Giustizia: l’indulto è vivo e lotta insieme a noi di Valerio Spigarelli (Presidente Unione Camere Penali) Gli Altri, 29 marzo 2014 Bisognerebbe riesumare un po’ di sana retorica del secolo scorso per mantenere in vita l’idea che sulle cose di giustizia la politica, come d’ incanto, risorga e torni a governare. Bisognerebbe ritrovare un po’ di sana passione civile da parte della sinistra, in particolare quella che spinge sulla giustizia, per fare battaglie anche impopolari, comunque difficili da far comprendere alla pubblica opinione, frutto di scelte non solo tattiche ma anche ideali. Insomma, bisognerebbe tornare a prima, molto prima di tangentopoli. I primi passi del nuovo governo ci dicono che sul tema, al contrario, è vincente da un lato l’eterno riflesso securitario che prevale sulle ragioni della logica e del diritto, e dall’altro il timore che, come negli anni Novanta, un provvedimento di clemenza possa essere interpretato dagli elettori come un fatto interno della Casta. Eppure sarebbe più facile giustificare un indulto oggi di quanto non sia mai stato negli ultimi quaranta anni. Che ci sia bisogno di un provvedimento generalizzato di clemenza lo dicono i fatti che stanno dietro le parole "riattamento disumano", che la Corte Europea dei diritti ha addebitato all’Italia con la ormai straripata sentenza Torreggiani emessa oltre un anno fa. Trattare in maniera "disumana" i detenuti significa costringerli a vivere in una situazione che lede i loro "diritti fondamentali", secondo il linguaggio giuridico. Il problema è che, come tutte lingue degli specialisti, la cripticità intrinseca di queste espressioni non riesce a restituire ai non addetti ai lavori il vero significato delle parole. Al lessico esoterico dei chierici conviene allora sostituire la fotografia cruda della realtà. Ebbene, per averlo direttamente constatato attraverso le visite all’interno di molti carceri, ciò vuol dire tenere le persone per 22 ore al giorno come i polli in batteria, costrette in spazi talmente angusti da impedire loro di stare in piedi e di muoversi all’interno delle celle. Vuol dire che per stare in piedi in tre all’interno di una cella progettata per una sola persona ci si deve mettere d’accordo sui turni, come accade alla Dozza, carcere della civilissima Bologna, tanto per fare un esempio fra tanti. Vuol dire impianti vetusti, che versano in condizioni igieniche precarie, dove capita di vedere il cibo conservato vicino al cesso alla turca ed il medesimo cesso tappato con i colli di bottiglia al fine di evitare le incursioni dei ratti. Vuol dire osservare uomini anziani accuditi da compagni di cella che si improvvisano badanti, o infermieri. Vuol dire vedere persone muoversi come automi dentro giardini di pietra ideati duecento e più anni fa, nel corso di quelle ore di "aria" che paiono un ossimoro burocratico per quanto sono asfittiche. Vuol dire infine, alla faccia della retorica antimafia, che di notte, nel carcere di Palermo, in diversi padiglioni c’è un solo agente che veglia sulle condizioni, dunque anche sulla salute, di duecento e passa detenuti, sicché se qualcuno sta male e ben difficile che si riesca ad intervenire in maniera adeguata. Tutto questo, meglio della lingua dei giuristi lo rende quella dei burocrati. Quando si va in visita innumerevoli carcere, infatti, la burocrazia cita da un lato ì posti "disponibili", cioè quelli previsti dalle norme, e dall’altro quelli "tollerabili", cioè comunque ricavabili secondo 1’italica arte di arrangiarsi. Insomma, nell’armadio della vergogna del sistema carcerario italiano non solo stipiamo gli uomini come le cose ma anche l’articolo 27 della Costituzione, perché è del tutto evidente che in queste condizioni la funzione di rieducazione della pena è un mito e dal carcere si esce incattiviti, non certo rieducati, e sarebbe strano il contrario. Che ci sia bisogno di un indulto lo hanno detto il presidente della Repubblica, il primo presidente della Corte di cassazione, gli ultimi due ministri di Giustizia che hanno preceduto l’attuale. Una situazione davvero singolare questa, sicuramente inedita. Tutti hanno però rimandato la decisione al Parlamento. Il Parlamento, da parte sua, ha impiegato diversi mesi solo per mettere all’ordine del giorno la discussione sulla lettera che Napolitano aveva inviato lo scorso anno. Il dibattito si è svolto in una aula semi deserta e distratta ma ha comunque dimostrato che una maggioranza, da FI a Sei, passando per il Nuovo centro destra di Alfano, ci sarebbe pure se non fosse per il Pd, che anche su questo tema è spaccato. Diversi esponenti del partito, infatti, si sono dichiarati favorevoli ai provvedimenti di clemenza, e tra questi anche coloro che, fino all’avvento di Renzi, si erano occupati della giustizia in posti di responsabilità, come l’ex responsabile del settore, Danilo Leva. Ecco allora che la maggioranza dei due terzi che la Costituzione richiede per un provvedimento del genere si potrebbe anche raggiungere se ci fosse una scelta politica in questo senso da parte del partito del presidente del Consiglio. La dirigenza del Pd però la esclude in nome di un populismo giudiziario che ha già utilizzato al momento della investitura di Renzi, laddove ha semplicemente rimosso il problema carcere dal programma di governo. Al di là delle proclamazioni di principio sul fatto che l’indulto non risolve i problemi che devono invece essere affrontanti con riforme di struttura - discorso condivisibile solo in parte perché rimuove la sostanza del problema attuale che è per l’appunto il trattamento disumano attuale dei detenuti - ciò che teme la dirigenza del partito è che una decisione di questo tipo avvantaggerebbe il partito di Beppe Grillo, che sulle carceri, ed in generale sui temi giudiziari, è schiettamente e dichiaratamente forcaiolo. Il che, in tempi di elezioni è risolutivo. Passata la tornata elettorale, però, sulla questione si potrà ritornare, sia perché dall’Europa potrà arrivare, al massimo, la concessione di una proroga alla scadenza posta dalla sentenza Torreggiani, sia perché, all’interno del Pd, si sta formando un circuito di idee che vuole tornare a discutere di giustizia senza il ricatto dei forcaioli, delle Procure e del marketing politico. Un circuito che non ha nulla a che vedere con le lotte intestine del partito, ma che in queste potrebbe trovare una sponda. Insomma, alla fine, potrebbe essere l’indulto dei franchi tiratori, ma come diceva quello "Non importa di che colore è il gatto, basta che acchiappi i topi", e forse la cattiva politica farà la cosa giusta. Giustizia: le carceri e l’immagine dell’Italia di Giovanni Palombarini Il Mattino di Padova, 29 marzo 2014 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è recato a Strasburgo per un incontro con il Consiglio d’Europa. L’intenzione del ministro è quella di convincere gli interlocutori, fra i quali la Corte dei diritti dell’uomo (innanzi alla quale pendono circa 3 mila ricorsi di detenuti nella carceri italiane), della bontà di una politica che dovrebbe al più presto sanare l’indecorosa situazione del sovraffollamento carcerario. Entro il prossimo 27 maggio devono essere adottati provvedimenti significativi, atti a scongiurare l’applicazione della "sentenza Torreggiani", che ha condannato l’Italia a pagare un risarcimento per ciascuno dei detenuti costretti a vivere in uno spazio ristretto, equiparato alla tortura. Alla luce di tale colloquio verranno al più presto approvati risarcimenti e sconti di pena, che dovrebbero fare fronte al rischio di dover versare somme molto rilevanti per effetto delle innumerevoli violazioni dei diritti umani dei detenuti. Come è noto, vi è stato un periodo di alleggerimento della situazione dovuto all’indulto del 2006, per effetto del quale sono usciti dal carcere circa 26 mila detenuti dei 61.400 presenti a quel tempo. Da allora la situazione si è per qualche tempo progressivamente aggravata. All’inizio della primavera del 2009, quando il numero dei detenuti era ancora al di sotto di quota 60 mila, lo stesso ministro della Giustizia, Angelo Alfano, aveva dichiarato in occasione di un convegno che le carceri italiane sono fuori dalla Costituzione. Alla fine di quell’anno i detenuti erano saliti a 65.087, a fine aprile 2010 a 67.542, il numero più alto nella storia della Repubblica. A fronte di una capienza, allora, di 44.500 persone, il dato costituiva già di per sé il segnale di una situazione del tutto inaccettabile, come del resto le condanne dell’Italia in sede europea provvedevano a confermare. Dopo la caduta del governo Berlusconi, prima il ministro Severino, poi il ministro Cancellieri hanno adottato una serie di misure che intanto sono servite a fermare una crescita del numero delle persone in carcere che sembrava inarrestabile, e poi a ridurre tale numero. A fronte degli attuali 47 mila posti, che dovrebbero ulteriormente crescere in breve tempo a 48.500, vi sarebbero oggi 65.726 detenuti, 23.496 dei quali stranieri (e 5.708 sarebbero gli imputati ristretti, ancora in attesa di una sentenza definitiva). Intanto - piove sul bagnato, verrebbe da dire! - i media informano che pochi giorni fa la Royal Court of London ha rifiutato l’estradizione di un cittadino somalo verso l’Italia perché considerata paese a rischio tortura. Peraltro, se le cronache corrispondono alla realtà, le iniziative che si vogliono adottare con un apposito decreto legge non sono entusiasmanti. Riguarderebbero infatti la compensazione, attraverso risarcimenti o sconti di pena, per coloro che hanno dovuto subire o stanno subendo una carcerazione disumana. Si parla di una compensazione pari a una somma fra i 10 e i 20 euro al giorno per coloro che sono già usciti dal carcere, e uno sconto del 20% della pena residua per coloro che stanno ancora scontando la pena, eccezion fatta per i detenuti mafiosi sottoposti al regime dell’articolo 41-bis; il tutto accompagnato dalla richiesta a Strasburgo di trasferire ai tribunali italiani i 3 mila ricorsi presentati in quella sede. A parte il fatto che non si vede come questa richiesta possa essere accettata, si tratta evidentemente di provvedimenti tampone, finalizzati a evitare al nostro paese un grave danno economico e di immagine alla vigilia del semestre di presidenza italiana della Ue. Una politica di riforma del sistema penale rimane però lontana. Nessuno, nella maggioranza o fra le opposizioni, si pone il tema del diritto penale minimo, cioè la questione del come ridurre il numero delle persone che oggi sono destinate al carcere, in primo luogo attraverso coraggiose riduzioni dei comportamenti sanzionati come reati, e poi con la limitazione dei casi nei quali la sanzione è costituita necessariamente dalla reclusione. Il carcere sembra andare bene a tutti, il problema sembra essere solo quello di non farsi tirare le orecchie in Europa. Giustizia: Commissione Ue, su situazione carceri italiane sembra non esserci alcun cambiamento Ansa, 29 marzo 2014 "La situazione penitenziaria in Italia è un problema che non è mai stato considerato come priorità politica e finanziaria e sembra non esserci alcun cambiamento". Lo ha detto l’europarlamentare Juan Fernando Lopez Aguilar, capo delegazione della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari istituzionali del Parlamento Europeo al termine dell’incontro con il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. La Commissione è stata ieri a Napoli per visitare il carcere di Poggioreale, ma prima della visita al penitenziario si è svolto un incontro con il primo cittadino nella sede del Comune. La delegazione, al termine della visita in Italia cominciata l’altro ieri a Roma, realizzerà un report per rappresentare all’Europa le condizioni delle carceri visitate. Secondo Aguilar sarebbe necessario "che il nuovo Governo faccia un passo in avanti per mettere la situazione penitenziaria dell’Italia all’altezza della civiltà giuridica e del prestigio del Paese che è tra i fondatori dell’Europa". Un cambio di passo quello che chiede l’Europa all’Italia "visti anche - ha sottolineato l’eurodeputato Aguilar - i programmi ambiziosi che questo Governo si è posto. E necessario che il Governo italiano incorpori anche la priorità politico-legislativa che fino ad oggi non c’è stata per far fronte alla situazione drammatica dei penitenziari". Sull’Italia - come ricordato - pendono la condanna e la sanzione dell’Europa a cui "c’è ancora il tempo di reagire, ma - ha evidenziato - c’è bisogno di una strategia, di decisioni politiche". Italia esempio negativo sovraffollamento L’Italia è un "esempio negativo in Europa per il sovraffollamento delle carceri, la qualità delle condizioni igieniche e il mancato reinserimento sociale dei detenuti". è il quadro tracciato dal presidente della commissione europea per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni, Juan Fernando Lopez Aguilar, che con una delegazione di europarlamentari è in visita nel nostro Paese per valutare la situazione degli istituti penitenziari. Il capo delegazione, con alcuni colleghi tra cui Frank Engel e Kinga Goncz, ha già visitato il carcere di Rebibbia a Roma e oggi varcherà il portone di Poggioreale, dopo aver incontrato alcuni rappresentanti istituzionali come il sindaco di Napoli de Magistris, il Garante per i detenuti e alcune associazioni che operano nel settore. Date le diverse condanne arrivate dalla Corte europea dei diritti umani, Aguilar riconosce che quello delle carceri è "un problema che attiene a tutta l’Europa", ma sottolinea che la situazione italiana "è particolarmente drammatica. Da un’analisi comparativa - spiega - il sovraffollamento italiano è il peggiore tra gli stati dell’Ue e il Paese concorre con Serbia e Grecia per l’ultimo posto anche per la mancata attenzione ai diritti dei detenuti". Per il capo delegazione "non è un problema di mancanza di leggi sulla tutela, ma di mancato adempimento degli obblighi legislativi". A tal proposito precisa che "una vera riforma in questo ambito non è mai stata una priorità politica e finanziaria dei governi che si sono succeduti" e non risparmia neanche l’Esecutivo in carica, che "si è imposto impegni tanto ambiziosi, ma finora non ha inserito questa tra le priorità". La commissione non riscontra dunque alcun cambiamento di rotta, "molti degli istituti italiani sono vecchi di decenni o di secoli" ed è "stupefacente che almeno il 40% dei detenuti siano in attesa di giudizio". Fermo restando che la competenza è nazionale, Aguilar fa notare che "gli enti locali possono contribuire a un miglioramento della situazione prevedendo iniziative che favoriscano il reinserimento dei detenuti". Giustizia: Censis; aumentano detenuti "giovani adulti", sono oltre 8.000, il 61% maschi italiani Il Velino, 29 marzo 2014 Le persone sotto i 21 anni in carico ai servizi della giustizia minorile al primo gennaio 2012 sono 13.500. Di questi, i giovani adulti (18-21 anni) rappresentano il 61% (più di 8.000), per oltre il 50% presi in carico prima del compimento dei 18 anni. Tra quelli presenti negli istituti penali per minorenni (1.252), i giovani adulti rappresentano il 26%, mentre erano il 23% nel 2009 e il 16% nel 2008. Dal punto di vista anagrafico, si tratta per il 61% di maschi italiani, per il 30% di maschi stranieri, per l’1% di femmine italiane e per il 7% di femmine straniere. La presenza media giornaliera nel 2012 è stata di 241 minorenni e 2.267 giovani adulti. Il 67% dei giovani adulti è in custodia cautelare, a fronte del 18% dei minorenni. I reati più frequenti sono i furti (26%), le lesioni volontarie (14%), le rapine (11%) e gli stupefacenti (8%). Sono alcuni dei dati della ricerca "Giustizia e giovani adulti", condotta dal Censis, con la collaborazione della Fondazione Don Luigi Di Liegro, per conto del Dipartimento per la Giustizia minorile-Ufficio Studi, ricerche e attività internazionali. Tra coloro che sono stati presi in carico dagli Uffici di servizio sociale per minorenni (5.262 all’1 gennaio 2012), i giovani adulti costituiscono il 26% del totale, e sono per il 74% maschi italiani, per il 16% maschi stranieri, per il 9% femmine italiane e per il 2% femmine straniere. Gli esiti dei provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova emessi tra il 2008 e il 2011 sono risultati positivi per il 79% dei minorenni e per l’83% dei giovani adulti. Tra i collocati in comunità (in totale 2.038 al 1° gennaio 2012), i giovani adulti costituiscono il 15%, e sono per il 64% maschi italiani, per il 31% maschi stranieri, per il 2% femmine italiane e per il 3% femmine straniere. La presenza di giovani adulti nelle strutture minorili sta diventando un fenomeno strutturale, che richiede un impegno maggiore e una formazione ad hoc per gli operatori. Si conferma la validità della permanenza dei giovani adulti nelle strutture per minorenni fino alla fine della pena: questo permette di non tradire il principio della devianza come fenomeno reversibile e affrontabile nella misura in cui il lavoro sulla personalità e sulle esigenze educative del ragazzo prevalga sulla funzione meramente restrittiva della sanzione, anche a fronte del fenomeno dell’adolescenza protratta e dell’acutizzarsi delle difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e di acquisizione di una reale autonomia. In tale scenario, il diciottesimo anno di età non costituisce un limite reale per il passaggio allo stato adulto, per il quale occorre più tempo e più formazione. Giustizia: sentenza Corte Appello di Roma; ai detenuti lavoranti deve essere applicato il CCNL Agenparl, 29 marzo 2014 Ai detenuti lavoranti deve essere applicato il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro della categoria di appartenenza. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Roma - sezione controversie di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatoria - lo scorso 25 marzo accogliendo il ricorso presentato da due detenuti lavoranti delle carceri di Rebibbia Nuovo Complesso e Civitavecchia. La notizia è stata resa nota dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo cui, "quella della Corte d’Appello di Roma è una sentenza importante ancorché non definitiva, visto che manca ancora un grado di giudizio. I giudici hanno riconosciuto fondate le legittime istanze di due lavoratori ed hanno stabilito che i detenuti sono lavoratori come tutti gli altri avendo diritto alle stesse garanzie ed alla stessa retribuzione, sanando così una disparità di trattamento insopportabile data, a parità di lavoro prestato, solo dalla limitazione della libertà personale". Il ricorso era stato presentato alla Corte d’Appello da due detenuti lavoranti. Il primo era stato impiegato come giardiniere dal 2002 al 2006 a Rebibbia Nuovo Complesso, l’altro aveva lavorato come spesino e addetto alla lavanderia nel carcere di Civitavecchia dal 2007 al 2010. Entrambi lamentavano di aver percepito compensi (la cosiddetta "mercede") inferiori a quelli previsti dal Ccnl, di non aver fruito delle ferie e di non aver percepito l’indennità sostitutiva e, infine, di non aver avuto il Trattamento di fine rapporto. In primo grado, entrambi i ricorsi erano stati respinti dal Giudice del Lavoro di Roma. Nel giudizio d’Appello la Corte - dopo aver riunito i due ricorsi in un unico procedimento - ha riconoscendo accogliibili le censure alle sentenze di primo grado, ha stabilito che sono pienamente fondati i diritti dei due detenuti lavoranti, riconoscendo loro le differenze retributive fra quanto percepito come mercede e quanto, invece, previsto dal Ccnl di categoria, l’indennità sostitutiva per le ferie non godute ed il trattamento di fine rapporto. Il Ministero della Giustizia è stato, altresì, condannato a pagare le spese di giudizio. "La Corte d’Appello di Roma - ha concluso Marroni - ha stabilito che il diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione, ha lo stesso valore sia per i liberi cittadini che per i detenuti. È una sentenza importante che avrà riflessi in tutta Italia visto che, di fatto, la manutenzione ordinaria delle carceri del nostro Paese è affidata ai detenuti lavoranti. Ora vigileremo attentamente affinché l’inevitabile aggravio di costi per le casse del Ministero della Giustizia, legato a tale sentenza, non si traduca in una diminuzione delle opportunità lavorative all’interno delle carceri". Giustizia: storia di Gaddo, giardiniere di Rebibbia nel 2010 con lo stipendio "aggiornato" al 1993 di Valeria Di Corrado Il Tempo, 29 marzo 2014 Un giardiniere di Rebibbia è stato pagato fino a oggi con lo stipendio di 21 anni fa. "È stata una gravidanza da elefante, ma finalmente, dopo otto anni di attesa, ho ottenuto giustizia". Gaddo Ferrari, 74 anni, ex detenuto nel carcere romano di Rebibbia, ha vinto in appello una causa civile contro il ministero della Giustizia. Il dicastero è stato condannato a pagargli circa 10 mila euro di arretrati per l’attività di giardiniere svolta all’interno del penitenziario durante il periodo in cui vi era recluso per scontare la sua pena. La sezione lavoro della Corte d’appello di Roma ha riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo che i compensi con cui era stata remunerata la sua prestazione lavorativa erano fermi ai minimi sindacali in vigore nel lontano 1993. "Non ci speravo - confessa Ferrari - perché in Italia le cose vanno bene solo per chi non ne ha bisogno. La giustizia non sempre è giusta. Per giunta, in questo caso, la materia era delicata: è stato svelato che il ministero della Giustizia non tutelava i diritti dei detenuti". Originario del modenese, da quando è stato ristretto nella casa circondariale di Rebibbia, non ha più lasciato Roma. Ora l’ex detenuto vive con la pensione minima e i 9.633 euro che gli dovrà pagare l’amministrazione, se deciderà di non ricorrere a una pronuncia della Corte di Cassazione, rappresentano un "bel regalo di Natale e una grandissima soddisfazione". "Dal primo novembre 2002 al 31 luglio 2006 mi sono preso cura degli spazi verdi all’interno del carcere - racconta Ferrari - facevo giardinaggio e mi occupavo dell’orto, in cui coltivavo pomodori e peperoni. Ho ereditato il pollice verde: mio padre e mio nonno erano agronomi". Nella stessa sentenza, i giudici hanno accolto anche l’appello di un altro ex detenuto addetto alla lavanderia della Casa di reclusione di Civitavecchia da gennaio 2007 a maggio 2010. Nel suo caso il ministero della Giustizia è stato condannato a pagargli 5.713 euro, "come differenza di retribuzione, mensilità aggiuntive, ferie, rol e indennità di fine rapporto". "Tutte le circostanze esposte da ciascuno dei ricorrenti - si legge nella sentenza - trovano riscontro nelle copie dei cosiddetti estratti mercede e nei cedolini paga", dal dicastero mai "contestati in ordine alla loro correttezza". "Si tratta di un riconoscimento che fa ben sperare - spiega Marco Tavernese, legale dei due ex detenuti - soprattutto perché in altre 40 cause simili, il giudice di primo grado (sempre lo stesso) si è pronunciato a favore del Ministero, che da circa 20 anni omette di aggiornare l’importo delle mercedi corrisposte ai detenuti-lavoratori. In alcuni casi li ha persino condannati a pagare le spese legali. Speriamo costituisca un precedente per le altre sentenze impugnate, le cui udienze sono fissate nei prossimi mesi". L’articolo 22 della legge sull’ordinamento penitenziario (la n. 354 del 1975) stabilisce che la remunerazione del lavoro carcerario non sia inferiore ai due terzi dei contratti collettivi dei lavoratori esterni. Le tabelle andrebbero aggiornate ogni due anni da un’apposita commissione ministeriale, ma dal 1993 la commissione non si è più riunita. "I detenuti hanno diritto alle stesse garanzie di tutti gli altri lavoratori - ha commentato il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - È stata finalmente sanata una disparità di trattamento insopportabile data, a parità di lavoro prestato, solo dalla limitazione della libertà personale". Giustizia: gruppo Associazioni; nelle Elezioni Europee i diritti umani non siano secondo piano Ansa, 29 marzo 2014 Un "vademecum" perché i diritti umani di migranti, detenuti, rom e sinti in Ue "non passino in secondo piano": è quanto intendono consegnare Associazione 21 luglio, Antigone e Lunaria ai candidati italiani alle elezioni europee, perché si assumano "un impegno diretto" contro "il rigurgito razzista e xenofobo". L’Agenda è stata presentata oggi a Roma dalle tre associazioni, in collaborazione con l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ed è la prima tappa della "Campagna per i diritti, contro la xenofobia", che sarà avviata durante il periodo pre elettorale con un osservatorio sui discorsi di odio ("veicolati attraverso il discorso pubblico-politico e la condotta dei candidati"), una campagna di informazione sul diritto di voto dei detenuti e video interviste a un gruppo di candidati. "In campagna elettorale il tema economico prevale - ha osservato il presidente di 21 luglio, Carlo Stasolla - la recessione rischia di alimentare atteggiamenti xenofobi. Vogliamo fare pressione perché si lavori sui diritti umani". In Europa, si legge nell’Agenda, sono 32,9 milioni i migranti e rappresentando il 7% della popolazione; 331.975 i richiedenti asilo. "Le politiche migratorie europee e italiane hanno un approccio proibizionistico, con conseguente ricorrenza a molte violazioni", ha sottolineato Grazia Naletto, presidente di Lunaria. Occorre quindi chiudere i centri di detenzione per i migranti, facilitare l’ingresso "legale" in Ue per chi cerca lavoro, favorire il diritto di asilo e "armonizzare, con un’iniziativa dell’Ue, le legislazioni nazionali per garantire il diritto di voto amministrativo ed europeo". Per quanto riguarda i rom ("12 milioni stimati in Europa") serve, tra le altre cose, definire il loro status giuridico, abbandonare la politica amministrativa dei campi nomadi e sospendere definitivamente gli sgomberi forzati. Infine, a tutela dei detenuti, l’Agenda chiede di introdurre il reato di tortura nel codice penale italiano, riformare il processo penale perché la custodia cautelare diventi extrema ratio, garantire il diritto alla salute, alla formazione professionale al lavoro e al voto. "A fronte di uno stock di persone detenute aventi diritto di voto - ha osservato Alessio Scandurra di Antigone - c’è un tasso di esercizio basso, perché votare è complicato". Nel 2011 i detenuti nei Paesi appartenenti al Consiglio d’Europa, ricordano le associazioni, erano 1.828.101 e il tasso di sovraffollamento in Italia era pari al 147%. Giustizia: l’Eni Corporate University ha organizzato incontro su reinserimento sociale detenuti Italpress, 29 marzo 2014 Si è tenuto ieri a Milano un incontro sul tema "La formazione e il lavoro: due valori indispensabili per il reinserimento sociale dei detenuti", organizzato da Eni Corporate University in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia. Al dibattito, moderato dal giornalista Flavio Haver, sono intervenuti fra gli altri Salvatore Sardo, chief corporate operations officer di Eni, Marco Coccagna, amministratore delegato di Eni Corporate University, Raffaele Bonanni, segretario generale Cisl e, in conclusione, Cosimo Ferri, magistrato e sottosegretario al ministero della Giustizia. Durante l’incontro si è discusso del valore della formazione e del lavoro a supporto del processo di crescita del detenuto, di maturazione di una corretta relazionalità, del recupero della credibilità personale e di come si sia evoluto nel tempo l’approccio delle istituzioni nei confronti di questo tema. L’iniziativa va a inserirsi all’interno dei cicli di seminari che Eni Corporate University realizza per gli studenti della scuola Mattei, ai quali si cerca di proporre una formazione finalizzata allo sviluppo delle competenze tecniche e, assieme, maggiore consapevolezza sociale. "Parliamo di una energia un po’ particolare: non fisica ma psichica" perché "serve a riaccendere la motivazione, quindi la speranza e l’autostima nelle persone. La consapevolezza che anche la fiducia genera energia ci ha spinto ad avviare questo progetto a supportare giovani meritevoli in situazione di difficoltà, tra cui anche giovani detenuti. Il progetto prende il nome di Trust is energy", ha detto Salvatore Sardo, Chief Corporate Operations Officer di Eni in apertura dell’incontro. Sardo ha spiegato come "il reinserimento nella società di chi in passato ha commesso degli errori può essere agevolato dalla conquista di una solida dimensione professionale che consenta il recupero della fiducia in se stessi e della credibilità agli occhi degli altri". L’ad di Eni Corporate University, Marco Coccagna, ha ricordato che attraverso il progetto di "Trust is Energy" "abbiamo cercato di trasformare l’azienda in un ponte fra il carcere e la società, attraverso l’impiego degli strumenti della formazione e del lavoro" per "persone che, nonostante gli errori commessi, si fossero dimostrate pronte e motivate a impegnarsi lungo un percorso impegnativo di reinserimento" e ha citato l’esperienza di Giuseppe, "ex detenuto oggi" reinserito nello stabilimento petrolchimico di Mantova di Versalis, una delle società di Eni attraverso "un percorso formativo avviato 4 anni prima di terminare di scontare la pena". Commentando il progetto di Eni rivolto al reinserimento dei detenuti, il segretario di Cisl Raffaele Bonanni ha detto: "Dobbiamo ammetterlo, è un momento di difficoltà per l’occupazione in generale. Siccome serpeggia nel Paese un sentimento giustizialista non c’è molta apertura per fatti del genere. Credo che sia molto importante dare speranza non solo a costoro" cioè agli ex detenuti ma "a noi. Se la comunità non crede più nei propri simili si distrugge. Condivo che recuperarne un detenuto è un grande successo perché alimenta la speranza" Il sottosegretario al ministero della Giustizia, Cosimo Ferri, ha spiegato che "dobbiamo cambiare la cultura e spiegare, anche all’esterno, che credere nella rieducazione è una necessità per garantire la sicurezza". Infatti, dice Ferri, "il tasso di recidiva si abbassa e lo dicono i numeri. Spieghiamolo a chi ritiene e crede solo nella pena con carcere. Non è così". Poi ricorda gli interventi del suo ministero: "Nel precedente provvedimento che è già legge sono aumentare le ipotesi di lavori di pubblica utilità per i tossicodipendenti" e poi "sono state ampliate le possibilità di lavoro volontario e gratuito a favore degli enti locali da parte dei detenuti" e, ancora, "abbiamo rimosso i limiti per ricorrere a misure alternative - l’affidamento in prova - per i recidivi". E quindi ha snocciolato dei dati: "Si è passati dai 644 detenuti assunti nel 2003 ai 1.128 nel 2012. Nel 2013 abbiamo 14.546 detenuti lavoranti di cui 12.268 circa alle dipendenze dell’amministrazione mentre 2.278 alle dipendenze di un altro datore di lavoro". "Il ministero per cambiare la cultura con l’ultimo provvedimento in terza lettura alla Camera" consente "al giudice di erogare una pena diversa dal carcere: l’arresto e la reclusione presso il domicilio". In conclusione, secondo il sottosegretario al ministero della Giustizia, "forme diverse di pena potranno portare il nostro Paese ad essere un modello per l’Europa". Giustizia: con Eni "riaccendere" il futuro dopo il carcere; le storie di Giuseppe, Amran e gli altri di Giuseppe Vespo L’Unità, 29 marzo 2014 "Il lavoro mi ha portato a un primo passo verso la libertà". Giuseppe è un ex detenuto, ha scontato undici anni per spaccio internazionale e usura. Oggi è un dipendente dell’Eni. La sua storia è stata presentata in un video proiettato ieri al palazzo delle Stelline di Milano, e racconta l’impegno del colosso energetico verso i giovani meno fortunati: detenuti, ma non solo. Giuseppe è uno dei tre ragazzi reinseriti nella società dopo la detenzione nel carcere di Cremona. Sono stati formati da Eni nel centro di formazione tecnico professionale di Cortemaggiore, Piacenza. Anche Amran è stato detenuto, ma quando aveva 15 anni, nelle carceri greche. Tre dei sette mesi che ha impiegato per arrivare in Italia dal Bangladesh li ha passati rinchiuso. Anche lui oggi è un giovane dipendente dell’Eni. Parid e Sofyan, invece, stanno ancora studiando, come altri cinque ragazzi dell’istituto milanese Martinitt. Di loro, delle loro storie e di queste iniziative, si è parlato nel corso dell’incontro su "La formazione e il lavoro: due valori indispensabili per il reinserimento sociale dei detenuti", organizzato da Eni Corporate University - la società del Cane a sei zampe che gestisce formazione, selezione del personale e contatti con le Università - in collaborazione con il Provveditorato regionale della Amministrazione penitenziaria per la Lombardia. Giuseppe è stato il primo degli otto ragazzi che Eni ha assunto, adesso lavora nel petrolchimico Versalis di Mantova. "Ci ha convinti perché era una persona che aveva un gran desiderio di riscatto, la consapevolezza di aver commesso un errore e la voglia di recuperare", racconta Marco Coccagna, ad di Eni Corporate University. Così nell’ottobre 2009, dopo sei anni di carcere, inizia la formazione a Cortemaggiore, un anno dopo viene assunto e nell’ottobre del 2013 termina di scontare la sua pena: è un uomo libero. "Il giorno della scarcerazione - racconta - pensavo di andare in giro, a ballare, a spaccare il mondo. Invece sono uscito, ho preso l’autobus e sono andato da lei (Jessica, la ragazza, ndr) e mi sono ritrovato in giro io, lei e il cane. Quell’attimo lì non ha paragoni nella mia vita. È particolare, perché ti senti libero di poter esprimere l’emozione, ed è una cosa che ti viene tolta all’interno... (del carcere, ndr)". Quindi il riscatto, attraverso il lavoro: "Per tre anni mi sono buttato sul lavoro, e da lì la casa, la macchina, le amicizie. Il lavoro mi ha portato a un primo passo verso la libertà". Storie vere che sono servite ad alimentare un dibattito e una tavola rotonda con diversi esperti, tra i quali la presidente del Tribunale di Milano, Livia Pomodoro, don Gino Rigoldi di Comunità Nuova, Raffaele Bonanni della Cisl, il criminologo Massimo Picozzi, Aldo Fabozzi, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria lombarda e Cosimo Ferri, sottosegretario al ministero della Giustizia, il cui intervento ha chiuso la giornata. "Trustis Energy", "anche la fiducia genera energia", ha detto nel suo saluto di apertura Salvatore Sardo, Chief Corporate Operations Officer di Eni. Giuseppe e gli altri ne sono un esempio. Giustizia: l’isola di Gorgona e il sogno ritrovato dei detenuti di Cristina Giudici Pagina 99, 29 marzo 2014 Reportage dall’isola di Gorgona. Che diventa un centro modello di sperimentazione. Reclusi liberi di autogestirsi fino al 2003. Poi due delitti misero fine all’utopia. Negli anni Novanta fu un modello di detenzione alternativa. Poi ha rischiato di chiudere. Ora il vecchio direttore è tornato. Per farne di nuovo un luogo di riscatto sociale. I sogni impossibili non muoiono all’alba. Almeno non sull’isola della Gorgona, che sta cercando di riemergere, dopo essere andata alla deriva per anni, quasi dieci ad essere precisi, come una nave finita dentro una tempesta, con troppe falle per riuscire ad evitare di naufragare. Per tutti quelli che hanno conosciuto questa colonia penale negli anni 90, quando centinaia di detenuti si mettevano in lista di attesa, nella speranza di venire qui, dove si trovava il carcere più aperto d’Italia - per sottrarsi al limbo del tempo punitivo della segregazione in celle fatiscenti e socialmente inutili - la sensazione, una volta sbarcati dalla motovedetta della polizia penitenziaria, però è quella di avere di fronte un residuo di sogno svanito all’orizzonte. Adagiata a 17 miglia da Livorno, sempre in balia di venti tempestosi, che ciclicamente la obbligano a un isolamento dalla terra ferma, l’isola più piccola dell’Arcipelago Toscano, sembra il corpo della Bella Addormentata, vittima di un maligno incantesimo, che le ha socchiuso gli occhi. Una volta messi i piedi a terra, sul molo, non si sentono più tutti quei rumori assordanti dei tanti cantieri aperti, che una volta scandivano l’attività quotidiana di agenti e detenuti. Intenti a costruire un ulteriore progetto, un’ennesima bizzarra visione di ciò che si poteva fare con un po’ di lucida foiba per dimostrare che le regole della cattività possono essere sovvertite. Sulla piccola spiaggia accanto a Cala dello Scalo, non ci sono più i gorgonesi, un piccolo nucleo di 12 residenti tutti tornati sulla terra ferma. Ad accezione della signora Lucia, oramai anziana, che quando va allo spaccio degli agenti - dove si comprano viveri, formaggi, e olio d’oliva biologico prodotto dai detenuti - indossa ancora un cappello rosa, e un vestito elegante, come a sfidare la sua orgogliosa solitudine. E non ci sono più neanche le jeep ad attendere forestieri, volontari di associazioni, ecologisti, scolaresche, turisti, operatori del mondo penitenziario in cerca di spunti da emulare, che poi se ne andavano via con l’aria beata di chi ha visto un luogo di sofferenza, certo - qui dentro ci sono uomini che hanno costruito la loro esistenza sul dolore subito e inflitto - ma anche un’oasi, che si era guadagnata il soprannome dell’isola che non c’è. Ora le macchine dell’amministrazione penitenziaria si sono rotte e per mancanza di fondi si può solo vedere ogni tanto qualche vecchia Panda, usata dagli agenti per fare perlustrazioni, fra le sezioni detentive, la colonia agricola dove si allevano maiali, polli, galline, si curano l’orto e i cavalli. Tutti girano a piedi, per far fronte al declino economico che ha colpito anche il carcere, come fuori, nel paese reale. La scuola dove studiavano i carcerati e i loro figli, di fronte alla cappella, risistemata dalla mano operosa dei detenuti, è stata chiusa. E quando cala il sole, al tramonto, e ci si spinge sui promontori per avere visioni talmente suggestive da far venire voglia di dialogare con Dio, non si ode più la musica della banda "Dentro" di guardie e ladri, che suonavamo insieme, come dimostrazione di cosa possono fare gli uomini, quando hanno fede in un’idea. Anche la sala della musica è stata abbandonata, almeno per ora, perché presto riprenderà a vibrare, pare. Ecco perché Carlo Mazzerbo, che ha scritto una pagina importante di questo carcere aperto, a tratti visionario, dove si veniva sin da Cuba per proporre progetti sperimentali e far crescere il popolare laboratorio della Gorgona, ha deciso di tornare. E far rinascere la Gorgona, per trasformarla nell’isola dei diritti dei detenuti. Affiancato da due educatori e 30 agenti, che lui vorrebbe poter avere a rotazione, per mescolare la carte, - per evitare che si perpetuino le dinamiche gerarchiche e statiche che in carcere sono sempre più violente rispetto al mondo libero, Carlo Mazzerbo, che ha gestito e diretto la casa di reclusione della Gorgona dal 1989 al 2004, ha deciso di tornare. E nell’ottobre, scorso, ha accettato di riprendere in mano la sua sfida per dimostrare che nel 2014 - per le carceri italiane l’anno in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo condannerà definitivamente lo Stato italiano, responsabile del degrado e del sovraffollamento - gli istituti di pena possono ancora servire a un percorso di rieducazione e reinserimento. Dopo che nel 2003, qui dentro, anzi qui fuori, quassù, sulla vetta dell’isola, aggraziata dai terrazzamenti forgiati da una comunità di monaci benedettini, ci furono due delitti in due mesi, che spazzarono via di colpo anni di sforzi, fatiche, tentativi per costruire un carcere se non alternativo, almeno diverso. Una vicenda complessa e controversa, che avvolse l’isola nelle tenebre: i detenuti rinchiusi nelle celle, le attività rieducative sospese, le critiche più spietate verso chi aveva dato ai detenuti strumenti di lavoro che potevano servire a uccidere, dimenticandosi di tutto ciò che i detenuti armati di roncole e badili avevano costruito per se stessi e per gli altri. Nonostante questo e altro ancora - il prezzo pagato è stato salato, nel 2011 la Gorgona ha rischiato di chiudere - Carlo Mazzerbo ha deciso di riprovarci. E di tentare di far riemergere la Gorgona dal porto delle nebbie, proprio ora che l’emergenza carceri è diventata prioritaria, ma il lavoro e le attività tratta-mentali sono ancora per molti istituti di pena una chimera. Non è facile, certo, in carcere ogni cambiamento è considerato una trasgressione, e i detenuti sono sufficientemente smaliziati da approfittare della mancanza di una mano ferma per tornare a recitare il ruolo delle vittime. Senza assumersi responsabilità e lasciarsi vivere fino alla fine della condanna. Come se il reinserimento fosse un diritto e non un’opportunità. Ecco perché mentre si risale a piedi per l’isola, superando il piccolo nucleo residenziale, lo spaccio e il bar, affacciato su una terrazza sul mare, l’antica torre medicea, dove si trovano gli uffici della direzione e il presidio sanitario, si intuisce cos’è e cosa potrebbe essere ancora oggi la Gorgona. Una volta superato il limite invisibile che divide la parte libera da quella detentiva, che non è segnato da nessun cancello né da sbarre, si può vedere cosa è rimasto dei suoi anni felici, cosa bisogna fare per continuare a rappresentare l’eccezione che purtroppo non conferma la regola. Nella sezione di transito dove vivono i detenuti articolo 21, fuori tutto il giorno a lavorare fino alle 9 sera, custodia così attenuata che di agenti in circolazione per sorvegliare non se ne vedono fino al controllo notturno, arrivano tutti, o quasi, per parlare con l’educatore, Giuseppe Fedele. Una vita passata qua dentro a fare da filtro con l’amministrazione penitenziaria per dare buone e cattive novelle: i permessi premio concessi, quelli negati, le discussioni per i problemi inerenti alle mansioni nei vari lavori su alla sezione agricola, nel vigneto, nell’orto, o giù nel forno e così via. Da un trattore scende baldanzoso un detenuto piemontese, che si occupa della rete idrica, per far vedere quel permesso negato che non vuole accettare, mentre un altro, nigeriano, racconta di aver rifiutato di accedere ai benefici previsti dal decreto svuota carceri "perché qui ho un lavoro, e fuori no", dice. Claudicante per via degli anni che sono passati, l’educatore si inerpica verso la strada in salita che porta all’altra sezione, con un nome rassicurante, le Capanne, dove si trovano gli altri detenuti, oggi sono 70 complessivamente. Oltre un cancello, che divide l’isola da una palazzina di celle ampie e con la doccia, su due piani. "Venga a vedere, siamo addirittura in tre in cella", mi dice un detenuto maghrebino, barba islamista e pece negli occhi. Peccato che quei tre detenuti stiano in una stanza, una cella si può chiamare stanza in Gorgona, che è ampia, e con mura dipinte di azzurro, da chi c’era prima di lui. Giuseppe ha un sorriso stanco, ma mantiene fra le labbra una piega di dolcezza per chiunque, sia esso un trafficante di droga e un omicida non importa, perché qui dentro, anzi qui fuori, ciò che conta è quello che si riesce a fare con le mani e con la mente. Se si riesce a lavorare, dimostrando una capacità di assumersi le responsabilità, se si riesce a intraprendere un percorso di cambiamento, allora si rimane, al contrario si viene mandati via, ricacciati indietro nel ventre molle delle galere degradate e degradanti. Nel cortile dove si affacciano le celle, che nelle intenzioni del direttore presto diventeranno per tutti delle stanze di custodia attenuata, per carcerati lavoratori, in articolo 21, che si autogestiscono la propria giornata quotidiana, senza aver bisogno di controlli, gli ospiti della Gorgona, sono seduti sui muretti fuori, a chiacchierare. È quasi buio, mi offrono un caffè, e nei miei tre giorni di involontaria prigionia per via del libeccio che soffia for-te e interrompe ogni collegamento con la terra ferma, li vedrò andare e venire dalla sezione agricola, in coppia o da soli, a piedi, ma mai seguiti da un agente. "Io sono venuto qui perché volevo imparare un mestiere e quando esco non spaccio più", butta lì un altro maghrebino. E chissà se è vero, i detenuti sono bravi a recitare la parte che viene assegnata loro da chi crede nella rieducazione, ma la sfida che il direttore della Gorgona ha ripreso nelle sue mani è proprio questa: dimostrare che si può aiutare i carcerati a reinserirsi attraverso un mestiere. Del resto nel suo libro autobiografico, scritto con Gregorio Catalano, "Ne vale la pena" (edizione Nutrimenti), ha provato a spiegare la difficoltà di un progetto che mette sì i detenuti al centro della propria vita, ma senza falsa pietas e con il necessario rigore che ci vuole per governare un’isola aperta. Basata sulla fiducia umana, offre un privilegio in un sistema penitenziario che dà lavoro solo a 14.546 detenuti. Ecco perché mentre i carcerati mi raccontano che sono vittime di un ricatto "se non ci adeguiamo alle regole possiamo essere trasferiti", dicono in molti, capisco quanto sia difficile ricominciare da capo. E trasformare un’isola inabissata dopo due delitti e direttori che l’hanno lasciata andare alla deriva, nuovamente in un luogo di riscatto. E quindi, come mi spiega il direttore del carcere, se prima della crisi bastava fare richiesta, dimostrare di essere idonei a un percorso di reinserimento e mostrare il desiderio di imparare un mestiere, "ora il criterio del reclutamento è cambiato. Prima di accogliere qualcuno, facciamo un casting", ironizza Carlo Mazzerbo, "e incontriamo personalmente ognuno che chiede di venire qui, per capire se ha solo voglia di stare fuori da una cella o se sia possibile pensare per lui un reale percorso di reinserimento". Perché ora che i fondi per le attività trattamentali sono stati ridotti drasticamente, non ci si può permettere di sbagliare né di sprecare risorse preziose. Perché ora che lui è tornato, per riprendere nelle mani il destino dell’isola, ha deciso che si deve riaprirla all’esterno sì, ma facendo un ulteriore salto di qualità. Gettando il cuore oltre l’ostacolo. E aprire ulteriormente il carcere, che ha rischiato di chiudere perché costava troppo, sia in termini materiali che di politica penitenziaria (a chi interessa il reinserimento di 70 detenuti su 60 mila?) di nuovo alle associazioni, certo, ma anche alle cooperative che possano rendere le attività dei detenuti redditizie. Come quelle coinvolte, per ora due, Nesos e Melograno, che appartengono al Des, il distretto dell’economia solidale, costruito da Banca Etica, che gestiranno il forno, il vigneto, la vendita di prodotti biologici e vegani. E anche un rifugio per gli animali, che non verranno più macellati. "Deve diventare l’isola dei diritti dei detenuti e anche degli animali", dice il direttore, consapevole dell’immenso lavoro che lo aspetta, al punto che in tanti gli chiedono "ma chi te lo fa fare di nuovo?". Perché poi, nella mia involontaria prigionia, ho percorso molti tratti del periplo dei 5 chilometri dell’isola per vedere tutto ciò che è stato vanificato in dieci anni. Fra dissesto strutturale ed ecologico, ci sarebbe lavoro per due carceri sovraffollate della Lombardia, ma l’esperimento prevede una scelta molto selettiva degli ospiti e anche un ricambio generazionale di agenti, che non si oppongano al cambiamento. E non si sentano inutili se smettono di sorvegliare e punire. Ed ecco perché ogni tanto sull’isola accadono alcuni episodi anomali, per così dire, da parte di chi preferiva l’abbandono, l’isola alla deriva, per mantenere quel tasso fisiologico di illegalità che esiste nelle carceri, per far capire al direttore che il suo ritorno non è affatto gradito. Anche se lui, nella sua autobiografia, che coincide con gli anni migliori e infine peggiori della Gorgona, ricorda: "Quando sono tornato, l’isola mi sembrava uno scoglio, ma la sua grandezza è nel peso della sua sfida". Giustizia: per Bernardo Provenzano nessuna misericordia… in regime di 41bis fino alla morte www.guidasicilia.it, 29 marzo 2014 Venti ergastoli, 33 anni e 6 mesi di isolamento diurno, 49 anni e un mese di reclusione e 13 mila euro di multa: lo Stato ha presentato il conto al boss Bernardo Provenzano. Nei giorni scorsi la Procura di Palermo ha completato il cosiddetto "cumulo", il calcolo delle pene che il padrino di Corleone deve scontare. Negli stessi giorni le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta hanno espresso parere negativo alla proroga del carcere duro per Provenzano. Per i pm, infatti, il capomafia, gravemente malato e incapace di partecipare ai processi, non sarebbe in grado di comunicare con l’esterno. E siccome il carcere duro è finalizzato proprio ad evitare i contatti dei boss con l’esterno una proroga del 41 bis per il capomafia corleonese sarebbe inutile. Magistrati, forze di polizia e Viminale, ogni due anni devono pronunciarsi sui rinnovi dei 41 bis per i mafiosi. I pareri vengono poi vagliati dal Guardasigilli che decide se prorogare o meno il regime detentivo speciale. Nel caso di Provenzano, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha prorogato il carcere duro. "Risulta conclamata oggettivamente la pericolosità" di Provenzano quale "capo ancora indiscusso" di Cosa Nostra. È quanto si legge nella lettera che il ministro Orlando, ha inviato al capo del Dap Giovanni Tamburino in merito alla proroga del 41bis per il boss. "Ho firmato il decreto predisposto dal suo Dipartimento al fine della proroga del regime detentivo speciale relativo al detenuto sopra individuato", si spiega nella lettera. Nel documento il ministro sottolinea che "tale condizione, come sottolineato dalla Direzione nazionale antimafia, rende evidente la necessità di conservazione delle misure atte al contenimento della carica di pericolosità sociale del detenuto correlata al rischio di diramazione di direttive criminose all’esterno del circuito penitenziario". Permane quindi il rischio di un passaggio di informazioni e questo impedisce di alleggerire il regime carcerario. "Ciò anche in ragione - si spiega in un altro passaggio del documento - del motivato parere della Direzione nazionale antimafia circa la non evidenza di uno stato di totale scadimento delle attuali capacità di attenzione, comprensione ed orientamento spazio-temporale della persona". "Il detenuto per cui ho chiesto la revoca del 41 bis è quello per cui le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta hanno espresso il parere. Quello al quale hanno confermato il carcere duro, evidentemente, è un altro", ha commentato l’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale del capomafia. Per la Direzione Nazionale Antimafia che ha dato parere favorevole alla proroga del 41 bis per Bernardo Provenzano, le perizie sulle condizioni del boss, afflitto dal morbo di Parkinson e da diverse patologie neurologiche, non possono escludere che nel caso di un affievolimento del regime di carcere duro, il padrino sia ancora in grado di comunicare con altri soggetti e impartire ordini criminali. Dalla perizia su cui si basano le Dda di Caltanissetta, Firenze e Palermo che, al contrario della Dna hanno detto no alla proroga, "non emerge - per la Dna - il totale scadimento delle capacità di attenzione, comprensione e orientamento spazio-temporale del Provenzano, bensì solo un degrado di queste facoltà, peraltro non quantificato e comunque non in grado di escludere la possibilità che il capo riconosciuto di Cosa nostra possa comunque comunicare, anche ordini di rilevanza criminale, con soggetti a sé vicini, se posto in un regime detentivo ordinario". "In nessun modo - aggiunge la Procura Nazionale - il regime di carcere duro è ostativo a un corretto trattamento sanitario del detenuto, così come riferito dalla stessa amministrazione penitenziaria". "Peraltro - conclude - in due diverse recenti occasioni il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha dichiarato inammissibile l’istanza di differimento della esecuzione della pena che il Provenzano aveva avanzato; argomentando, in ultima analisi, anche sulla costante e minuziosa assistenza sanitaria che viene prestata al detenuto e evidenziando che non vi sono cure, accertamenti o assistenza di cui lo stesso potrebbe beneficiare all’esterno che già non gli vengano garantite in ambiente carcerario". Francesco Paolo e Angelo Provenzano, figli del capomafia di Corleone, dopo la decisione del ministro della Giustizia, hanno chiesto: "Su quali ragioni si fonda un trattamento differenziato solo per nostro padre? Anzi, in verità solo per noi che siamo gli unici a subire, incolpevoli, questo regime speciale. È come se dicessero che siamo noi sospettati di portare messaggi fuori o da fuori". "Perizie mediche e relazioni del reparto ospedaliero di Parma riconoscono l’incapacità di nostro padre - hanno spiegato - Alla luce di tali atti le Procure hanno espresso parere negativo alla proroga del 41 bis. Il ministro, invece l’ha prorogato. Ci chiediamo: esiste altra perizia medica che smentisce e dichiara false le precedenti? Pensiamo di no". "Chiediamo, a questo punto, - hanno infine aggiunto - che sia resa pubblica l’immagine attuale di questo detenuto speciale con gli occhi al soffitto, chiuso in una stanza blindata con tre guardie del Gom e un sondino al naso per nutrirsi. Esistono le registrazioni audio-video degli pseudo colloqui mensili con noi. Solo davanti a tale fotografia si può capire quale pericoloso soggetto si tiene al 41 bis". Lettere: carcere e università, una sfida ritenuta impossibile che porta speranza nelle celle di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 29 marzo 2014 Ci sono sfide quasi impossibili ed altre dove è difficile comprendere l’esito finale. Ma le sfide, proprio per la loro intrinseca natura, vanno vissute intensamente sino alla fine. Quando si cominciò, quasi timidamente, a far mettere "il naso" a professori dell’Università all’interno di un carcere sardo non si sapeva, davvero, quale sarebbe stato il percorso, quali i risultati e, soprattutto, chi avrebbe seguito questo cammino ritenuto da alcuni assolutamente "presuntuoso". E invece, quando nel 2008 il primo detenuto ha conseguito la laurea triennale in "biblioteconomia" con una tesi sulla lettura dei detenuti nel carcere di Alghero, il Preside della facoltà, Attilio Mastino (che poi sarebbe diventato magnifico Rettore), ha stretto la mano a quel detenuto nell’aula esterna del carcere dove abbiamo festeggiato tutti operatori e docenti insieme. E si è capito che la sfida era stata vinta. Con molte difficoltà ma era stata vinta. Aveva vinto la parola, la forza dell’impegno, lo studio, il dovere di applicarsi. Avevamo restituito, noi operatori da una parte e docenti universitari dall’altra, un uomo diverso alla società. Non era e non è falsa retorica. Quei gesti di quel giorno hanno permesso ad altri studenti di iscriversi all’Università e oggi, il carcere di Alghero, completamente aperto, senza sbarre intermedie, con una biblioteca di circa 13.000 libri è una piccola comunità dove è possibile studiare prima alle scuole superiori e, dopo il diploma, si può continuare con gli studi universitari. Ma non basta. Le sfide vanno ripetute e rimodellate. Ed ecco che dovremmo, ancora insieme, poter costruire un cammino diverso, tortuoso e sicuramente più complicato, ma che potrà dare comunque ottimi risultati. I detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza sono presenti negli istituti penitenziari di Tempio e di Nuoro e molti di essi sono iscritti all’Università. Sono ergastolani, hanno un orizzonte con troppi ostacoli, la loro possibilità è provare a essere curiosi. Riprendersi quella dignità che si sono giocati commettendo reati atroci. L’università può essere un buon antidoto e può esserlo anche con le nuove tecniche. Se, infatti, i detenuti algheresi potranno recarsi in ateneo per sostenere gli esami, i detenuti sottoposti ad alta sicurezza non possono farlo. Ma potremmo (e sono già state allestite delle telecamere in prova) far assistere a delle lezioni universitarie o, addirittura, si potranno sostenere gli esami in videoconferenza. È una sfida importante, difficile, una di quelle sfide che la cultura deve effettuare per avvicinarsi agli altri. È una sfida unica, che ha permesso, per esempio, di allestire un corso di formazione all’interno del carcere Nuoro dove hanno partecipato degli avvocati, con un ergastolano detenuto nelle vesti di docente ottenendo ottimi risultati. Lo studio, il volersi confrontare con i libri, il voler intraprendere un passaggio fondamentale, descrive il primo vero passo per un reale riscatto. Il poter dire, un giorno, di essere riuscito a varcare la soglia della sapienza, di poter essere stato trattato da "studente" e quindi con le vittorie e le sconfitte che ogni studente si porta all’interno del suo zaino, rappresenterà un momento altissimo per il detenuto e per tutti noi della società esterna: studiare significa comprendere ed essere attenti anche alle piccole cose, significa essere curiosi, essere disposti al cambiamento. Ricordo, alla fine degli anni Ottanta, un seminario congiunto con dei detenuti dell’Asinara e degli studenti della facoltà di Magistero. L’incontro avvenne prima sull’isola e successivamente a Sassari, in facoltà. Ricordo ancora i volti di quei detenuti all’interno dell’aula magna, all’inizio quasi spauriti. Ma poi vinse la voglia di confronto e di poter esprimere i propri punti di vista e ci fu un dibattito serio, articolato, dotto, sulle costruzioni del proprio futuro partendo dal carcere. Un protocollo di intesa tra l’Università e il mondo carcerario sardo rappresenta un bell’investimento, rappresenta un ponte tra i silenzi di un carcere e quelli di una biblioteca. Il rumore sarà comunque lieve, ma sarà intriso di storie da raccontare. Napoli: "carcere lager", a Poggioreale l’ispezione di una delegazione del Parlamento europeo di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 29 marzo 2014 Fino a nove detenuti stipati in una cella senza quasi poter fare una doccia. Duro lo spagnolo Aguilar "I penitenziari? Mai stati una priorità per voi". "La situazione penitenziaria in Italia è un problema che non è mai stato considerato come priorità politica e finanziaria e sembra non esserci alcun cambiamento". È severo il giudizio espresso dall’europarlamentare Juan Fernando Lopez Aguilar - capo della delegazione della commissione libertà civili, giustizia e affari istituzionali del parlamento europeo - al termine della due giorni in trasferta in Italia. Roma e Napoli le tappe toccate dalla delegazione di Strasburgo. Ma se l’Italia resta osservata speciale sul fronte del trattamento riservato ai detenuti, Lopez Aguilar dimostra di non avere peli sulla lingua quando, all’uscita dal carcere di Poggioreale, rilascia una dichiarazione che non ha bisogno di sottolineature o commenti. "Durante la nostra visita qui a Poggioreale - dice - abbiamo visto con i nostri occhi situazioni insostenibili: fino a nove detenuti che vivono per ventidue ore al giorno in cella e che devono attendere anche solo per poter fare semplicemente una doccia". Una cosa è certa: al ritorno a Strasburgo l’europarlamentare spagnolo e i suoi vere nella loro relazione che finirà al vaglio dell’assemblea. La commissione è venuta a Napoli per visitare il carcere di Poggioreale, ma prima della visita al penitenziario si è svolto un incontro con il sindaco Luigi De Magistris a palazzo San Giacomo. La delegazione, al termine della visita in Italia cominciata ieri a Roma, realizzerà un report per esporre all’Europa le condizioni delle carceri visitate. Secondo Aguilar sarebbe necessario "che il nuovo governo presieduto da Matteo Renzi facesse un passo in avanti per mettere la situazione penitenziaria dell’Italia all’altezza della civiltà giuridica e del prestigio del paese che è tra i fondatori dell’Europa". Un cambio di passo quello che chiede l’Europa all’Italia "visti anche - ha sottolineato l’eurodeputato Aguilar - i programmi ambiziosi che questo governo si è posto. E necessario che il governo italiano incorpori anche la priorità politico-legislativa che fino ad oggi non c’è stata per far fronte alla situazione drammatica dei penitenziari". Sull’Italia - come ricordato - pendono la condanna e la sanzione dell’Europa a cui "c’è ancora il tempo di reagire, ma - ha evidenziato - c’è bisogno di una strategia, di decisioni politiche". la delegazione che ha visitato Poggioreale, e - il giorno precedente - il carcere di Rebibbia era composta da Juan Fernando Lopez Aguilar (spagnolo del gruppo Socialisti e Democratici, presidente della commissione e capo della delegazione), Frank Engel (lussemburghese del gruppo Popolari europei), Kinga Gòncz (ungherese del gruppo Socialisti e Democratici); come accompagnatori li accompagnavano tre parlamentari europei italiani: Salvatore Iacolino (gruppo Popolari Europei), Roberta Angelilli (gruppo Popolari Europei) e Salvatore Caronna (Socialisti e Democratici). Nella tappa romana hanno incontrato anche i vertici del ministero della Giustizia e il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino e il suo vice Francesco Cascini. Napoli: lettera di un detenuto "siamo in condizioni disumane, iniziamo lo sciopero di fame e sete" di Marina Cappitti Il Mattino, 29 marzo 2014 "Riceviamo trattamenti disumani e dittatoriali in carcere". Lo si legge nella lettera di uno dei detenuti del carcere di Secondigliano inviata al magistrato di sorveglianza e ad altri organi istituzionali. denunciare le condizioni all’interno dell’istituto penitenziario napoletano. L’autore della lettera, insieme con altri detenuti, dice di aver iniziato lo sciopero della fame e della sete, rifiutando anche i colloqui con i parenti. I detenuti raccontano di essere obbligati alle flessioni durante le perquisizioni - nonostante sia nota l’impraticabilità di questa misura secondo quanto previsto dalla vigente normativa europea - e di subire punizioni e minacce durante la "conta" se non si eseguono ordini. I detenuti proseguono raccontando che è stata più volte negata la richiesta fatta da alcuni di loro di visionare il regolamento interno per verificare quali ordini siano previsti e quali invece inventati "per incutere timore". "Nelle celle - scrivono - manca l’acqua calda, lo spazio è di sei metri quadrati divisi in due, la luce manca dalle 20 in poi, il water perde acqua, il cibo è scarso e pessimo e la doccia non è consentita tutti i giorni". "Angoscia, paura, umiliazioni. Mi chiedo quali diritti mi restano - scrive uno dei detenuti nella missiva - se devo subire ulteriori sofferenze fisiche e psicologiche oltre a quella già insita nella privazione della libertà per la pena che sto scontando". Napoli: il Sindaco De Magistris; nuovo carcere contro sovraffollamento, ho detto sì al ministero Roma, 29 marzo 2014 Un nuovo carcere per alleviare il sovraffollamento. A rilanciare l’idea è il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Il Comune - spiega il primo cittadino - ha offerto la propria disponibilità al ministero della Giustizia per "individuare un’area utile alla costruzione di un nuovo penitenziario". Dove possa sorgere la struttura è difficile dirlo, specialmente dopo che il consiglio comunale a ottobre dello scorso anno ha bocciato l’idea dì utilizzare una delle caserme in via di dismissione a Mia-no. Di certo l’emergenza carceraria a Napoli resta tutta. Se n’è resa conto anche la delegazione di euro parlamentari che ieri ha visitato Poggioreale. Il presidente del- la Commissione europea per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni, Juan Fernando Lopez Aguilar, ha incontrato De Magistris, il Garante per i detenuti e alcune associazioni che operano nel settore. Aguilar ha spiegato di aver trovato "in Italia una situazione drammatica per il sovraffollamento", chiedendo agli enti locali di contribuire "a un miglioramento della situazione, prevedendo iniziative che favoriscano il reinserimento dei detenuti". De Magistris ha ricordato le iniziative messe in campo: "A Secondigliano stiamo realizzando un impianto di compostaggio per il trattamento dei rifiuti prodotti in carcere - aggiunge - a Pozzuoli sono in atto pratiche per l’avviamento al lavoro delle detenute, con corsi di cucina e un piccolo impianto di torrefazione, e abbiamo firmato un protocollo d’intesa con l’istituto di Poggioreale e il Tribunale di sorveglianza per utilizzare i detenuti in semilibertà o in permesso premio nell’ambito dei lavori socialmente utili". Al carcere minorile di Nisida, c’è un programma che vede coinvolto "il teatro San Carlo perché è importante portare la cultura nei penitenziari". A patto, però, che "il Governo non tagli le risorse per le politiche sociali". Catanzaro: Quintieri (Radicali): salute dei detenuti non tutelata, scioperi fame per ottenere cure www.catanzaroinforma.it, 29 marzo 2014 Nuova denuncia del parlamentare radicale Enzo Quintieri sulle condizioni nella Casa Circondariale di Siano. Sono costretto, ancora una volta, ad intervenire pubblicamente dopo quanto affermato, nel corso di una conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi, dai Dirigenti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro e, nello specifico, dal dottor Antonio Montuoro, referente della Sanità Penitenziaria Provinciale, secondo il quale ai detenuti ristretti (anche) nella Casa Circondariale di Siano, vengono garantite tutte le cure necessarie sia all’interno che all’esterno della struttura detentiva ricorrendo persino a visite specialistiche di qualità nei diversi ospedali del territorio. Parole del parlamentare radicale Emilio Enzo Quintieri Al di là dei dati diffusi dall’Azienda Sanitaria Provinciale sulle prestazioni effettuate infra ed extramoenia, la salute in carcere non viene tutelata in maniera adeguata e sufficiente. Ed oltre al caso del detenuto Alessio Ricco, il quale - lo ripeto - ha atteso 165 giorni (circa 5 mesi) prima di veder diagnosticata dallo Specialista Reumatologo la patologia di cui fosse affetto e, quindi, di vedersi somministrata una terapia farmacologia appropriata ed efficace, lo dimostrano le continue lamentele che pervengono al sottoscritto, da parte di tanti cittadini reclusi appartenenti ai Circuiti Penitenziari dell’Alta e della Media Sicurezza e loro familiari, sulle quali stiamo effettuando opportune verifiche prima di assumere le iniziative più appropriate per la tutela di quei diritti inviolabili, come quello alla salute, che lo Stato deve assolutamente garantire. Tant’è vero che molti di questi detenuti sono costretti ad attuare, anche inutilmente, lo sciopero della fame anche solo per essere convocati dal personale del Servizio Sanitario Penitenziario. E non è il solo Alessio Ricco ad aver intrapreso tale estrema forma di protesta nonviolenta. Proprio in questa settimana mi sono giunte ulteriori segnalazioni di detenuti gravemente ammalati e sottoposti a tortura e cioè ad un trattamento carcerario illegale poiché le condizioni in cui sono costretti ad espiare la pena li obbligano a soffrire un disagio o a sopportare una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza, sottinteso nella detenzione. Mi riferisco, in particolare modo, ai detenuti Domenico Tortora e Roberto Giaquinta, entrambi appartenenti al regime differenziato dell’Alta Sicurezza (AS3), i quali attendono, ormai da diversi mesi, di essere sottoposti ad interventi diagnostici specialistici anche di tipo chirurgico per le loro problematiche di salute. Quanto al Tortora, detenuto da 12 anni ed il quale tra 10 mesi tornerà in libertà per fine pena, evidenzio che allo stesso, da ottobre 2013 sono stati somministrati solo degli antidolorifici poiché la sua problematica (dolori all’anca destra) era stata "sottovalutata". Rivelatasi inefficace la cura, dopo le sue rimostranze, nel mese di gennaio 2014 è stato sottoposto ad una tac che ha rivelato l’assenza di cartilagine all’anca destra ed i Sanitari gli hanno prospettato l’urgenza di praticare un intervento chirurgico per applicargli una placca in metallo per risolvere la situazione. Mi risulta che, nello scorso mese, i suoi congiunti abbiano interpellato sia il Magistrato di Sorveglianza che il Direttore dell’Istituto senza ottenere alcuna risposta. In ogni caso, la "lettera" è servita per fargli dare, in un primo momento, le stampelle e, successivamente, la sedia a rotelle per impossibilità di deambulare. Inoltre, proprio nei giorni scorsi, il suddetto detenuto, per evitare ulteriori complicazioni e permettergli di spostarsi agevolmente con la carrozzella, è stato sistemato a piano terra poiché si trovava nei piani superiori. Quanto al Giaquinta, faccio presente, che dal 10 marzo u.s. ad oggi sta effettuando lo sciopero della fame per ottenere di essere sottoposto ad una risonanza magnetica ed eventualmente ad un intervento chirurgico. Infatti, il predetto, nel 2005, subì un intervento chirurgico alla base del collo e precisamente alla colonna cervicale e gli vennero applicate una placca e delle viti in titanio fra le vertebre C5 e C7. Da diversi mesi avverte dei dolori al collo e dopo aver effettuato una tac gli è stato detto che, con molta probabilità, le viti si sono rotte e che per tale motivo bisogna effettuare ulteriori accertamenti (risonanza magnetica) ed in caso affermativo praticare un intervento chirurgico perché c’è il rischio che potrebbe restare paralizzato. Queste non sono "polemiche" bensì fatti precisi e circostanziati sui quali, nei prossimi giorni, dopo aver acquisito ulteriori informazioni, solleciterò la presentazione di una Interrogazione Parlamentare ai Ministri della Giustizia e della Salute e l’effettuazione di una ennesima visita ispettiva per accertare personalmente le condizioni di detenzione degli stessi. La "malasanità carceraria" oltre al sovraffollamento, alle deprecabili condizioni igienico sanitarie ed alla insufficienza di sostegno psicologico, è uno dei principali problemi delle nostre Patrie Galere. Invero, sono particolarmente allarmanti, i numeri dei detenuti morti per suicidio (60%) o per malattia (25%) mentre si trovavano in custodia allo Stato (senza far riferimento a quelle migliaia di "casi da accertare"). Dal 2000 ad oggi sono decedute 2.274 persone detenute e ben 812 di queste si sono tolte la vita. In questi primi mesi del 2014 siamo già a 35 morti e 11 suicidi. Sono tanti i detenuti che ogni anno muoiono per "cause naturali" nelle carceri italiane, anche in quelle calabresi. E raramente i giornali ne danno notizia. Spesso la causa del decesso è l’infarto, evento difficilmente prevedibile. Altre volte sono le complicazioni di un malanno trascurato o curato male. Altre volte ancora la morte arriva al termine di un lungo deperimento, dovuto a malattie croniche o, addirittura, a scioperi della fame e della sete. E purtroppo, nota dolente, va detto che l’Autorità Giudiziaria competente applica in maniera molto disomogenea le norme sul differimento o la sospensione della pena o sulla concessione di misure alternative alla detenzione inframuraria per le persone gravemente ammalate. Sempre più frequentemente la "scarcerazione" viene negata con la scusante della "pericolosità sociale" nonostante quei detenuti siano del tutto innocui perché profondamente debilitati dalla malattia. In buona sostanza, vi è un generale azzeramento della dignità e del rispetto dei diritti umani e civili che lede l’integrità psico-fisica delle persone detenute in Italia. E tutto questo ha trovato conferma nelle sentenze emesse contro l’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che qualifica il trattamento riservato ai detenuti e le loro condizioni di vita, nel complesso, come "inumane e degradanti", contravvenenti l’Art. 3 della Convenzione Europea che li proibisce in maniera assoluta. Quindi, i detenuti, dopo aver perso la libertà, rischiano di perdere la salute e, purtroppo, sempre più spesso, anche la vita. In definitiva, invito il Dottor Montuoro e l’Asp di Catanzaro a fare meno "spot propagandistici" e ad impegnarsi di più per assicurare ai cittadini detenuti, al pari dei cittadini in stato di libertà, la erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione in maniera tempestiva, efficace ed appropriata iniziando proprio dai gravi casi segnalati. Sulmona (Aq): un dossier sul carcere, tra sovraffollamento e carenza di personale penitenziario di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 29 marzo 2014 Porge l’altra guancia l’Italia con l’indulto e l’amnistia, con le misure alternative e l’espiazione della pena nelle Comunità di recupero per i detenuti tossicodipendenti e soprattutto con il Decreto svuota carceri. Di questo ineguagliabile espediente però non sembra giovare molto il carcere di Sulmona. In Abruzzo è uno dei pochi istituti dove gran parte dei detenuti sono vincolati all’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario, non soggetti dunque ai benefici della Legge n. 10 del 21 Febbraio 2014, di conversione del Decreto legge n. 146 del 23.12.13. Trent’anni di emergenza carceraria, di sovraffollamento e l’Italia solo ora strizza l’occhio ai Paesi da cui provengono gran parte degli ospiti stranieri delle carceri affinché si proceda al loro rimpatrio. Lo Stato non solo si è esposto, ma rischia milioni di euro di multe, condannato simbolicamente a Gennaio dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo perché 7 detenuti a Busto Arsizio (Varese, Lombardia) e Piacenza (Emilia Romagna) vivevano in meno di 3 metri quadri di spazio in galera. In campo tutte le possibili soluzioni per evitare altre infrazioni, perché il rischio di pagare sanzioni pesantissime all’Europa è reale così come sono verosimili i risarcimenti che lo Stato potrebbe corrispondere ai detenuti che faranno ricorso se entro Maggio non rientra nei parametri imposti da Bruxelles, ovvero se l’Italia non garantirà ai singoli reclusi uno spazio minimo di 4 metri quadrati. Dalle proiezioni della Uil Penitenziari si stima circa un miliardo e 800 milioni di euro di risarcimenti che per il Segretario generale, Eugenio Sarno, azzereranno il quantum a disposizione per il Piano carceri . Le sanzioni saranno ancora più pesanti se l’Italia insiste a violare l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che vieta la tortura. L’Italia corre ai ripari e i risultati cominciano a vedersi almeno sul sito del Ministero della giustizia. Dall’inizio dell’anno il numero di detenuti si è ridotto, 5mila in meno! In tutto 60mila 800 detenuti a fronte di circa 45mila posti (con capienza regolamentare). Con i provvedimenti in itinere il divario si potrebbe attenuare, basterebbe mettere a regime il Piano carceri i cui interventi strutturali assicureranno altri 12 mila posti detentivi. In molte regioni i lavori sono partiti, ma concluderli in tempo per Maggio è impossibile! La coperta è corta, dall’altra parte della barricata. Tra le voci di bilancio dell’amministrazione penitenziaria si fatica a risolvere le carenze di organico, interventi che dovrebbero viaggiare di pari passo con quelli strutturali volti a ridimensionare il sovraffollamento. La coperta è cortissima se il personale di Polizia penitenziaria è sotto organico, un po’ ovunque nelle carceri della Penisola e l’eco delle proteste abruzzesi raggiunge il Ministero di via Arenula. All’ultimo posto dei penitenziari abruzzesi, il carcere di Sulmona affronta periodi di grande difficoltà. Noto come il carcere dei suicidi, quello della valle Peligna è il penitenziario che fu diretto da Armida Miserere, tra le prime direttrici di carcere. Il 19 aprile 2003 la Miserere si toglie la vita proprio nel suo alloggio di via Lamaccio, al numero civico 1. Rispetto a quella di altre carceri italiane la media dei suicidi è piuttosto alta nel penitenziario sulmonese: tredici in 10 anni. Sempre fino al 2013, sono 4 i tentati suicidi e 12 gli atti di autolesionismo gravi consumati dietro le sbarre peligne. In brevissimo tempo però la situazione è cambiata, radicalmente. Non si registrano suicidi nei primi 4 mesi di quest’anno e gli eventi critici sono ampiamente diminuiti, forse perché le caratteristiche delittuose degli attuali ospiti della struttura sono diverse rispetto a quelle degli internati, tutti trasferiti in altre strutture già dall’Aprile dello scorso anno. Gli agenti della Polizia penitenziaria del carcere ovidiano sono sotto organico da tempo, a metà del mese di Marzo il sit-in dei poliziotti che dinanzi i cancelli dell’istituto in cui operano hanno manifestato il loro disagio. Non più di 306 sono i posti di detenzione fissati per la Casa di reclusione di Sulmona, al momento, ma la popolazione carceraria nella struttura superava le 473 unità già a Gennaio. Se i ritmi d’ingresso restano quelli attuali presto il carcere abruzzese raggiungerà quota 500 detenuti. La struttura, in questi mesi, è arrivata ad ospitare anche 494 carcerati, in totale. Nell’Istituto di detenzione peligno si registra un sovraffollamento che supera il 50% della capienza massima. Ora, nel carcere sono presenti 492 reclusi, di cui 20 collaboratori di giustizia e 472 carcerati in regime di Alta sicurezza: As1 e As3, ovvero ex 41 bis (carcere duro) e Associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.) [dati del 28.3.2014). Ad operare però sono solo 246 agenti, 26 in uscita da Sulmona compensati dai 29 in entrata di cui 6 distaccati sono fortunatamente giunti nell’ultima settimana. Solo per fare un confronto, nel penitenziario di san Remo sono previsti 198 agenti assistenti, in servizio ne risultano 167 a fronte di 257 detenuti ordinari. A Sulmona sono appena partiti i lavori per la realizzazione di un nuovo padiglione. Angelo Sinesio, Commissario straordinario Piano carceri, il 22 Febbraio ha dichiarato: "L’intervento rientra nelle previsioni del Piano carceri per rispondere alla domanda e ai percorsi di rieducazione previsti per i detenuti. Dal Piano completo si potrebbero stillare circa 12 mila nuovi posti per la detenzione ". Queste sono le previsione, ma il Commissario non accenna all’intenzione di riorganizzazione i penitenziari anche per rinforzare gli organici e così le fila degli agenti di polizia. A Sulmona, i cambiamenti strutturali atti a migliorare la struttura che oggi ospita solo detenuti ad alta sicurezza purtroppo non sono accompagnati da una previsione di reintegro della Pianta organica del personale di polizia. Nel nuovo padiglione saranno accolti altri 200 detenuti[1] e nonostante i repentini mutamenti del carcere peligno, agli agenti operativi nell’Istituto si aggiungeranno solo 15 unità in base a quanto stabilito dal Decreto ministeriale che nel 2013 fissava a 256 gli agenti della pianta organica della Casa di reclusione peligna. Solo 10 in più rispetto a quelli che attualmente lavorano nella struttura (246). Il problema è che questa decisione governativa precede di qualche mese il cambiamento radicale messo in atto nell’istituto peligno con il trasferimento in altre carceri degli internati e così gli unici detenuti accettati, oggi in via Lamaccio a Sulmona, hanno un coefficiente di pericolosità rilevante, il loro pensiero fisso è l’evasione. Gli agenti operativi nel penitenziario non sono quindi d’accordo sui numeri dati dal Decreto governativo e vorrebbero riportare i livelli occupazionali a quelli del 2001, ossia 328 unità di polizia Penitenziaria per garantire efficienza e sicurezza nella struttura. Bisogna mettere anche in conto che è mancato, in questi anni, un ricambio generazionale che avrebbe alleggerito il lavoro degli agenti che hanno più esperienza, in media 25 anni di servizio alle spalle, ma anche più acciacchi. Senza trascurare il fatto che a Maggio, in Abruzzo, si terranno le elezioni amministrative, regionali ed Europee, e si prevede che almeno una cinquantina di agenti in servizio si candideranno ricorrendo al beneficio previsto dalla Legge 121/81 art. 81 in base al quale, per tutta la durata della campagna elettorale il candidato è in aspettativa speciale e non potrà vestire i panni dell’agente. Sta per scadere inoltre il mandato amministrativo di alcuni agenti distaccati a Sulmona che si spera siano riconfermati a Maggio per mantenerli operativi ancora nella struttura peligna. Novanta unità in più, è la prima richiesta avanzata dagli agenti della Polizia Penitenziaria nel corso della protesta messa in campo questo mese a Sulmona. In particolare 30 agenti da immettere subito nell’istituto, altri 20 da inserire per vigilare sul cantiere per l’ampliamento, 40 da aggiungere nel medio periodo. Non meno importanti le altre richieste che riguardano l’accantonamento degli straordinari per i quali il pagamento deve avvenire secondo i tempi stabiliti e ancora, le ore di congedo ordinario accumulate. Nel 2012, solo a Sulmona, ne sono state ammonticchiate oltre 10mila, per soli 240 agenti, ore che dovrebbero essere godute entro l’anno o, al massimo, entro il semestre dell’anno successivo, ma che a Sulmona continueranno ad accumularsi all’infinito. Per far fronte alle carenze di organico il Provveditorato ha pensato ad un Interpello regionale su cui sarebbero d’accordo alcune personalità di vertice del penitenziario peligno, ma la base ritiene difficile superare il problema con questo meccanismo. L’interpello funzionò 14 anni fa quando le missioni erano accompagnate da cospicui rimborsi e come raccontano alcuni: "Dal Molise ed altre località gli agenti facevano a gara per venire a lavorare al carcere di Sulmona". Con questi chiari di luna però in pochi sono disposti a spostarsi, quotidianamente. Molti preferiscono lavorare sotto casa o finiscono in malattia quando sono obbligati a viaggiare. È il caso di alcuni agenti distaccati forzosamente da Chieti ed Avezzano che hanno preso servizio nel penitenziario ovidiano giusto il primo giorno e poi si sono ammalati. Con questo metodo poi, a detta di chi guida la struttura, non sarà possibile ottenere più di 15 unità che, senza incentivi e motivazioni, lavorerebbero controvoglia. Non sarebbe sufficiente un provvedimento di stabilizzazione di missione per alcuni che vengono dal Molise e ogni mese chiedono il permesso di lavorare a Sulmona. Nonostante questi espedienti restano le criticità affrontate dagli agenti del carcere peligno che si riscontrano però anche in altri istituti di detenzione regionali e così è ancora più difficile superare le difficoltà. Gli agenti hanno chiesto grazia e trovato giustizia con il distacco di aliquote dalla Scuola di Formazione Amministrazione Penitenziaria (Sfap). La decisione assunta in queste settimane però non risolve la questione. Il provvedimento andrebbe escluso nel periodo in cui si svolgono i corsi di formazione con un gran numero di studenti altrimenti si dovrà pretendere dagli agenti insegnanti il dono della bilocazione per far fronte contestualmente alle lezioni da tenere e alle attività da svolgere all’interno del carcere. Il supporto garantito in queste settimane è apprezzabile, è stato possibile impiegare gli agenti in posti non detentivi e nelle traduzioni. Quest’ultime sono le attività più ambite che, dopo aver operato per settimane alla custodia delle sezioni, s’impegnano volentieri nei trasporti dei detenuti. Attività che consente di cambiare aria ogni tanto! Con le traduzioni, ben remunerate, si guadagna anche in salute se non ci sono incidenti stradali sul percorso[2]. Discorso a parte va fatto proprio sullo stato di manutenzione dei mezzi di trasporto in dotazione del carcere peligno, il parco macchine è piuttosto datato. D’altronde, i 5 agenti distaccati dalla scuola di formazione di Fonte D’Amore (frazione di Sulmona) non potevano che essere impiegati per le traduzioni, è complicato destinarli a guardia delle sezioni, non si possono utilizzare per le videoconferenze garantite solo con la presenza di un ufficiale di Polizia giudiziaria, in base a quanto previsto dalla legge. I recenti distaccati possono essere impegnati al block-house, alla portineria e al presidio nuovi giunti dove però gli agenti già assegnati sono per lo più donne, escluse dalla vigilanza nelle sezioni e comunque uomini sotto l’egida del Dpr n° 82 del 1999 (art. 21) che garantisce loro l’esclusione dal servizio nelle sezioni. Con i distaccamenti dalla scuola, in parole povere, diminuisce la rotazione negli incarichi che è invece auspicabile soprattutto per gli agenti operativi nelle sezioni, utile ad alleggerire il lavoro di chi è a stretto contatto con i detenuti destinandoli, per qualche tempo, anche a mansioni più sopportabili e diverse per rendere più accettabile il lavoro quotidiano nell’ambiente carcerario. L’ultimo concorso nazionale per l’arruolamento dei Poliziotti della Penitenziaria prevede, sempreché tutti gli iscritti superino le selezioni, l’ingresso di un poliziotto nuovo per ogni istituto di pena italiano (in media). Poca cosa rispetto ai bisogni. Le proposte per venire incontro ai bisogni degli agenti e per garantire condizioni di vita dignitosa ai detenuti dovrebbero essere attivate contestualmente e l’impegno finanziario che imporrebbero non è esoso, potrebbe essere assorbito, in parte, dai fondi previsti dall’Unione europea e in parte dal risparmio che investirebbe il settore già nel breve periodo, se le azioni programmate venissero messe a regime. 1) Interpello nazionale. Chiesto anche dal vertice dell’istituto peligno in alternativa all’interpello regionale. Sembra opportuno metterlo in campo a prescindere dall’eventualità e dagli esiti di un interpello regionale 2) Implementazione tecnologica. Attingere dai Fondi Ue e statali): - videosorveglianza, - messa a punto della sala di regia e automazione di tutti i cancelli della struttura con l’installazione di altre telecamere di videosorveglianza. Implementazione dei servizi di videoconferenze in sostituzione di gran parte delle traduzioni dei detenuti per processi ed udienze di ogni genere e grado. 3) Impiego dei militari. Progetto di rilancio delle caserme a Sulmona, previsto dall’Amministrazione comunale. L’Interpello nazionale è una delle possibilità proposte anche dalle organizzazioni sindacali che si sono unite per rappresentare con efficacia le esigenze degli agenti della Polizia penitenziaria di Sulmona. Il 90% (circa) dei detenuti in Italia è del Meridione così gli agenti arruolati nella Polizia penitenziaria. Eppure, sarà per volontà politica, ma ci si ostina ad investire più per le carceri del Nord. Per gli agenti del Sud non esiste più obbligo di destinazione nei primi 5 anni, così come accadeva nel 1996. Ad oggi però tutte le nuove leve, a prescindere dalla loro origine, vengono inizialmente impegnate soprattutto nelle carceri del Settentrione e potrebbe essere utile cambiare la tendenza. Considerando che nelle movimentazioni di agenti, distaccati da Nord a Sud, sono più di 10 anni che il carcere di Sulmona non viene considerato. Strano perché moltissimi agenti della valle Peligna, precisamente di Sulmona, sono impegnati nelle carceri del Nord e da tempo hanno fatto domanda di riavvicinamento alle proprie famiglie per lavorare nel carcere di Sulmona. Tutt’ora attendono una risposta. In tutto 149 persone: 127 uomini, 9 donne e tredici tra Ispettori e sovrintendenti. Se anche solo si potesse dare ascolto alla metà di loro, il carcere ovidiano sarebbe già più sicuro e molte delle richieste degli agenti in vertenza sarebbero soddisfatte. Implementazione della tecnologia. Da una stima approssimata di quanto si otterrebbe nella messa a punto del servizio di video conferenze, in tutte le carceri italiane, il risparmio è evidente e rilevante. Ammonta a circa 10milioni di euro il costo del servizio che la compagnia telefonica garantisce annualmente alle carceri italiane per le videoconferenze. Ogni anno le traduzioni costano allo Stato 60milioni di euro tra agenti e mezzi da impiegare per condurre il detenuto nei luoghi in cui deve essere processato[3]. La riduzione dei viaggi e quindi delle spese e del costo per la manutenzione e il rinnovo dei mezzi, a vantaggio di un sistema tecnologico, eviterebbe altri tagli lineari e immotivati. Li definisce così anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’investimento in tecnologia per le carceri permetterebbe un risparmio ragionevole nel settore traduzioni, ma garantirebbe anche la copertura tecnologica di attività che oggi richiedono la presenza fisica degli agenti. Così facendo le Piante organiche potrebbero essere di poco modificate e gli agenti potrebbero essere dirottati nei settori più sensibili e comunque in quelli dove la tecnologia è esclusa. Un investimento del genere sarebbe un passo avanti per il carcere di Sulmona, come per le altre realtà detentive, soprattutto se si potesse implementare il servizio di videoconferenze già garantito nelle 5 sale messe a disposizione nel penitenziario peligno che richiedono la presenza di un sottoufficiale per ogni sala conferenza messa a disposizione del detenuto, con qualche agente di guardia nel reparto in cui si svolgono queste attività. Poca cosa rispetto all’impegno economico richiesto da una singola traduzione, considerando che ogni scorta prevede un minimo di 4 agenti impegnati cui deve aggiungersi un Assistente capo o un sottoufficiale a guida del gruppo. Si risparmierebbero pressappoco 40milioni di euro che potrebbero essere investiti anche nel riequilibrio delle piante organiche. Gli altri aspetti dell’implementazione, messi in pratica, garantiscono l’impiego di agenti in settori altrimenti sguarniti di personale. Es: se non occorre più aprire a mano i cancelli, l’addetto potrebbe vigilare sui corridoi sguarniti di telecamere. Se poi nelle aree interne, sui passaggio più sensibili vengono installate delle telecamere di sorveglianza, la sentinella può essere impegnata altrove, in un’area dove la tecnologia è impensabile. Per il terzo obiettivo tutto è rimesso alla buona volontà dell’Amministrazione comunale di Sulmona, intenta a recuperare il valore delle caserme la cui vivacità si è persa negli anni, mano a mano. Le istituzioni sulmonesi dovrebbero aver preso i primi contatti con il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, per riattivare così un’altra fetta dell’economia locale andata smarrita. A prescindere da questo progetto, i militari dell’Esercito di stanza all’Aquila potrebbero cominciare ad essere impiegati all’esterno del penitenziario ovidiano. Non mancano dubbi nell’affidare la vigilanza esterna della struttura a corpi di polizia che si dedicano ad attività ben diverse da quelle richieste per una struttura carceraria, dal discorso sono esclusi Polizia di Stato ed Arma dei Carabinieri. [1] L’ampliamento del carcere di Sulmona sarebbe dovuto partire i primi di Marzo. All’apertura del cantiere sembra accompagnarsi l’idea di far lavorare anche i detenuti di Sulmona. La Fillea è contrattualmente coinvolta nell’impresa con il Protocollo di Legalità, già sottoscritto in Prefettura, e la Contrattazione di anticipo con l’impresa aggiudicataria che regolerà le condizioni di lavoro per l’importante appalto. Sono previsti 400 giorni di lavoro per l’opera, occorreranno un anno e tre mesi per realizzare il nuovo blocco della struttura carceraria [2] A dir poco vetusto ed obsoleto il furgone blindato ribaltatosi in Basilicata, all’altezza di Melfi sulla strada statale, nell’incidente stradale (24.3.2014) in cui sono rimasti coinvolti e feriti 5 agenti della Penitenziaria di Sulmona, di scorta ad un detenuto As1 destinato a Potenza. Il veicolo era stato preso in prestito dal carcere di l’Aquila perché il blindato sulmonese era in riparazione in un’officina di Cosenza. Il giorno prima, il 23 Marzo 2014, durante una traduzione in Calabria il mezzo ha avuto un guasto all’alternatore. Attualmente il parco macchine del carcere Peligno è piuttosto sguarnito, così quello di L’Aquila. [3] Solo per rendere l’idea. Una traduzione in Sicilia, per Catania, costa allo Stato non meno di 5mila euro tra mezzi e agenti da impiegare. Latina: Simeone (Fi); il sovraffollamento supera del 50% la capienza massima, intervenire subito www.latinatoday.it, 29 marzo 2014 Sovraffollamento, fatiscenza degli edifici e inefficienza dei servizi: Giuseppe Simeone si sta battendo per risolvere tutti i problemi della Casa Circondariale di Latina. Il sovraffollamento delle carceri è un problema importante per l’amministrazione italiana. "La severità della pena non può, e non deve, essere confusa con la mancanza di rispetto per la dignità delle persone recluse", ha dichiarato Giuseppe Simeone, consigliere regionale di Forza Italia. Il problema non è solo a livello nazionale ma anche a livello provinciale, esattamente nella Casa Circondariale di via Aspromonte a Latina. In questo carcere il sovraffollamento supera del 50% la capienza massima disponibile. La principale causa è sicuramente la chiusura della sede giudiziaria di Gaeta, e la conseguente annessione dei Comuni Gaeta, Formia, Itri, Ponza, Ventotene, Minturno, Castelforte, Spigno Saturnia e Santi Cosma e Damiano. Lo spostamento delle competenza a Cassino ha temporaneamente alleggerito la situazione di Latina, ma non ha definitivamente risolto il problema. Ma il sovraffollamento non è l’unico problema: le carceri sono sempre delle strutture quasi fatiscenti costruite più di 40 anni fa. "Il carcere di Latina, che ho visitato in questi giorni - continua Simeone - necessita di interventi mirati e degli strumenti adeguati per uscire da questa gravissima situazione. Anche la giustizia sta subendo gli effetti deleteri e negativi di quei tagli lineari che nulla hanno a che vedere con la spending review". Ogni giorno nelle carceri si assiste a un pesante taglio nel settore burocratico attraverso contrazioni che investono gli sprechi ma anche alcune efficienze dei servizi erogati. Buchi istituzionali che vengono colmati solo con la dedizione dei lavoratori. "Ancora una volta ci troviamo di fronte ad alcuni disservizi, come quelli legati alle cure e all’assistenza sanitaria e psicologica, di cui i detenuti necessitano. Per effettuare una normale visita i detenuti devono essere tradotti nelle strutture sanitarie con aggravi sia sotto il profilo economico che logistico. E tutto questo a fronte della legge che chiaramente afferma che la salute dei detenuti deve essere garantita dalla Regione tramite la Asl". L’articolo 11 del Servizio Sanitario prevede infatti che ogni istituto penitenziario sia dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze dei detenuti e degli internati e che disponga della competenza di almeno uno specialista in psichiatria. Giuseppe Simeone ha deciso quindi di battersi per la realizzazione di un protocollo di intesa che preveda il coinvolgimento delle Asl e della Regione Lazio per effettuare visite programmate all’interno della struttura per garantire assistenza sanitaria ai detenuti. "Diamo atto all’ex assessore Pino Cangemi che si era attivato, nel corso della legislatura precedente, per risolvere alcune delle criticità che riguardano la struttura. In questi giorni - conclude il consigliere - stiamo verificando le iniziative poste in essere per comprendere a che punto siano arrivate le procedure e proseguire sulla strada tracciata constatando se sia possibile stanziare delle somme per interventi strutturali di cui il carcere di Latina necessita nell’immediato. Si tratta di un atto di civiltà per una situazione che le istituzioni responsabilmente devono affrontare non a suon di annunci ma con azioni concrete". Avellino: Sappe; carceri sovraffollate e fatiscenti, dove gli operatori vivono un rischio quotidiano di Paola Iandolo Otto Pagine, 29 marzo 2014 La relazione del Segretario Sappe, Fattorello, sulla situazione degli Istituti di pena della nostra provincia "Ad Avellino ed Ariano le strutture sono sovraffollate e fatiscenti. Gli operatori vivono un rischio quotidiano" Sovraffollamento e sistema penitenziario umano e funzionale. Questi i due argomenti affrontati, l’altro ieri, durante la commissione Libe (Liberta Civili, Giustizia e Affari interni) composta da tre europarlamentari ed altri membri delle rappresentanze politiche europee presenti nell’europarlamento che hanno ascoltato in audizione il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Carminantonio Esposito, Emilio Fattorello rappresentante del sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Mario Barone presidente di Antigone Campania, Lorenzo Acampora, rappresentante dell’azienda Sanitaria Locale della Campania, padre Franco Esposito, cappellano di Poggioreale, Adriana Tocco garante dei diritti delle persone private dalla liberta personale della Regione Campania. Un’audizione a porte chiuse che ha trattato i diversi problemi delle carceri italiane, anche quelli irpini. Ad Avellino la situazione non è più felice di quelle delle altre strutture. Unica all’avanguardia è il penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi. Gli altri, a partire da Avellino, fino ad Ariano e Lauro subiranno dei mutamenti. Avellino già con l’apertura del nuovo padiglione ha subito un grosso incremento di detenuti. La vecchia struttura è rimasta come era prima, con gli stessi problemi, carenze strutturali gravi e celle fatiscenti. Durante l’audizione, come ci comunica il segretario provinciale Sappe Attilio Russo, Fattorello ha parlato della grave situazione di sicurezza del carcere e degli stessi operatori penitenziari. Diversi sono stati gli episodi di aggressione tra detenuti ma anche nei confronti degli agenti e di altri operatori del servizio. Un altro problema affrontato è quello della sorveglianza dinamica. "Soffriamo di una mancata applicazione dell’organizzazione del lavoro esistente - ha riferito Attilio Russo - mancano i sistemi elettronici, mancano le condizioni di vigilanza da parte del personale. Non esistono le telecamere". Inoltre, di recente, il Nucleo operativo e piantonamento è stato interessato da una mobilità. Mobilità che crea non pochi problemi, in quanto il personale che si è formato negli anni per la vigilanza esterna è dovuto rientrare e far servizio all’interno, stesso discorso per il personale che lavoro all’interno del carcere. Insomma, la situazione del carcere di Avellino, nonostante l’apertura del nuovo padiglione non è cambiata e con l’arrivo della stagione estiva i problemi delle carceri raddoppiano: mancanza di acqua, caldo e situazioni al limite del rischio igienico - sanitario. Fattorello ha portato a conoscenza dell’Audizione anche la difficile situazione degli agenti penitenziari. "La carenza di organico, il sovraffollamento, unitamente a modalità organizzativo-burocratiche inadeguate sono i principali fattori stressanti del poliziotto penitenziario. Lunghi orari di lavoro, esigenze eccessive, pesanti oneri di servizio creano squilibrio tra la vita privata e la vita lavorativa che diviene vero e proprio disagio occupazionale. Circa 80 poliziotti penitenziari morti per suicidio negli ultimi 10 anni, dei quali 29 nel corso degli ultimi 3 anni, La sindrome di burnout o più semplicemente burnout, qualifica l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce coloro i quali esercitano professioni d’aiuto, qualora questi non riescano più a rispondere in maniera adeguata ai carichi di stress che questo lavora li porta ad assumere". Milano: carcere e lavoro, 27 le Cooperative sociali seguite da "Acceleratore di impresa ristretta" Redattore Sociale, 29 marzo 2014 L’Acceleratore di impresa ristretta in tre anni è passato da 11 a 27 realtà. Aperto anche all’impresa profit, il suo modello è stato presentato a Fa’ la cosa giusta! Con l’obiettivo di "esportarlo" in altre città e regioni. Carcere e lavoro, un binomio possibile anche in tempo di crisi. L’Acceleratore di impresa ristretta (Air) del Comune di Milano in tre anni è passato dal seguire 11 progetti ad arrivare a 27. "Tra cooperative sociali e aziende profit", spiega Claudio Cazzanelli, della cooperativa A&I. È questa una delle novità introdotte dall’Air del Comune di Milano. L’amministrazione comunale insieme alla cooperativa A&I, capofila del progetto, a Fa’ la cosa giusta! Ha presentato il modello che portato al successo di Air. Con l’obiettivo di trasporlo in altre realtà, in Lombardia e non solo. Per aprire un acceleratore d’impresa carceraria servono due ordini di competenze, continua Canzanelli: il primo è sul mondo del carcere, il secondo invece di tipo professionale. "Parlare di impresa in carcere non è come fare impresa fuori - aggiunge - serve una conoscenza delle leggi specifiche che aiutano a sviluppare lavoro". Air ha fino ad oggi svolto il lavoro anche di aggregazione e punto d’incontro tra le diverse realtà che a Milano si occupano di lavoro in carcere. "Gli esempi di realtà attive ci sono, il problema è fare sistema, mettersi insieme per trovare risorse e andare avanti", conclude. Brescia: grazie a un accordo con il Comune venti detenuti lavoreranno per il decoro della città di Italia Brontesi Corriere della Sera, 29 marzo 2014 Detenuti al lavoro per ripulire da tag e graffiti i muri degli edifici comunali, a cominciare dalle scuole, ma anche, nelle aree verdi della città, i giochi per i bambini, le panchine e le toilette imbrattati dai vandali. Lo prevede un accordo per il reinserimento sociale sottoscritto dal Comune di Brescia con il Tribunale di sorveglianza e le direzioni di Canton Mombello e Verziano. I primi ad essere impiegati negli interventi di riqualificazione urbana saranno venti detenuti, segnalati dal Tribunale di sorveglianza. Il progetto in futuro potrà però essere ampliato, ha anticipato Valter Muchetti assessore alla rigenerazione urbana e alle politiche per una città sicura, presentando l’iniziativa che "guarda al di là dell’emergenza sicurezza ed è un tentativo di dare dignità, speranza e anche opportunità di lavoro a persone che hanno sbagliato e stanno pagando per questo". Il costo per questo primo progetto sarà complessivamente di circa 10 mila euro, 500 per ognuno dei venti detenuti che dovrà essere dotato di strumenti adeguati al lavoro da svolgere e alla sicurezza. Il vestiario e i dispositivi di protezione individuale saranno forniti da Brescia mobilità che provvederà anche agli spostamenti (e ai biglietti) dal carcere ai luoghi di lavoro, che avverranno con i mezzi pubblici. Ai detenuti che saranno impegnati per 24 mesi (il periodo previsto a partire dalla firma dell’accordo) nella ripulitura di scritte e graffiti, il Comune riconosce la copertura assicurativa, un buono-pasto al giorno, un voucher di 10 euro lordi ogni otto ore di lavoro, una formazione adeguata e alla fine dei due anni l’attestazione della prestazione lavorativa che è stata effettuata. È un progetto "tra i primi di questo genere e con queste caratteristiche in Italia" ha ricordato il professor Carlo Alberto Romano presidente dell’Associazione Carcere e territorio. E ha avvertito: "Non chiamiamoli lavori di pubblica utilità perché sono altra cosa, sono decisi dal giudice come alternativa alla sanzione" mentre il progetto bresciano "prevede una scelta volontaria e gratuita a dare il proprio contributo alla sicurezza della comunità, una volontà riparatrice, e l’obiettivo è dare un contributo al miglioramento delle comunità". Il senso dell’accordo ha spiegato Romano "è l’idea di andare verso un castigo intelligente, chi ha commesso reato paga il suo debito ma trasformandolo in qualcosa di utile". È in sostanza un "percorso di responsabilizzazione". Ma Brescia anticipa i tempi anche nel dare realizzazione concreta a una norma che è contenuta nel decreto Cancellieri, ministro di giustizia del governo Letta, ha ricordato il presidente di "Carcere e territorio". Convinta della bontà di protocolli di questo tipo si è detta Monica Lazzaroni, presidente del Tribunale di sorveglianza: "la pena deve essere socialmente utile, avvicinare il condannato alla società", mentre per la direttrice di Canton Mombello Francesca Gioieni "lascia il segno ed è un messaggio positivo percepire che chi è responsabile di un reato è impegnato per la collettività". Occorre un "cambio di mentalità" e la volontà dell’amministrazione comunale di fare sistema "è un valore aggiunto" ha detto Francesca Paola Lucrezi direttrice di Verziano. Alla presentazione dell’iniziativa nella sala dei giudici a palazzo Loggia sono intervenuti anche il comandante della polizia locale Roberto Novelli, Luca Iubini responsabile del servizio sicurezza urbana e Angelo Canori presidente dell’associazione Vol.Ca di volontari che operano in carcere. Lamezia Terme: chiude il carcere, ma nessuno lo sapeva… detenuti trasferiti senza preavviso di Pasqualino Rettura www.ilquotidianoweb.it, 29 marzo 2014 Tra l’incredulità generale i detenuti ospitati nell’istituto penitenziario di Lamezia Terme sono stati trasferiti in altre strutture. Quella lametina è stata infatti chiusa senza un preavviso. Dura presa di posizione del sindaco: "Pronti ad attuare iniziative in difesa del presidio". Una chiusura annunciata e improvvisa. In un vero e proprio blitz la polizia penitenziaria ha trasferito 51 detenuti dal carcere di Lamezia ad altri istituti. E nessuno sapeva. Neanche chi, appena ieri mattina, aveva partecipato all’inaugurazione di un sportello lavoro per il reinserimento dei condannati. C’erano tutti, autorità politiche e religiose. Ma nessuna sapeva della chiusura del carcere di Lamezia, un ex convento costruito nel 1400 e diventato carcere nel 1800. Nel 2004 la ristrutturazione. Nei mesi scorsi è risultato il carcere più sovraffollato d’Italia con il 172% dei detenuti in più rispetto alla capienza (30 detenuti ma ne sono stati ospitati fino ad 80). La decisione della chiusura ha sorpreso anche gli stessi detenuti informati poche ore prima del loro trasferimento così come i familiari durante i colloqui. Un anno fa, il Dap presentò il progetto "Circuiti regionali" per trovare soluzioni al sovraffollamento. Già in quella sede era stata annunciata la chiusura del Casa circondariale "San Francesco" di Lamezia. L’unica in Calabria ad essere soppressa. Seguirono proteste (gli avvocati lametini organizzarono un sit-in davanti il carcere), consigli comunali e le solite dichiarazioni contro la chiusura da parte dei politici locali. Il Dap annunciò la chiusura anche perché il 26 aprile prossimo il carcere di Catanzaro ospiterà in un nuovo padiglione 300 detenuti di media sicurezza (detenuti comuni). Quindi il trasferimento dei detenuti di Lamezia di ieri pomeriggio si spiega anche per questo. Ma nessuno sapeva. Come il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza: "Proprio ieri mattina sono stato invitato nella struttura penitenziaria della città all’apertura di uno sportello informativo sul lavoro per i detenuti a cura del centro per l’impiego. A distanza di poche ore c’è un precipitare della situazione senza nessuna doverosa informazione istituzionale da parte delle autorità preposte. Nelle scorse settimane è venuto a parlare con me il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dott. Salvatore Acerra, al quale ho esposto con chiarezza le mie preoccupazioni. In questi anni ripetutamente il comune di Lamezia si è rivolto al governo, ai parlamentari, ai rappresentanti istituzionali della città ed ai sindacati nazionali del settore, paventando il pericolo della chiusura e proponendo siti per la costruzione di nuove strutture. Anche pubblicamente l’allora Ministro di Grazia e Giustizia On. Nitto Palma disse che non bisognava essere allarmisti. Il comune di Lamezia farà tutto quello che è nelle sue possibilità - ha concluso il primo cittadino - affinché la nostra città non perda ruolo ed ulteriore importanza e sarà a fianco delle iniziative che le organizzazioni degli agenti di polizia penitenziaria ed i lavoratori porteranno avanti". Nuoro: Sdr; nel carcere di Is Arenas deve essere garantito medico 24 ore per 7 giorni Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2014 "È vero che i cittadini usufruiscono del medico di base 6 ore al giorno ma, al contrario di quelli che hanno perso la libertà e stanno scontando una pena, possono accedere alla Guardia Medica o recarsi al Pronto Soccorso di un Ospedale. Ecco perché i detenuti della Casa di Reclusione di Is Arenas devono disporre del Medico 24 ore al giorno per 7 giorni". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme" con riferimento alla dichiarazione del Direttore dell'Azienda Sanitaria n. 6 del Medio Campidano secondo cui "I reclusi di Is Arenas avranno la stessa assistenza medica che hanno i cittadini comuni che usufruiscono del medico di base per sei ore al giorno. I diritti sono uguali per tutti e a questo principio la Asl 6 intende attenersi". "Sorprende - sottolinea Caligaris - che il General Manager dimentichi che Is Arenas dista da un Nosocomio 50 chilometri e che l'intervento del 118 comporta comunque tempi fatali in molti casi. Occorre inoltre ricordare che da 2012 la Finanziaria regionale dispone annualmente 2 milioni e 500 mila euro come fondo integrativo per l'assistenza sanitaria penitenziaria e che, oltre ai fondi del Ministero della Giustizia assegnati alla Regione, sono previste le quote capitarie per ciascun detenuto". "Può essere accaduto che i fondi ministeriali, in seguito alla fine della legislatura, siano rimasti congelati ma anche questa circostanza non giustifica alcun taglio al servizio medico di una struttura penitenziaria. Non si può dimenticare che nella Casa di Reclusione di Is Arenas lavorano anche 70 Agenti di Polizia Penitenziaria i quali si troverebbero anch'essi senza assistenza medica nelle ore notturne e la domenica. C'è infine da considerare che quello alla salute è un diritto costituzionale che deve essere rispettato a maggior ragione da chi per l'incarico a cui è assegnato - conclude la presidente di Sdr - ha il dovere di garantire un servizio adeguato ai bisogni dei cittadini senza aggettivi". Lecco: cercasi Garante dei detenuti… il Comune accetta candidature fino al 31 marzo prossimo Corriere di Lecco, 29 marzo 2014 Ultimi giorni per presentare domanda per la posizione di "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale". È ancora possibile candidarsi entro il 31 marzo. Il Consiglio comunale del Comune di Lecco, con apposita delibera, ha istituito la figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, approvandone il relativo regolamento. Il sindaco nomina il garante scegliendolo fra persone residenti nella provincia di Lecco, di indiscusso prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali. Il garante dura in carica per tre anni e assume l’incarico a titolo onorifico; per lo svolgimento delle funzioni attribuite non è, pertanto, prevista alcuna indennità o rimborso spese. L’incarico di garante è incompatibile con l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori della giustizia e della pubblica sicurezza e della professione forense. È inoltre esclusa la nomina nei confronti di coniuge, ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado degli amministratori comunali e del personale che opera nella casa circondariale. Gli interessati alla nomina possono presentare la propria candidatura mediante apposita domanda, corredata da dettagliato curriculum vitae, all’ufficio protocollo del Comune durante gli orari di apertura (lunedì, martedì, giovedì e venerdì: dalle 8.30 alle 12.30; mercoledì: dalle 8.30 alle 15.30). La domanda di presentazione della candidatura e l’avviso pubblico sono riscontrabili sul sito del Comune di Lecco (www.comune.lecco.it) alla voce "Candidature per il Garante dei detenuti". Per informazioni, contattare il Servizio segreteria del sindaco e Politiche di sviluppo dell’organizzazione al numero 0341 481239. Nogara (Vr): è scontro sul Centro per ex detenuti psichiatrici, dovrà accogliere quaranta pazienti di Riccardo Mirandola L’Arena di Verona, 29 marzo 2014 Il Partito democratico del neo segretario Mattia Bettolini si spacca sul progetto per la realizzazione di un nuovo centro che dovrà accogliere 40 pazienti detenuti negli ex ospedali psichiatrici giudiziari di Castiglione delle Stiviere e Reggio Emilia. È bastata la diffusione di un comunicato stampa sull’argo-mento a firma del direttivo della sezione nogarese dei democratici per far scattare la replica di Federico Silvestrini e Caterina Lombardi, contrari alla presa di posizione del partito sulle scelte fatte dal sindaco Luciano Mirandola. "Il Partito democratico di Nogara", scrive il gruppo del segretario Bertolini, "giudica sostanzialmente positiva la costruzione di questa opera, ma ritiene di dover sottolineare alcuni aspetti critici. Se il progetto del nuovo centro pare ben avviato, temiamo per la riconversione dello Stellini poiché non ci sono certezze di alcun tipo, soprattutto finanziarie. La Regione ha garantito solo a parole la copertura finanzia-ria per la riconversione; per quanto riguarda gli investimenti privati, né il sindaco, né l’assessore Coletto hanno fatto chiarezza sia sugli investitori sia sull’ammontare del finanziamento. Riteniamo invece critico il processo che ha portato a questa decisione. Non sono stati consultati i cittadini e nemmeno le minoranze che si sono trovate a votare una decisione già presa dalla maggioranza. Si stanno tenendo in questo ultimo periodo degli incontri informativi attingendo alle nostre risorse, come l’invito alla parlamentare del Pd Alessia Rotta e il membro del direttivo Pd Mattia De Marchi, che ha presentato la sua tesi di laurea dal titolo"!! mondo degli anziani: problematiche, esigenze, risorse. Una risposta al territorio tramite la riconversione dell’ex ospedale Stellini". Tutto questo senza il minimo coinvolgimento del nostro circolo e del direttivo. Durante questi ultimi incontri il tema dei finanziamenti è rimasto irrisolto, senza nessun dato certo per la riconversione". Critiche e dubbi quelli espressi dalla segreteria Bertolini che non sono condivise dalla minoranza interno al Pd, considerata vicina alla giunta Mirandola e all’assessore ai servizi sociali Antonio Polo (quest’ultimo iscritto al Pd locale), mentre il resto del partito farebbe riferimento al consigliere di minoranza Oliviero Olivieri. "Il gruppo dirigente del Pd nogarese", attaccano Silvestrini e Lombardi, "non è all’altezza della situazione perché non è capace di fare alcuna analisi sul progetto presentato dal Comune. Come pretesto prende la partecipazione di esponenti del Pd agli incontri pubblici organizzati dal comune facendo autogol. Ciò dimostra quanto la segreteria di Bertolini sia lontana dalla gente e dai problemi del paese. Ribadiamo invece l’interesse per il progetto di riconversione dello Stellini e siamo favorevoli al fatto che quanto promesso dalla Regione e dall’Ulss 21 venga rispettato". Le divisioni interne al partito di Renzi si manifesteranno probabilmente anche quando nei prossimi giorni verrà organizzato un incontro pubblico per spiegare pregi e difetti del progetto di riconversione dello StelIini e in particolare i dubbi sulla nuova struttura per de-tenuti psichiatrici". Monza: detenuto dà fuoco alla sua cella, panico in carcere, otto agenti ricoverati in ospedale www.monzatoday.it, 29 marzo 2014 Salvato dagli agenti di polizia penitenziaria, otto dei quali sono stati poi ricoverati al pronto soccorso. Sfiorata la tragedia in carcere a Monza venerdì mattina. Un detenuto, di origini brasiliane, ha incendiato la propria cella. Non è ancora chiaro il motivo del gesto. Gli agenti di polizia penitenziaria sono intervenuti immediatamente, hanno estratto l’uomo dalla cella e provveduto a spegnere le fiamme mentre gli altri detenuti venivano messi in sicurezza. Otto agenti sono stati ricoverati al San Gerardo per l’inalazione dei fumi. Lo comunica il sindacato Uil-pa Penitenziari. Milano: l’ex cappellano di S. Vittore condannato a 4 anni per violenza sessuale su alcuni detenuti Agi, 29 marzo 2014 Il gup di Milano ha condannato col rito abbreviato a 4 anni di carcere don Alberto Barin, l’ex cappellano del carcere di San Vittore accusato di violenza sessuale su detenuti. Una pena molto inferiore rispetto a quella chiesta dalla Procura a 14 anni e 8 mesi per 12 casi di abusi. Il giudice ha qualificato alcuni casi come di lieve entità e in altri ha riconosciuto il consenso indotto. Stando alle indagini l’ex cappellano del carcere milanese, arrestato nel novembre 2012, avrebbe fatto leva sullo "stato di bisogno" dei detenuti che si rivolgevano a lui per avere sigarette, shampoo, saponette, spazzolini o radioline. Piccoli beni per vivere meglio in cella che l’uomo avrebbe consegnato in cambio di favori sessuali. Gli abusi secondo i pm proseguivano in alcuni casi anche quando i detenuti uscivano dalla casa di reclusione, a pena espiata. Don Barin secondo l’accusa li invitava a passare a casa sua per altre prestazioni sessuali, facendo pesare loro il fatto che i suoi pareri di buona condotta erano stati utili, a suo dire, per le scarcerazioni. No risarcimenti immediati a detenuti Il gup non ha riconosciuto risarcimenti a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ai detenuti, che erano parti civili nel processo per le presunte violenze sessuali subite, riqualificate dal giudice o nella forma della lieve entità (molestie o toccamenti) o nella fattispecie di rapporti sessuali con il consenso indotto. Il gup, in relazione ai casi rimasti in piedi con la sentenza (per quattro casi su 12, infatti, è arrivata l’assoluzione), ha riconosciuto i risarcimenti ma da quantificarsi in un separato giudizio civile. Otto detenuti si erano costituiti parti civili nel processo, rappresentati, tra gli altri, dagli avvocati Simone Pozzi e Antonio Nebuloni. L’avvocato Pozzi ha spiegato che per il caso del detenuto che lui rappresentava Barin è stato condannato per violenza sessuale, nella forma della "lieve entità". Il religioso era finito in carcere il 20 novembre del 2012 a seguito dell’inchiesta condotta dalla squadra mobile e dalla polizia penitenziaria e coordinata dal procuratore aggiunto Pietro Forno. Ora si trova agli arresti domiciliari in un convento. La difesa, rappresentata dall’avvocato Mario Zanchetti, in una lunga arringa e con una corposa memoria aveva insistito per chiarire che si era trattato di atti sessuali tra persone maggiorenni e consenzienti. Sassari: la commedia "Il gatto prigioniero" svela il duro inferno del carcere di San Sebastiano di Pasquale Porcu La Nuova Sardegna, 29 marzo 2014 Successo dell’ultima commedia di Cosimo Filigheddu. In scena al Parodi con la Compagnia Teatro Sassari. E alla fine il gatto prigioniero è stato esiliato a Porto Torres. Il "gatto prigioniero" è il titolo della commedia scritta da Cosimo Filigheddu e messa in scena dalla compagnia Teatro Sassari per la regia di Marco Spiga. Commedia ambientata nel carcere di San Sebastiano, anzi idealmente collocata, per la rappresentazione, nella "rotonda" della struttura carceraria di via Roma. E proprio per questa inserita nelle manifestazioni delle Giornate Fai di Primavera del 22 e del 23 marzo scorsi. Poi con motivazioni poco convincenti chi di dovere ha fatto in modo che quella rappresentazione venisse portata fuori dal carcere e perfino dalla città. Che cosa è successo? Chi lo sa lo riveli. Certo l’andamento della vicenda non aiuta ad allontanare sospetti e timori che non dovrebbero appartenere a un paese che riflette liberamente sulla propria storia. E nella commedia di Filigheddu, spunti di riflessione se ne trovano tanti già dalle prime battute della commedia. Ed eccoci alla "prima" andata in scena al teatro Parodi l’altra sera. Scena buia, una cella, grande agitazione nel carcere. Gli agenti carcerari attraversano di corsa i corridoi del carcere: i detenuti sono terrorizzati dalla possibilità che vengano pestati a sangue. Il detenuto Martinez se ne sta accucciato nella sua cella, buono buono. Per farla franca nessuno deve accorgersi della sua presenza. È proprio il povero Martinez a fare da Virgilio nel viaggio dantesco degli ultimi cinquant’anni di storia del carcere. Una storia di dolore e di sofferenze. Un mondo nel quale tutti, in fondo sono prigionieri, e dove le botte e le violenze subite dai reclusi non sono forse l’aspetto più grave e degradante di quell’inferno. Peggio è sicuramente la perdita di ogni dignità che subiscono i più deboli, costretti a fare i delatori ed accusare i loro compagni pur di evitare il peggio. O il degrado del detenuto napoletano costretto a fare il femminiello per raggranellare qualche soldo. Martinez è stato arrestato per una rapina finita in tragedia. È il 1966 e da San Sebastiano sono appena evasi Graziano Mesina e Miguel Atienza: per le guardie carcerarie è una offesa che qualcuno deve pagare. "Maio che cosa c’entro, io non ho fatto nulla", continua a protestare Martinez. Peccato che il carcere sia in città, dice, qualcuno, altrimenti... Ma anche se la commedia ha continui riferimenti a Sassari (vedi l’arresto di Dario Fo e le manifestazioni guidate da Franca Rame per chiedere la liberazione del futuro premio Nobel), la commedia potrebbe essere ambientata in qualunque luogo del mondo, talmente la scrittura drammaturgica diventa rarefatta e universale. Con quei struggenti tanghi che proiettano la vicenda in un mondo nel quale tutti si possono riconoscere. Ed è in questo che l’opera di Filigheddu dimostra una cifra notevole e raffinata. Anche perché l’autore non si fa mai tentare dalla denuncia militante, ma racconta con delicatezza e perfino con ironia storie che hanno poco di onirico. Geniale, l’invenzione del gatto e dell’infermiera (che rappresentano Sassari) e che rimangono a San Sebastiano dopo che i detenuti sono stati trasferiti a Bancali. Precisa la regia di Marco Spiga. Ottimi gli interpreti (Mario Lubino, Teresa Soro, Alessandra Spiga, Alfredo Ruscitto, Alessandro Gazale, Maurizio Giordo, Michelangelo Ghisu, Pasquale Poddighe, Paolo Colorito, Solferino Sodini), le luci e l’allestimento. Libri: "Nel ventre della bestia", la folle storia del detenuto scrittore che incantò Mailer di Nicola Mirenzi Europa, 29 marzo 2014 Torna in libreria il libro di Jack Henry Abbott "Nel ventre della bestia", frutto di una straordinaria corrispondenza con il grande scrittore americano. La prima cosa che vacilla è la convinzione che il carcere serva a rieducare le persone. Man mano che si leggono le pagine di "Nel ventre della bestia" (Derive Approdi, 15 euro, 189 pagine) di Jack Henry Abbott la crudeltà della pena appare sempre più spogliata di ogni retorica democratica, come una volontà ferrea di danneggiare le vite, mostrificarle, isolando e mettendo gli uni contro gli altri gli uomini che vi sono costretti. Non è nemmeno una vendetta. È di più. Il libro di Abbott, diventato un caso editoriale negli Stati Uniti degli anni ottanta, era sparito da decenni dalle librerie italiane. Ora vi ritorna, con una nuova traduzione di Lanfranco Caminiti, capace di rendere alla perfezione la lingua della galera. La prefazione del volume è firmata da Norman Mailer, lo scrittore che scoprì il talento di Abbott e anche la sua storia pazzesca. Siamo alla fine degli anni settanta. Mailer sta lavorando a Il canto del boia, il romanzo che racconta la vicenda di Gary Gilmore, un detenuto condannato a morte che accese l’attenzione e il dibattito dell’opinione pubblica americana. Mailer riceve una lettera. Il mittente non gli chiede nulla, come spesso accade alle grandi personalità. Vuole invece offrire delle indicazioni. Sa che lo scrittore sta scrivendo una storia di galera e lo avvisa che nessuno sa veramente cosa sia la violenza in carcere se non vi è stato più di dieci anni. Si offre di spiegargliela. Visto che ha passato quasi tutta la sua vita dentro. È Jack Henry Abbott. Colpito dalla sua storia e della sua scrittura, Mailer accetta la corrispondenza e riceve una, due, tre lettere "eccezionali". "Non erano passate due settimane - scrive - e mi trovai nel mezzo di una profonda corrispondenza. Sentivo tutta la soggezione che si prova davanti a un fenomeno. Abbott aveva una sua propria voce. Non ne avevo mai sentite così". Una selezione di queste lettere viene presto pubblicata sulla New York Rewiev Of Books e hanno un enorme successo di pubblico. Mentre intorno ad Abbott si crea un movimento democratico, di intellettuali e attivisti, che preme per la sua liberazione. Abbott era nato in una famiglia in macerie. Passa l’infanzia affidato a questa o quella coppia. Non finisce la sesta elementare. E a nove anni inizia a trascorrere lunghi periodi in luoghi di detenzione minorile. Diventa maggiorenne, e viene arrestato per un assegno scoperto. Riceve una condanna a tempo indeterminato fino a un massimo di cinque anni. Tre anni dopo, uccide un detenuto e ne ferisce un altro. Lo condannano - ancora in maniera indefinita - da tre a vent’anni. Pochi anni più tardi evade da un carcere di massima sicurezza e lo arrestano dopo sei settimane. Scrive: "Da quando ho dodici anni sono stato libero nove mesi e mezzo in tutto. Ho scontato lunghi periodi di isolamento - solo per tre periodi un cumulo di più di dieci anni. Ho calcolato che in tutto ho passato in isolamento quattordici o quindici anni. Il reato più grave che ho commesso nel mondo libero è stato una rapina in banca quando ero evaso". Nel ventre della bestia è una raccolta scelta delle lettere a Mailer, in cui Abbott racconta come è sopravvissuto in carcere, rifiutando di accettare l’ordine penitenziario. Non è diventato né spietato né terrorizzato sino al punto di sottomettersi a tutto. Quando ha ucciso, lo ha fatto perché costretto, dice, obbligato dalle regole non scritte del carcere. Ha passato le notti leggendo sino a sfinirsi. Filosofia, soprattutto. Ma anche Marx (si sente un militante comunista), fisica, scienza, letteratura. Tutto quello che trovava. La sua narrazione asciutta intervalla riflessioni sull’universo della galera. Che obbliga gli adolescenti a comportarsi come adulti e gli adulti a comportarsi come sbarbatelli, dominati 24 su 24 da regole che gli impongono, quando, come e dove vivere. A tutto ciò Abbott si ribella. Sempre. Senza mai cedere di un millimetro. Per questo passa le pene dell’inferno. Descritte con una crudezza che lascia senza fiato. È stata la ferocia di questo racconto, diventato subito famoso, ha mobilitare intorno ad Abbott una comunità di persone che ne chiedeva la liberazione. L’argomento era: "Una persona che racconta con tale lucidità la sua storia è un uomo risanato, non ha bisogno di essere punito ancora". Il discorso fa breccia e il giudice, che ne aveva facoltà (la sua pena era indefinita sino a quando un tribunale non vi avesse messo un termine), lo libera. Sei settimane dopo essere uscito, Abbott ha un diverbio con un uomo in un ristorante. Si picchiano. Abbott tira fuori un coltello e lo uccide. È il 18 luglio del 1981. Il giorno dopo il New York Times esce con una recensione entusiasta del suo libro. Ignorando ciò che era appena accaduto. Lui invece torna in galera. Senza essere riuscito a vivere in un mondo di cui non conosceva nulla, nemmeno le regole minime. Abbott passa ancora vent’anni dietro la sbarre. I soldi del suo best seller vanno tutti alla vedova dell’uomo che ha ucciso. Scrive un altro libro, che non ha lo stesso successo. Nel 2002 s’impicca, mettendo fine a una vita passata in carcere, una pena che pure non è bastata - come promette le legge - a rieducarlo. India: ammesso ricorso dei marò italiani contro l’utilizzo delle prove della polizia antiterrorismo Corriere della Sera, 29 marzo 2014 La prossima udienza si terrà fra quattro settimane. Della questione si è occupato, giovedì, anche il presidente del Consiglio Renzi nel suo incontro con Barack Obama. La Corte suprema indiana ha ammesso il ricorso dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, contro l’utilizzo della polizia Nia antiterrorismo e ha sospeso il processo a loro carico presso il tribunale speciale. La prossima udienza si terrà tra quattro settimane. In sostanza la Corte suprema ha fermato il processo ai due militari. Per l’Italia, che era già riuscita a sventare la possibilità di utilizzare il Sua Act (la legge anti-terrorismo che prevede anche la pena di morte), si tratta di una indubbia vittoria: il riconoscimento cioè da parte della magistratura indiana della tesi che la Nia può occuparsi solo di casi di terrorismo. L’Italia comunque punta a un’azione internazionale concertata e più ampia: ha detto chiaramente che non riconosce la giurisdizione indiana sul caso e che quindi rifiuterà il processo e non presenterà i due militari in tribunale. Giovedì il premier Matteo Renzi - che, ha assicurato l’inviato speciale del governo Staffan De Mistura, continua a sollevare il caso in tutti i suoi incontri internazionali - ha posto la questione sul tavolo anche nel colloquio con il presidente Usa, Barack Obama. Non nasconde la soddisfazione l’avvocato dei marò Mukul Rohatgi: "Siamo riusciti a far accogliere la nostra posizione - ha commentato la decisione della Corte Suprema indiana- e a bloccare la presentazione dei capi di accusa da parte della polizia antiterrorismo Nia". Più cauto l’inviato speciale del governo, Staffan De Mistura: "In questa vicenda abbiamo avuto troppi alti e bassi e non voglio ancora commentare la decisione che la Corte Suprema ha preso questa mattina: dobbiamo reagire con glacialità, ma spero con efficacia - sottolinea De Mistura ai microfoni di Sky TG24 - Aspetto di vedere i dettagli e poi farò commenti, stiamo ancora analizzando la situazione. La nostra linea è chiara: noi puntiamo esclusivamente sulla internazionalizzazione". India: Governo italiano contento a metà… l’unica strada concreta resta quella dell’arbitrato di Antonella Rampino La Stampa, 29 marzo 2014 Nel pasticciaccio brutto di New Delhi le schiarite preludono a temporali, e la pioggia a catinelle si avvicenda al sole, proprio come nell’indian summer. La mossa a sorpresa, qualche settimana fa, di presentare una "petition" alla Corte Suprema contestando il disconoscimento dell’ immunità funzionale, rifiutando la giurisdizione indiana e l’uso della polizia antiterrorismo Nia dal momento che proprio la stessa Corte aveva decretato come inapplicabile il Sua Act, ovvero la legge antiterrorismo, è stato ammesso all’esame. Ma la decisione ci sarà solo tra quattro settimane, in una trentesima udienza. Il governo italiano, che terrà nei prossimi giorni una riunione del "comitato marò" e ieri ha fatto rientrare a Roma un abbottonatissimo Staffan De Mistura, vorrebbe gioire ma non può: il ricorso non è stato ancora accolto, quelle argomentazioni sono al momento solo italiane. E proprio il toglier di mezzo la Nia, come tra Palazzo Chigi, Farnesina e Difesa non si nascondono, potrebbe far ripartire le indagini da zero. Magari ce ne sarebbe bisogno, visto che l’inchiesta indiana fa acqua da tutte le parti, ma non allungando i tempi. Il cuore della vicenda poi è proprio la giurisdizione che l’allora governo Monti, ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, magari subì, ma di certo non poté che accettare de facto, ottenendo garanzie solo sulla condizioni materiali di vita dei due fucilieri in attesa di giudizio, ed evitando loro il carcere indiano. E premurandosi di stipulare con Delhi un trattato in base al quale gli italiani condannati in quel paese possono scontare se condannati la pena in patria. La procedura di "internazionalizzazione" del caso, ovvero la sensibilizzazione delle strutture multilaterali intrapresa già dal governo Letta, ministro degli Esteri Emma Bonino, non ha dato sinora i risultati sperati. Il premier Renzi ne ha parlato anche nell’incontro con Barack Obama ma, se è scontato l’appoggio di un solido e influente alleato, non si può non ricordare che anche e perfino gli Stati Uniti d’America hanno i loro problemi con l’India, e non da poco, dopo aver espulso una diplomatica di Delhi che stava per essere condannata per vessazioni alla propria colf. L’unica e ultima strada percorribile resta quella dell’arbitrato internazionale. Il ministro Mogherini vi ha fatto riferimento, con cautela, in una recente intervista televisiva. La cautela si spiega ancora una volta con l’argomento dei tempi. Intanto, la procedura deve essere accettata dalla controparte, ovverosia dall’India che pure potrebbe vedere una via d’uscita dal labirinto in cui si è cacciata. Ma soprattutto la procedura prevede che per risolvere una controversia internazionale - e questa vede contrapposti due Stati - siano le stesse controparti a dover stabilire procedure, svolgimento e tempi dell’arbitrato. Una partita complessissima, dunque, e che rischia di avere tempi più lunghi perfino di una corte di giustizia indiana. Per questo il governo italiano ripete come un mantra: Girone e Latorre anzitutto tornino in Italia. Medio Oriente: Autorità nazionale palestinese; Israele si rimangia l’impegno su rilascio detenuti di Massimo Lomonaco Ansa, 29 marzo 2014 Israele non intende mantenere per ora l’impegno sulla liberazione della quarta tranche di detenuti palestinesi: a denunciarlo è l’Autorità nazionale palestinese (Anp) che accusa lo stato ebraico - da dove tuttavia non arrivano conferme ufficiali - di voler far saltare le trattative di pace promosse dagli Usa, ponendo nuove condizioni. È solo l’ultima crisi - in ordine di tempo - che si abbatte sui sempre più complicati colloqui tra le parti, avviati a luglio scorso dall’azione diplomatica del segretario di stato, John Kerry. Oggi - alla vigilia di quella che era stata indicata come la data del rilascio - il viceministro palestinese dei prigionieri Ziad Abu Ain ha postato sulla sua pagina Facebook l’anticipazione del no al rilascio, affermando di aver appreso la cosa a margine di un colloquio, giudicato "negativo", tra la leadership di Ramallah e l’inviato americano Martin Indyk. Un incontro nel quale quest’ultimo avrebbe trasmesso le intenzioni israeliane di rinviare la liberazione, accampando come ragione lo stallo delle trattative e le esitazioni del presidente dell’Anp Abu Mazen di accettare uno slittamento del limite temporale fissato a suo tempo per i negoziati, secondo quanto chiesto dal presidente Barack Obama e da Kerry per raggiungere un accordo di massima. Abu Mazen ha ribattuto che l’Anp considera il mancato rilascio una "grande violazione" degli impegni presi, accusando il governo Netanyahu di voler ricattare i palestinesi con nuove condizioni. Secondo i media, il ministero palestinese dei prigionieri ha inviato alle famiglie dei detenuti un messaggio per informarli del rinvio della scarcerazione dei loro congiunti, previsto sulla carta per domani sera. E già si annunciano manifestazioni di protesta di parenti e sostenitori sia davanti al carcere di Ofer, vicino a Ramallah, sia di fronte al palazzo presidenziale di Abu Mazen, la Muqata. Un clima di tensione che i mediatori Usa si affannano ora ad attenuare: da Indyk allo stesso Kerry che - hanno scritto i media - da Roma dove era con il presidente Obama avrebbe più volte contattato Abu Mazen, incontrato già a lungo mercoledì scorso ad Amman in Giordania. Il segretario di stato avrebbe anche sentito per telefono il premier israeliano Benyamin Netanyahu nel tentativo di disincagliare la vicenda. Al centro della questione c’è la necessità di allungare il negoziato in modo nella speranza di arrivare a quell’accordo complessivo che oggi appare remoto: accordo che dovrebbe comprendere tutti i nodi, dal congelamento degli insediamenti ebraici, a Gerusalemme est, ai problemi della sicurezza posti da Israele. "L’accordo - ha ricordato Abu Ain - era che noi non saremmo ricorsi alle organizzazioni internazionali in cambio del rilascio di tutti i 104 prigionieri" in carcere da prima degli Accordi di Oslo. "Non pagheremo due volte lo stesso prezzo - ha aggiunto Abu Ain - Abbiamo già pagato un costo di otto mesi di trattative nei quali si sono verificati l’espansione delle colonie, uccisioni, arresti e assalti". Israele ha tuttavia obiettato nei giorni scorsi che il rilascio era un "gesto di buona volontà" come viatico alle trattative, ma che soprattutto le trattative sono ora ad un punto morto: il negoziatore capo israeliano Tizpi Livni ha sostenuto di recente che è Abu Mazen ad avere in mano "le chiavi" delle celle dei detenuti (condannati a suo tempo in Israele per "terrorismo"). Detenuti al rilascio dei quali i ministri nazionalisti del governo Netanyahu si oppongono con tutte le forze. Germania: respinta richiesta scarcerazione detenuto 77enne, in carcere da 52 anni Ansa, 29 marzo 2014 Ha già trascorso 52 anni in prigione, e ci dovrà restare probabilmente per il resto della sua vita. Le autorità giudiziarie tedesche hanno respinto la richiesta di scarcerazione presentata da Hans-Georg Neumann dopo oltre 50 anni di carcere. La corte d’appello di Karlsruhe continua a ritenere il 77enne Neumann pericoloso per la società. Nonostante la sua età avanzata, hanno considerato i giudici dopo aver valutato una perizia psichiatrica, l’uomo è ”vitale e agile” e in caso di un rilascio condizionato ”ci si può attendere” che Neumann ”commetta gravi delitti violenti o crimini ugualmente gravi”. Per i giudici ”la problematica struttura personale del condannato” resta inalterata e inoltre fuori dal carcere non ha alcun ”contatto sociale stabilizzante”. Neumann era stato condannato nel 1963 per aver ucciso una coppia di amanti a Berlino l’anno precedente. Libia: diffuso un video di Saadi Gheddafi, detenuto a Tripoli, che chiede "perdono" ai libici Tm News, 29 marzo 2014 Le autorità libiche hanno diffuso un video in cui Saadi Gheddafi, detenuto a Tripoli, offre le proprie "scuse" al popolo libico. Accusato di "crimini atti a mantenere il padre al potere", Saadi è stato estradato in Libia dal Niger il 6 marzo scorso. "Chiedo perdono al popolo e al governo libici", ha detto il figlio dell’ex rais nel filmato trasmesso nella serata di ieri dalla televisione di Stato, ammettendo la propria responsabilità in "azioni di destabilizzazione del paese". "Voglio rassicurare la mia famiglia... sto bene, sono in buone condizioni di salute e vengo trattato molto bene", ha aggiunto Saadi, vestito con l’uniforme blu dei detenuti. Con la diffusione del video, le autorità hanno voluto smentire le voci su un presunto peggioramento delle condizioni di salute di Saadi Gheddafi, dovuto ai maltrattamenti subiti nella prigione Al-Hadba di Tripoli. Saadi Gheddafi ha anche precisato che il filmato è stato girato ieri sera. Tunisia: condannato a 14 mesi di carcere leader Lega protezione rivoluzione Imed Deghij Nova, 29 marzo 2014 Il tribunale di primo grado di Tunisi ha condannato il leader della Lega per la protezione della rivoluzione del Kram, Imed Deghij, a 14 mesi di carcere per ingiurie e incitamento all’odio. Imed Deghij ha violato il codice sulle telecomunicazioni sul suo profilo Facebook. Otto dei suoi avvocati hanno deciso di abbandonare l’udienza, sostenendo che il processo è stato condizionato da scopi politici. Il resto della squadra legale di Deghij è rimasta in aula consentendo al processo di proseguire.