Giustizia: Orlando a Strasburgo "nessun baratto tra condizioni disumane e risarcimenti" Ansa, 25 marzo 2014 "Non c’è nessuna volontà del governo italiano di risolvere un problema complesso come quello del sovraffollamento carcerario con risarcimenti pecuniari". Lo ha affermato il ministro della giustizia Andrea Orlando da Strasburgo dove sta per incontrare i vertici dell’istituzione. "Non intendiamo proporre baratti tra condizioni disumane di detenzione e denaro. Non c’è per questo nessun bisogno che si auspichi che la Corte europea dei diritti umani respinga questa strategia poiché questa strategia non c’è" ha aggiunto. Giustizia: il ministro Orlando a Strasburgo per fermare la maxi-multa sulle carceri di Claudia Fusani L’Unità, 25 marzo 2014 La missione del Guardasigilli per evitare che l’Italia a fine maggio paghi cento milioni. Già tremila i ricorsi dei detenuti alla Corte dei diritti dell’uomo, ma il rischio è che aumentino. Sindacati della polizia penitenziaria sul piede di guerra: "Il ministro discuta prima con noi". Rischiamo di buttare dalla finestra tra i 50 e i cento milioni di euro. In una data molto vicina: il 28 maggio. Se il premier Renzi non si appassiona al tema sovraffollamento carcerario, politicamente non seducente, il ministro della Giustizia Andrea Orlando deve inventare, e in fretta, il modo per evitare di buttare quei soldi. Che sono la stima di quello che lo Stato italiano dovrà risarcire a circa tremila detenuti che hanno già presentato ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo per le condizioni disumane delle carceri dove sono stati ristretti. Missione carcere è quindi il titolo obbligato della due giorni europea del Guardasigilli Orlando che stamani incontrerà il presidente della Corte, il lussemburghese Dean Spillman e il vicepresidente Guido Raimondi per farli desistere dalla pretesa di essere risarciti per le condizioni disumane dei penitenziari italiani. I tre ministri Guardasigilli passati negli ultimi due anni e mezzo da via Arenula hanno dovuto mettere al primo punto della loro agenda la questione carceri, sovraffollamento, mancanza di beni primari come acqua e luce, condizioni più simili alla tortura che alla rieducazione pretesa dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Se la professoressa Severino e il prefetto Cancellieri hanno certamente avviato il lavoro più grosso e anche impegnativo (nuove leggi per misure alternative al carcere e mezzi per creare nuovi posti nelle celle), l’ultimo miglio, che è quello che fa la differenza tra arrivare a meta oppure fallire, tocca al più giovane Andrea Orlando. La delegazione italiana è a Strasburgo da ieri. Gli incontri sono previsti oggi. "La cosa certa - riferiscono dallo staff del ministro - è che la Cedu ci sta chiedendo un rimedio per evitare di essere sommersa dai ricorsi dei detenuti italiani che ritengono di essere stati ristretti in deroga a tutti i principi minimi di tutela e rispetto dell’individuo". Sono tremila i ricorsi già pendenti. Quindicimila i detenuti in sovrannumero visto che la capienza attuale dei nostri penitenziari conta 47 mila posti mentre sono 65.726 i detenuti. Al netto dei 4.500 nuovi posti che andranno a regime entro maggio, restano altri quindicimila potenziali ricorrenti (che possono diventare 25 mila se si includono i reclusi in più degli anni passati). Sette di loro hanno già vinto la causa: è la sentenza Torreggiani del gennaio 2013 che ha condannato l’Italia perché ha riconosciuto che sette persone hanno vissuto in celle che hanno violato le condizioni minime di dignità umana: tre metri quadrati a testa, finestre da dove non passa la luce, accesso alle docce con acqua calda quasi nullo, ore d’aria solo due nell’arco della giornata invece che otto. Il punto oggi - e sta soprattutto qui la missione del Guardasigilli - è evitare che Strasburgo sia sommersa di ricorsi. Per fare questo occorre - si spiega dallo staff di Orlando - che la Cedu giudichi irricevibili i ricorsi e decida di rinviarli in Italia perché il governo ha una soluzione pronta per risarcire il danno subìto dai ricorrenti". Fin qui le certezze. D’ora in poi le ipotesi. Cioè "i rimedi possibili" di cui discuterà oggi Orlando con i vertici della Cedu. Al netto di tutte le migliorie a cui sta lavorando il governo - aumento dei posti letto, otto ore d’aria garantite, leggi per cui andare e restare in carcere sia in attesa di giudizio che con sentenze definitive sarà più difficile - sul tavolo sopravvivono due possibilità. La prima riguarda i detenuti ricorrenti ancora in carcere. In questo caso l’ipotesi allo studio riguarda il fatto di concedere loro uno sconto di pena pari al 20 per cento del periodo di pena ancora da scontare. Sono esclusi da questo "rimedio" i detenuti per reati gravi e di mafia o terrorismo. La seconda ipotesi, il secondo rimedio, riguarda invece i detenuti già fuori dal carcere. In questo caso potrebbe essere presa in esame l’eventualità di un indennizzo pari a 10-20 euro. È una missione quasi impossibile quella del Guardasigilli. Che dovrà puntare anche a riscuotere in sede europea una nuova fiducia e una migliore immagine per tutta la voce giustizia. Dimostrare efficienza e capacità di cambiare. Intanto in Italia i sindacati della polizia penitenziaria sono già sul piede di guerra. Aspettano il ritorno del ministro. "Qualsiasi riforma" dicono "deve essere prima discussa con noi". Giustizia: il piano per evitare la supermulta, sconti di pena e rimborsi ai detenuti di Liana Milella La Repubblica, 25 marzo 2014 Allarme del guardasigilli Andrea Orlando: l’Italia rischia multe milionarie a causa delle carceri sovraffollate che violano la dignità del detenuto. Multe dai 50 ai 100 milioni di euro all’anno. Multe che dalla Corte dei diritti umani potrebbero colpire l’Italia durante il semestre di presidenza europea. Il ministro della Giustizia arriva a Strasburgo e si prepara a raccontare come il Paese "possa vincere la sfida dei ricorsi" senza minimizzare l’estrema delicatezza del momento" e i rischi, soprattutto economici, che stiamo correndo "anche per la cattiva informazione fatta finora sui progressi compiuti". Sintetizzabili nei dati aggiornati a ieri. Dalla famosa sentenza Torreggiani, che condanna l’Italia ai rimborsi nel dicembre 2009, i detenuti sono calati di seimila unità. Erano 66.028, sono 60.419. Diminuiti da 14mila a 10.864 quelli in attesa di giudizio. Scesi da 29.809 a 21.942 quelli in custodia cautelare. Aumentati di pari passo i posti: 44.073 a fine 2009, 48.416 adesso. E 4.762 sono in ristrutturazione. Progressi che Orlando porta davanti alla Corte, a partire dal nuovo piano carceri che prevede un rimborso tra i 10 e i 20 euro al giorno per chi ha subito una detenzione con uno spazio vitale inferiore ai 3mq e sconti non superiori al 20 per cento della pena per chi è in cella. Ma ieri sera, nella residenza italiana a Strasburgo, prima della cena con l’ambasciatore Manuel Jacoangeli e i vertici italiani alla Corte e al Consiglio d’Europa, Orlando esterna la sua preoccupazione sulle multe milionarie. "L’Italia non si può permettere di subire una così onerosa condanna alla vigilia del semestre di presidenza e per giunta per violazione dei diritti umani". Il Guardasigilli non nasconde che i ricorsi dei detenuti - oggi 3mila, di cui almeno 2mila ammissibili - potrebbero aumentare per un effetto imitativo. "Potremmo ritrovarci nella stessa situazione della legge Pinto (che rimborsa i processi lunghi, ndr) e subire conseguenze politiche, economiche, di immagine". Quello che Orlando non dice si può cogliere da indiscrezioni alla Corte. Dove l’Italia, per la Pinto e per i 250mila avvocati che esercitano, è guardata con sospetto. Tanti legali può voler dire "un business dei ricorsi". Quanto alla Pinto, la storia è nota. Strasburgo, subissata di ricorsi, suggerì una legge per risarcire le vittime. Ma la Pinto non ha funzionato e Strasburgo si è ritrovata addosso i risorsi contro la legge. Il timore è che succeda la stessa cosa coi detenuti. La Corte Ue vuole garanzie certe, per questo Orlando punta sui numeri, sull’inversione di tendenza, sulle leggi già approvate, ma soprattutto cercherà di garantire "che gli interventi non avranno carattere temporaneo ed episodico, ma saranno definitivi, strutturali e non una tantum". Come gli accordi già in corso con le Regioni per trasferire nelle comunità i detenuti per droga e le nuove intese internazionali per rispedire in patria gli stranieri cui resta un residuo pena di due anni (per questo Orlando vola in Marocco la prossima settimana). Giustizia: l’Italia rischia subito condanne per 100 milioni… e migliaia di altri ricorsi di Silvia Barocci Il Messaggero, 25 marzo 2014 È la consapevolezza di una missione difficile e delicata ad accompagnare Andrea Orlando a Strasburgo. Il ministro della Giustizia lo dice apertamente, appena atterrato in tarda serata e in vista degli incontri di stamane: se la Corte dei diritti dell’uomo (Cedu) dovesse dar seguito ai ricorsi italiani per trattamento inumano e degradante nelle nostre carceri, la spesa annua per il nostro Paese "potrebbe oscillare tra i 50 e i 100 milioni di euro". Un dato allarmante, per i risvolti politici ed economici. Che rischia di aprire la strada ad una escalation di reclami, così come già accaduto per la legge Pinto che, varata dall’Italia per garantire l’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, alla fine si è rivelata origine di una valanga di ricorsi a Strasburgo. Il governo italiano ha tempo fino al 28 maggio prossimo per convincere la Cedu di aver cambiato rotta. Sino a quel momento i tremila ricorsi pendenti restano congelati. "Siamo consapevoli della difficoltà di questo passaggio. Tutto ciò - ammette Orlando - avviene alla vigilia del turno italiano di presidenza Ue". Si tratta, dunque, di "rimontare da una situazione difficile". Ma anche di ovviare a "qualche difficoltà di comunicazione con Strasburgo", che recentemente è tornata a "bacchettare" l’Italia. Facendolo, però, sulla base di dati superati, che non hanno tenuto conto dei miglioramenti compiuti grazie ai provvedimenti "svuota-carceri" dei precedenti governi Monti e Letta. Con sé Orlando ha portato un dossier arricchito di grafici e proiezioni. Ma anche - sottolinea - "un pacchetto di proposte e di interventi che vogliono essere strutturali, come chiede Strasburgo, e per questo capaci di dare risultati costanti". I dati Il primo paletto che Orlando ha intenzione di fissare oggi, incontrando il segretario generale del Consiglio d’Europa Jagland e, a seguire, il presidente della Corte di Strasburgo Spielmann, riguarderà il numero dei detenuti. Sono seimila in meno da quando, l’otto gennaio 2013, la Cedu ha condannato l’Italia con la "sentenza pilota Torreggiani": allora erano 66.028, oggi sono 60.419. Contemporaneamente, la capienza è aumentata di oltre 4mila posti. Buoni i risultati anche sul fronte delle misure alternative alla detenzione (a fine 2009 erano appena 12.455, ora 29.223), e dei detenuti in custodia cautelare, scesi di 8mila unità. Non solo: ci sono provvedimenti di recente approvazione, come ad esempio il secondo decreto Cancellieri, che avranno effetti "nel medio periodo". È il caso della norma che prevede l’espulsione degli stranieri quale alternativa agli ultimi due anni di pena in Italia, e anche degli accordi in corso con le Regioni per trasferire in comunità i detenuti tossicodipendenti. Per non parlare, infine, della recente sentenza della Corte Costituzionale sulle droghe leggere, ora tornate ad essere punite più lievemente. Convinceremo l’Europa? Sicuramente c’è altra strada da fare. Orlando ne è perfettamente consapevole. Ecco spiegato il perché intende sondare cosa ne pensino a Strasburgo dell’ipotesi italiana (per decreto o per disegno di legge) di risarcimenti economici o sconti di pena residua per coloro che sono stati o sono detenuti in spazi inferiori ai tre metri quadrati a testa. Un modo per rassicurare le autorità Ue che, consapevoli dell’elevato numero di avvocati italiani lesti nel presentare ricorso, temono di vedersi sommerse da migliaia di reclami come è stato per la Pinto. Giustizia: 7mila € per un anno, misure allo studio per indennizzare detenzioni inumane di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 25 marzo 2014 Una "legge Pinto" per le carceri. Un risarcimento - in termini economici o di riduzione di pena - per quei detenuti costretti a vivere in una cella dagli spazi insufficienti secondo gli standard europei. È questo il rimedio compensativo allo studio del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che potrebbe essere illustrato al Consiglio d’Europa per evitare di incorrere nella scure delle migliaia di condanne oramai prossime della Corte Europea sui Diritti Umani. Il provvedimento prevede un risarcimento in denaro per quei detenuti che sono stati costretti a soggiornare in celle anguste e affollate. La quantificazione dovrebbe essere affidata al giudice di sorveglianza e non dovrebbe superare i venti euro per ogni giorno di cattivo trattamento. Un anno di carcerazione inumana varrebbe più o meno 7 mila euro. Nel caso di persone ancora in carcere il risarcimento non è in denaro ma in giorni di pena scontati, ovvero un giorno di pena in meno per ogni cinque giorni di trattamento degradante. Ieri in una nota il dicastero ha spiegato che "tali anticipazioni riportano dettagli e ipotesi su sconti di pena ed eventuali risarcimenti che non saranno oggetto della proposta che sarà presentata, poiché aspetti ancora in fase di studio e che dovranno essere ulteriormente approfonditi anche alla luce dei colloqui di Strasburgo". Sta di fatto tuttavia che al ministero ci stanno pensando. Riepiloghiamo i fatti. L’8 gennaio del 2013 la Corte di Strasburgo condanna l’Italia nel caso Torreggiani. Emana una sentenza pilota, visto che pendono presso lo stesso Tribunale moltissimi altri ricorsi aventi contenuto analogo. La sentenza è presa all’unanimità. Si esprime per la condanna anche la giudice lituana che nel precedente caso Suleimanovic del luglio del 2009 aveva votato contro la condanna dell’Italia. I fatti erano analoghi. Nota però la giudice baltica che nei tre anni e mezzo trascorsi l’Italia è rimasta inerte mentre le condizioni generali di vita nei penitenziari sono addirittura peggiorate. L’Italia, per prendere tempo, fa ricorso. Il 27 maggio del 2013 la Grande Camera della Corte conferma la condanna. L’Italia entro fine maggio 2014 dovrà in sequenza: assicurare un trattamento umano a chi è detenuto; ridurre i tassi di sovraffollamento; garantire i diritti di chi è detenuto; assicurare un rimedio a coloro i quali sono stati costretti a vivere in celle affollate oltre la misura tollerabile. Giustizia: carceri, in Europa il ministro Orlando sta ripetendo gli errori dei predecessori di Davide Giacalone Libero, 25 marzo 2014 Un ministro italiano che è andato a fare richieste precise in una sede europea. Auspico siano rigettate. Il ministro è quello della giustizia, Andrea Orlando. Il tema è quello delle carceri sovraffollate. La sede non è l’Unione europea, ma il Consiglio d’Europa, per la precisione la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). Ci hanno già condannati. Spero confermino la condanna. Smettiamola di prenderci in giro, evitiamo di provare a prendere in giro gli altri, finiamola di fare gli incivili e affrontiamo il problema vero, che è quello della malagiustizia. Le carceri sono "solo" una conseguenza. Nel gennaio del 2013, giustamente, la Cedu condannò l’Italia a risarcire sette detenuti, che si erano trovati ad avere a disposizione meno di tre metri quadrati a testa. Condizioni considerate illegali negli allevamenti di bestiame, figuriamoci nel trattamento di umani. Siamo arrivati al punto che un giudice inglese rifiuta un’estradizione in Italia perché il detenuto andrebbe incontro a trattamenti disumani. La stessa Cedu, sapendo che non si trattava di casi isolati, ci diede tempo fino al prossimo 28 maggio, per rimediare. I rimedi fin qui approntati, ripetutamente denominati "svuota carceri", adottati dai governi Monti e Letta, sono inaccettabili e tutti incentrati sugli sconti di pena. Il piano di Orlando è in coerenza con questa vergogna, sicché propone: a. le cause oggi pendenti a Strasburgo siano riassorbite in Italia; b. per chi è stato detenuto e non lo è più ci sia un risarcimento che va dai 10 ai 20 euro per ogni giorno scontato in quelle condizioni; c. per chi è ancora detenuto si faccia un ulteriore sconto, pari al 20% della pena residua. Tre proposte, tre errori. Il trucco di riportare le cause di Strasburgo in Italia lo abbiamo già sperimentato nel 2001, quando fu approvata la legge Pinto. Con quella erano le Corti d’appello che avrebbero dovuto decidere per la giustizia negata, dovuta all’eccessiva durata dei procedimenti. Anche allora scrissi contro, prevedendo che il trucco avrebbe provocato un ulteriore allungamento dei tempi, oltre che una beffa per i danneggiati. È andata così. Sono favorevole ai ricorsi a Strasburgo, che provai a facilitare pubblicando un manuale su come potevano e dovevano essere fatti, così come personalmente usai la legge Pinto, vincendo la causa e ottenendo risarcimento per le ingiustizie subìte. Ma lo scopo dei ricorsi europei doveva essere quello di spingere a riformare la moribonda giustizia italiana, mentre la legge Pinto voleva solo riportare il coma nei confini nazionali. Orlando, ora, propone la stessa cosa. Stesso trucco, stesso errore. Secondo: le cause pendenti a Strasburgo (per questa specifica ragione) sono 3.000, il che comporta una spesa che va da 30 a 60.000 euro al giorno, quasi 22 milioni in un anno. Senza contare che portando la giurisdizione in Italia quelle cause aumentano. Soldi che non pagano i responsabili, ma i cittadini. Un chirurgo che ti macella, per colpa o dolo, paga il risarcimento. In diversi casi sono stati allontanati dalle sale operatorie. Per i detenuti, invece, pagano i cittadini e i responsabili restano al loro posto. Terzo: se si accede allo sconto di pena, già recentemente diminuita con decreto legge, non solo si fa marameo alla certezza del diritto e un gran regalo ai delinquenti, ma si commette la più incredibile delle ingiustizie, perché, come capitò con l’indulto ne beneficiano i condannati, quindi i colpevoli, e ne restano esclusi gli innocenti in custodia cautelare o in attesa di giudizio. Una fragorosa pernacchia al più elementare senso del diritto. Il problema delle carceri esiste (sempre meritoria la lunga battaglia radicale), ma non si risolve in questo modo. Prima di tutto si affronta il tema del 40% dei detenuti, che non sono condannati e non scontano la pena. E già con quelli sparisce il sovraffollamento. Poi si rivede l’applicazione della custodia cautelare, che nella metà dei casi colpisce cittadini che non saranno condannati. Quindi si introduce la (vera) responsabilità dei magistrati. E, a seguire, si riforma la giustizia in modo che i suoi tempi non siano il trionfo dell’ingiustizia. A quel punto, se si deve spurgare il bubbone, si faccia anche l’amnistia, che è provvedimento ingiusto, ma utile. Il legame fra riforma e clemenza deve essere strettissimo, altrimenti si generano mostri che non risolvono il problema, ma si limitano a rinviarlo per poi ritrovarselo sempre più grosso e sempre meno risolvibile. Per queste ragioni, spero che le richieste del governo italiano siano respinte. Con sdegno. Giustizia: la "paghetta" ai carcerati torturati? roba da matti… meglio l’amnistia di Vittorio Feltri Il Giornale, 25 marzo 2014 Ieri c’era un articolo di Liana Milella su Repubblica in cui l’autrice discettava del cosiddetto piano carceri studiato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, allo scopo di prevenire - scongiurare - le punizioni europee previste per chi, come l’Italia, tratta i detenuti in modo disumano, contrario alle disposizioni comunitarie nonché a criteri umanitari. In che senso? Noi italioti, per essere chiari, siamo talmente stupidi da impostare la nostra giustizia sulla galera. Commetti un reato, piccolo o grande? Affari tuoi. Ti meriti qualche annetto o mesetto (se ti va di lusso) in cella. Dipende dalla generosità del dottor giudice che, secondo propria discrezionalità, applica le leggi cretine dello Stato, le più cretine del mondo non soltanto occidentale. Di cretineria in cretineria, siamo arrivati a infoltire di gente le prigioni, sovraffollandole al punto tale da renderle simili a lager: detenuti stipati uno sopra l’altro in spazi ridotti, quali sardine in scatola. La Ue non è d’accordo con questo sistema, così come chiunque abbia un minimo di sale in zucca. Il galeotto non è uno scarafaggio (ammesso e non concesso che gli scarafaggi non vadano rispettati quali esseri viventi) e merita misericordia. Non è lecito maltrattarlo. O l’Italia si rassegna a rendere le carceri vivibili o paga dazio in misura considerevole. Sappiamo che l’Europa è una schifezza e ci fa campare da cani, tuttavia sappiamo altresì che noi stessi siamo crudeli nei confronti di chi finisce dentro. Dobbiamo quindi ragionare e dimostrare che siamo capaci di essere civili. O ci diamo delle strutture idonee per castigare i reprobi, oppure - in caso contrario - i reprobi siamo noi e meritiamo di essere adeguatamente redarguiti. E allora? Onde evitare sanzioni gravi, il governo italiano, nella persona del ministro Orlando (Pd), ha studiato il modo per farla franca. Ma ha studiato male, poveraccio. Udite che cosa ha escogitato. Per alleggerire le prigioni, ha deciso di concedere uno sconto di pena del 20 per cento a coloro i quali sopportano una situazione assurda, essendo ristretti in uno spazio appena sufficiente forse per un topo e non di sicuro per una persona. Non solo: il ministro è talmente "buono" che immagina di versare 10 o 20 euro al giorno, a titolo di indennizzo, ai detenuti "torturati". Con questi provvedimenti ridicoli ovvero inadeguati, Orlando suppone di cavarsela, ottenendo il plauso dell’Europa. Roba da matti. Pur di non accordare l’amnistia a chi è stato privato della libertà, egli è pronto a ricorrere a soluzioni che tali non sono. Ma si può essere più stolti di così? Tu mi costringi a sopravvivere in 3 metri quadrati, ovviamente insieme ad altri, la cui bella personalità vi lascio immaginare, e, in cambio dell’afflizione che mi infliggi, mi dai 10 o 20 euro al dì? Ma che razza di ragionamento presiede a questa decisione cervellotica e meschina? Non si rende conto il ministro che qui siamo di fronte a persone sottoposte a un regime carcerario che fa ribrezzo e va modificato radicalmente? L’Italia, in materia di reclusione, è a livello di Zanzibar e necessita di riforme strutturali. Cambiano i governi, ma non c’è nessuno che abbia il coraggio di ripartire da zero, restituendo al sistema un minimo di dignità? Il discorso è semplice: o più galere per tutti - che costano - o meno galera per chi sbaglia e pene alternative. Lasciamo perdere l’indulto che cancella le condanne, ma non il reato, e introduciamo l’amnistia, che azzera tutto e consente di ricominciare da capo. Non è una buona idea, lo so. Ma chi ne ha una migliore? Poiché nessuno aprirà bocca, ditemi quale altra alternativa si propone? Pagare le multe alla Ue e non cambiare niente? L’inciviltà non è la nostra aspirazione. Giustizia: mal che vada fatevi arrestare di Daniela Ranieri Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2014 La soluzione alle carceri che scoppiano? Un obolo a chi viene maltrattato Sembra un paradosso, ma nella terra del nonsense ogni sparata è un’idea. Stanchi di scegliere tra la Caritas e il Radisson? Stufi di valutare se scappare in Svezia o lavare piatti al ristorante cinese? Da oggi, in epoca post- ideologica, c’è una terza via: farsi arrestare e poi chiedere i danni. L’avevamo detto per gusto del paradosso, ma nella terra del nonsense ogni sparata è un’idea che chi sa coglierla trasforma in oro. Incentivare a delinquere: strano che non ci avessero ancora pensato. O meglio: risarcire i detenuti, trattati peggio delle bestie, del danno che si fa loro nel tentativo di dissuaderli dal lacerare ancora il patto sociale. Ciò supera ogni boutade , la riveste di genio, la trasforma in decreto con tanto di timbro. I maligni già insinuano che ogni volta che si sta per mandare in galera l’ex Cav. esce fuori una legge che riguarda i detenuti: e l’indulto, e l’amnistia, e l’abbattimento del 41-bis, e la ripitturazione delle sbarre in rosso-nero, e l’istituzione di spettacoli di burlesque nella sala hobby. Mo’ pure la mancetta ai criminali. Certo, per avere diritto al risarcimento bisogna fare domanda, mica è erga omnes. Si chiama "piano rimediale" e si applica solo a quei detenuti che lamentano un danno per aver vissuto al di sotto della soglia umana di tollerabilità. Va presentato entro sei mesi dal presunto torto subito, quando la persona è già fuori. E mica è detto che lo faccia: magari si è trovata bene, che ne sai. Se si lamenta durante il soggiorno, e non ha il numero della Cancellieri, potrà avere diritto a uno sconto di pena. Ma se resiste, vedrà piovere soldini. Come in un reality, come all’Isola dei Famosi. D’altra parte il sovraffollamento è un concetto relativo, essendo quel fenomeno strano che si verifica quando metti 3 persone in 5 metri quadrati e quelle poi non vanno d’accordo. Scemo tu, che pensavi fosse evitabile solo in due modi: a) mettere dentro meno persone; b) costruire nuove carceri. Ma così ragiona la vecchia politica, fissata con le riforme strutturali, le liturgie legislative, e col vizietto del futuro. I politici-nativi-digitali intossicati dal presente lanciano un’app dell’iPhone che dice: se hai leso la dignità umana di una persona non star tanto a pensare come evitare di farlo ancora. Non star lì a crogiolarti nella colpa. Non approntare misure serie per evitare di calpestare ancora i diritti umani. In fondo, può capitare. Lo sa bene la Corte di Strasburgo, che ogni anno riceve sempre più ricorsi da italiani che lamentano la scarsa accoglienza delle carceri. Ecco allora una bella sanatoria anche per lo Stato, una volta tanto. Messa così, si potrebbe anche reintrodurre la tortura: oh, che vuoi, ti paghiamo o no? E allora. Mancano solo le recensioni su Trip Advisor: si potrà vedere in quale città conviene compiere un reato, per aggiudicarsi il carcere che assicuri un sovraffollamento più inequivocabile in sede di giudizio. Che poi non ti vengano a dire "eh, ma c’è chi sta peggio". Ogni utente potrà segnalare quelle che usano foto ingannevoli di stanze linde e spaziose, evitate da tutti perché non fruttano una lira, sulle cui reali condizioni infami lo Stato non debba poi rendere conto. Si vede che il ministro della Giustizia Orlando proviene dall’Ambiente: la questione morale delle carceri diventa una cosa di ecologia, di contenimento dei danni dopo un incidente nucleare, di gestione rifiuti. Non è un piano svuota-carceri, ci tiene a precisare. E lo crediamo bene. Lo sarebbe stato se ai detenuti si fosse chiesto di pagare, una volta fuori dalla galera. Se si fosse imposta una tassa ai più ricchi, per esempio, sempre ammesso che si mettano ancora ricchi in carcere. Nel paese dei disoccupati, la misura pare piuttosto parte del Jobs Act: di là 80 euro ai dipendenti; di qua, agli ex galeotti, dai 30 ai 60 euro in più al mese che, comunque, buttali via. È quanto fruttano venti ore di lezione di Antropologia culturale in una facoltà di Roma con un assegno di ricerca, difficilissimo da ottenere se ti sei appena fatto sei anni per rapina. Chissà come verrà regolarizzata la riscossione dell’indennizzo: l’ex detenuto dovrà fare un 730? Lo stipendio sarà tassato? O sono soldi puliti? Ché sennò conviene lavorare. Giustizia: svuotare le carceri rimpatriando gli stranieri? ecco perché non è possibile di Giorgia Gay Redattore Sociale, 25 marzo 2014 Rimandare nel proprio paese i 21 mila detenuti immigrati è spesso indicata come la soluzione al sovraffollamento dei penitenziari italiani. Ma ci sono almeno 11 motivi per cui è una strada impraticabile. Nelle carceri italiane il 34,4 per cento circa dei detenuti è di origine straniera. Si tratta di circa 21 mila persone che vengono sempre più spesso, strumentalmente, additate come principali responsabili del sovraffollamento. E si fa strada la convinzione che il trasferimento o il rimpatrio nel paese di origine siano la soluzione. Non a caso la legge 10/2014 che il 21 febbraio ha convertito in legge il decreto 146/2013, il cosiddetto "svuota carceri", ha aumentato i casi in cui si applica l’espulsione come alternativa in caso di pena, anche residua, non superiore ai due anni. Ma ci sono ragioni giuridiche, e anche etiche, per cui queste strade non sono percorribili. Trattati internazionali. In caso sia di espulsione sia di trasferimento da carcere a carcere è necessario il consenso, attraverso trattato, dello stato che dovrebbe ricevere la persona. La Convenzione di Strasburgo del 1983 "sul trasferimento delle persone condannate" di fatto è stata sottoscritta solo da alcuni paesi, tra cui Albania, Bulgaria, Ungheria Macedonia, Moldova, Romania, Serbia. Perché riprendermelo? In Albania recentemente è stata fatta un’amnistia per risolvere il problema, diffuso anche lì, del sovraffollamento. Perché dunque lo stesso paese dovrebbe accettare trasferimenti di connazionali detenuti in Italia e ritrovarsi le carceri piene? In caso di espulsione, invece, la persona è di fatto libera nel proprio paese, che "il più delle volte non ha interesse a riprendersi persone che sono un costo economico e un rischio sociale" suggerisce Patrizio Gonnella di Antigone. Quale paese? Un problema non da poco è l’identificazione: molti detenuti sono senza documenti, per cui è difficile, se non impossibile, appurare con certezza qual è il paese di origine e quindi procedere all’espulsione. Burocrazia. Anche in presenza di accordi bilaterali, spesso si frappongono difficoltà burocratiche che impediscono o ritardano pesantemente le procedure. Un esempio è la convalida della condanna: esistono casi in cui il trasferimento, pur richiesto dall’interessato, non è stato possibile perché nel paese ricevente non c’era un corrispettivo della condanna italiana (più alta). Ostacoli analoghi interessano l’espulsione: la procedura può essere avviata solo allo scadere dei termini, per cui a 24 mesi dal fine pena. I tempi lunghi della procedura fanno sì che, di fatto, l’espulsione sia possibile solo in sostituzione di una minima parte della pena residua. A quel punto viene meno il vantaggio e il detenuto preferisce arrivare alla conclusione della pena in carcere. Pena definitiva. Qualsiasi procedura prevede che il detenuto abbia ricevuto la condanna definitiva. E questo dimezza il numero dei candidati al rimpatrio. Poco risparmio. Un aspetto da considerare è quello economico: si pensa che intervenendo pesantemente sul numero dei detenuti stranieri sia possibile abbattere i costi del sistema penitenziario. "Non è così - sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti -. Se anche uscissero ventimila stranieri, che sono il 30 per cento della popolazione ristretta, i costi del sistema penitenziario non si ridurrebbero del 30 per cento, perché le spese di gestione, quelle strutturali e per il personale non si possono tagliare in proporzione. Quanto ai costi vivi cosa resta? Il vitto? Costa 3,4 euro al giorno e viene trattenuto in busta paga per i detenuti che lavorano o fatto pagare a fine pena". Oltre alle ragioni giuridiche e pratiche ce ne sono altre, molte, di tipo etico. Mancato consenso del detenuto. "Le deportazioni in massa non si possono fare" precisa Favero, sottolineando che l’espulsione in sostituzione del carcere deve essere consensuale. "Vorremmo un trattamento analogo per i nostri connazionali reclusi in Germania? Queste leggi sono un obbrobrio". D’accordo anche Gonnella: "Riteniamo sia fondamentale preservare la possibilità di scelta dell’interessato. Questo non è stato previsto dal decreto svuota carceri". Progetto migratorio in Italia. L’immigrazione in Italia non nasce ieri. Molte persone vivono qui da anni, hanno avviato un progetto migratorio stabile, si sono ricongiunte con la famiglia o ne hanno creata una. Spesso nel paese di provenienza non hanno più legami. L’espulsione interromperebbe bruscamente un percorso di vita, separando famiglie, e di integrazione sociale. "Fastidio sociale" e marginalità. Una crudeltà non giustificata dalla pericolosità delle persone interessate: i dati dimostrano che gli stranieri si rendono colpevoli di reati minori, non legati ad atti violenti, dettati perlopiù dalla condizione di esclusione. "Più che di allarme sociale si può parlare di fastidio sociale" commenta Favero. "Conosciamo moltissimi casi di persone con pene anche lunghe, dovute all’accumulo di tanti piccoli reati, soprattutto piccoli furti oppure vendita di prodotti contraffatti - evidenzia Gonnella. Un ragazzo del Senegal, ad esempio, aveva accumulato 10 anni per 20 condanne di sei mesi l’una". Favero conferma e riferisce la storia di Jimmy, in passato recluso a Padova, con una condanna di 20 anni per accumulo di piccoli reati come furto di un asciugamano in albergo o in un supermercato. Vittime o carnefici? Capita spesso che una persona da vittima sia trasformata in colpevole. Un esempio è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: "Nel carcere minorile di Catania c’erano tre ragazzini egiziani accusati di essere scafisti - ricorda Gonnella -. Avevano 16/17 anni ed erano stati accusati perché durante il viaggio avevano dato l’acqua ai migranti". Discorso analogo per il favoreggiamento della prostituzione: "Chi è già vittima spesso si trova a dover subire anche questa accusa". Rischio di tortura. Prima di parlare di espulsione bisognerebbe considerare le condizioni delle carceri nei paesi interessati. "Che democrazia siamo se rimandiamo i detenuti nelle carceri del Marocco, dove le organizzazioni internazionali dicono che la tortura è sistematica?" si domanda Gonnella, che ricorda: "Abbiamo l’obbligo impostoci dalla carta dei diritti umani di Nizza a non estradare o espellere persone in paesi in cui c’è il rischio di tortura o le condizioni siano inumane e degradanti. Abbiamo già ricevuto una condannata per averlo fatto". Giustizia: Manconi (Pd); migliaia di detenuti liberi, intervenendo in materia di droghe Italpress, 25 marzo 2014 "Il 28 maggio si avvicina e il Governo presenta a Strasburgo nuove misure tese a sanare le violazioni dei diritti umani delle persone private della libertà. Tutto ciò che va nella direzione dell’ottemperanza alle richieste della Corte europea è benvenuto". Lo afferma il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani. "Certo non è facile prevedere che la nuova forma di indennizzo di condizioni di detenzione inumane e degradanti attraverso minime riduzioni di pena possa risolvere in tempi ormai necessariamente rapidissimi il problema del sovraffollamento - sottolinea Manconi. Restano quindi interamente valide le motivazioni di un provvedimento di clemenza che riconduca nella legalità e nel pieno rispetto dei diritti umani le condizioni di detenzione nelle nostre carceri. Ma c’è altro che si può comunque fare. La Corte costituzionale, seppure per motivi procedurali e di rapporti tra Governo e Parlamento, ci ha indicato una strada, abrogando la legge Fini-Giovanardi. Già ora, se si desse compiutamente attuazione a quella sentenza - verificando la possibilità che sia rideterminata la pena agli oltre 8.500 detenuti per fatti di droga, una parte considerevole dei quali, secondo il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, per aver ceduto quantitativi di hashish e marijuana - la popolazione potrebbe essere ulteriormente ridotta". "Se poi il Parlamento volesse discutere in tempi rapidi le proposte per la riformulazione del reato di detenzione di minimi quantitativi di droghe leggere - conclude l’esponente Pd - e per la depenalizzazione della coltivazione e della cessione a titolo gratuito per uso personale e immediato dei derivati della cannabis, l’Italia sarebbe più forte e credibile davanti alle istituzioni europee per i diritti umani", conclude il senatore. Giustizia: Binetti (Pd); la risocializzazione dei condannati è un obiettivo fondamentale 9Colonne, 25 marzo 2014 "Misure rieducative, alternative alla detenzione, lavoro di pubblica utilità e formazione del personale sono i primi punti per risolvere i problemi delle carceri. Il sovraffollamento è probabilmente l’ostacolo principale per il reinserimento dei detenuti e per la loro dignità. Ragionare su funzione della pena e rieducazione del condannato è una responsabilità per il bene del Paese. La Costituzione ribadisce che le pene devono essere somministrate con massima dignità per le persone. In quest’ottica è necessario mettere al centro il personale del carcere, fare formazione e accoglienza è il primo punto da affrontare per poter recuperare i detenuti e poter parlare di risocializzazione. Effettuare dei tagli in questo settore è quindi impensabile. Sono indispensabili investimenti per la riqualificazione totale delle carceri". Lo afferma Paola Binetti nel suo intervento durante la discussione generale per la Proposta di legge in merito alle deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Giustizia: Favi (Pd); per questione dei bambini in carcere è utile un confronto con tutti Italpress, 25 marzo 2014 "È certamente importante il primo passo che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto muovere nell’universo carcerario, a partire dalla sofferenza che portano dentro i bambini figli dei genitori detenuti, sottoscrivendo nei giorni scorsi un Protocollo con il Garante per l’infanzia e l’adolescenza e con l’Onlus Bambini senza sbarre". Lo afferma Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd. "Crediamo che nel percorso di promozione di spazi per la genitorialità e per la tutela dei minori che soffrono il trauma del distacco per la detenzione in carcere di uno o entrambi i genitori, vadano coinvolte tutte le migliori esperienze, che hanno consentito la realizzazione di essenziali presidi nelle carceri e che sono protagoniste, da decenni, delle più significative battaglie su questo tema - aggiunge. Auspichiamo che il Ministro Orlando allarghi il confronto con gli operatori del terzo settore su questo tema, integrando il protocollo di intesa del 21 marzo e coinvolgendo nel tavolo di consultazione da lui istituito le altre più significative Associazioni e Cooperative che operano nel campo dei diritti dei figli di genitori detenuti, che vanno tutte rafforzate e rese protagoniste di un’azione sinergica con le istituzioni". Giustizia: il ministro Orlando il 3 aprile incontrerà i Sindacati di Polizia penitenziaria Adnkronos, 25 marzo 2014 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha convocato giovedì 3 aprile alle 11 a via Arenula le rappresentanze delle organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria per affrontare le questioni più rilevanti attinenti al personale del Corpo. Lo riferisce una nota del ministero. Sappe: ascolti nostre proposte per rendere più umane e sicure le carceri "Leggiamo di nuovi piani carceri del Governo per superare l’emergenza penitenziaria, anche in relazione all’imminente scadenza del termine ultimo della sentenza europea che ha condannato l’Italia per le condizioni detentive. Ma in realtà noi non sappiamo nulla ufficialmente. E proprio per questo vorremmo confrontarci con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, che pure si era detto disponibile ad incontrarci, per dare il nostro contributo. Anche perché le ricadute di ogni provvedimento in carcere coinvolge necessariamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria e l’organizzazione del lavoro". La denuncia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Abbiamo ricordato nei giorni scorsi che nel 2013 si sono registrate nelle carceri italiane 6.902 atti di autolesionismo, 4.451 dei quali posti in essere da stranieri, e ben 1.067 tentati suicidi. 542 sono stati gli stranieri che hanno provato a togliersi la vita in cella e che sono stati salvati dalla Polizia Penitenziaria" prosegue il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Tensione alta, dunque. E proprio per questo vorremmo suggerire al Ministro Orlando alcuni interventi prioritari: come l’espulsione dall’Italia degli stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza" ma soprattutto "una riforma strutturale della pena detentiva che ponga al centro l’obbligatorietà del lavoro dei detenuti: questo vorrebbe dire più detenuti occupati e quindi meno tensione nelle celle. Ma anche fornire una concreta possibilità di recupero sociale proprio attraverso il lavoro. Oggi in carcere lavora solamente 1 detenuto su 4, per poche ore al giorno". E sul tema del lavoro in carcere, il Sappe ha organizzato un convegno ad Abano Terme il prossimo 8 aprile, nell’ambito delle iniziative del XXV Consiglio Nazionale del primo Sindacato dei Baschi Azzurri, dal tema molto significativo: "Misure alternative e lavoro sono sicurezza". Fns-Cisl: preoccupa ipotesi risarcimento a detenuti L’ipotesi di "sconti di pena e risarcimenti ai detenuti, procedure da attuare in vista della scadenza del termine ultimo della sentenza europea che ha condannato l’Italia per le condizioni detentive, ci lascia sorpresi e preoccupati". Lo dichiara in una nota il segretario Generale della Fns Cisl, Pompeo Mannone. "Avremmo preferito che il ministro prima di prendere decisioni in tale senso, avesse consultato il sindacato dal momento che a fare i conti con queste possibili procedure sarà anche e soprattutto il personale penitenziario che opera nelle carceri italiane - spiega Mannone. Al di là degli annunci, quel che è certo è che occorre mettere a fuoco le problematiche relative al malfunzionamento della giustizia e le storture dell’esecuzione della pena, questioni che, come Fns Cisl, denunciamo ormai da tempo e per le quali attendiamo provvedimenti risolutivi". "Ecco perché riteniamo sia necessario procedere con un percorso riformatore coerente ed equilibrato che risponda in modo strutturale alla crisi della giustizia e all’emergenza carceri. Ribadiamo, a tale riguardo, che oltre a ridurre i tempi dei processi utilizzando al meglio anche gli strumenti informatici - sottolinea la Fns-Cisl - c’è l’urgente necessità di un ampliamento delle misure alternative alla pena in carcere, un uso limitato della custodia cautelare, la depenalizzazione di alcuni reati e solo come extrema raitò l’uso straordinario di misure di clemenza generalizzate". "Bisogna accompagnare tali provvedimenti che devono avere un coerente disegno e fattibilità, con strumenti di valorizzazione del lavoro della polizia penitenziaria - conclude Mannone - che sopporta il peso delle inefficienze generali del sistema giustizia". Ugl: Orlando farà ricadere la spending review sulla Polizia penitenziaria "Mentre il ministro Orlando è impegnato a Strasburgo a presentare un piano che punta ad evitare ulteriori sanzioni della Corte di Giustizia per l’inadeguatezza del nostro sistema detentivo, tra l’altro non esaustivamente condiviso con le organizzazioni sindacali, la Polizia Penitenziaria assiste all’incoerente taglio dello stanziamento economico per la copertura delle ore di straordinario che ogni anno è chiamata ad effettuare per far fronte al sovraffollamento ed alla grave carenza organica". Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, spiegando che "alle soluzioni di compensazione economica per il disagio sofferto dai detenuti proposto dal ministro, si contrappone quindi un’azione a danno del personale che, costretto da contratto ad espletare come ordinario il servizio straordinario, non vede neppure riconosciuto il proprio incomprimibile diritto ad una retribuzione per il maggior lavoro svolto, con inevitabili ed ovvie ripercussioni in termini non solo di efficienza ma anche di stress psico-fisico da lavoro correlato". "Se si continua ad incidere anche sul fondo destinato a remunerare le ore di straordinario effettuate sistematicamente dal personale nonostante il contratto preveda solo 36 ore settimanali, tant’è che la turnazione dalle sei ore previste è passata come minimo ad otto ore giornaliere, la prospettiva di un’implosione del funzionamento del Corpo di Polizia Penitenziaria è il minimo che possiamo attenderci da qui a breve". "È sempre più urgente, quindi, - conclude Moretti - un incontro con il Guardasigilli, che in effetti avrebbe già dovuto essere convocato, perché siamo sempre più preoccupati dalla previsione di nuovi tagli che, come una spada di Damocle, la spending review farà ricadere sulla Polizia Penitenziaria". Giustizia: chiusura degli Opg? Il pesce d’aprile di Mario Barone* Il Manifesto, 25 marzo 2014 Ospedali psichiatrici giudiziari. Verso una seconda proroga della chiusura prevista per legge. "Orrore medioevale", vennero definiti gli Opg da Giorgio Napolitano; il modello del manicomio criminale - (teorizzato a fine 800 e codificato da Alfredo Rocco) sembrava avere trovato la sua fine con la legge 9/2012, la quale aveva solennemente posto un termine: oltre il 31 marzo 2013, il ricovero in Opg sarebbe stata eseguito all’interno di "strutture sanitarie". Ma in Italia un termine non è da prendere seriamente in considerazione, sicché alla prima proroga al 1 Aprile 2014, ne seguirà un’altra (la Conferenza Stato Regioni ha proposto un rinvio al 1 Aprile 2017): la meraviglia, tuttavia, nasce anche dall’ibrido sistema in essere che si articola lungo tre direttrici. I sei Opg, reperto di archeologia giuridica. Innanzitutto, i sei Opg italiani sono tutti ancora in funzione: al 28 febbraio 2014, erano 1.194 gli internati rinchiusi in istituti "definitivamente superati" secondo la legge. Un clima di dismissione potrebbe essere favorevole alla violazione di diritti dell’individuo: l’attenzione deve continuare ad essere alta. Intanto sono in corso di allestimento le strutture sostitutive e si chiameranno Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Un nome nuovo, per rispettare la tradizione. Già, chiudono gli Opg ma rimane in piedi il tradizionale meccanismo della misura di sicurezza, quello produttivo della punizione permanente: in pratica, si esce solo quando un perito ritiene guarito il portatore di disagio psichico. Queste le caratteristiche delle Rems: a) esclusiva gestione sanitaria; b) vigilanza esterna; c) ogni Regione avrà le proprie strutture, con un massimo di venti posti letto. Alla esclusiva gestione sanitaria non si accompagnerà quel sistema di garanzie "proprio" dell’ordinamento penitenziario. Gli Opg sono dotati di un ufficio matricola, che si occupa dell’accettazione, delle notifiche, dei benefici, delle istanze degli internati: le Rems offriranno il medesimo apparato di garanzie? I parlamentari entrano negli Opg senza autorizzazione: potranno parimenti esercitare il loro sindacato ispettivo nelle nuove strutture? La moltiplicazione dei luoghi di internamento non aiuterà, di certo, il controllo democratico sui medesimi. Articolazioni sanitarie I manicomi criminali chiudono e si aprono strutture sostitutive. Fin qui c’è una logica, peraltro non condivisa da noi (contrari a tutti i dispositivi di internamento e convinti che il territorio e le famiglie debbano essere il luogo di guarigione della sofferenza mentale). La logica sembra, tuttavia, finire quando si apprende che l’amministrazione penitenziaria sta apprestando, e in parte lo ha già fatto, sezioni psichiatriche interne alle carceri, destinate ad accogliere una parte della popolazione internata negli Opg. Con linguaggio neutro, sono state denominate "Articolazioni sanitarie", abilitate ad ospitare categorie di soggetti un tempo normativamente destinati agli Opg, come i "148" (chiamati così i condannati a cui sopravviene l’infermità psichica) e i condannati minorati psichici. Un passo indietro sotto il profilo culturale: perfino Lombroso ebbe a scrivere nel 1872: "Pei criminali divenuti folli e pei folli che divengono criminali, la prigione è un’ingiustizia". Manicomi in Campania? Not in my back yard La Campania, ospitando due dei sei Opg in dismissione è un osservatorio privilegiato di quanto sta avvenendo. Nella regione ci sono due Opg perfettamente funzionanti (Napoli, con circa 100 internati e Aversa, con circa 150) e ben sei sezioni psichiatriche interne alle carceri (Secondigliano, Pozzuoli, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Salerno, S. Angelo dei Lombardi). Le Rems sono otto: con decreto del ministero della Salute, è stato approvato il programma presentato dalla Regione Campania "per la realizzazione di strutture sanitarie extra ospedaliere", realizzazione che implicherà gestione del pubblico denaro. Nel frattempo, nel comune di S. Nicola Baronia (Av), che ospiterà una delle residenze campane, si è già levata la protesta riportata dalla stampa locale: qualcuno avrebbe anche rassicurato i cittadini che "i detenuti" non scapperanno e che si potranno dormire sonni tranquilli. È la sindrome ninby applicata al disagio mentale. Nuovo non vuol dire meglio Infine, c’è un aspetto giudiziario da non sottovalutare: avere sei Opg significava avere sei Uffici di sorveglianza competenti per territorio, composti da magistrati e funzionari di cancelleria che, negli anni, hanno accumulato un bagaglio di conoscenza che andrà disperso: indubbiamente, erano esecutori di un odioso apparato normativo, ma interlocutori certi. Quando gli Opg saranno effettivamente chiusi, sarà competente per territorio l’Ufficio di sorveglianza in cui risiederà il soggetto sottoposto a misura di sicurezza: in pratica, ogni ufficio di sorveglianza d’Italia si occuperà di pochi casi, che richiedono esperienza consolidata e specifica. Dopo oltre dieci anni di battaglie sono stati normativamente chiusi i manicomi criminali, la battaglia non sarà tuttavia conclusa fino a quando questi luoghi davvero non avranno più ricoverati. Nel contempo, viene in mente Basaglia, che rispetto ai manicomi civili ebbe a dire: "La nave del manicomio è affondata, altre navi, solo in apparenza meno minacciose, si stagliano all’orizzonte". *Presidente di Antigone Campania e componente dell’Osservatorio condizioni di detenzione Giustizia: caso Uva, il pm chiede il rinvio a giudizio dei 6 agenti e 2 carabinieri di Mario Di Vito Il Manifesto, 25 marzo 2014 La procura di Varese chiede il rinvio a giudizio dei 6 agenti e 2 carabinieri coinvolti nella morte dell’uomo. Tempi strettissimi: a giugno scatta l’archiviazione per i reati ipotizzati tranne l’omicidio preterintenzionale. Due settimane dopo l’ordinanza del gip, che ha imposto l’imputazione coatta dei due carabinieri e sei poliziotti che il 14 giugno 2008 arrestarono Giuseppe Uva, la procura ha depositato la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare e di rinvio a giudizio. Le accuse sono quelle già indicate dal giudice Giuseppe Battarino: omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abbandono d’incapace. Intanto, la difesa degli agenti si gioca la carta della disperazione: l’avvocato Luca Marsico - (consigliere regionale di Forza Italia) ha presentato ricorso in Cassazione contro l’imputazione coatta ordinata dal gip. La battaglia legale, dunque, appare ancora lontana dalla sua conclusione: i pm che hanno firmato l’ordinanza - (Agostino Abate e Sara Arduini) - sono gli stessi che in due precedenti occasioni avevano chiesto l’archiviazione per gli uomini in divisa, e all’interno del palazzo di giustizia di Varese le voci di una loro possibile sostituzione da parte del capo della procura Felice Isnardi si fanno sempre più insistenti: in gioco non c’è più soltanto un processo, ma la credibilità di un potere, quello giudiziario, che si vede costretto a indagare sulla propria metà oscura. La richiesta di cambiare i rappresentanti della pubblica accusa, d’altra parte, era stata avanzata una settimana fa dagli avvocati della famiglia Uva, Fabio Ambrosetti e Fabio Anselmo, che continuano a parlare di "conflitto anomalo" tra i pm e i giudici che hanno esaminato il caso, sostenendo che, proprio per questo motivo, si dovrebbe "normalizzare la vicenda processuale. L’unico modo per farlo è sostituire i pm". La stessa opinione è stata espressa in un’intervista al manifesto anche dalla sorella di Giuseppe Uva, Lucia, e dal senatore del Pd Luigi Manconi, che domanda: "Possiamo davvero consentire che l’unica opportunità rimasta di conoscere la verità sia nuovamente demandata a chi, per sei lunghi anni, ha ostinatamente e incredibilmente fatto tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto fare?". Un altro problema riguarda i tempi: a giugno scatterà l’archiviazione d’ufficio per tutti i reati ipotizzati ad eccezione dell’omicidio preterintenzionale: "Occorre fare in fretta - (dice Ambrosetti, ma il procuratore capo mi ha assicurato che il provvedimento d’esercizio dell’azione penale sarà fatto nei tempi di legge per tutti i reati indicati dal gip". Non sarà una passeggiata. A guardare il calendario ci sarebbe da preoccuparsi, e la strategia dell’avvocato Marsico pare chiara, nel solco delle grandi strategie giudiziarie berlusconiane: difendersi dal processo, soprattutto a livello mediatico. È così, d’altra parte, che si spiegano le decine di querele inoltrate (e puntualmente cadute nel nulla) negli anni a tutte le parti considerate avverse, da Lucia Uva ai documentaristi Adriano Chiarelli e Francesco Menghini, passando per il programma televisivo "Le Iene" e un imprecisabile numero di cronisti. Entro domani verrà fissata l’udienza di rinvio a giudizio e a presiederla non sarà il gip Battarino ma, più probabilmente, il presidente del tribunale Vito Piglionica. Nella giornata di ieri, mentre la procura formalizzava le sue richieste in cancelleria, le sorelle di Giuseppe Uva erano in piazza, instancabili, a far sentire la propria voce per tenere alta l’attenzione sul caso. Davanti a loro, a un certo punto, sono passati il colonnello Alessandro De Angelis e il tenente Loris Baldassarre, le punte di diamante della caserma dei carabinieri di via Saffi, dove Uva è stato rinchiuso diverse ore, nell’ultima notte della sua vita, prima di essere portato a morire in ospedale. Un incontro casuale per un saluto appena accennato e un sorriso di cortesia, gelido come la nebbia che ancora avvolge la città di Varese. Giustizia: Bernardo Provenzano sta male, da tre Procure no a proroga del regime 41-bis Agi, 25 marzo 2014 Le condizioni di salute di Bernardo Provenzano giustificherebbero la revoca del carcere duro: in tre separati pareri, le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta hanno espresso il loro no alla proroga del 41 bis per il capomafia, ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Provenzano, gravemente malato, è già stato ritenuto incapace di partecipare validamente ai processi e non sarebbe nemmeno in grado di comunicare con l’esterno: da qui - secondo i pm siciliani e toscani - la sostanziale inutilità della proroga del 41 bis, che serve proprio ad evitare i contatti con l’esterno delle carceri. Un parere negativo era già? stato espresso dalle Procure l’anno scorso, in attesa della sentenza della Corte europea dei diritti dell0uomo, che sempre nel 2013 aveva poi escluso che vi fosse violazione dei diritti umani di Provenzano. In quel caso la Direzione nazionale antimafia aveva espresso un avviso contrario a quello delle Direzioni distrettuali e aveva chiesto e ottenuto il rinnovo del 41 bis, emesso dall’allora guardasigilli, Annamaria Cancellieri. La proroga del carcere duro viene fatta ogni due anni, dopo l’acquisizione di pareri non vincolanti, chiesti ai magistrati, alle forze di polizia e al Viminale. Si attende ora il nuovo parere della Dna e alla fine l’incartamento verrà passato al nuovo ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che deciderà? se prorogare o meno il regime detentivo speciale per Provenzano. Emilia Romagna: "336 detenuti da liberare", effetto della sentenza sulla Fini-Giovanardi di Luigi Spezia La Repubblica, 25 marzo 2014 Il giudice Maisto: "Nelle carceri di questa regione ci sono 336 persone che dovrebbero essere libere". Un allarme lanciato dal presidente del Tribunale di Sorveglianza Francesco Maisto: "Non spetta a noi decidere, ma è nostro compito preoccuparci delle condizioni di vivibilità. Non è legale che queste persone rimangano in cella". È l’effetto della decisione della Consulta che ha abolito parte della legge Fini-Giovanardi, che non differenziava le pene nello spaccio di droghe pesanti e leggere. "Non è legale che 336 detenuti siano in carcere mentre dovrebbero essere in libertà". Non ha dubbi il presidente del Tribunale di Sorveglianza Francesco Maisto: a questi 336 detenuti "va resa giustizia" per effetto della bocciatura da parte della Corte Costituzionale di una parte della legge Fini-Giovanardi, con il conseguente ritorno in vigore della Jervolino-Vassalli, nella parte in cui si differenziano le pene per chi spaccia le cosiddette droghe leggere e le droghe pesanti. "Numeri importanti - ha commentato Maisto. Se pensiamo che nel carcere di Ferrara ci sono 365 detenuti, mettere in libertà 336 persone sarebbe come svuotare un medio carcere, oppure come eliminare una sezione nove a Ravenna e uno a Castelfranco Emilia. Il punto è, spiega Maisto, che finora il legislatore non è intervenuto per permettere a tutti coloro che ne hanno diritto di uscire automaticamente. Allora, l’altra chance è rivolgersi ai giudici per ottenere quello che si chiama "incidente di esecuzione". Ma finora le istanze non superano la decina in tutta l’Emilia- Romagna, da un lato perché la stragrande maggioranza dei soggetti interessati si trova in una situazione di "minorata difesa: persone poco acculturate, stranieri, persone con problemi mentali, con difensori d’ufficio" che quindi trovano difficoltà a fare valere il proprio diritto. Ma per Maisto c’è anche un altro aspetto, cioè che l’"incidente di esecuzione" viene trattato dai giudici come l’ultima delle incombenze. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza, che ha fatto parte anche della commissione del Csm per affrontare il sovraffollamento delle carceri italiane, non ha poteri decisionali su questi 336 detenuti "speciali", ma parla "perché noi non mettiamo solo timbri sulle pratiche, ma dobbiamo anche preoccuparci delle condizioni di vita delle carceri". E tuttavia, la permanenza in cella è anche una questione economica - "questi 336 detenuti ci costano ogni giorno 567,84 euro solo per quanto riguarda il mangiare" - e organizzativa, perché "si potrebbero impiegare altrove 30 agenti e 4 ispettori". Maisto ha anche riferito che sono finora una decina i procedimenti avviati da detenuti che lamentano di vivere in condizione degradanti. Molise: Sappe; tentati suicidi e autolesionismo, numeri choc dietro una calma apparente www.primonumero.it, 25 marzo 2014 I numeri del 2013 dati dal Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, non lasciano spazio ai dubbi circa l’urgenza di interventi concreti anche nelle carceri della nostra regione, dove nell’anno da poco finito gli agenti hanno registrato, complessivamente, 7 tentativi di suicidio e 22 episodi di autolesionismo, durante i quali i carcerati hanno ingerito chiodi, pile, lamette, o si sono procurati tagli sul corpo. Sono 15 i ferimenti e 8 le colluttazioni sedate dalla polizia penitenziaria. E in ben 80 situazioni, nel silenzio praticamente tombale del mondo ‘esternò, i detenuti hanno fatto lo sciopero della fame. Se le sommosse e le proteste veementi negli istituti di pena italiani sono ormai un ricordo sbiadito, retaggio di altri decenni, la situazione dietro la cortina di tranquillità apparente continua a essere critica. Anche in Molise, dove sono tre i penitenziari che complessivamente - tra Campobasso, Isernia e Larino - ospitano 430 detenuti a fronte di una capienza massima di 350 post letti. I numeri del 2013 dati dal Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, non lasciano spazio ai dubbi circa l’urgenza di interventi concreti anche nelle carceri della nostra regione, dove nell’anno da poco finito gli agenti hanno registrato, complessivamente, 7 tentativi di suicidio e 22 episodi di autolesionismo, durante i quali i carcerati hanno ingerito chiodi, pile, lamette, o si sono procurati tagli sul corpo. Sono 15 i ferimenti e 8 le colluttazioni sedate dalla polizia penitenziaria. E in ben 80 situazioni, nel silenzio praticamente tombale del mondo ‘esternò, i detenuti hanno fatto lo sciopero della fame. Il drammatico elenco di numeri prosegue con i 15 casi di rifiuto di vitto e terapie mediche e 6 danneggiamenti. In questo quadro è il penitenziario di via Cavour a Campobasso quello più critico, visto che tutti e sette i tentativi di uccidersi si sono verificati qui, fra i 101 detenuti reclusi, e sempre qui sono stati registrati 8 episodi di autolesionismo. Situazione problematica anche a Larino, nel penitenziario di Monte Arcano che con le sue 258 presenze (il dato è sempre del 2013) è il più affollato e quello dove si sono verificati ben 12 episodi di autolesionismo. Solo un episodio di autolesionismo a Isernia, dove i detenuti erano 67. "Le cifre - sottolinea Donato Capece, segretario generale Sappe - raccontano una tensione detentiva costante nelle carceri del Molise, nelle quali è solamente grazie all’encomiabile professionalità, spirito di servizio e abnegazione dei poliziotti penitenziari molisani se i disagi e disservizi sono contenuti". Il sindacato rivendica "un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda ad esempio circuiti penitenziari differenziati per i tossicodipendenti, il lavoro obbligatorio in carcere (stare ore e ore in cella senza far nulla favorisce ozio ed apatia), l’espulsione dei detenuti stranieri ed un maggiore ricorso alle misure alternative". Intanto è notizia delle ultime ore la richiesta del senatore del partito democratico Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani, di dare corso alla sentenza della Corte costituzionale sulla legge Fini-Giovanardi per ridurre il sovraffollamento delle carceri. "La Corte costituzionale, seppure per motivi procedurali e di rapporti tra Governo e Parlamento, ci ha indicato una strada, abrogando la legge Fini-Giovanardi. Già ora, se si desse compiutamente attuazione a quella sentenza - osserva Manconi - verificando la possibilità che sia rideterminata la pena agli oltre 8500 detenuti per fatti di droga, una parte considerevole dei quali, secondo il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, ‘per aver ceduto quantitativi di hashish e marijuana, la popolazione potrebbe essere ulteriormente ridotta". Si auspica, aggiunge l’on. Manconi, anche la discussione in tempi rapidi di una proposta per la riformulazione del reato di detenzione di minimi quantitativi di droghe leggere e per la depenalizzazione della coltivazione e della cessione a titolo gratuito per uso personale e immediato dei derivati della cannabis. "L’Italia sarebbe più forte e credibile davanti alle istituzioni europee per i diritti umani". Marche: l’Ombudsman; 436 reclami nel 2013, in aumento quelli di immigrati e detenuti Ansa, 25 marzo 2014 Sono 436 i fascicoli aperti nel 2013 dal Garante dei diritti della Regione Marche Italo Tanoni (-4% rispetto al 2012) e 326 quelli chiusi (-14%), ma a fronte del 44% dei reclami riguardanti la difesa civica, i più numerosi, crescono del 2% quelli degli immigrati e del 5,36 quelli dei detenuti. "Un bilancio tra luci e ombre - ha detto oggi Tanoni, presentando ad Ancona la relazione 2013 sull’attività del suo ufficio - che ha tra le note positive quella di un ampliamento delle competenze del Garante (in base alla legge regionale n. 34 del 2013) nei settori della difesa civica delle fasce sociali più deboli e dei diritti dell’infanzia". "Ambiti - ha sostenuto il presidente del Consiglio regionale Marche, Vittoriano Solazzi - in cui l’azione del Garante è particolarmente importante. Difficilmente infatti persone in difficoltà economica possono in momenti di crisi rivolgersi ad avvocati o commercialisti per veder riconosciuti i propri diritti da parte della pubblica amministrazione, mentre l’azione del Garante è totalmente gratuita. Per questo intendiamo sostenerla e potenziarla anche con la campagna di divulgazione Rivolgiti al Garante, che ha come testimonial gratuito Pupi Avati". In particolare i fascicoli aperti di difesa civica sono stati 179 (218 nel 2012), con un’impennata nel secondo semestre 2013, in prossimità dell’approvazione della Legge di Stabilità in merito ai tributi, di cui si sono fatti portavoce in particolare le associazioni dei consumatori. I reclami degli immigrati che si sono sentiti discriminati sono stati invece 28 (21 i fascicoli chiusi), e hanno riguardato soprattutto il mercato del lavoro, l’esclusione dalle case popolari e violazioni del diritto all’istruzione. In merito ai diritti per l’infanzia e l’adolescenza, i casi sono stati 34 (-0,4% rispetto al 2012) di cui 16 chiusi, variando dall’affido, all’adozione, ai maltrattamenti, fino ai minori non accompagnati. In questo settore si riscontra inoltre una crescita della dispersione scolastica, pari al 5,2% di tutta la popolazione studentesca, assieme al numero dei reati commessi da adolescenti in rete segnalati dagli organi giudiziari. Per i detenuti infine (11 casi aperti e 10 chiusi), con reclami riguardanti soprattutto le cure mediche e gli incontri con i familiari, si è registrato un minor sovraffollamento nelle carceri con una diminuzione dei reclusi del 12,5% rispetto al 2012. "Nonostante ciò la situazione rimane drammatica - asserisce Tanoni - e la proposta di potenziamento del carcere di Camerino sarà il nostro cavallo di battaglia per il 2014". Puglia: Osapp; i detenuti spesso vengono trasferiti su mezzi di trasporto non blindati www.ilpaesenuovo.it, 25 marzo 2014 "I detenuti dell’alta sicurezza in Puglia viaggiano quasi sempre su mezzi non blindati". È questa una delle denunce dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), rese pubbliche stamattina nel corso della visita effettuata dal senatore di Forza Italia Francesco Bruni nel carcere Borgo San Nicola di Lecce. L’allarme sulla situazione del parco mezzi in dotazione alla polizia penitenziaria di tutta la regione è stato lanciato dal segretario regionale del sindacato Pantaleo Candido, il quale ha parlato di auto e camionette "che hanno già percorso almeno 250mila chilometri e in alcuni casi arrivano fino a 600mila", con evidenti problemi di carrozzeria, guasti al motore e alle parti meccaniche "che ne compromettono la sicurezza". "Alcuni mezzi - ha aggiunto il segretario provinciale Osapp, Ruggero Damato - si rompono e non vengono sostituiti, creando situazioni di difficoltà e pericolo per gli agenti in servizio e anche per i detenuti". A Lecce, per esempio, la dotazione prevista per il carcere di Borgo San Nicola sarebbe di 60 mezzi, ma ne sono in servizio appena 12, di cui un solo blindato, che non consente di soddisfare a norma di legge le esigenze di spostamento dei circa trecento detenuti delle sezioni Alta sicurezza. I sindacalisti hanno quindi portato all’attenzione del senatore Bruni le problematiche relative "alla violazione dell’accordo quadro nazionale sul monte ore", spiegando che in alcune strutture della Puglia - come Taranto, Bari e Altamura - gli agenti effettuano turni di otto ore anziché di sei e che "nelle carceri dove è prevista l’apertura di nuovi padiglioni, non è stata garantito l’ampliamento delle piante organiche, per cui le attività aggiuntive saranno svolte grazie ad ulteriore lavoro straordinario". Vicenza: al via l’ampliamento del carcere San Pio X, presto duecento nuovi posti detentivi di Elfrida Ragazzo Corriere Veneto, 25 marzo 2014 Carcere La Uil aveva fotografato il degrado. Ora la bella notizia: nuovo padiglione da 5 piani. Quattrocento giorni per ampliate il San Pio X. Dopo anni di attesa (l’accordo tra la Regione Veneto e il commissario statale delegato al "Piano carceri" risale a fine dicembre 2010) da una ventina di giorni sono cominciati i lavori invia Della Scola: nel perimetro dell’attuale casa penitenziaria si sta costruendo un padiglione di cinque piani da 3.900 metri quadrati di ampiezza e oltre 9 milioni di euro di costi. L’ampliamento, che garantirà duecento nuovi posti, si avvia proprio quando il San Pio X peggiora sempre di più il suo stato, n problema principale rimane il sovraffollamento, visto che su 146 posti disponibili ora ci sono in media 260 detenuti. Un po’ meno di qualche mese fa, in cui si era arrivati a 330 "ospiti", in parte per effetto del decreto "svuota carceri" diventato legge lo scorso febbraio. Ma anche il decadimento della struttura desta preoccupazioni, soprattutto negli agenti penitenziari della Uil che attraverso un reportage fotografico hanno documento le situazioni critiche in cui lavorano. Gli scatti immortalano escrementi di capra nella guardiola, tende della doccia ricavate coi i sacchi della spazzatura, spazi nelle celle cosi ridotti che i detenuti, quando vogliono muoversi, spostano tavoli e sedie e li mettono sopra ai materassi. "Dal 2009 c’è una restrizione notevole delle risorse finanziarie - risponde il direttore del penitenziario Fabrizio Cacciabue - per cui bisogna andare cauti negli acquisti, e anche nella temperatura dei caloriferi. Qualche anno fa era stato presentato un progetto di ristrutturazione del San Pio X, sia per un lotto della casa penitenziaria che del muro di cinta, ma stiamo ancora aspettando che sia finanziato dal ministero della Giustizia". Sono invece stati trovati a livello centrale i soldi necessari per l’ingrandimento. Il bando, di circa 10 milioni di euro, è stato assegnato ancora nel gennaio 2013 all’impresa di costruzioni "Ing. Enrico Pasqualucci srl" di Roma per un importo di 9.210.297 euro. Le operazioni all’interno dell’area demaniale del San Pio X sono cominciate oltre un anno dopo l’assegnazione dell’appalto, e la consegna dei lavori è prevista dopo quattrocento giorni lavorativi, più o meno in aprile del 2015. "L’ampliamento sarà sicuramente un bello sfogo per la casa circondariale" conclude Cacciabue. Cagliari: ex detenuto Buoncammino; qui come in una "casa famiglia"… vige umanità Ansa, 25 marzo 2014 "Quando per la prima volta ho varcato la soglia della porta di Buoncammino non ho potuto fare a meno di notare la lastra di marmo con su inciso il testo dell’art. 27 della Costituzione italiana. Non nascondo che avevo subito pensato a un’ulteriore offesa all’intelligenza dei condannati. Invece mi sono sbagliato". Inizia così la lettera che un detenuto catanese, Alfio Sofia Diolosà, ha scritto all’associazione "Socialismo Diritti Riforme". Trasferito un mese fa a Parma, il detenuto racconta "che al di là di una struttura vecchia di 150 anni, operavano e operano tutt’oggi persone degne del rispetto di quell’articolo". "Ciò fa onore a tutta la categoria del Corpo di Polizia Penitenziaria - prosegue - e di tutti coloro che all’interno lavorano con abnegazione e senso di responsabilità rendendo quella vecchia struttura alla pari di una Casa Famiglia attenta a tutti i bisogni e alle esigenze di chi è ospite. Si tratta di persone con sistemazione provvisoria così come sempre diceva Mons. Mani, arcivescovo di Cagliari, tutte le volte che veniva a trovarci. Tutto questo fa onore anche a quella piccola parte che ancora non ha il coraggio di guardare al cambiamento. C’è sempre tempo per convertirsi e chi non lo farà nella vita terrena - conclude nella lettera - dovrà rendere conto al Padre Eterno". "Il carcere di Buoncammino nonostante le carenze di carattere strutturale, è considerato dai cittadini privati della libertà, in particolare da quelli dell’alta sicurezza che hanno sperimentato la realtà di altre strutture penitenziarie, una Casa Famiglia per il senso di umanità di quasi tutti gli operatori" afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di "Socialismo Diritti Riforme". Per l’ex consigliera regionale la lettera è "un’attestazione che, in questa stagione di gravi difficoltà per le carceri italiane a causa del sovraffollamento, rende giustizia all’operato del Direttore della Casa Circondariale cagliaritana Gianfranco Pala e della Comandante Barbara Caria ai quali il detenuto rivolge un particolare ringraziamento". Sulmona (Aq): mezzo Polizia penitenziaria si ribalta, feriti cinque agenti e un detenuto Agi, 25 marzo 2014 "Un mezzo della polizia penitenziaria è stato coinvolto in un incidente stradale nel primo pomeriggio a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza. Si tratta di una scorta del Nucleo traduzioni della polizia penitenziaria di Sulmona che stava rientrando in sede dopo aver accompagnato un detenuto in udienza a Potenza. I cinque componenti della scorta ed il detenuto sono attualmente all’ospedale di Melfi". A darne notizia è il segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, Donato Capece. Nel dettaglio, rileva il sindacato, "non sono ancora chiare le dinamiche dell’incidente, ma sembra che il mezzo abbia prima sbandato e poi si sia addirittura cappottato. Ora speriamo che i colleghi ed il detenuto non abbiano riportato gravi conseguenze". "Questo incidente stradale - commenta Capece - deve fare seriamente riflettere sulle difficoltà operative con cui si confrontano quotidianamente, nelle strade e autostrade di tutta Italia, le unità di polizia penitenziaria in servizio nei nuclei Traduzioni e Piantonamenti dei penitenziari. Agenti che sono sotto organico, non retribuiti degnamente, con straordinari e missioni non pagate, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spesso inadeguati e centinaia di migliaia di chilometri già percorsi". Vigevano (Pv): Sappe; tentativo evasione e aggressione personale di Polizia penitenziaria Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2014 È di martedì scorso la notizia di un’aggressione nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria della Casa circondariale di Vigevano da parte di un detenuto comune extracomunitario, definitivo con fine pena 2016, durante un accompagnamento presso l’ospedale cittadino per una visita urgente. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. “A causa dell’ingestione di alcune pile elettriche, di candeggina e di altro materiale” informa il Segretario Generale Sappe Donato Capece “il detenuto è stato portato urgentemente in Ospedale da quattro unità di personale di Polizia Penitenziaria (1 autista e 3 unità di scorta): giunto al Pronto Soccorso, i poliziotti sono stati improvvisamente aggrediti dal detenuto, probabilmente per porre in essere un tentativo di fuga. Fortunatamente, grazie alla prontezza e alla professionalità degli Agenti, nonostante l’episodio sia avvenuto all’interno del nosocomio sotto gli occhi impauriti di molti cittadini, la scorta della Polizia Penitenziaria è riuscita a contenere il detenuto ripristinando l’ordine pubblico e a ritradurre in sede il ristretto, grazie anche all’ausilio di altro personale di Polizia Penitenziaria intervenuto sul posto dalla casa circondariale di Vigevano”. Il Sappe, che evidenzia come “anche questo episodio deve far riflettere la nostra Amministrazione sulla delicatezza del servizio delle traduzioni e dei piantonamenti, favorendo quindi una costante formazione del personale impiegato”, sollecita l’Amministrazione penitenziaria ad adottare urgenti interventi per il carcere lombardo nel quale, conclude Capece, “nello scorso anno 2013, si sono registrati 8 casi di autolesionismo di detenuti e 7 colluttazioni”. Milano: detenuto domiciliare manomette il "braccialetto elettronico " e poi tenta suicidio Agi, 25 marzo 2014 Ha manomesso il braccialetto elettronico di sorveglianza che portava dal gennaio scorso, quando era stato messo ai domiciliari, poi ha guidato la sua Smart poco distante da casa, e lì ha provato a uccidersi con il gas di scarico dell’auto: Paolo Bovi, ex fonico e tastierista dei ‘Moda" accusato di pedofilia, ha tentato il suicidio attorno alle 4 del mattino di domenica. Il braccialetto, appena manomesso, ha inviato un segnale alla caserma dei carabinieri: i militari di Cassano d’Adda si sono precipitati nell’appartamento dell’uomo a Cernusco sul Naviglio, l’hanno trovato vuoto, e hanno rintracciato Bovi a qualche strada di distanza. L’ex fonico, in evidente stato di alterazione a causa dell’alcol, stava cercando di uccidersi dalle parti dello studio di registrazione che in cui era nata la sua band. Bovi, 40 anni, tra i fondatori dei Modà, era stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale ai danni di diversi ragazzini tra i 13 e i 16 anni, tutti episodi maturati nel 2011 nell’ambiente dell’oratorio presto il quale l’uomo rivestiva la funzione di educatore. A gennaio il gip aveva accolto la richiesta di arresti domiciliari avanzata dalla difesa, ma dopo la manomissione del braccialetto e il tentato suicidio Bovi è stato condotto a San Vittore. Il legale: è gravemente prostrato Il gesto di Paolo Bovi, 40 anni ex tastierista e tra i fondatori dei Modà, di lasciare i domiciliari per cercare di suicidarsi, secondo uno dei suoi legali, è da attribuirsi "al grave stato di prostrazione" in cui si trova l’uomo, che è detenuto nella sua casa di Cernusco sul Naviglio (Milano) per presunti abusi sessuali su minori. L’avvocato Gianluca Gambogi, del foro di Firenze, che difende Bovi con la collega Beatrice Belli, lo incontrerà domani in carcere, dove è stato portato e si dice "fiducioso nel poter dimostrare come il fine di Bovi non fosse l’evasione ma il gesto sia stato dettato dalla situazione di profonda prostrazione in cui si trova". Volterra (Pi): detenuto ustionato da scoppio di una bombola di gas, ricoverato in ospedale Il Tirreno, 25 marzo 2014 Incidente, ieri pomeriggio, nel carcere di Volterra. Un detenuto, stando a quanto è stato spiegato, si è ferito in seguito allo scoppio di un fornelletto. È successo nel pomeriggio, dopo le 17. L’uomo è stato soccorso prima dal personale del carcere e successivamente, viste le sue condizioni, è stato deciso di attivare il 118 di Pisa. A Volterra, al campo sportivo, è dunque atterrata l’eliambulanza Pegaso che ha poi trasportato il ferito al pronto soccorso dell’ospedale di Cisanello. A quanto è stato possibile sapere si sarebbe trattato di un incidente e l’uomo avrebbe riportato gravi ustioni sul 20 per cento del corpo, concentrate soprattutto al volto, alle mani e alle braccia. Dal carcere non è stata fornita alcuna notizia sulle circostanze in cui il detenuto si è ferito. Sull’episodio saranno comunque compiute tutte le indagini necessarie a capire per quale ragione il detenuto si è ferito. Nel tardo pomeriggio l’uomo è arrivato al pronto soccorso dell’ospedale di Cisanello e successivamente è stato trasferito nel centro grandi ustionati. I medici si sono riservati la prognosi proprio per valutare la gravità delle ustioni.(s.c.) Genova: con l’Uisp e "Vivicittà Porte Aperte"… la corsa dei detenuti fuori dal carcere di Giulia Destefanis La Repubblica, 25 marzo 2014 Venticinque reclusi nella casa circondariale di Marassi hanno corso insieme a veri atleti. "Lo sport è fonte di benessere psicofisico e insegna a rispettare le regole". Un giorno fuori dal carcere per correre insieme ad atleti veri intorno alle mura della prigione. "Dimostrare che non bisogna arrendersi e che una volta fuori è possibile reinserirsi nella società", dice la famiglia della piccola Serena, che ha voluto esserci per correre accanto al padre detenuto. Benvenuti a "Vivicittà Porte Aperte", la corsa podistica dell’Unione Italiana Sport per Tutti che coinvolge i detenuti del carcere di Marassi di Genova. Tre chilometri di corsa - partenza nel cortile interno e poi fuori, oltre le mura, lungo il perimetro dell’istituto - insieme ai ragazzi della Lega atletica dell’Uisp genovese. Alla fine è uno dei detenuti, Christian Zagarella, a vincere. Ma la festa è per tutti: perché l’iniziativa, qui in uno dei carceri più sovraffollati d’Italia, è aria fresca: "Proprio per le condizioni difficili in cui vivono i detenuti, queste sono giornate importanti - spiega Salvatore Mazzeo, direttore dell’Istituto penitenziario - lo sport è fonte di benessere psicofisico, e poi ovviamente insegna a rispettare le regole". Il messaggio è soprattutto sociale. "Quest’anno, nella terza edizione dell’iniziativa, hanno partecipato il doppio dei detenuti - racconta Stefano Ferrando, educatore - sono 25, tutte persone che hanno già scontato buona parte della pena e hanno ottenuto il permesso di lavorare all’esterno o all’interno del carcere. Inutile dire che sono entusiasti dell’iniziativa, è un motivo in più di contatto con il mondo esterno sulla via del reinserimento". La corsa di Marassi - che si è tenuta parallelamente a un torneo di calcetto nel campo del carcere, con i partecipanti ai progetti Sportpertutti - è l’evento di apertura della trentunesima edizione di Vivicittà, la manifestazione podistica internazionale organizzata in 40 città italiane, che a Genova si terrà il 6 aprile. "E quale modo migliore per aprire le nostre manifestazioni che questo, ad alto valore simbolico - dice Fabrizio De Meo dell’Uisp Genova - come premio, poi, il vincitore della gara e tutti coloro che lo vorranno potranno partecipare alla gara del 6 aprile in città". Per continuare a lanciare ponti. Quindi, il direttore del carcere Mazzeo interviene sulle condizioni delle carceri italiane e sulle sanzioni cui l’Italia va incontro a livello europeo: "I tempi sono stretti - dice - o il governo varerà un decreto efficace, o bisognerà ricorrere a quella parola che tutti sanno ma nessuno vuole applicare: l’amnistia. O un altro atto di clemenza. In ogni caso apprezziamo gli sforzi del governo". Sassari: "Il gatto prigioniero", il teatro per raccontare il carcere di San Sebastiano La Nuova Sardegna, 25 marzo 2014 Dopodomani, giovedì, alle ore 21,00 al teatro comunale Andrea Parodi di Porto Torres, nell’ambito della rassegna "Primavera a Teatro" La Compagnia Teatro Sassari presenta in prima nazionale la nuova commedia di Cosimo Filigheddu "Il gatto prigioniero", per la regia di Marco Spiga. Si tratta di una pièce che si muove tra fantasia e realtà, tra storia e finzione, tra sogni e risvegli traumatici, tra umorismo e situazioni tragiche. Filigheddu ripercorre con acume critico e con un notevole senso della teatralità, gli ultimi 50 anni dell’antico carcere sassarese di San Sebastiano. Il racconto è incentrato sulla vicenda del detenuto Martinez, che arrestato giovanissimo, nel 1966, subito dopo la clamorosa evasione di Graziano Mesina, passa la sua vita nel vecchio carcere di via Roma, fino al trasferimento al nuovo carcere di Bancali. Lo accompagnano in questo viaggio un popolo di personaggi che sembrano uscire da una dimensione onirica, di un uomo condannato a vivere nella condizione innaturale della prigionia, in un mondo costellato da guardie pietose e violenti aguzzini, che in una condizione di indicibile degrado scoprono il valore della dignità umana; viceversa altri si lasciano cadere nella sinistra quiete della morte civile. In questo mondo degradato e miserrimo vegliano due personaggi misteriosi uniti fra di loro: una strana infermiera e un gatto orbo, che non tutti possono vedere ma che sembrano conoscere tutto di tutti sin dalla notte dei tempi. Si muovono in mezzo ad un popolo di prigionieri, custodi o custoditi, perché una volta varcata quella soglia si entra in una dimensione diversa e lontana. La stessa che Sassari ha conservato nel suo centro, senza conoscerne l’esistenza tra i suoi palazzi e le sue strade trafficate, intuendone soltanto l’ombra cupa. Tre gli episodi salienti nella vita di Martinez: l’amarezza, lo scherno, la rabbia, che hanno investito San Sebastiano dalla fuga di Mesina, che travolge il giovanissimo detenuto appena arrestato per omicidio; l’arresto del grande attore Dario Fo al cinema Rex durante uno spettacolo d’impegno civile che diede origine ad una grande protesta popolare guidata da Franca Rame che scosse la città e fece traballare il vecchio carcere. Ed ancora l’esplosione di violenza nel 2000 dentro le mura carcerarie, vissuta come una trasposizione onirica dagli occhi colmi di terrore dell’ ormai anziano Martinez. Infine la chiusura del vecchio carcere con l’invito fatto dall’anziano recluso all’infermiera e al gatto perché si trasferiscano insieme agli altri detenuti nel nuovo carcere di Bancali. Libri: "Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali" recensione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 marzo 2014 "Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali", di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone per per Einaudi (pp. 138, 12 €). Fino a che punto vanno puniti, e fin dove tollerati, quei reati condizionati da convinzioni anche religiose opposte alle nostre? Una questione cruciale delle moderne società multietniche, al centro di un libro di Gianaria e Mittone. In Italia più che altrove vivono tradizioni, culture, valori, religioni, stili di vita diversi, radicati nella storia e anzi nelle storie, al plurale, di popolazioni e territori. La convivenza spesso non è facile, palpabile talora è il reciproco fastidio. Ma l’ormai lunga pratica dell’unità e l’esperienza della diversità hanno sviluppato una tolleranza civile. Le offese e le violenze accadono, ma in generale sono condannate e i loro autori emarginati. Si tratta dunque di differenze compatibili. Ma cosa avviene quando una società già pluralistica si articola ulteriormente e rapidamente, ricevendo persone e comunità portatrici di modi di vita, abitudini e, soprattutto, convinzioni anche religiose che hanno aspetti di radicale diversità e opposizione? Il problema poi viene esasperato quando chi introduce la differenza è fisicamente identificabile, per l’abbigliamento o per il colore della pelle. Accade talora che ciò che nella società di arrivo è vietato dalla legge penale, nella società da cui quelle persone o comunità partono sia invece permesso o addirittura obbligatorio. Si tratta di casi di doppia e confliggente fedeltà. Le culture e i modi di vita sono diversi e si evolvono nello spazio e nel tempo. Il benevolo trattamento dell’omicidio per causa di "onore", che persisteva specialmente in certe aree e fasce sociali, è stato abrogato in Italia solo trent’anni orsono. Ecco un esempio che avverte come certe immigrazioni rendano più acuta e percepibile una questione che è però comunque presente nella nostra società. Se chi agisce è immerso in culture o comunità che non vedono negativamente quella condotta o addirittura la impongono, magari con la forza di un fondamento religioso, come si pone la questione della sua autonomia decisionale? In che misura è libero di determinarsi e quindi è responsabile delle scelte fatte? Talora gli è impossibile persino immaginare che la sua azione sia vietata, talaltra il divieto è conosciuto, ma forte è la costrizione a violarlo. Gli esempi emergono dalle cronache: violenze entro famiglie dominate dal maschio padrone, violenze e umiliazioni nei confronti delle donne, fino ad atroci omicidi come reazione a insubordinazioni e stili di vita disapprovati dalla famiglia o dalla collettività di appartenenza, metodi violenti di educazione dei figli e anche uso di bambini per l’accattonaggio o il furto, sottrazione dei figli al dovere scolastico ecc. Ci si domanda se e quanto abbia senso punire quelle persone, il cui agire è condizionato o imposto da radicate convinzioni, nutrite fin dall’infanzia dall’esempio e dall’insegnamento della famiglia e del gruppo frequentato. È il tema dei cosiddetti reati culturalmente condizionati, oggetto di studi e decisioni giudiziarie anche in Italia, Paese di recenti immigrazioni. A esso è dedicato "Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali", il libro di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, avvocati penalisti abituati a pensare alzando gli occhi oltre i testi di diritto, in uscita domani per Einaudi (pp. 138, 12 €). Il dilemma per chi deve giudicare è grave, poiché per un verso si può considerare che la pressione culturale riduce la libertà e la responsabilità, ma per il verso opposto proprio il motivo che ha indotto a commettere il fatto dimostra la pericolosità del suo autore. Ci si chiede allora se il rispetto delle culture e tradizioni altrui debba anche indurre a giustificare ciò che nella cultura e nelle leggi dal Paese è ingiustificabile. Ma non è ipotizzabile una "esimente culturale", almeno per i reati che offendono le basi stesse della società, così come essa è venuta definendosi, e che colpiscono la vita, l’incolumità personale, la libertà delle vittime, appartengano esse oppure no alla famiglia o comunità del colpevole. In altri casi, invece, per rispetto a tradizioni e convinzioni religiose, è ben possibile prevedere deroghe alle regole ordinarie, come avviene per la macellazione halal o kasher, oppure per la circoncisione maschile rituale. Come è giusto, alle mille domande i due autori del libro danno risposte sfumate, rinviando alle differenze tra caso e caso, diffidando da prese di posizione generali e rigide. Ancora una volta viene in luce l’insufficienza delle astratte soluzioni legislative e la necessità di rimettersi alle decisioni giudiziarie. Naturalmente bisognerebbe però essere pronti ad accettare sentenze opinabili, riconoscendo la difficoltà del lavoro dei giudici nei casi difficili. La difesa della vittima è il criterio per definire il limite del riconoscimento di culture e tradizioni diverse da quelle riflesse dalle leggi del Paese, a partire dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali sui diritti fondamentali, che, qualunque ne sia la giustificazione tradizionale o culturale, rifiutano ogni forma di violenza fisica o morale, particolarmente contro le vittime più vulnerabili che sono le donne e i bambini. Il rispetto per le culture diverse non può prescindere dalla consapevolezza che la concezione dei diritti fondamentali delle persone è frutto di un’evoluzione storica e del progresso. Come avviene quando la lotta per i diritti si svolge all’interno dell’originaria comunità nazionale e vede contrapposti gruppi e culture diversi, così, quando il problema si pone rispetto a comunità di migranti, va difesa la concezione europea, fondata sulla laicità dello Stato, la dignità, l’autonomia e la libertà della persona. La pretesa che tutti - cittadini e non - si adeguino senza aree di esenzione alle regole che riflettono il punto di arrivo europeo e italiano della cultura dei diritti, non è frutto di gretto orgoglio nazionalistico o della guerra di "noi" contro "loro". È invece conseguenza della responsabilità di difendere l’alta concezione della persona umana, che la storia europea ha prodotto. Libri: "Condannato a morte"... quando la giustizia diventa ingiustizia Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2014 Fino a che punto per una società civile può essere lecito punire i reati più gravi con la pena capitale? Giovanni Adducci, ingegnere meccanico esperto di storia dell’America del Novecento, nel suo libro "Condannato a morte", pubblicato da Editori Internazionali Riuniti, prova a rispondere a questa domanda attraverso un dettagliato panorama storico e tecnico sull’applicazione della pena capitale. "L’autore ci parla della storia della pena di morte, analizza i controversi aspetti religiosi a essa legati, elenca le diverse tecniche di esecuzione, dalle più antiche a quelle tuttora utilizzate in diversi paesi del mondo, senza però tralasciare il lato umano, al quale anzi dedica ampio spazio nel tentativo di comprendere ciò che sta dentro l’uomo e come questa pratica - la morte utilizzata come pena - coinvolga tutti, a diversi livelli.", scrive nella prefazione Arianna Ballotta, Presidente della Coalizione Italiana contro la Pena di Morte Onlus. Tra le fonti d’ispirazione di questo lavoro vi è un testo raro, l’autobiografia dell’esecutore Robert Greene Elliot, pubblicata nel gennaio 1940 e poi tolta dalla circolazione. Si tratta di una testimonianza di prima mano, attendibile, di una varietà di percorsi più o meno dignitosi, ma tutti drammatici, dell’ultimo miglio verso l’esecuzione (uomini morti in marcia). Alle biografie dei condannati si aggiungono i rapporti e i dati statistici concessi generosamente dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Coalit (Coalizione italiana contro la pena di morte), dall’associazione italiana Nessuno tocchi Caino e da importanti istituti d’arte e cultura italiani, materiale che rende questo testo un’opera fra le più complete tra quelle scritte di recente nel nostro paese su questo argomento. "Questo libro entra con coraggio dentro una delle contraddizioni del nostro tempo, che il nostro tempo ha ereditato, ma che non sa risolvere. Perché non sa scegliere qual è la soglia minima della nostra civiltà contemporanea. Questo libro non diminuisce, ma aumenta il nostro senso di giustizia. Una giustizia senza vendette e senza cose di cui vergognarsi". (Mario Marazziti, Saggista, editorialista e Presidente del Comitato per i Diritti Umani della Camera dei Deputati) L’autore. Giovanni Adducci, ingegnere meccanico nato nel 1954, vive e lavora a Roma, dove insegna discipline tecnologiche e aeronautiche presso un istituto superiore statale. Esperto di storia e cronaca riguardante l’America del Novecento, ha già pubblicato: Il mistero di una fuga: Alcatraz 1962 (Serarcangeli Editore, Roma 2002), Sacco e Vanzetti: colpevoli o innocenti? (Serarcangeli Editore, Roma 2003), Io ti dichiaro morto! La pena di morte nel mondo e nel tempo (Edizioni Associate, Roma 2004), Sacco e Vanzetti: una storia infinita (Edizioni Associate, Roma 2005). Svizzera: direzione carceri del Canton Ticino, in 30 concorrono per il posto di Comandini www.ticinonews.ch, 25 marzo 2014 Al concorso cantonale ha partecipato anche l’attuale direttore ad interim Marco Zambetti. Nei prossimi mesi verrà comunicato il nome del nuovo direttore. Sono oltre una trentina le candidature giunte al Dipartimento delle Istituzioni per il posto di direttore delle strutture carcerarie cantonali. Il termine per la presentazione è scaduto dieci giorni fa. Circa 30 candidature che arrivano sia dal Ticino che da oltralpe. È ancora presto per dire quanti profili rispecchino i requisiti richiesti nel bando di concorso. Ricordiamo che il concorso era stato lanciato dopo che il DI aveva sollevato l’ex direttore Fabrizio Comandini dall’incarico, per affidarlo ad interim, al Capo reparto giudiziario II della Polizia Cantonale, Marco Zambetti. Come riferisce Teleticino, proprio Zambetti, stando a nostre informazioni, ha partecipato al concorso. Ora il Dipartimento vaglierà i dossier, farà le dovute audizioni, e nei prossimi mesi, verrà svelato il nome del nuovo direttore. Egitto: Amnesty; in una sola sentenza 529 condannati a morte, una decisione "grottesca" di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 25 marzo 2014 La richiesta per gli scontri di Rabaa al Adaweya costati mille morti ai Fratelli musulmani. Non ha davvero precedenti l’udienza farsa nel corso della quale sono state emesse ieri 528 condanne a morte di sostenitori dei Fratelli musulmani. È partito lo scorso sabato il maxiprocesso che per la prima volta nella storia egiziana coinvolge ben 1200 imputati, tutti affiliati al movimento islamista. Le udienze sono in corso in sei diverse aule di tribunale a Minia, capoluogo dell’Alto Egitto. La drammatica condanna è arrivata in appena tre giorni. Solo 147 imputati erano presenti al momento della lettura del verdetto. Gli avvocati dei condannati hanno apertamente accusato i giudici di non aver neppure ascoltato la versione della difesa. Gli imputati sono accusati dell’omicidio del vice comandante della stazione di polizia del distretto di Matay, Mostafa al Attar, del tentato omicidio di altri due poliziotti, di attacchi a edifici pubblici, di aver dato fuoco alla stazione di polizia e trafugato armi. L’episodio si riferisce agli scontri successivi allo sgombero forzato, imposto dall’esercito, del sit in islamista di Rabaa al Adaweya che nell’agosto scorso ha causato quasi mille morti. Tra i condannati figura la Guida suprema dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie e l’ex presidente del parlamento, Saad al Katatni. Gamal Eid, direttore della Rete araba per i diritti umani, non ha esitato a definire il verdetto un "disastro" e uno "scandalo" per l’Egitto. I condannati potranno presentare appello in secondo grado. La mano dura di Sisi Si aggrava la repressione dell’opposizione islamista. I Fratelli musulmani, che hanno legittimamente vinto le elezioni parlamentari e presidenziali del 2012, sono stati dichiarati movimento terroristico dopo l’attacco alla stazione di polizia di Mansura che ha causato lo scorso 24 dicembre la morte di 16 agenti. L’intera leadership del movimento è in prigione, incluso l’ex presidente. Mohammed Morsi, accusato di spionaggio, evasione e violenza contro i manifestanti, sta affrontando quattro processi farsa in cui avvocati e giudici si sono ripetutamente rifiutati di proseguire nella discussione in aula. Morsi viene costantemente ridicolizzato mentre vengono rese pubbliche ore di intercettazioni telefoniche e ambientali in cui i Fratelli musulmani avrebbero rivelato segreti di Stato ad Hamas e all’Iran. E così, la mobilitazione di piazza del maggiore partito di opposizione è ripresa da una settimana insieme alla costante repressione delle forze di sicurezza. L’Università islamica di Al Azhar, incendiata in parte nel dicembre scorso, è un fortino inespugnabile. Nei giorni scorsi Mustafa Kamel, un giovane islamista di 18 anni è stato ucciso ad Alessandria, con un colpo di arma da fuoco alla testa. Cinque sono stati i morti tra i sostenitori del movimento alle porte della diga di Qanater, periferia del Cairo. Le violazioni dei diritti umani in Egitto preoccupano non poco attivisti e ong. Lo scorso 7 marzo, i rappresentanti dell’Unione europea avevano inviato una lettera (non firmata dall’Italia) al Consiglio delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhrc) in cui si condannava la repressione dei manifestanti. Giornalisti alla sbarra Come se non bastasse, è ripreso ieri il processo contro 20 giornalisti di Al Jazeera, accusati di far parte dei Fratelli musulmani, fuori legge dal dicembre 2013. Tra gli arrestati figura il reporter austriaco Peter Greste. Eppure è arrivata nella giornata di domenica la notizia del rilascio del blogger Alaa Abdel Fatteh e di Ahmed Rahman. Alaa era in carcere dallo scorso novembre per aver violato la legge anti-proteste che impedisce l’organizzazione di assembramenti non autorizzati. Nonostante le vicende giudiziarie, prosegue a vele spiegate la marcia del ministro della Difesa Abdel Fattah Sisi verso la presidenza della Repubblica. A preparare la piattaforma elettorale per il generale Sisi è l’ex diplomatico Amr Moussa. Tecnici ed esperti sono stati chiamati a raccolta per la stesura del programma che secondo Moussa avrà lo scopo di "modernizzare lo stato". Esercito diviso? Eppure l’esercito egiziano non sembra convinto di lasciare tutto nelle mani di Sisi, che lo scorso febbraio è volato a Mosca per strappare il sostegno del presidente russo Vladimir Putin alla sua candidatura. Per questo, il capo dello Staff dell’esercito, Sedki Sobahi (scampato ad un attentato nei giorni scorsi) ha incontrato il luogotenente generale dell’aviazione Usa, John Hesterman per discutere degli aiuti militari di Washington all’Egitto, in parte congelati dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso. Per correre ai ripari, Sisi ha disposto un avvicendamento all’interno dell’esercito: il maggiore generale Mohamed al Shahat ha sostituito Ahmed Wafsy a guida della divisione che si occupa del Canale di Suez e del Nord del Sinai. Fyrom: giornalisti indipendenti; detenuti maltrattati da polizia e guardie carcerarie Nova, 24 marzo 2014 È quanto emerge dall’ultima ricerca pubblicata dal Sindacato dei giornalisti macedoni indipendenti (Ssnm), che denuncia "maltrattamenti fisici di detenuti e prigionieri da parte di polizia e guardie carcerarie, le condizioni precarie e il sovraffollamento in alcune carceri del paese e negli istituti psichiatrici. Altri problemi di diritti umani segnalati nel corso dell’anno sono il ritardo d’accesso all’assistenza legale da parte dei detenuti e degli imputati, le restrizioni sulla capacità dei Rom di lasciare il paese, la violenza domestica contro le donne e i bambini, la discriminazione contro i disabili e le tensioni tra le comunità di etnia albanese e macedone. Il rapporto evidenzia anche numerose discriminazioni nei confronti dei Rom e di altre minoranze etniche, discriminazione antisindacale, il lavoro minorile, compreso l’accattonaggio forzato e l’applicazione inadeguata del diritto del lavoro. Il governo ha preso alcune misure per punire i funzionari di polizia colpevoli di aver utilizzato forza in modo eccessivo, ma l’impunità continua a essere un problema.