di fronte alla tomba dell’apostolo Pietro. Noi, già. Noi siamo un gruppo eterogeneo di persone che praticano a vario titolo il pianeta carcere. Io sono uno dei 17 detenuti presenti. Percorriamo il breve tratto che separa la Basilica di S. Pietro dalla nostra destinazione. Sono convinto che nessuno dei presenti sia pienamente consapevole, io in primis, della straordinarietà di ciò che accadrà. Dopo qualche minuto, 33 persone emozionate fissano una porta in legno e vetro smerigliato cercando di cogliere un movimento, un indizio che anticipi il momento dell’ingresso del Papa. Sono convinto che pochi o nessuno abbia mai accarezzato il sogno di ricevere un dono tanto grande; a maggior ragione chi nel frattempo sta pagando un debito contratto con la società e la giustizia degli uomini e, conseguentemente, qualche peccato in più. Dentro di me risuonano le parole di Gesù: "Rimetti a noi i nostri debiti". Papa Francesco sta per raggiungerci in una sala arredata da due librerie informali, all’interno di casa Santa Marta. La gioia e la tensione mi crescono dentro. La porta, d’un tratto, si apre. Il Papa entra. Nessun annuncio formale, non vedo guardie svizzere o d’altro genere. Sin dal primo momento Francesco è riuscito a spiazzarmi: sta lì, in mezzo a noi, e ci accoglie come si farebbe con dei vecchi amici. Abbraccia e bacia ognuno di noi, guardandoci negli occhi. Quando posa il suo sguardo nei miei, già velati e umidi, capisco che sto vivendo un momento speciale e irripetibile. Penso: ecco il sale della vita. Accade ciò che nessuno aveva previsto: carcerati; magistrati; preti; educatrici; suore; un’assistente volontaria; un direttore di istituto; un assistente di polizia penitenziaria; tutte le differenze, i ruoli, gli "status" cessano di esistere. Francesco, uomo, padre dolcissimo che ci confessa di sentire il bisogno delle nostre preghiere e dell’aiuto della Madonna "Madre buona" alla quale chiede consiglio e perdono per sé oltre che per tutto il mondo. Francesco quasi imbarazzato nel sentirsi chiamare Santo Padre e felice e a suo agio nel potersi definire prete. Questa persona incredibilmente umile, ci rende tutti uguali, gregge col pastore, famiglia insieme al padre, Chiesa, con Lui, davanti a Dio. Da più di 2 anni la lotta tra Fede e razionalità che ha sempre caratterizzato la mia religiosità si era fatta battaglia cruenta. Da quando, conosciuti Don Roberto e Suor Cecilia, della cappellania del carcere di Pisa, ho intrapreso un cammino di Fede e un percorso di conoscenza della Parola di Dio. Cammino fatto di molti dubbi e altrettanta speranza. Per tutto ciò, mentre l’incontro volge al termine, piango. Un pianto scomposto, liberatorio (e anche un po’ imbarazzante). Ho capito che il mio cammino ha finalmente un punto fermo. Quasi un’ora è volata in un attimo, il Papa è atteso per l’udienza generale alla quale avremmo dovuto partecipare anche noi, usciamo da casa Santa Marta ("questa è casa vostra" ci ha detto) con gli occhi lucidi. Lasciamo il Vaticano e giriamo per Roma, pian piano ognuno riassume il suo ruolo, tra poche ore rientrerò in carcere. Non mi sento una persona migliore, nessun miracolo mi ha reso libero, ma per una ora ho visto la mia Chiesa e so che ho trovato la mia pietra d’angolo. Da domani, se vorrò, avrò le migliori fondamenta su cui edificare la mia vita. Ringrazio il cardinale Lorenzo Baldisserri, Don Roberto, Suor Cecilia, il rettore e gli studenti del collegio Capranica, che ci hanno ospitato e donato bei ricordi e tutte le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questo straordinario incontro. Pisa: calano i detenuti al carcere Don Bosco, alla fine dell’estate erano 392, ora sono 270 di Giovanni Parlato Il Tirreno, 2 marzo 2014 Il numero di detenuti all’interno del Don Bosco, rispetto al passato, è sceso notevolmente: dopo avere raggiunto il picco di 392 alla fine dell’estate scorsa, "adesso all’interno delle celle della Casa circondariale ci sono 270 persone", dice il direttore Fabio Prestopino. Ben 122 detenuti in meno che riporta il Don Bosco all’interno dei parametri stabiliti dall’Unione europea nel rapporto di superficie disponibile che deve avere ogni detenuto. I motivi per cui il numero è sceso sono diversi. Col nuovo decreto "svuota-carceri" dell’ex ministro Cancellieri (ora divenuto legge) sono stati una ventina i detenuti che, in questi giorni, hanno lasciato anzitempo le celle. I giorni di liberazione speciale anticipata - che si conferiscono ai detenuti con buona condotta - prima del decreto, erano 45 ogni sei mesi, mentre con l’ultima legge i giorni di libertà anticipata sono diventati 75 giorni ogni sei mesi con un effetto retroattivo da gennaio 2010. A questa nuova legge, si sommano anche le misure alternative che fanno crescere il numero di chi, negli ultimi tempi, ha lasciato il carcere. Se prima erano sempre di più gli ingressi rispetto a chi lasciava il carcere portando di conseguenza al sovraffollamento, adesso il trend si è invertito. Tuttavia, anche se il numero è sceso in modo considerevole, all’interno del Don Bosco ci sono sempre più detenuti di quelli che dovrebbero esserci. Infatti, la capienza massima prevista dalla casa circondariale è di 250, ma le varie leggi e l’aumento della piccola criminalità hanno portato negli anni al fenomeno del sovraffollamento che era stato denunciato dal presidente della Repubblica. E nel corso dello spettacolo "L’illogica allegria" al teatro Verdi andato in scena nel mese di ottobre dell’anno scorso e dedicato a Giorgio Gaber, proprio la situazione delle carceri italiane era stata al centro del messaggio inviato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. "Sono certo - aveva scritto il capo dello Stato - che l’iniziativa costituirà un’importante occasione per riflettere sulle ragioni giuridiche, politiche ed etiche espresse nel mio recente messaggio al Parlamento che impongono una modifica radicale delle attuali condizioni detentive". E, a distanza di cinque mesi, almeno a Pisa, il problema del sovraffollamento non ha più gli aspetti drammatici dell’anno scorso e, di conseguenza, si è alzata la qualità della vita all’interno della casa circondariale che offre ai detenuti importanti servizi. Fra questi, c’è il Polo universitario che permette di iscriversi all’università di Pisa la quale, attraverso una convenzione, mette a disposizioni docenti per lezioni ed esami. Al Polo universitario ci sono computer e sono una dozzina i detenuti iscritti alle facoltà di Scienze Politiche, Ingegneria e Economia. "Il mio sogno è laurearmi e andare a lavorare in Albania" dice con un sorriso che nasconde la speranza. Un altro punto di riferimento, anche a livello nazionale, è il Centro clinico dove due medici sono di turno 24 ore su 24 più gli infermieri. C’è anche una sala operatoria dove si svolgono mediamente venti interventi (non complessi) al mese. I chirurghi arrivano dagli ospedali di Cisanello o Pontedera. Al primo piano ci sono circa 50 posti letto, mentre sono 10 al centro clinico femminile. Catania: Comitato "AddioPizzo"; la legge svuota carceri è applicabile a 15 boss mafiosi La Sicilia, 2 marzo 2014 Sul decreto "svuota carceri" diventato legge, AddioPizzo Catania ha organizzato un incontro con l’ex sottosegretario di Stato alla Giustizia, Giuseppe Berretta, ed il presidente della sezione catanese dell’Associazione Nazionale Magistrati, Pasquale Pacifico. L’incontro, che si è svolto ieri nella sede di AddioPizzo ha posto l’accento sulle conseguenze dell’applicazione della legge, su tutte, quella paventata dal pm Pacifico il quale ha spiegato tecnicamente la nuova legge avvertendo come la norma, a Catania, sarebbe "applicabile alla posizione di una quindicina di boss". Berretta ha parlato della nuova legge dal punto di vista politico ricordando come "in questi ultimi dieci mesi siamo intervenuti con due decreti che hanno avuto l’effetto di alleggerire la pressione del sovraffollamento sugli istituti di pena". Ricordando la sentenza della Cedu, sospesa fino a maggio, che ha condannato l’Italia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri e il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica dell’ottobre scorso che ha esortato il Parlamento ad intervenire per attuare il dettato costituzionale in materia di umanità della pena, l’esponente del Pd ha illustrato le misure varate dal penultimo esecutivo per affrontare l’emergenza carceraria. "Con il provvedimento sull’esecuzione della pena, convertito in legge nell’agosto scorso, abbiamo puntato su misure alternative alla detenzione che considerassero la prospettiva carceraria come extrema ratio da utilizzare per reati che destano allarme sociale e di particolare gravità - ha spiegato Berretta - tenendo ben presente, nel contempo, la richiesta di sicurezza e di certezza della pena che arriva dai cittadini". Proprio su questo punto si sono concentrate le osservazioni di Addiopizzo che ha criticato questa sequela di provvedimenti di clemenza di carattere puramente emergenziale varati dagli ultimi Governi. "Finora non sono serviti a nulla - ha commentato Fabio Salvo di Addiopizzo - e, di contro, ci chiediamo che fine abbiano fatto i 48 nuovi padiglioni carcerari già promessi da Alfano. L’ennesima legge tampone non servirà a niente, avrà solo lo scopo di prolungare la soluzione di un problema che nessuna delle forze politiche al Governo ha mai voluto affrontare sotto il profilo strutturale". Chiavari (Ge): dopo lo sfollamento carcere resterà chiuso un anno per lavori ampiamento Secolo XIX, 2 marzo 2014 Il carcere di Chiavari sarà chiuso per quasi un anno per i lavori di adeguamento che ne raddoppieranno la capienza. Un anno di lavori. Un investimento "importante". Verranno recuperati i locali dismessi, ristrutturato l’edificio e, soprattutto ampliato. Perché la capienza di 78 persone prevista oggi, potrebbe trasformarsi in 150. E non sarà la rivoluzione, ma i lavori che stanno per cominciare nel carcere di Chiavari restituiranno alla città una casa di reclusione all’avanguardia. "Si tratta di un’opera in linea con le leggi dell’ordinamento penitenziario - spiega Paola Penco, direttrice del carcere di Chiavari - voluta dal ministero di Giustizia e dal dipartimento di Amministrazione penitenziaria. Nel caso di Chiavari, che recentemente si è trasformato da casa circondariale a casa di reclusione, i lavori verranno effettuati tutti in una volta sola". Nel dettaglio l’opera, che comincerà nel marzo prossimo, riguarderà tutta la struttura e si ripercuoterà, per dieci mesi, sui detenuti attuali. Perché loro verranno spostati, prima di tutto. "I detenuti del Tigullio - spiega Paola Penco - saranno sistemati nelle sedi più vicine, per garantire loro a alle loro famiglie la possibilità di effettuare con la stessa regolarità i colloqui". Effettuato lo scambio, i lavori cominceranno. Bari: intesa tra Anci Puglia e Prap, i detenuti puliranno il verde pubblico della città di Francesco Petruzzelli La Repubblica, 2 marzo 2014 Tre detenuti impiegati all’esterno in ore di volontariato per la pulizia del verde e degli spazi pubblici. È l’opportunità concessa ai reclusi nella Casa circondariale di Bari. La giunta comunale ha infatti, su proposta dell’assessore all’Ambiente Maria Maugeri, approvato la bozza del protocollo d’intesa che recepisce quello siglato a giugno scorso tra l’Anci Puglia e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. I tre detenuti selezionati offriranno gratuitamente il proprio tempo nel solco di un reinserimento sociale da mettere in atto dopo la cessazione del regime carcerario. Le recenti normative infatti prevedono sgravi fiscali, fino a un massimo di 18 mesi, per coloro che assumono ex detenuti. Sarà il Comune, che si accollerà gli oneri assicurativi, ad indicare le mansioni e i progetti di pubblica utilità. Tra le prime ipotesi c’è la cura di alcuni giardini cittadini, la pulizia o la rimozione di scritte che deturpano monumenti e palazzi. Il progetto avrà una durata definita in sede di firma della convenzione, tra Palazzo di Città e il carcere di Bari. "Crediamo molto in questi programmi di recupero sociale - spiega l’assessore Maugeri - e ci faremo promotori di altre iniziative simili a favore di diverse categorie. Ogni cittadino, a prescindere dalla propria posizione sociale, può dare il suo contributo per il bene della collettività. Non a caso siamo uno dei pochi Comuni a cedere in adozione pezzi di verde ai cittadini virtuosi. Ora rivolgiamo la nostra attenzione anche ai detenuti". Treviso: progetto "Pala e piccone… rieducazione e libertà", detenuti ai lavori sociali La Tribuna di Treviso, 2 marzo 2014 Impiegare i detenuti del carcere di Santa Bona per lavori di pubblica utilità. Questo l’obiettivo che si è posto del progetto di collaborazione firmato dal sindaco di Villorba Marco Serena e dal direttore della Casa circondariale di Treviso Francesco Massimo. "Pala e piccone: rieducazione e libertà" è il nome dell’iniziativa che già da fine marzo porterà due carcerati, per otto ore al giorno e per cinque giorni la settimana, a lavorare all’esterno della struttura penitenziaria a favore della collettività. Un progetto di utilità sociale che, come recita l’articolo 27 della Costituzione, prevede che le pene "debbano tendere alla rieducazione del condannato". Nella convenzione firmata ieri a Villa Giovannina, si presuppone che la rieducazione si traduca in un’offerta di opportunità al fine del reinserimento sociale del detenuto. Il lavoro di pubblica utilità, in alternativa alla detenzione, può infatti costituire da un lato una concreta risposta al problema del sovraffollamento delle carceri e dall’altro costituire un’opportunità di "redenzione" per il detenuto. Inizialmente i detenuti faranno piccolo lavori di manutenzione, giardinaggio e pulizia. Ma l’obiettivo finale è ancora più ambizioso, e consiste nello sfruttare le capacità e le peculiarità dei carcerati. Uno dei secondi compiti che potrebbero essere loro affidati sarò la digitalizzazione dei documenti comunali, nel caso in cui il "volontario" avesse abilità informatiche. Lodi: detenuto marocchino scambiato col compagno di cella e scarcerato, si costituisce di Sandro De Riccardis La Repubblica, 2 marzo 2014 Non credeva ai suoi occhi, Hicham Ennakagh, quando le porte della cella, venerdì sera, si sono aperte e il secondino gli ha detto che era libero. Hicham, 28 anni, era finito in carcere a Lodi soltanto pochi giorni prima, raggiunto il 24 febbraio da un’ordinanza di custodia cautelare per spaccio, destino di tanti immigrati che arrivano in Italia da Beni Mellal, città nel cuore del Marocco. La sua libertà dura però solo poche ore, il tempo di capire che a uscire doveva essere il suo compagno di cella, marocchino come lui, ma più vecchio di dodici anni, con i baffi e un nome, Mahjub Echakraoui, che non è così facile confondere col suo. Eppure succede, mandando in tilt per un paio d’ore l’amministrazione penitenziaria di Lodi, con un detenuto - Mahjub Echakraoui - che resta in carcere, nonostante abbia ottenuto i domiciliari dal gip Alessandra Del Corvo, con un’ordinanza notificata al carcere alle 17,15. E un altro recluso - Hicham Ennakagh - che si ritrova libero, nonostante un’ordinanza di custodia cautelare di quattro giorni prima. "Mi hanno dato un portafoglio nero, sembrava il mio, ma i documenti all’interno non erano i miei", racconta Hicham, prima di rientrare in cella. Hicham, che non parla e non legge bene l’italiano, si è così trovato fuori dal carcere con in mano il decreto di scarcerazione di Echakraoui. "Quando mi ha telefonato da un’utenza che non conoscevo, ho pensato a uno scherzo - racconta ora il legale di Hicham Ennakagh, l’avvocato Debora Piazza. Non poteva che essere un errore. "Sei sicuro che sei Hicham?", gli ho chiesto. È allora che mi ha detto che aveva ricevuto gli effetti personali del compagno di cella". L’avvocato Piazza parte da Milano e raggiunge il suo assistito a Lodi, poi insieme - col verbale di scarcerazione di Mahjub Echakraoui - vanno in questura di Lodi. Spiega lo scambio di persona, che il suo assistito è stato scarcerato per errore. Ma anche che il suo assistito deve tornare subito dentro. È alle 21 di sabato che la questura allerta la direzione del carcere e il pm di turno, Laura Siani, e solo in tarda serata Ennakagh rientra in carcere. Teramo: sospensione di sei mesi per un agente accusato di aver elargito favori ai detenuti di Edoardo Amato Il Centro, 2 marzo 2014 Sospeso per sei mesi dal servizio. Questa la decisione del gip Domenico Canosa nei confronti dell’agente della Polizia penitenziaria del carcere di Teramo accusato di vari reati tra cui rivelazione di segreti, corruzione e spaccio di droga. Il giudice ha quindi accolto la richiesta formulata dal titolare dell’indagine, il sostituto procuratore Luca Sciarretta, nei confronti di Giancarlo Arnoni, l’agente della polizia penitenziaria sospettato di avere favorito alcuni detenuti legati alla camorra, rivelando segreti d’ufficio che si potevamo rivelare utili ai detenuti e anche di avere fatto entrare stupefacenti all’interno del carcere in cambio di denaro. Nell’indagine risulta coinvolto anche un medico teramano, accusato di avere rilasciato falsi certificati medici all’agente per consentirgli di fare dei periodi di assenza dal lavoro per malattia. Il medico è indagato, ma gli addebiti nei suoi confronti sarebbero limitati al falso e non sarebbe coinvolto nelle ipotesi di reato che invece vengono contestate all’agente. Tra le quali vi è anche la violazione dell’articolo 390 del codice penale "procurata inosservanza della pena", che si concretizza quando si aiuta qualcuno a sottrarsi all’esecuzione della pena. Cosa avvenuta - sempre secondo le accuse - quando l’agente si sarebbe messo in contatto con un latitante pescarese, ricercato per scontare una condanna definitiva, che venne poi trovato e arrestato nel novembre 2011. Secondo gli inquirenti Arnoni avrebbe dunque saputo come rintracciare il latitante, ma si sarebbe ben guardato dall’avvisare i suoi colleghi o un altro organo di polizia giudiziaria per fare eseguire l’arresto, come sarebbe stato suo dovere fare in quanto agente della polizia penitenziaria. L’indagine sul suo conto nasce è una costola dei una più vasta inchiesta della Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Napoli su alcuni esponenti della camorra. Dalle intercettazioni sarebbe emerso che alcuni di questi indagati - che poi sarebbero stati portati nel carcere teramano per scontare la pena - avevano contatti con Arnoni. Di qui l’apertura di una fascicolo autonomo della procura di Teramo sul conto dell’agente della polizia penitenziaria, le cui mosse sono state seguite per lungo tempo anche attraverso nuove intercettazioni. E da queste sarebbe emerso che l’agente parlava con detenuti e loro familiari, rivelando in anticipo il trasferimento in altri carceri o facendogli sapere chi avrebbero trovato in cella e altre informazioni che sarebbero dovute rimanere riservate. L’agente era stato interrogato la settimana scorsa dal gip, ma si era avvalso della facoltà di non rispondere: il giudice, dopo essersi riservato sulla decisione da prendere, ha poi accolto la richiesta di sospensione che ieri è stata notificata all’agente. Salerno: pizzo dal carcere; parla l’agente "qualche piccolo favore, ma nessuna complicità" La Città di Salerno, 2 marzo 2014 "Qualche piccolo favore magari sì, ma nessuna complicità nelle estorsioni". L’ex sovrintendente di polizia penitenziaria, il cavese Giovanni Arcaro ora in pensione, nega di avere aiutato gli uomini del clan De Feo a gestire dal carcere un giro di estorsioni a imprenditori dei Picentini e della Piana del Sele. Difeso dall’avvocato Roberto Lanzi, ha risposto alle domande del giudice delle indagini preliminari nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è rinchiuso dall’alba di martedì. Nella sua ricostruzione di quanto accadeva nelle celle di Fuorni ha fatto parziali ammissioni, parlando di piccoli favori per rendere più agevole le condizioni di qualche detenuto, ma ha negato di aver mai fatto uscire dal carcere lettere estorsive e di aver fatto le telefonate di cui si parla nell’ordinanza di custodia cautelare. "Non sono stato io" ha detto al giudice che lo ha interrogato su rogatoria del gip salernitano Vincenzo Di Florio. Ma non avrebbe fatto nomi di possibili sospetti. Nei prossimi giorni presenterà richiesta di revoca della misura cautelare, come annunciano anche gli altri arrestati (alcuni già in carcere per altri reati). Ieri hanno deciso di restare in silenzio, avvalendosi della facoltà di non rispondere, sia Antonio De Feo e Giuseppe Capo, entrambi residenti a Perito e ritenuti i leader del sodalizio criminale, che Felice Carraturo di Pontecagnano, Michele Oscar Cafarelli di Battipaglia e Leonilda Curti, di Castel Volturno (la compagna di Capo). Sarà invece ascoltata il 6 marzo Anna Iuliano di Pontecagnano, l’unica degli arrestati ad essere ai domiciliari. L’indagine, coordinata dai sostituti procuratori Rocco Alfano e Rosa Volpe, ha avuto inizio dal ritrovamento di due telefoni cellulari nella cella di Raffaele Del Pizzo, che da quel momento ha iniziato a collaborare. Piacenza: rissa in carcere, tra gli accusati c’è Mohamed Ali… ma nega di aver partecipato www.piacenza24.it, 2 marzo 2014 C’è da dire che il nome non lo aiuta proprio in questo specifico frangente, ma lui comunque si dice innocente e giura di averle prese, le botte. Certo, se ti chiami Mohamed Ali, e cioè come il più grande idolo della boxe mondiale di tutti i tempi, appari sulle prime poco credibile. E in effetti ora come ora il nordafricano in questione, omonimo di Cassius Clay dopo la conversione all’Islam, è tra i sette imputati per una mega rissa avvenuta due anni fa all’interno del carcere delle Novate di Piacenza. Botte da orbi, calci e pugni per motivi non meglio precisati, a quanto pare per una vecchia rivalità tra gruppi di detenuti, italiani da una parte magrebini dall’altra. Morale, tutti in ospedale (nessuno per fortuna in gravi condizioni) e tutti denunciati per rissa dopo l’intervento - non certo facile - della Polizia Penitenziaria che a suo tempo aveva fisicamente diviso in contendenti e poi calmato gli animi. Oggi in tribunale, dopo un paio di rinvii tecnici, è iniziato ufficialmente il processo per questo episodio che aveva creato scompiglio all’interno del Penitenziario, riportando in primo piano il tema della sicurezza per gli stessi agenti ma anche per i detenuti. Tema tuttora di stretta attualità, come dimostrano le frequenti denunce da parte delle organizzazioni sindacali. Stamattina le parti hanno fatto le loro richieste e presentato i documenti, che per quanto riguarda il pm Arturo Iacovacci consistevano soprattutto in certificati medici. Sia la pubblica accusa sia i numerosi difensori (tra i quali l’avvocato Roberto Bernocchi, che assiste l’omonimo del grande pugile americano) hanno presentato le loro liste testi e il giudice Italo Ghitti, dopo aver accolto le varie richieste, ha rinviato il processo all’udienza del prossimo 2 maggio. Genova: aggressione nel carcere di Marassi, detenuto ferisce poliziotti con la lametta www.genova24.it, 2 marzo 2014 Ancora un’aggressione nel carcere di Marassi. "Intorno alle 11.30 di ieri mattina nel carcere Marassi di Genova un detenuto marocchino ha brutalmente e improvvisamente aggredito due Poliziotti Penitenziari di Marassi con una lametta". A dichiararlo è il Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari, Fabio Pagani. "Le aggressioni in danno al personale in servizio negli istituti penitenziari costituisce una delle problematiche più cogenti della difficile quotidianità penitenziaria - aggiunge - il Corpo di polizia penitenziaria paga un tributo salatissimo e nell’Istituto di Genova Marassi, è la settima aggressione dall’inizio del 2014. Al momento i due poliziotti penitenziari si trovano al Pronto Soccorso dell’ospedale San Martino e il Segretario Regionale della Uil-Pa, in attesa di conoscere le loro condizioni fisiche, rivolge il pensiero ai colleghi feriti, dimostrando viva solidarietà e sincera vicinanza. "Nell’auspicio che possano riprendere presto e bene la propria attività lavorativa all’interno di un Istituto che oramai sembra sempre più un inferno", conclude. Lecce: "Le mie finestre guardano", recital di Mirella Mastronardi alla Casa circondariale di Carlotta Rapace www.clandestinoweb.com, 2 marzo 2014 Andrà in scena il 7 marzo presso la Casa circondariale "San Nicola" di Lecce, il recital di Mirella Mastronardi "Le mie finestre guardano". L’iniziativa, promossa da Made in carcere, è un’opportunità per riflettere sulla condizione sociale e dunque umana per chi vive la realtà del carcere. "Ho provato a creare un luogo di riflessione e confronto da cui far partire qualcosa che lasci un seme. Il teatro è un mezzo formidabile per svolgere questa funzione in quanto attiva un pensiero che resta appiccicato allo spettatore, assieme alle emozioni che lo accompagnano. Chi guarda inevitabilmente ricollega la storia rappresentata al proprio vissuto, all’ambiente dal quale proviene, alla propria autobiografia. Da questo confronto nasce una relazione con se stessi che distrugge i luoghi comuni e permette una ricostruzione a partire dalla verità della propria vita. Ci si sente meno soli, si è custodi di una evoluzione che è sempre un percorso di libertà", afferma Mirella Mastronardi. Il recital "Le mie finestre guardano" segnerà numerose tappe: dopo le città di Bologna e Ferrara, sarà ancora in scena sabato 8 marzo (ore 18) all’ Ex Conservatorio Sant’Anna di Lecce, su invito dell’associazione culturale Muse del Salento; il 15 e 16 marzo al teatro Sociale di Palazzolo sull’Oglio (Brescia) per il Comune di Palazzolo, Assessorato alle Pari Opportunità e per l’associazione culturale Donne e Costituzione. Libri: "La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane" di Arianna Giunti www.linkiesta.it, 2 marzo 2014 Mercoledì 19 febbraio 2014: il Parlamento approva il controverso "decreto carceri", un pacchetto di norme mirato a sfoltire la popolazione penitenziaria e migliorare le condizioni dei detenuti. Il decreto è la diretta conseguenza della "sentenza Torreggiani", la pronuncia con cui nel 2013 l’Europa ha condannato l’intero sistema carcerario italiano per le condizioni inumane applicate in cella: ma cosa succede davvero dietro le sbarre dei nostri penitenziari quando i cancelli si chiudono alle spalle del detenuto? "La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane" è un’indagine su un sistema carcerario dalle fondamenta ormai fradice, costruita attraverso testimonianze dirette e atti giudiziari, cifre e statistiche, fatti di cronaca più e meno noti. Arianna Giunti, premio Guido Vergani "Cronista dell’anno" 2010, porta il lettore direttamente nel buio delle nostre prigioni, tra morti sospette, casi di malasanità e "uomini ombra", fino al segreto che tutti conoscono ma nessuno vuole nominare: "la cella liscia", una cella completamente vuota, priva di appigli fisici o mentali, dove viene rinchiuso chi sgarra, chi non obbedisce agli ordini, chi è vittima di crisi isteriche o psichiatriche. Una violazione dei diritti umani dal sapore medievale che sopravvive, oggi, nelle carceri di tutta Italia. Un brano del libro La chiamano "liscia" perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. È stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché - appunto - esattamente di tortura si tratta. È lì che secondo i racconti di alcuni detenuti verrebbe rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o semplicemente chi è colpito da crisi isteriche o psichiatriche. A volte solo per una notte, più spesso per un’intera giornata. La punizione consiste nel provocare l’annichilimento e l’annientamento psicologico del detenuto, che viene lasciato solo, completamente nudo e al buio. Ogni tanto entra qualcuno per portare l’acqua. Ma non è mai una visita piacevole, perché volano botte e schiaffi, frustate con uno straccio bagnato per non lasciare segni sul corpo, e spesso il carcerato è costretto a fare flessioni ripetute davanti alle guardie. Non esistono sanitari, nella cella liscia. Il detenuto deve fare i propri bisogni sul pavimento, dove è costretto a dormire. L’aria infetta attira gli scarafaggi, che escono dagli anfratti del muro e brulicano per la stanza, infestano il cibo e camminano sopra il corpo del carcerato se lui per caso smette di muoversi. Solo prima di lasciare la cella, al prigioniero viene dato un tubo d’acqua con il quale lavare via i suoi stessi escrementi. Quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento dispongono ancora di una cella liscia. Eredità antica, dura a morire. Dura anche da ascoltare e raccontare. Dura da far comprendere a chi lì dentro non ha mai messo piede e non sa, non può, non vuole immaginare che in pieno terzo millennio uno Stato democratico ed evoluto possa ancora ricorrere a strumenti così aberranti. Eppure i casi di cronaca legati alle "celle lisce" sono tanti e documentati. Prendiamo ad esempio il carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia, che nel 2009 ha attirato l’attenzione della magistratura dopo il suicidio di un cittadino marocchino di ventisei anni di nome Mohammed. I giudici volevano accertare se la cella liscia fosse stata impiegata per ospitare momentaneamente i detenuti "nuovi giunti" in attesa di essere assegnati in sezione, oppure come cella d’isolamento. Dopo la morte di Mohammed il sostituto procuratore Stefano Michelozzi aveva indagato per omicidio colposo due ispettori della penitenziaria: il responsabile del reparto, dove è avvenuto il suicidio, e il responsabile della sorveglianza generale. Secondo il magistrato nella condotta dei due graduati si evidenziavano possibili carenze e omissioni nella gestione del detenuto, che in manifeste condizioni di sofferenza psichica aveva già tentato il suicidio poche ore prima della morte. Abbandonato a se stesso e alla sua disperazione, aveva sfilettato con i denti la coperta di lana che gli era stata data come giaciglio per farne una treccia che poi era riuscito a utilizzare per appendersi alla finestra. Quell’episodio aveva suscitato numerose proteste tra i suoi compagni e attraverso le loro lettere pubblicate anche dal sito dell’associazione Ristretti Orizzonti sono state ricostruite le fasi precedenti il suicidio. "Dopo il primo tentativo di farla finita", scriveva un testimone, "Mohammed è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché nessuno ha controllato cosa faceva e come stava? Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?". Domande che sono rimaste senza risposta. Della tortura della cella liscia aveva parlato prima di morire anche Carlo Marchiori, richiuso in carcere per motivi di droga e ritrovato cadavere nella sua cella a 30 anni non ancora compiuti. La storia di questo giovane detenuto oggi prende vita attraverso le parole di suo padre, Antonio Natale, che con dignità e coraggio vuole capire che cosa sia realmente successo quella sera di novembre di nove anni fa. La sua è la storia di un amore incondizionato, che va oltre gli errori e il dolore, e che attraversa gli anni diviso a metà fra la piena consapevolezza della fragilità di suo figlio e la tenace ricerca della verità. Non perché non si rassegni a questa tragica morte, ma perché tutto questo non accada mai più. "Io e mia moglie sapevamo che Carlo faceva uso di sostante stupefacenti", racconta oggi Antonio, "era spesso violento, ci chiedeva continuamente soldi. Per questo motivo, un giorno, stremati da questa situazione, abbiamo deciso di denunciarlo ai carabinieri". Correva l’anno 2003, e dopo alcuni mesi di detenzione a San Vittore, Carlo passa da un carcere all’altro, fino ad arrivare al Mammagialla di Viterbo. Lì si trova bene, fa amicizia con il suo compagno di cella e riesce a mangiare il cibo che la mamma del suo "coinquilino" gli fa recapitare in carcere. Un giorno, però, litiga con una guardia. E per la prima volta sperimenta la cella liscia. "Dopo un mese di detenzione al Mammagialla, durante uno dei colloqui mio figlio mi disse che lo avevano portato nella cella liscia. ‘E che cos’è la cella liscia?’, gli chiesi". La risposta di Carlo lo lascia di sasso. Vorrebbe abbracciarlo ma il suo corpo è come paralizzato. "Quando sei rinchiuso da solo al buio in quella cella", scandisce il figlio con un filo di voce, "perdi la cognizione del tempo. Ti sembra che sia passata un’ora e invece sono appena dieci minuti. Ti sembra che sia passata una giornata e invece sono solo due ore". Il suo resoconto è agghiacciante: "Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come fossero una cosa bella". Qualche settimana dopo, il suo compagno di cella viene trasferito in un altro carcere due mesi prima della scarcerazione. Per Carlo è un dolore enorme, reagisce con rabbia scaraventando un fornellino da cucina contro un agente della penitenziaria. La rappresaglia è tremenda: viene lasciato nella cella liscia un’intera settimana. "Mi sembrava fosse trascorso un anno", racconterà al padre, "e invece erano solo sette giorni". Poco tempo dopo viene trasferito nel carcere di Monza. Le sue telefonate sono sempre più rare, durante le visite è cupo e sofferente. Alla mamma, una sera, dice: "Non arriverò a compiere 30 anni". Morirà il 5 novembre 2005, 11 giorni prima del suo compleanno. Antonio Marchiori non si rassegna, vuole conoscere la verità, e chiede al carcere la cartella clinica del figlio. Scopre che non è mai stata redatta né firmata, e gliela consegnano solo 18 giorni dopo. Quei fogli, compilati svogliatamente dai medici in un freddo linguaggio tecnico, non chiariscono però quali siano state realmente le cause della morte di Carlo. Così presenta un esposto alla Procura di Monza, che però non dispone alcuna autopsia. Il padre di Carlo si scontra contro un muro di gomma anche quando chiede un appuntamento al direttore del penitenziario, dove suo figlio ha passato i suoi ultimi giorni: "Mi dispiace, non posso aiutarla", si sente ripetere. E non gli ha teso una mano neppure chi davvero avrebbe potuto aiutarlo ad arrivare alla verità, gli ex compagni di cella del figlio. Che non hanno mai voluto testimoniare. Droghe: dalla Conferenza di Genova un "Manifesto" contro il proibizionismo di Katia Bonchi Il Manifesto, 2 marzo 2014 Stop a proibizionismo e depenalizzazioni delle droghe leggere: lo chiede al governo Renzi la Conferenza nazionale di Genova, che si è conclusa ieri. Critiche al capo del Dipartimento. L’ex ministro Flick: serve una nuova legislazione. A quattordici anni dall’ultima conferenza nazionale sulle droghe che si tenne proprio a Genova, associazioni, gruppi, operatori, movimenti, persone che usano sostanze e rappresentanti istituzionali impegnati nel contrasto agli effetti nocivi dell’abuso di droghe e della loro criminalizzazione sono tornati sotto la Lanterna. Due giorni di laboratori, dibattiti e interventi per disegnare un nuovo percorso. Il "Manifesto di Genova" - così è stato chiamato - vuole essere "un’alternativa praticabile anche in Italia alle fallimentari politiche proibizioniste in via di superamento in molte parti del mondo". L’universo antiproibizionista ha trovato un alleato inaspettato quanto potente nella Corte costituzionale che ha decretato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, una legge "frutto di un atto illegittimo che ha causato vittime, pene e sofferenze, umane e giuridiche, e che ha contribuito in massima parte al sovraffollamento penitenziario" scrivono i promotori. La sentenza della Consulta, pur essendo intervenuta nel metodo e non nel merito, ha quindi "un valore simbolico immenso" che rende possibile "riprendere il percorso per una legge più umana e più giusta che contrasti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, ma sottragga le persone che usano sostanze alla macchina repressiva e offra loro possibilità di uso consapevole e, quando necessario, di sostegno sociale e sanitario". Il Manifesto chiede al nuovo governo un forte atto di responsabilità con l’attuazione di "misure legislative urgenti volte a sanare eventuali e probabili disparità di trattamento tra coloro che sono stati condannati sulla base della incostituzionale legge Fini- Giovanardi". Il caos giudiziario conseguente alla sentenza della Consulta, deve essere evitato grazie a un decreto che "sani" anche l’ultimo pasticcio contenuto nel decreto svuota carceri sulle pene per la lieve entità. È poi necessario "il superamento dell’attuale e fallimentare modello autocratico del Dipartimento antidroga, da sostituirsi con una cabina di regia che veda coinvolti tutti gli enti e tutte le istituzioni, nazionali, regionali e locali, competenti per una nuova politica sulle droghe, ivi comprese le associazioni del privato- sociale e quelle rappresentative delle persone che usano sostanze". Per un radicale mutamento delle politiche sulle droghe occorre partire "dal riconoscimento della soggettività delle persone che usano sostanze e dei loro diritti". Inevitabile "la completa revisione delle previsioni sanzionatorie, penali e amministrative, stabilite dal Testo unico sulle sostanze stupefacenti. I consumatori devono essere liberati tanto dal rischio di criminalizzazione penale quanto dalla soggezione a un apparato sanzionatorio amministrativo stigmatizzante e invalidante". Una modifica che deve prendere le mosse dalla completa "depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo, e della coltivazione domestica di piante di marijuana agli stessi fini" e una "compiuta regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della libera coltivazione a uso personale". Occorre definire un nuovo "patto per la salute", con una governance e risorse adeguate, che parta dal "rilancio dei servizi per le dipendenze" e da politiche di "riduzione del danno" per prevenire "i rischi connessi all’abuso e alla clandestinità del consumo, a partire dall’analisi delle sostanze e dalla predisposizione di forme e luoghi della loro somministrazione controllata". E se il patto di stabilità strangola le città, al governo il Manifesto di Genova chiede che il patto "sia derogabile nel perseguimento di politiche finalizzate alla tutela dei diritti fondamentali della persona come sono quelle destinate a sostenere i percorsi sociali di inclusione delle persone che usano sostanze". In chiusura i promotori chiamano Renzi direttamente a Genova, dove tutto è cominciato: "Chiediamo al premier, che è già stato ospite della Comunità San Benedetto, di venire a Genova entro i prossimi 30 giorni per ascoltare i rappresentanti delle realtà pubbliche e del privato sociale e delle persone che usano sostanze. In queste due giornate è stato prodotto confronto, dibattito, e sono state individuate proposte programmatiche e pratiche in grado di riallinearci alle politiche sui consumi di altri Paesi europei e internazionali. Vogliamo illustrarle direttamente al nuovo presidente del consiglio". Il lavoro è appena cominciato e si sposta sui territori per sensibilizzare e tentare di avviare in concreto un nuovo percorso, ma l’appuntamento è già fissato: tra un anno, ancora a Genova, ancora sulle orme di Don Gallo. Droghe: adesso una nuova legge… e critiche al capo del Dpa, Giovanni Serpelloni di Katia Bonchi Il Manifesto, 2 marzo 2014 La Corte si limita a rimuovere le condizioni di incostituzionalità ma ricostruire spetta al legislatore". Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale assegna alla politica la responsabilità di quanto la magistratura ha "distrutto" sancendo l’illegittimità della legge Fini Giovanardi. Perché se la Consulta ha spiegato con chiarezza che spetta al giudice ordinario decidere di volta in volta come muoversi rispetto alle sentenze già emesse, l’unica soluzione per uscire dal caos sembra essere l’intervento del legislatore che "deve porre sul piatto della bilancia da un lato il problema concreto di come rivedere migliaia di processi, dall’altro la necessità di salvare il principio dell’intangibilità della sentenza passata in giudicato e, in terzo luogo, il principio contrapposto secondo cui è difficile accettare l’idea che si continui a scontare un pezzo di pena fondato su una legge incostituzionale". Flick ha aperto la giornata conclusiva della due giorni genovese ribadendo che "la Consulta è intervenuta su una questione di metodo e non di merito". La vicenda è nota: in sede di conversione del decreto sulle Olimpiadi invernali di Torino quello che inizialmente era un articolo relativo al trattamento socio-sanitario dei tossicodipendenti diventò un macigno di 24 articoli che eliminava la distinzione a fini sanzionatori tra droghe leggere e pesanti. "Personalmente sono più che convinto della irragionevolezza della mancata differenziazione - ha detto Flick -ma non sono certo che la legge sarebbe stata dichiarata incostituzionale nel merito perché la Consulta è sempre stata molto cauta nell’intervenire sulle scelte del legislatore". Per questo la politica deve delineare una strategia seria che coinvolga la società civile: "Occorre legalizzare il consumo di droga, anche di quella pesante, seppure proponendo molte alternative al soggetto che ne fa uso. È l’unico modo possibile per combattere la criminalità organizzata". "L’ampio excursus storico di Flick un po’ preoccupa - ha commentato il deputato di Sel Daniele Farina - perché ha definito la legge Jervolino-Vassalli una mediazione rispetto alle normative precedenti. Non vorrei che il parlamento oggi si accontentasse di mantenere quella mediazione perché contro quella legge, noi che abbiamo i capelli ormai un po’ grigi manifestavamo nelle strade. Se non andava bene allora, non capisco come potrebbe andare bene oggi". Applausi dalla platea (che sulla carta in pochi si sarebbero aspettati) sono arrivati al deputato renziano del Pd Federico Gelli, medico toscano e membro della Commissione Affari sociali e Sanità quando ha definito la Fini-Giovanardi "la legge più cancerogena della storia repubblicana" e soprattutto quando, dopo aver bollato come "fazioso e di parte il Dipartimento antidroga", ha aggiunto che l’attuale capo Giovanni Serpelloni "deve essere cacciato". "Il dipartimento per le politiche sulle dipendenze non deve più dipendere dalla presidenza del consiglio - ha spiegato Gelli - ma da uno dei ministeri effettivamente competenti, il Welfare o la Salute. Renzi deve poi indicare un referente che rimetta in moto una politica di concertazione che è stata completamente abbandonata in questi anni". Il passaggio successivo deve essere una nuova legge sulle droghe: "Occorre avviare subito un confronto tra il governo e le parti sociali, cioè il volontariato, il privato sociale e il mondo delle comunità per iniziare un percorso che porti a una nuova legislazione nazionale che risenta di quello che è successo ma che guardi anche oltre, grazie alle evidenze scientifiche di cui oggi siamo in possesso e alle esperienze internazionali europee per creare una nuova dimensione legislativa dopo tanti anni di oscurantismo". Gelli (Cesvot): necessaria nuova politica Dopo la pronunzia della Consulta sulla Fini-Giovanardi "è urgente promuovere e sostenere una nuova politica sulle droghe". Lo ha detto Federico Gelli, presidente del Cesvot (Centro servizi volontariato Toscana) e deputato del Pd durate il convegno organizzato a Genova dal titolo ‘Sulle orme di Don Gallò. "Chi ha ruoli politici - ha detto Gelli - ha il dovere di ascoltare la società civile impegnata da anni sulle tossicodipendenze come il volontariato, che vanta le esperienze più importanti in materia". Gelli fornisce alcuni dati: in Italia i detenuti per violazione dell’art.73 sono il 38% di tutta la popolazione carceraria. Di questi, il 40% sono detenuti per detenzione di cannabis. "Ora è in agguato un ulteriore errore politico, quello di pensare che abolita la Fini-Giovanardi per mano della Consulta e cancellati gli aspetti peggiori della normativa sulle droghe sia concluso il nostro lavoro - ha detto Gelli -. E invece è proprio questo il momento in cui la politica può imprimere una svolta verso il Dipartimento delle politiche antidroga fino all’affidamento della delega sulle droghe a un Ministero di area sociale. La politica deve intervenire con risposte alle associazioni superando il modello emergenziale del Dipartimento unico sotto la presidenza del Consiglio dei ministri voluto da Berlusconi e Giovanardi e convocando la Conferenza Nazionale e è necessario aprire consultazioni con le parti interessate e destinare al settore di prevenzione e cura maggiori risorse". Ferrero (Rc): subito decreto su pena Fini-Giovanardi "Ci associamo alla richiesta emersa nella due giorni organizzata a Genova dalla Comunità di San Benedetto al Porto "Sulle orme di Don Gallo. Droghe ripartiamo da Genova": dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi, è necessario un decreto immediato del governo che riguardi coloro che stanno scontando pene prescritte da quella legge assurda". Lo afferma Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista. "Vi è infatti una lacuna normativa che va al più presto colmata dando indicazioni chiare ai giudici: bisogna assolutamente evitare che nonostante la sentenza di incostituzionalità la Fini-Giovanardi continui a vivere per chi è oggi in galera: le pene in corso vanno ridefinite. Occorre intervenire sui processi in corso e sulla riparametrazione delle pene dei detenuti passate in giudicato. Chiediamo che il governo Renzi ascolti i tanti, dai magistrati ai giuristi, dagli operatori ai garanti dei detenuti che si occupano di droghe nel quotidiano e che propongono tale intervento: la Fini-Giovanardi va mandata a casa definitivamente". Slovenia: in preparazione una legge per far pagare ai detenuti la permanenza in cella di Mauro Manzin Il Piccolo, 2 marzo 2014 C’è chi emana il decreto "svuota carceri", chi pensa a nuove forme rieducative per i condannati e c’è chi, come il ministro della Giustizia della Slovenia, Senko Plijani che sta preparando una norma in base alla quale i detenuti pagheranno la loro ospitalità dietro le grate. A Napoli si direbbe "cornuti e mazziati". Il ministero della Giustizia sloveno, invece, con un comunicato molto "british" confermale intenzioni del Guardasigilli in cui si legge, tra l’altro, che "come i condannati pagano le spese processuali così è giusto che si accollino anche quelle relative alla propria detenzione". "Bisognerà ovviamente - precisa ancora il ministero - tenere in debito conto le singole situazioni sociali e la capacità del detenuto a pagare la propria "retta". Sembra di capire che per il "poveraccio" che ruberà in un supermercato per fame la detenzione sarà gratuita, ma l’abile corruttore e collettore di tangenti dal portafoglio perennemente gonfio dovrà provvedere anche al suo sostentamento nelle patrie galere. Giuristi e esperti sono però molto scettici, bollano subito l’idea come "neo liberalista" e sottolineano come sarebbe molto difficile quantificare il costo dell’accoglienza in base ai "servizi" ricevuti dal galeotto. In Slovenia, tra la gente, l’idea populistica del ministro riceve plausi anche perché in tempi di crisi come questi in cui si tagliano gli stipendi e trovare un lavoro è come scoprire un chicco di caffè in una tonnellata di grano è giusto, dice vox populi, che tutti contribuiscano. C’è chi poi ricorda che in Cina i parenti dei condannati a morte devono pagare le spese per la sepoltura del parente dopo l’esecuzione, che in Turchia o nel Sudamerica se vuoi sopravvivere nelle patrie galere devi comunque pagare la "mafia" dei secondini ma che anche in un Paese sviluppato e occidentale come l’Olanda si è iniziato a discutere sulla possibilità che i detenuti contribuiscano alle spese di mantenimento in carcere. Se la proposta del ministro dovesse passare in Parlamento i primi a "sperimentare" il sistema "ti chiudo e tu paghi" saranno i cosiddetti in Slovenia detenuti del week-end, ossia coloro che scontano la loro pena passando in prigione solo il fine settimana mentre negli altri giorni continuano a recarsi normalmente al lavoro. Nel 2012 nelle carceri slovene c’erano 86 detenuti di questo "tipo". Se si calcola che un giorno di detenzione nelle carceri slovene costa allo Stato complessivamente 64 euro, i carcerati del week-end dovranno così pagare circa 7.200 euro l’anno ossia un po’ meno di 600 euro al mese. Ma, come dicevamo, giuristi ed esperti non sono d’accordo con le idee del ministro Plijani. Il docente di diritto penale all’Università di Lubiana, Matjaž Ambrož spiega al quotidiano Dnevnik che "la carcerazione è privazione della libertà e non contemporaneamente anche una pena pecuniaria nascosta e il pagamento della detenzione rischia di mandare all’aria proprio tutto il sistema delle pene pecuniarie come previsto nel codice penale". Ancor più critico e diretto il professor Dragan Petrovec dell’istituto di criminologia della Facoltà di giurisprudenza dell’ateneo di Lubiana. "L’idea - afferma - è già di per sé neo liberalista e fa a pugni con la ragione e probabilmente anche anti-costituzionale". Per Petrovec il pagamento del carcere rappresenta un ulteriore pena e poi è socialmente pericolosa in quanto rischia di invischiare economicamente anche i parenti del condannato che certo non sono responsabili penalmente di quanto compiuto dal proprio "caro". Ma c’è anche chi ricorda che il tutto potrebbe non essere molto in linea con la tutela dei diritti dell’uomo. Svizzera: oggi nessun incidente nel carcere Champ-Dollon, dopo giorni di risse e ribellioni www.tio.ch, 2 marzo 2014 Nessun incidente è stato registrato oggi nel carcere ginevrino di Champ-Dollon, in preda da domenica scorsa a risse e ribellioni. "La situazione resta molto tesa, ma abbiamo finalmente potuto tirare il fiato", riferisce il presidente dell’Unione del personale del corpo di polizia Christian Antonietti. Un solo incidente è stato segnalato oggi nell’unità carceraria dell’Ospedale universitario, dove erano stati ricoverati i 18 detenuti feriti nelle risse scoppiate inizio settimana. Uno dei prigionieri si è rinchiuso nella sua camera ed ha minacciato di mutilarsi, precisa il Dipartimento ginevrino della sicurezza. Attualmente soltanto due carcerati sono ancora ricoverati nel nosocomio. Poste particolarmente sotto pressione, le guardie carcerarie hanno minacciato ieri di ricorrere a misure di protesta qualora le autorità non dovessero rimediare rapidamente al sovrappopolamento del carcere nel quale coabitano attualmente 850 persone, mentre i posti disponibili sono 376. In aprile dovrebbe aprire i battenti l’unità concordataria Curabilis, in grado di ospitare 92 detenuti affetti da gravi turbe psichiche. Fra i progetti, la struttura Brenaz 2 (100 posti supplementari nel perimetro di Champ-Dollon) è attualmente bloccata da un ricorso. Giordania: Abu Qatada in sciopero della fame, protesta per condizioni detenzione Ansa, 2 marzo 2014 Ha cominciato uno sciopero della fame per protesta contro le condizioni di detenzione in Giordania Abu Qatada, il predicatore fondamentalista islamico un tempo indicato come il massimo dirigente di Al Qaida in Europa ed estradato dalla Gran Bretagna lo scorso anno. Lo riferisce oggi il quotidiano giordano Al Sabil. Abu Qatada si è unito in questa forma di protesta ad un’altra decina di detenuti in un carcere di massima sicurezza. Il predicatore fondamentalista, secondo quanto ha fatto sapere il fratello, lamenta la proibizione di ricevere visite a parte quelle dei familiari stretti, la mancata autorizzazione all’ora d’aria e il divieto di ricevere libri. Abu Qatada, un tempo considerato il braccio destro di Osama bin Laden in Europa, è sotto processo in una Corte per la sicurezza dello Stato giordana con l’accusa di attività terroristiche.