Giustizia: dopo intervento della Consulta sulla Fini-Giovanardi 8mila detenuti senza reato di Luigi Manconi e Stefano Anastasia L’Unità, 23 marzo 2014 Sono finiti in cella per la Fini-Giovanardi adesso riformulata dalla Consulta. Il giudice dell’esecuzione può rideterminare la pena: è un principio di giustizia. Ma non è l’unico "vuoto" dalla situazione creatasi. C’è un disegno di legge che sanerebbe tutti i guasti. La sentenza della Corte costituzionale con cui è stata abrogata la legge Fini-Giovanardi ha rimosso un macigno che fin qui ha impedito al nostro Paese di promuovere politiche efficaci di contrasto al traffico internazionale di droghe e di tutela della salute dei consumatori di sostanze stupefacenti. Sotto l’ombrello della "guerra alla droga" è stato impossibile sperimentare politiche innovative e le carceri si sono riempite di consumatori e piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti. Occorrerà, quindi, percorrere il sentiero che si è aperto, per consentire all’Italia di raggiungere gli Stati che, in molte parti del mondo, stanno sperimentando politiche post-proibizioniste. Intanto, però, è importante che la sentenza della Corte costituzionale dispieghi tutti i suoi effetti senza che nella pratica ne vengano applicazioni irragionevoli. Qualche giorno fa il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha confermato che il numero di detenuti ristretti per il reato riformulato dalla Corte ammonta a 8.589 definitivi e 4.345 in attesa di giudizio: una parte considerevole di questi è rappresentato "da detenuti che scontano la pena per aver ceduto quantitativi di hashish e marijuana". L’applicazione della sentenza della Corte ai detenuti in attesa di giudizio è relativamente semplice: sulla base dei nuovi parametri, il giudice delle indagini preliminari potrà rivalutare la sussistenza dei presupposti per la custodia cautelare in carcere, mentre il giudice di merito condannerà (se condannerà) sulla base delle nuove pene che distinguono tra "droghe leggere" e "droghe pesanti". Problema più complicato è quello di chi è già stato condannato definitivamente: è mai possibile che continuino a scontare una pena giudicata incostituzionale? E come rimediare? Il codice di procedura penale prevede la possibilità di rivolgersi al "giudice dell’esecuzione" per tutto ciò che riguarda la pena in corso. Si può chiedere al giudice anche di rideterminare la pena giudicata illegittima dalla Consulta? Certamente sì, in base a un elementare principio di giustizia, ma non è detto che così la pensino tutti i giudici dell’esecuzione. Né è detto che tutti i detenuti abbiano le informazioni e l’assistenza legale necessarie per far valere le proprie ragioni. E poi, non si può escludere un diverso metro di giudizio nei singoli casi. Ecco, dunque, il primo fondato motivo per cui sarebbe stato necessario un intervento legislativo urgente del Governo. Cui se ne aggiunge un altro. Prima ancora della decisione della Corte costituzionale, il Governo Letta ha giustamente trasformato l’attenuante della "lieve entità" nel possesso di sostanze stupefacenti in un reato autonomo con propri limiti di pena e, soprattutto, di durata massima della custodia cautelare. Ma, delineato nel quadro precedente alla decisione della Corte, il nuovo reato di "lieve entità" non distingue tra "droghe leggere" e "droghe pesanti", producendo in questo modo due vizi di irragionevolezza: è mai possibile trattare allo stesso modo - nel caso della lieve entità - la detenzione di sostanze che negli altri casi sono puniti con pene molto diverse tra di loro (da 8 a 20 anni di carcere nel caso delle droghe pesanti, da due a sei anni nel caso delle droghe leggere)? Ed è mai possibile punire quasi allo stesso modo la detenzione di piccoli o di ingenti quantitativi di droghe leggere (da uno a cinque anni o da due a sei anni)? Il rischio è che la legge torni alla Corte costituzionale, e questa volta non per un vizio procedurale, ma per una questione di merito, di violazione del principio di uguaglianza sostanziale, e dunque di giusta distinzione tra situazioni diverse. Di queste cose avrebbe dovuto decidere, con urgenza, il Governo. Invece, dopo un tentativo revanchista di ritorno alla normativa abrogata dalla Consulta, è stato varato un decreto-legge che contiene modifiche alle tabelle di classificazione delle droghe che avrebbero potuto essere fatte in via amministrativa. Da qui la decisione di presentare un disegno di legge - firmato da Manconi, Lo Giudice, De Cristofaro - finalizzato a rimediare a quegli inconvenienti e a dare la più ampia ed equanime attuazione alla sentenza della Corte costituzionale. Su suggerimento di Luigi Saraceni (insigne giurista, che ha per primo proposto i motivi di illegittimità della Fini-Giovanardi) si propone che il giudice dell’esecuzione ridetermini le pene sulla base dei nuovi limiti previsti dalla legge e che anche il reato di "lieve entità" distingua tra droghe leggere e droghe pesanti, punendo la detenzione di derivati della cannabis con non più di due anni di carcere. Se questo disegno di legge veramente necessario e urgente riuscirà a essere discusso nelle prossime settimane in Senato, l’occasione sarà propizia anche per affrontare la questione della depenalizzazione della coltivazione a uso personale e la cessione di piccoli quantitativi di cannabis destinati al consumo immediato. Ancora all’insegna della ragionevolezza. Giustizia: figli di detenuti, l’importanza del legame con i genitori di Agnese Moro La Stampa, 23 marzo 2014 Il 21 marzo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora, e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre onlus (www.bambinisenzasbarre.org), Lia Sacerdote, hanno firmato il protocollo d’intesa "Carta dei figli dei genitori detenuti", con il quale si riconosce ai 100.000 figli di detenuti che ogni giorno entrano in carcere il diritto alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore e il diritto di questi alla genitorialità. È il primo documento del genere in Italia e in Europa. "Si disciplina - ha dichiarato il ministro Orlando - la questione che i bambini e le famiglie che entrano in carcere sono persone libere, incolpevoli e come tali devono essere accolti. Questa è la questione dirimente che deve impegnare il sistema penitenziario ad affrontare il tema dell’accoglienza, che non è solo strutturale e risolvibile con l’ausilio di spazi adeguati, ma è soprattutto culturale e deve valorizzare gli aspetti relazionali e di cura del detenuto". Il documento stabilisce: il diritto a vedere riconosciuta la continuità del rapporto affettivo anche nel caso in cui uno o entrambi i genitori vengano arrestati; le condizioni che dovrebbero agevolare la frequentazione da parte dei bambini del genitori detenuto (un luogo di visita che favorisca il contatto, la regolarità delle visite, la presenza di uno spazio dedicato ai bambini nelle sale d’attesa e nelle sale colloqui, visite nel pomeriggio così da evitare ai bambini di dover saltare la scuola); la possibilità per il genitore di essere presente a tutte le occasioni e ricorrenze importanti nella vita del figlio; la necessità di una formazione adeguata del personale che opera nei penitenziari affinché non venga mai dimenticato che famiglie e bambini dei detenuti sono persone libere e come tali devono essere trattate. Di particolare importanza per Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, è l’articolo che afferma la necessità di escludere per i bambini la permanenza sia negli istituti penitenziari che in quelli a custodia attenuata e di prevedere per il genitore misure alternative alla detenzione. Il documento prevede infine la raccolta di informazioni relative ai minori coinvolti e l’istituzione di un Tavolo permanente che monitorerà l’attuazione della Carta, favorendo lo scambio di buone pratiche, a livello nazionale ed europeo. Giustizia: se ad attendere Hoeness fosse una galera italiana, rifiuterebbe ancora l’appello? di Massimo Melani www.totalita.it, 23 marzo 2014 Se ad attendere Huli Hoeness non fosse una galera tedesca, ma un invivibile penitenziario italiano… continuerebbe a rifiutare l’appello? Proprio una settimana fa abbiamo applaudito il gesto di Huli Hoeness, che non è ricorso in appello per una grave accusa di frode e a breve dovrà scontare una pena di 3anni e mezzo di galera. Una legnata talmente forte, quella che ha subito, che però lo ha rimesso dritto in piedi: si è detto "ho sbagliato di brutto e devo pagare, macché appello, macché cassazione, mi merito solo il carcere". Un atto quasi eroico, forte, deciso, paragonabile a un episodio della religione cattolica, quando San Paolo che, allora, perseguitava i seguaci di Cristo, fu folgorato sulla via di Damasco. Un cambiamento importante, una decisione quella di riappropriarsi della propria dignità che in Italia, guarda caso, ha suscitato stupore e incredulità, in altri Paesi vera e propria ammirazione. Ora, però, a distanza di sette giorni e a mente molto più fredda, viene naturale porsi una domanda: Se ad aspettarlo non fosse una galera tedesca, ma un penitenziario italiano, non la scontata privazione della libertà, ma il tormento di essere rinchiuso in un inferno subendo le più indicibili torture, ma in primis la perdita di ogni frammento di dignità, crederebbe ancora eticamente e moralmente imperativa la sua scelta o penserebbe seriamente di dare mandato al suo legale di percorrere la strada dell’appello? Se dovesse finire in una delle peggiori carceri d’Europa a causa del sovraffollamento, con statistiche alla mano che parlano di 150 detenuti ogni 100 posti disponibili e quindi di luoghi invivibili, con personale insufficiente e una media altissima di suicidi tra i detenuti, ma anche tra gli impiegati del carcere e via dicendo; ecco… a questo punto vorremmo onestamente sapere se la decisione rimarrebbe la stessa. Giustizia: il "filo rosso" della certezza del diritto, le responsabilità di avvocati e giudici di Guido Alpa (Presidente del Consiglio nazionale forense) Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2014 Dal caso Superga (1953) al caso Meroni (1971) sono occorsi quasi vent’anni per mutare radicalmente l’orientamento della Corte di cassazione e riconoscere la responsabilità per la lesione del credito al di fuori di un rapporto contrattuale; dal primo caso sul danno biologico (il danno all’integrità psicofisica, Tribunale di Genova nel 1974), al suo riconoscimento quale voce autonoma di danno alla persona ne sono occorsi più di 15; per riconoscere il risarcimento del danno per la lesione di interessi legittimi da parte della pubblica amministrazione c’è voluto più di un secolo (Cassazione, sentenza n. 500 del 1999). Il diritto cambia, cambia mediante le proposte degli studiosi, mediante le tesi sostenute dagli avvocati nelle loro memorie a sostegno delle domande dispiegate in giudizio, cambia con l’adeguamento dell’interpretazione dei giudici alle esigenze economico-sociali. Ma con che ritmo il cambiamento è auspicabile? E come assicurare da un lato la prevedibilità dell’esito delle cause e dall’altro il sostegno al "diritto vivente"? La certezza del diritto, e quindi dei rapporti giuridici, che è messa in forse dal cambiamento, è un mito o una esigenza da soddisfare immancabilmente? Quanto spazio lasciare alla creatività del giudice? A queste e a molte altre questioni che riguardano la formazione del giurista, la sua attività pratica, l’analisi delle sentenze, la loro impugnazione dinanzi al giudice di merito e al giudice di legittimità si è dedicato il IX Congresso giuridico-forense di aggiornamento professionale, una iniziativa che il Consiglio nazionale forense coltiva ogni anno nell’ambito delle sue attività istituzionali, ora cristallizzate nella legge di riforma della professione forense. Duemila avvocati da ogni Ordine d’Italia, centosessanta relazioni, distribuite tra tavole rotonde, seminari, conferenze, presentazione di libri utili per l’esercizio della professione, la difesa dei diritti, le tecniche che appartengono alla funzione difensiva. Una straordinaria convergenza di idee, analisi, proposte, unite da un filo rosso unitario: l’uniformità della interpretazione delle norme, assicurata dalla Corte di cassazione (cosiddetta nomofilachia) e le nuove norme sul ricorso per cassazione, volte a renderlo più impervio, non deve andare a detrimento della innovazione, dell’interpretazione che adegua il diritto alla realtà dei fatti, della attuazione dei valori costituzionali e comunitari. Ciò che invece si deve evitare è la compresenza costante di conflitti di interpretazione, di svolte repentine e non comprensibili, di innovazioni poco motivate. I contrasti di giurisprudenza sono inevitabili, ma superabili: e pertanto i relatori hanno proposto soluzioni per porvi rimedio. È una situazione nella quale versa la giurisprudenza in tutti i settori, dal civile al penale, dall’amministrativo al commerciale, dal tributario ai settori del diritto e della procedura penale. Il primo presidente e il presidente aggiunto e il procuratore generale della Corte di cassazione ne hanno discusso in apertura del congresso con illustri ed esperti avvocati, cercando di individuare le cause dell’incertezza interpretativa e le modalità con cui porvi un margine. Il diritto non è interpretato e applicato in modo meccanico, il giudice non può essere la "bouche de la loi", la bocca della legge, come si pretendeva all’inizio dell’ Ottocento; ma non può neppure essere un libero creatore: la creatività deve essere meditata, e soprattutto giustificata. Non è dunque solo una preoccupazione di natura economica - assicurare la prevedibilità dei giudizi per dare certezza ai rapporti economici; è una preoccupazione di ordinamento e "tenuta" del sistema. A questo lavoro di riaggregazione, semplificazione, consolidamento e adeguamento l’avvocatura si dedica da molto tempo, perché il diritto non si limita a "registrare" i fatti della realtà, ma svolge un ruolo ben più alto e complesso: promuove lo sviluppo economico e sociale, anche attraverso l’interpretazione e la difesa dei valori della persona. Giustizia: da Notarbartolo al piccolo Cocò… quei novecento nomi delle vittime di mafia di Massimo Solani L’Unità, 23 marzo 2014 Il primo nome è quello di Emanuele Notarbartolo, era il 1893 e la mafia ancora un oggetto oscuro trattato più come folklore siciliano che non come un vero allarme, gli ultimi due quelli di Cocò Campolongo e Domenico Petruzzelli. Avevano entrambi tre anni e nessuna colpa se non il sangue di famiglia nelle vene. Per questo li hanno ammazzati a Corigliano Calabro e Palaggiano come due boss, come i grandi. In mezzo ci sono altri 839 nomi, 80 quelli dei bambini, i nomi delle altrettante vittime innocenti in più di cento anni di lotta contro le mafie. Volontari e amici di Libera li scandiscono dal palco di Piazza del Popolo davanti ad una folla silenziosa e commossa. Seduti nelle prime file ci sono i familiari di centinaia di loro, custodi ostinati della memoria a cui Libera da diciannove anni ha deciso di intitolare questo 21 marzo in attesa che una legge dello Stato la inserisca nel calendario istituzionale. "I famigliari non chiedono pietà vogliono soltanto giustizia e libertà", cantavano lungo la strada. E si capisce il perché: il 70% di loro, infatti, giustizia non l’ha avuta e gli assassini dei loro figli, padri e sorelle sono ancora senza volto. Lo sono, e probabilmente lo resteranno per sempre, anche quelli di don Cesare Boschin che la mattina del 29 marzo del 1995 la perpetua della parrocchia della Santissima Annunziata di Borgo Montello, a pochi chilometri da qui, trovò cadavere e incaprettato nella sua stanza. Dissero che era stato ucciso per una rapina, ma nella canonica e in chiesa quegli strani rapinatori che lo avevano picchiato a morte avevano lasciato alcuni milioni di lire e oggetti preziosi. Sparite, invece, le agende in cui don Cesare annotava tutto. Cercarono di infangarlo parlando di incontri gay nel suo appartamento e di frequentazioni ambigue, ma furono i suoi parrocchiani a difenderne memoria e onore ricordando le denunce contro un traffico di rifiuti illegali in zona (confermato poi anni dopo da diversi pentiti) e le richieste di aiuto rivolte ad alcuni politici della Dc romana. Era stato ucciso dopo mesi di avvertimenti scritti sui muri e di minacce ricevute assieme ai volontari del comitato civico che si era riunito attorno a lui, ma ci volle la tenacia dei suoi parrocchiani e di don Ciottti per includere il suo nome nelle statistiche delle vittime delle mafie. Contro gli stessi veleni aveva combattuto anche don Peppe Diana, con le stesse maldicenze cercarono di infangare la sua vita dopo i cinque proiettili che lo lasciarono a terra esanime sul sagrato della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe venti anni fa. Il suo volto, a Latina, si mescola fra la gente e gli striscioni con le maschere che indossano i ragazzi arrivati dalle terre di Gomorra. Il presidio di Libera, laggiù, è intitolato a Salvatore Nuvoletta, carabiniere ventenne fatto uccidere dai Casalesi da un sicario arrivato in Campania dalla Sicilia il 2 luglio del 1982. Non aveva nessuna colpa, non era neanche in servizio il giorno "incriminato", ma un giovanissimo Sandokan Schiavone, ai tempi soltanto "autista" e killer di fiducia del boss Antonio Bardellino, aveva deciso di vendicare la morte in un conflitto a fuoco con i militari del cugino Mario "Menelik" Schiavone. Ci vollero quattordici anni per conoscere la verità su quell’esecuzione, e la lotta solitaria di Papà Ferdinando e mamma Giuseppina contro il muro di gomma dei Casalesi. Una battaglia che ricorda quella di centinaia di altre famiglie simboleggiate dai capelli bianchi e lunghi di Enzo Agostino. Sotto il palco di Latina indossa una maglietta con stampata la foto del matrimonio di suo figlio Nino con la moglie Ida Castelluccio. Si erano sposati da appena un mese e lei aspettava un bimbo, li hanno uccisi assieme il 5 agosto del 1989 mentre entravano in casa dove avrebbero festeggiato il compleanno della sorella di lui. Ad attenderli fuori un commando in motocicletta, dentro invece c’era Enzo che da allora ha deciso di non tagliarsi più i capelli fin quando sul caso di Nino e Ida non sarà fatta luce. "L’ho detto anche al Papa - ripete - non lo farò finché non otterrò giustizia per Nino, Ida e il figlio che avrebbero avuto". Il venticello della maldicenza si alzò anche su quel poliziotto che collaborava con i servizi segreti. Parlarono di motivi passionali, questioni di corna, ma intanto poche ore dopo l’attentato qualcuno si premurò di far sparire dalla casa di Nino Agostino i suoi appunti dell’inchiesta segreta che stava conducendo sul fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone. "Io a quel ragazzo devo la vita", avrebbe confidato il magistrato ad un amico il giorno dei funerali. Il perché lo spiegò anni dopo un pentito, raccontando che Agostino (assieme al collega Emanuele Piazza, anche lui del Sisde e anche lui ucciso prima di essere sciolto nell’acido) era all’Addaura il giorno prima dell’attentato e potrebbe aver avuto un ruolo nel far fallire l’attentato contro Falcone. Ci sono anche i loro nomi in quella lista, assieme ai tanti sconosciuti senza volto che hanno pagato con la vita, da innocenti, il prezzo del potere mafioso. Come "i tanti che ancora ci sfuggono" ricordati dall’ex procuratore di Palermo e Torino Giancarlo Caselli nel fragore assordante dell’applauso della piazza. Giustizia: Sonia Alfano; la lotta alle mafie deve essere priorità politica Italpress, 23 marzo 2014 "È importante prendere parte a una manifestazione dedicata indistintamente a tutte le vittime delle mafie e che è l’occasione per ribadire ancora una volta come la lotta alla criminalità organizzata deve essere priorità dell’agenda politica di questo Paese". Lo ha detto Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe ucciso dalla mafia l’8 gennaio 1993, presidente della Commissione Antimafia Europea, oggi a Latina per la "Giornata della Memoria e dell’Impegno" organizzata da Libera e Avviso Pubblico in memoria di tutte le vittime innocenti delle mafie. "In questo momento - aggiunge - bisogna alzare la guardia ed essere pronti, più che mai, a rispondere a questa sfida. C’è tanto da fare: inasprire il regime del 41bis per impedire ai boss di esercitare il proprio potere criminale da dentro le carceri; cambiare l’approccio relativamente alla gestione dei beni confiscati, al fine di consentirne un reale utilizzo a scopi sociali e garantire sviluppo in zone in serissima difficoltà; inserire norme più dure per i reati legati al fenomeno della corruzione e del riciclaggio". "Il Parlamento europeo - sottolinea l’europarlamentare - ha fatto la propria parte, approvando un complesso ed ambizioso testo - contenente misure legislative e non - elaborato dalla Commissione Crim. Adesso, speriamo che l’Italia possa formulare e mettere in pratica le idee necessarie al miglioramento della legislazione antimafia italiana, senz’altro la migliore al mondo ma tuttavia perfettibile". Giustizia: strage nel tarantino; per motivi di ordine pubblico vietati i funerali uomo ucciso Ansa, 23 marzo 2014 Niente funerali pubblici per Cosimo Orlando, il detenuto in semilibertà ucciso con colpi di pistola il 17 marzo scorso alla periferia di Palagiano, in un agguato in cui sono morti anche la compagna Carla Maria Fornari, e il figlio di quest’ultima Domenico, di soli due anni e mezzo. Il questore di Taranto, Enzo Mangimi, ha firmato un provvedimento di divieto di svolgimento dei funerali di Orlando per motivi di ordine pubblico. La salma sarà trasportata direttamente al cimitero di Palagiano dove presumibilmente domani, sarà benedetta da un sacerdote prima della tumulazione. Il provvedimento è stato firmato dal questore in base all’articolo 27 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Ieri funerali donna e bimbo Si sono tenuti ieri pomeriggio nella chiesa di San Nicola a Palagiano, i funerali di Carla Maria Fornari e del suo bimbo Domenico, di soli due anni e mezzo, uccisi con colpi di pistola nella strage compiuta il 17 marzo scorso sulla statale jonica 106 alla periferia di Palagiano. Nello stesso agguato è stato ucciso Cosimo Orlando, detenuto in semilibertà, compagno della donna e vero obiettivo dei killer. Le esequie sono state presiedute da don Giuseppe Favale, amministratore diocesano della diocesi di Castellaneta e concelebrate dai tre parroci del paese, don Francesco Zito (chiesa di San Nicola), don Salvatore Casamassima (Immacolata) e don Giuseppe Ciaurro (Annunziata). Lettere: dal carcere al lavoro esterno… un detenuto racconta di Alessandro F. (Casa Circondariale "Mario Gozzini" Firenze) www.firenzepost.it, 23 marzo 2014 Sono detenuto da oltre cinque anni. Tra non molto sarò ammesso ad una misura alternativa alla detenzione: di giorno lavorerò all’esterno del carcere e alla sera vi rientrerò. Un traguardo importante. Alla notizia, non ho dormito per tutta una notte, tanta era l’agitazione. Penso di essere stato, e di esserlo ancora in parte, in preda ad un misto di felicità, paura e di chissà cos’altro ancora, dal punto di vista emotivo. C’è prima di tutto il rapporto con mio figlio da recuperare: quando fui arrestato aveva solo sette anni, mentre, tra non molto, ne compirà dodici. Quindi si tratta di un percorso particolare e anche molto delicato: sicuramente dovrà essere gestito bene. La paura e la consapevolezza che è prevalsa in tutti questi anni è stata quella di essere stato un modello sbagliato per mio figlio, di averlo lasciato da solo, di avergli causato traumi. Questo pensiero ha rappresentato una costante, l’incubo notturno che non mi permetteva di dormire serenamente, di sentirmi in pace con me stesso. Mi dà forza oggi riconoscere una cosa fondamentale: sento, percepisco in maniera inequivocabile, di essere riuscito a fare un buon percorso di revisione critica, nel tempo della pena. Non c’è stato giorno, nei lunghi cinque anni passati al fresco, in cui non mi sia posto l’obiettivo di rimettermi in gioco, di lavorare, soprattutto dal punto di vista psicologico, sui miei problemi, quelli che mi hanno portato in carcere e prima ancora a intraprendere una vita di devianza ed espedienti che avrei potuto benissimo evitare. Non sento assolutamente che tutto ciò che sta avvenendo oggi mi sia stato regalato. Anzi, è il risultato di quello che sono diventato oggi: un uomo diverso, cambiato e modificato profondamente. In precedenza avevo già ottenuto alcuni permessi premio che mi hanno consentito di sperimentarmi all’esterno, di ricominciare ad assaporare la vita, quella naturale, delle persone comuni. Perché quando si è all’interno di un carcere la realtà è pressoché distorta, innaturale. Un’altra cosa strana: non sento la necessità di uscire, anche se parzialmente, come se dovessi prendermi una sbronza di libertà. L’obiettivo principale che mi sono dato è quello di accontentarmi, di gustare quello che sono riuscito ad ottenere, dandogli un valore profondo, senza perdere di vista che sto ancora scontando la pena. In maniera diversa, questo è certo, ma sempre di pena si tratta: limiti, rientri in carcere, regole da rispettare, condotta adeguata, responsabilità da assumersi, lavoro da svolgere e quant’altro. Mi ritengo anche molto fortunato rispetto a quella che è la condizione di molti altri miei compagni che attualmente si trovano in carcere, in situazioni difficili, senza opportunità di intraprendere percorsi volti al recupero, alla rieducazione. Questo mi rattrista molto, anche perché continuo ad essere convinto che nessun uomo nasce delinquente e che c’è sempre una possibilità di rivedere certi aspetti di noi stessi. Purché si creino sempre maggiori opportunità: soprattutto all’interno delle carceri, che in questo momento sono tutto tranne che luoghi dove la persona possa veramente essere recuperata. Tranne eccezioni che purtroppo non fanno la regola. Rimini: detenuto s’impicca in cella, salvato in extremis dalla Polizia penitenziaria www.romagnanoi.it, 23 marzo 2014 La polizia riesce a salvare un detenuto. In Regione oltre 800 tentativi di suicidio nelle prigioni nel 2013. Solo il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria, in giro di ispezione nel momento del fatto, ha scongiurato la morte di un detenuto in un tentato suicidio in cella. Il fatto è avvenuto giovedì sera, 20 marzo, verso le 22,45 della sera nella casa circondariale di Rimini. Un tunisino, B.E.A. le sue iniziali, 31 anni, in carcere in attesa di giudizio con imputazioni per droga, si era ricavato una corda lavorando un lembo di lenzuolo ed ha tentato di impiccarsi fissandola alla parte superiore della finestra del bagno. Gli altri componenti la cella, nella 1^ sezione, se ne sono accorti e hanno gridato aiuto. Per fortuna in quella fascia oraria notturna gli agenti stavano facendo l’ordinaria ispezione nel corridoio e sono intervenuti immediatamente entrando nella camera di pernottamento in questione. La tempistica di quanto è accaduto subito dopo dimostra la determinazione e la professionalità del personale dei Casetti: alle 22,50 il suicida era già condotto nell’infermeria interna dove gli sono state prestate le prime cure del caso; cinque minuti dopo è stato richiesto l’intervento del 118 con medico a bordo; alle 23,10 l’autoambulanza ha fatto il suo ingresso nella casa circondariale e il medico a bordo ha potuto così dare il suo contributo a stabilizzare le condizioni del paziente; alle 23,35 l’ambulanza ha portato il 31enne all’ospedale "Infermi" di Rimini. Le modalità del tentato suicidio - specificano gli agenti - "in assenza dell’immediato intervento del personale di Polizia Penitenziaria, sarebbero state idonee certamente alla consumazione del gesto suicidario". Ai Casetti viene sottolineato che in quel momento della tarda serata era presente nel presidio medico l’infermiera, ma se per ipotesi questi episodi dovessero reiterarsi dopo le 22, in orario critico, "potrebbero compromettere le capacità di immediato intervento di soccorso e, conseguentemente, l’incolumità dei detenuti". Secondo il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) i problemi di questo tipo nelle carceri dell’Emilia Romagna hanno cifre impressionanti: nel 2013 i gesti di autolesionismo sono stati 811 (25 a Ferrara, 79 a Rimini, 72 a Reggio Emilia, 7 a Ravenna, 235 a Piacenza, 102 a Parma, 7 a Forlì, 5 a Castelfranco Emilia, 171 a Bologna, 108 a Modena); i tentativi di suicidio sono stati 126 (6 a Ferrara, 6 a Rimini, 19 a Reggio Emilia, 1 a Ravenna, 36 a Piacenza, 17 a Parma, 4 a Forlì, 1 a Castelfranco, 10 a Bologna, 26 a Modena); si sono verificati 9 decessi per cause naturali (1 a Ferrara, 4 a Reggio Emilia, 2 a Parma, 1 a Castelfranco, 1 a Bologna), inoltre 110 ferimenti e 288 colluttazioni. "Da sottolineare - scrivono in una nota i sindacalisti del Sappe Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso - le 126 vite salvate in carcere dalla Polizia Penitenziaria, nonostante le gravi carenze di personale di Polizia Penitenziaria. In Emilia Romagna mancano circa 600 unità". Napoli: 18enne evade da carcere minorile di Nisida, bloccato dopo un inseguimento Ansa, 23 marzo 2014 Durante l'inseguimento i poliziotti hanno dovuto esplodere in aria alcuni colpi d'arma da fuoco: Antonio Nocerino, 18 anni, destinatario di un provvedimento restrittivo e allontanatosi dal carcere minorile di Nisida, ha tentato invano di sfuggire alla cattura a Napoli. Ha cercato la fuga in auto, insieme a una coetanea estranea ai fatti, ma è andato a sbattere contro un bidone dei rifiuti. E' fuggito a piedi ma è stato bloccato. Il giovane era stato condannato per spaccio di droga. Vicenza: la Uil-Pa Penitenziari denuncia "ecco il degrado in cui lavoriamo…" Corriere Veneto, 23 marzo 2014 Il reportage fotografico dei poliziotti: sporco, infiltrazioni, escrementi di animale. "Al direttore chiediamo di usare meglio le risorse che lo Stato ci assegna" Un reportage fotografico dal carcere di Vicenza, per denunciare le situazioni critiche in cui lavorano i poliziotti: dagli escrementi di capra nella guardiola alle tende della doccia ricavate con un sacco nero, agli spazi nelle celle così ridotti che i detenuti, quando vogliono muoversi, spostano tavoli e sedie e li mettono sopra ai materassi. I sindacalisti della Uil Penitenziari sabato mattina hanno vestito i panni dei fotoreporter e, con il permesso dell’autorità penitenziaria centrale, hanno documentato l’interno di San Pio X. L’iniziativa si chiama "Lo scatto dentro": "Questo è il trentesimo carcere che documentiamo, in Italia - spiega il segretario nazionale della categoria Uil Gennarino De Fazio - al San Pio X molte problematiche, sovraffollamento a parte, potrebbero essere risolte con un minimo investimento da parte della dirigenza". Bergamo: non andrà in carcere imprenditore che uccise ladro, tribunale differisce pena Ansa, 23 marzo 2014 Non andrà per il momento in carcere Antonio Monella, l’imprenditore bergamasco nei confronti del quale all’inizio del mese la Cassazione ha confermato la condanna a 6 anni e due mesi di cella per aver ucciso, nel 2006, un albanese di 19 anni che gli stava rubando l’auto davanti casa. Il tribunale di sorveglianza di Brescia ha infatti accolto l’istanza degli avvocati Andrea Pezzotta ed Enrico Mastropietro per il differimento dell’esecuzione della pena. Per almeno sei mesi l’imprenditore resta libero e la sentenza di condanna non sarà eseguita. A sostegno di Monella in queste settimane si è schierata la Lega Nord sollecitando la grazia chiesta al Presidente della Repubblica dallo stesso imprenditore. Il 5 marzo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al question time ha annunciato che sarebbe stata avviata tempestivamente l’istruttoria relativa alla domanda di clemenza. Pesaro: "L’uomo è un animale feroce", conferenza-spettacolo con Silvio Castiglioni Ansa, 23 marzo 2014 Il 26 marzo, per la Giornata nazionale del Teatro in carcere, la Casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro ospita una conferenza spettacolo del Teatro Aenigma, "L’uomo è un animale feroce", di e con Silvio Castiglioni. Tratta dai Monologhi di Nino Pedretti, la performance parla di un uomo che prende la parola a un congresso di studiosi per un breve intervento, ma si impossessa del microfono e della scena e si abbandona a un soliloquio sulla sua vita, con trascinanti effetti comici. Alba (Cn): i liceali portano la libertà in carcere… incontro con i detenuti, cui donano libri La Stampa, 23 marzo 2014 Portare la libertà in una carcere. È quanto hanno fatto alcuni alunni della 5ª A del liceo di Scienze Sociali dell’istituto Balbo di Casale, visitando la casa circondariale di Alba. I giovani, dopo averli raccolti nei mesi scorsi grazie alla disponibilità della libreria "Labirinto" di Casale, hanno donato alla biblioteca del carcere una trentina di libri, con la speranza che potesse essere lo strumento più adatto per evadere da una condizione di reclusione totale. Gli studenti, inoltre, durante la visita hanno avuto la possibilità di spendere alcuni momenti con un gruppo di detenuti, confrontandosi direttamente con chi ha sbagliato nella vita e con chi, ora, vuole saldare il proprio debito con la società oltre a cercare una nuova possibile strada per il proprio futuro. Le attività proposte dai ragazzi, che comprendevano l’approfondimento della conoscenza ma anche laboratori di scrittura, sono state coinvolgenti e hanno creato, fin dai primi momenti, un’atmosfera che ha permesso una reale condivisione del contesto carcere. Il gruppo di giovani è stato accompagnato in quest’esperienza dal professore Diego Manetti e dal preside dell’istituto Riccardo Calvo. Nuoro: 7 detenuti domiciliari con "braccialetto", attivato sistema elettronico di controllo di Tiziana Simula La Nuova Sardegna, 23 marzo 2014 La prima nell’isola alla quale è stato applicato il braccialetto elettronico, il 17 gennaio scorso, è stata una donna nomade che sconterà la pena di due anni di reclusione nel luogo dove vive: in un campo rom a Macomer. L’ultimo dispositivo elettronico di controllo, invece è stato stretto poche settimane fa intorno alla caviglia di Gian Pietro Brandone, pensionato di Onanì, finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’Operazione Orione portata a termine dagli agenti della squadra mobile di Nuoro, che hanno stroncato un imponente traffico e spaccio di stupefacenti. Sette braccialetti. Almomento sono sette i braccialetti elettronici in uso in provincia: a Nuoro, Oliena, Fonni, Onanì, Escalaplano e due a Bitti. "Siamo stati la prima provincia in Sardegna a ricorrere a questo metodo di controllo", spiega il capo della squadra mobile della questura di Nuoro, Fabrizio Mustaro. Il dispositivo elettronico è uno dei provvedimenti previsti dal decreto "svuota carceri", recentemente convertito in legge, normativa che stabilisce, tra le altre cose, che il suo utilizzo diventi la regola e non più l’eccezione. Prima, infatti, il giudice, nel disporre i domiciliari, lo prescriveva solo se necessario. Adesso, invece, li prescrive in ogni caso, a meno che, valutato il caso specifico, non ne escluda la necessità, e in questo caso deve motivarla. L’applicazione Sono tre i casi in cui il giudice dispone l’applicazione dello strumento elettronico di controllo: per gli arresti domiciliari, ma anche in caso di detenzione domiciliare su disposizione del magistrato o del tribunale di sorveglianza. Il detenuto sconta cioè la pena nella propria casa anziché in carcere, sorvegliato costantemente dal braccialetto elettronico che fa scattare l’allarme nella sala operativa delle forze dell’ordine con cui è collegato, se dovesse allontanarsi dall’abitazione. Il braccialetto, infine, viene utilizzato per contrastare episodi di stalking come modalità di controllo nel caso in cui il gip disponga nei confronti dello stalker il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima. Il funzionamento Ogni volta che l’imputato o la persona sottoposta a misure cautelari si allontana dal perimetro stabilito, il dispositivo allacciato alla caviglia, fa scattare l’allarme nella sala operativa allestita negli uffici di polizia e nelle caserme, e a quel punto intervengono le forze dell’ordine che raggiungono l’abitazione per verificare se ci sia stata un’evasione. "Il braccialetto elettronico funziona con una sim, e quindi con segnale gsm della Telecom, o con segnale tramite linea telefonica fissa se non c’è copertura del segnale gsm - spiega la dirigente delle Volanti della questura di Nuoro, Manuela Marafioti. Il segnale viene ricevuto costantemente nella nostra sala operativa su un pc, che entra in allarme se la persona si allontana dal perimetro fissato (abitazione e dipendenze, giardino o cantina). Il perimetro entro il quale muoversi viene calibrato durante la prima installazione, in seguito a un sopralluogo effettuato dal tecnico della Telecom. Il braccialetto è impermeabile e non si toglie mai - sottolinea la dirigente dell’ufficio della questura. Se si prova a toglierlo scatta immediatamente l’allarme". La legge "svuota-carceri" La storia dei braccialetti elettronici inizia nel 2001 quando una norma introdusse il suo utilizzo per gli arresti domiciliari, ma non ha mai avuto molta fortuna, anzi, tante sono state le polemiche sul suo impiego e sui costi. Per l’acquisto dei braccialetti, il ministero dell’Interno stipulò una convenzione con la Telecom Italia: 9 milioni di euro per 2mila dispositivi elettronici. La Corte dei Conti la definì "una reiterata spesa anti-economica e inefficace". Ora, la conversione in legge dello "svuota-carceri" stabilisce come regola il ricorso ai braccialetti elettronici per i domiciliari, un provvedimento legislativo che ha l’obiettivo di assicurare un controllo più costante e capillare, senza ulteriore aggravio per le forze di polizia. Le carenze "Il ricorso ai braccialetti elettronici ci consente di risparmiare risorse che destiniamo ad altre attività di controllo del territorio -, aggiunge il dirigente della squadra mobile Mustaro. Mettere una persona agli arresti domiciliari senza braccialetto significa che più volte al giorno gli agenti debbano andare a controllare che rispetti le consegne, mentre con il braccialetto il controllo è costante, 24 ore su 24, e al minimo allarme si può mandare una Volante a verificare". Tutto bene allora? Non completamente, pare. "Stiamo perfezionando il sistema con la Telecom - conclude Fabrizio Mustaro - perché ancora ci sono molti falsi allarmi che richiedono da parte nostra sempre un controllo accurato". La direttrice di Badu e Carros: positivo ridurre il sovraffollamento "Salutiamo positivamente l’arrivo del braccialetto elettronico e di qualsiasi provvedimento che consenta di alleggerire il sovraffollamento delle strutture carcerarie, consentendo condizioni più umane a quei detenuti che devono scontare la pena in carcere". Accoglie con favore la disposizione prevista dalla legge svuota-carceri e l’applicazione anche nel Nuorese dello strumento di controllo elettronico, la direttrice del carcere di Badu e Carros, Carla Ciavarella. "Posto che il carcere dev’essere l’extrema ratio, è bene accetto ogni strumento che può evitare all’imputato di stare in cella". Così come è accaduto alla nomade di 31 anni, detenuta a Buoncammino, madre di una bimba piccolissima, la quale potrà continuare a scontare la pena nel campo rom dove vive, pochi chilometri da Macomer. Il suo è l’unico provvedimento disposto dal Tribunale di sorveglianza per detenzione domiciliare, negli altri 6 casi, l’uso dei braccialetti è stato disposto dal gip per i domiciliari. Sassari: tutti in coda per visitare l’ex carcere di San Sebastiano, un detenuto fa da guida di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 23 marzo 2014 Folla nella prima giornata di apertura dell’ex istituto di pena di via Roma. Un detenuto fa da guida: "Era un inferno eppure oggi mi sento a casa. La cosa più brutta è sentirlo tuo questo posto". Girare tra le celle di San Sebastiano da visitatore qualunque è un conto, farlo da ex detenuto significa "sentirti terribilmente a tuo agio, come fossi a casa". E, purtroppo, vuol dire anche ripiombare nell’incubo di quei tanti, troppi giorni, vissuti tra le mura di un penitenziario che di umano aveva ben poco. Roberto sta scontando un cumulo pena di undici anni per reati vari. "Tra una cosa e l’altra - dice guardandosi intorno - qui dentro ho passato vent’anni della mia vita". Oggi ha diritto a lavorare all’esterno, come previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. È un esperto di informatica e sta lavorando nel progetto per il recupero e la digitalizzazione dell’archivio di Tramariglio. Di giorno lavora e di notte rientra a Bancali. Lui ieri, nella prima giornata di apertura di San Sebastiano alla gente, è stato una guida perfetta non soltanto per riuscire a districarsi tra stanze, muri e grate del carcere ma per conoscere i sentimenti, i timori, il profondo disagio che un detenuto era costretto a vivere appena metteva piede nell’istituto di via Roma. Adesso, vedendolo così affollato, quel carcere fa meno paura. Migliaia di persone sono rimaste in coda dalla mattina, ininterrottamente fino alle 18. Un lavoro impeccabile quello del Fai, con gli studenti e i volontari a fare da Cicerone nei meandri dell’istituto. Moltissimi quelli che a un certo punto della serata hanno dovuto abbandonare la fila: gli organizzatori hanno chiuso i cancelli. Troppi i visitatori, appuntamento rimandato a oggi, stessa ora: 10-18. "Il ricordo peggiore - racconta Roberto mentre cammina tra le celle e spiega a qualcuno come funzionava la vita lì dentro - è l’acqua fredda. Lavarsi con la sensazione di avere il ghiaccio sulla pelle, non riuscirò a dimenticarlo mai. Così come era triste, al momento dell’ingresso, vedere gli agenti che non sapevano dove sbatterti. Nel 2010 mi sono trovato a dividere la cella con musulmani, ebrei, 14 persone in uno spazio di 30metri quadri, un fornellino per tutti nel bagno in comune: cucinavamo nello stesso posto in cui facevamo i bisogni". Ora Roberto finirà di scontare la pena a Bancali, un altro ambiente. Chi è in regime di semilibertà sta in un’ala a parte. Lui è impegnato in un progetto importante: dopo la prima assunzione con una sorta di borsa di studio da parte della ditta coop Digitable di Oristano ha conseguito il patentino europeo di informatica e sogna di poter "costruire un futuro nuovo quando sarò completamente libero". Di sicuro lui è sulla buona strada. "Ma è il mondo lì fuori che non è pronto ad accoglierci". Il vero limite è proprio questo. Rita Nonnis: qui dentro ho capito di essere un medico Era laureata da appena sei mesi quando è entrata per la prima volta a San Sebastiano con il camice bianco. La dottoressa dei carcerati per sei lunghi anni: dal 1983 al 1989. Ha visto passare per l’istituto di via Roma personaggi criminali di grosso calibro, ha visitato detenuti mafiosi diretti all’Asinara, ma guai a chiederle nomi: "Il segreto professionale dura tutta la vita". Rita Nonnis, oggi affermato chirurgo nelle cliniche universitarie San Pietro, ieri mattina aveva gli occhi lucidi: "Qui ho capito di essere un medico". E lo dice con convinzione, la stessa che ha quando sostiene che quelli "sono stati gli anni più importanti della mia vita", professionale e non. Quando la dottoressa Nonnis arrivò a San Sebastiano, in carcere era stata allestita anche una sala operatoria, che durò poco: "Feci interventi di appendicite, ernie inguinali, utilizzammo la sala per circa un anno e mezzo". Poi venne chiusa perché la gestione era troppo complicata e poco compatibile con una struttura di quel tipo. Ricorda gli interventi più frequenti: "Inghiottivano soprattutto le lamette, ma nello stomaco dei detenuti trovammo anche pezzi di antenne della radio". Il problema umano era fortissimo: "Ho imparato sul campo cosa sia la simulazione. Fingevano di star male perché così andavano in infermeria e parlavano col medico, l’unico modo per avere un contatto "esterno". Oppure speravano di essere trasferiti in ospedale per accertamenti". Per non parlare, poi, dei gesti di autolesionismo: "Ciò che non potevano sfogare all’esterno lo sfogavano dentro di sé". Ecco perché parla di "emozione fortissima" nel rivedere dopo tanto tempo quei luoghi. L’infermeria, le celle, il degrado delle docce, l’aria gelida della rotonda, qualche quadro appeso al muro per dare una parvenza di umanità a un posto che tutto ti faceva sentire fuorché un uomo come gli altri: "Ci adattavamo -ha detto a proposito un altro ex detenuto, Lorenzo Spano - perché l’uomo si adatta. Fossimo stati animali non sarebbe successo". E ha ben ragione Rita Nonnis quando, riferendosi al carcere, dice: "Questa è la parte oscura del mondo. Un mondo forte, ricco, un mondo di separazione netta dalla realtà. Ecco perché qui ho imparato a vivere". Perché ha avuto modo di conoscere l’altra faccia della medaglia, ha toccato con mano il dolore dei "colpevoli". E anche dei tanti che hanno riconosciuto i propri errori - come Roberto e Lorenzo - e che oggi hanno voglia di voltare pagina. Finalmente. "Ma se la società non ti dà una mano - dicono loro - e sei disperato, ricaderci è un attimo". Campobasso: carcere con vista… l’insospettabile volto artistico dell’istituto penitenziario www.primapaginamolise.it, 23 marzo 2014 La prospettiva più inaccessibile della città per una mattina accessibile. Aperta, senza fardelli e drammi, senza accuse, giustizia e ingiustizia. Senza sangue e dolore. Celle con vista, aperte a sconosciuti con la fedina penale pulita. L’iscrizione alle giornate Fai di primavera ti porta dentro al cuore della libertà limitata, dove, forse, è difficile parlare di arte, eppure qualcosa di arte c’è nel carcere di Campobasso. Per una mattina da lì, dall’inaccessibile che si fa accessibile, guardi e ammiri la città sotto il bel sole di un fine marzo intensamente primaverile. Un panorama nuovo, unico, a suo modo straordinario. Cammini nell’alto di un’ampia e imponente torre vetrata, progettata per controllare tutto e tutti, dove anni prima si alternavano, ore dopo ore, severi controllori. Le più moderne telecamere hanno mandato in pensione quella vecchia mansione. Adesso è una finestra piena di luce sul risveglio ormai andato di Campobasso, un faro senza più il suo guardiano. Sul momento ti insegnano che quella visuale che non concede nascondigli risponde all’effetto panottico. Capirne funzione e significato, alla fine, è piuttosto immediato. Non hai immagini, foto, video da riportare a casa. Cellulari, macchine fotografiche, tablet, nulla. Per chi li ha addosso, subito la perentoria cortesia di lasciarli nelle cassette di sicurezza all’ingresso. E fa niente, la sensazione che resta è così intensa che per una volta il ricordo dello sguardo può valere più dell’immortalità di uno scatto, mentre il portone più inquietante del centro città si chiude alle tue spalle. È un fatto potente, un’emozione mista e confusa di tanti sentimenti, quello che resta della visita nel carcere di via Cavour. La casa circondariale del capoluogo molisano, monumentale edificio nel cuore dell’ordine e del disordine urbanizzati, chiuso, chiusissimo ai più (diciamolo pure: nessuno normalmente vorrebbe entrarci), per una volta è patrimonio a porte aperte (quasi, anzi parecchio quasi) del Fai. Una scelta importante, quella del Fondo ambiente italiano, che dopo Milano ha individuato nel più antico istituto penitenziario molisano una tappa di esclusivo interesse per gli appassionati di arte e architettura. Una scelta azzeccata, stanti la storia e la potenza di questa misteriosa struttura cittadina. Si sapeva che il carcere di Campobasso era "bello". Bello dal punto di vista storico e strutturale. Si sapeva per sentito dire. Oggi ce n’è conferma, seppure non sfugga agli occhi nessuno dei segni di declino e cedimento. Le risorse che scarseggiano, l’indifferenza dello Stato centrale per la periferia fisica, sociale e umana, le riconosci in ogni pezza di intonaco scrostato, in ristrutturazioni posticce commissionate nel tempo senza troppo rispetto allo stile originario. Bello perché antico, massiccio, testimonianza di un’epoca unica, rivoluzionaria, capace di consegnare a distanza di secoli la sua impronta innovativa. Il progetto risale al 1830, quando il Molise era contado del Regno delle Due Sicilie. Il carcere venne realizzato nel tempo con una prima ultimazione trent’anni dopo. La luce arrivò soltanto nel 1927, quando l’Italia era sotto il regime fascista. Doveva essere un carcere moderno e sicuramente lo è stato, rispondente a quell’idea che man mano cambiava, sotto la spinta illuminista, sul valore della detenzione. E proprio quell’impronta, di filosofia e scienza, ti fa scoprire un mondo insospettato. Giudicato per i luoghi comuni che gravitano attorno a tutte le strutture carcerarie. E invece da dentro tutto è diverso, tutto è più profondo. Profondo, empatico, è lo sguardo dall’alto di quella torre, sormontata dal cupolone che ogni campobassano conosce, su quegli uomini in basso che camminano, con passi veloci, tutti uguali, avanti e dietro nello stretto di cortili cintati. Sono i detenuti, chissà se avvisati della presenza dei visitatori del Fai, a viversi la loro ora d’aria. Per fortuna, oggi c’è il sole. Intanto il tour all’interno prosegue: ciceroni per un giorno, assieme all’architetto Vittorio Di Pardo, volontario del Fai, gli agenti in divisa della polizia penitenziaria. Con loro anche una funzionaria preparatissima del carcere. La disponibilità è tanta e colpisce. Sanno davvero tutto di quelle mura possenti e impenetrabili. A tratti anche leggendarie. Per un tempo passava come carcere di massima sicurezza, l’istituto penitenziario campobassano. A guardare tutti, i tanti e troppi, palazzi imperiosi costruiti intorno che spiano indisturbati, a volto scoperto, con finestre infinite e balconi spavaldi, gli spazi angusti del carcere, viene da chiedersi di che sicurezza mai si possa parlare. La cementificazione selvaggia, concessa da sempre tutt’attorno nella città, diventa ancora più invisa per questo paradosso. Ma tant’è. Passo dopo passo, lungo i corridoi che sanno di freddo, nonostante il sole che entra e illumina tutto, in particolare le piante ("qui in carcere fanno bene", la rivelazione diverte gli ospiti curiosi), i nomi di quegli uomini che la storia criminale italiana ricorda e ricorderà. Cutolo? "Come no? Don Raffè è stato qui". Vallanzasca? "Il Bel Renè tentò pure la fuga". E poi, dalle tristi cronache recenti, Angelo Izzo, "era nel reparto dei collaboratori". Un brivido sale a ripensare all’elenco di sangue e morti. E cresce di fronte alle diapositive che, a conclusione del giro, l’architetto Di Pardo fa scorrere sul proiettore nella sala teatro del carcere. Documenti, schizzi, immagini in bianco e nero, ricostruzioni del processo di costruzione della casa penitenziaria di via Cavour. Documenti, schizzi e ricostruzioni, custoditi dall’Archivio di Stato: carte che danno anche il senso della grandezza offerta, e mai colta nei secoli, alla città Campobasso. Doveva contare qualcosa nel Regno delle Due Sicilie se il suo carcere, di forma esagonale con una torre centrale, è tra i prototipi, rari esempi con Avellino e Palermo, realizzati in Italia. "Difficile per me concepire questa struttura come architettura. L’architettura per me deve elevare il livello di qualità della vita", sentenzia con un’intensità tutta sua Di Pardo. E probabilmente ha ragione, ma chissà perché l’angolo di verde, fatto di pini altissimi che svettano in alto, racchiuso all’interno delle mura di cinta, un tempo limitate da un fossato, i tavoli ristrutturati dai detenuti, i volti distesi, familiari, degli agenti, le celle che ti dicono che non sono sovraffollate, tutto questo, chissà perché, ti fa pensare che un senso di umano là dentro ancora resiste. E pensarlo fa bene. Televisione "A sua immagine" (Rai 1) entra nelle carceri, per scoprire il perdono Ansa, 23 marzo 2014 Continua il ciclo quaresimale di "A Sua Immagine" sul filo conduttore del Messaggio di Papa Francesco. Tema centrale della puntata in onda domani, su Rai1 alle 10.30, sarà la relazione tra peccato, pena e perdono. Un tema che si toccherà con mano nell’attualità del carcere. In studio con Lorena Bianchetti, don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, e Mauro Cavicchioli, della cooperativa Pungiglione, che porta avanti progetti di recupero e accoglienza di detenuti ed ex detenuti molto efficaci. Nel notiziario, presentato da Giulia Nannini, i principali appuntamenti e avvenimenti della Chiesa italiana. A seguire, dopo la Messa, la seconda parte del programma metterà a fuoco un tema di grande attualità: la tratta degli esseri umani. A partire dalla Via Crucis di solidarietà e preghiera che si è tenuta a Roma il 21 marzo, per "le donne crocifisse", si parlerà del fenomeno dello sfruttamento degli esseri umani. Purtroppo la schiavitù è ancora molto diffusa, la prostituzione forzata in strada è la tipologia di tratta più conosciuta, ma nel corso degli ultimi decenni è aumentato il numero di persone rese schiave in altro modo: traffico di organi e sfruttamento lavorativo. Sarà approfondito l’argomento con Flaminia Giovanelli, sottosegretario generale del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Infine, grande attesa per il consueto appuntamento con l’Angelus del Papa. Libri: "Cronache dal ventre della bestia", di Jack Henry Abbott recensione di Andrea Colombo Il Manifesto, 23 marzo 2014 Nuova edizione per DeriveApprodi del bestseller di Jack Henry Abbott. Una parte rilevante della cultura americana esce dall’università delle galere a stelle e strisce. Gli autori di quella scuola hanno scritto i loro saggi e i loro romanzi tra pestaggi e celle d’isolamento. Sono narratori e sociologi e leader politici che hanno lasciato un tatuaggio di sangue sulla pelle immacolata dell’America. Qualcuno è uscito e si è rifatto una vita, come Ed Bunker e Chester Himes. Qualcuno è morto in carcere, come George Jackson o Jack Henry Abbott.In quel genere a sé che è la letteratura carceraria americana, Abbott occupa una postazione unica. In una vita spesa tutta tra correzionali minorili e penitenziari, aveva divorato tutti i libri che riusciva a farsi spedire, ma soprattutto quelli di filosofia. Era diventato comunista, un marxista colto e sofisticato che intrecciava la lezione di Marx con un esistenzialismo fortemente critico nei confronti dei santoni dell’esistenzialismo del suo tempo, a partire da Jean Paul Sartre. Il suo primo libro, Nel ventre della bestia, uscito nell’81 con grandissimo successo e riproposto ora in Italia da DeriveApprodi (pp. 189, euro 15), non è solo la cronaca raccapricciante di una interminabile stagione passata nel più atroce degli inferni. È anche una riflessione articolata a diversi livelli, sociologica, psicologica, politica, etica, a tratti persino metafisica, sulla presa che l’istituzione carceraria esercita sull’animo più ancora che sul corpo delle proprie vittime. Da un carcere all’altro La trattazione eclettica, i salti continui dalla narrazione alla speculazione, dallo sguardo del filosofo a quello del testimone diretto, non derivano da uno stile consapevolmente scelto. Il libro è frutto di una fitta corrispondenza tra Abbott e lo scrittore Norman Mailer, composto da amplissimi stralci delle lettere che il detenuto forse peggio trattato che ci fosse allora nelle carceri americane, rinchiuso sin dall’età di 9 anni, con sulle spalle 14 durissimi anni di isolamento, inviava allo scrittore famoso, allora impegnato a scrivere il libro che sarebbe poi diventato "Il canto del boia. La storia di un altro detenuto condannato a morte", Gary Gilmore. Born Under A Bad Sign, recitava il titolo di un classico blues scritto nei Sessanta, proprio negli anni in cui Abbott passava da un pestaggio a un altro, e poi a forme più sottili e micidiali di tortura. Anche lui era nato sotto la stella peggiore che si possa immaginare. Nato nel 1944 dall’incontro casuale tra un soldato e una prostituta di origine cinese, sballottato per tutta l’infanzia da un istituto minorile all’altro. A 18 anni scopre la libertà, ma la vacanza dura poco: sei mesi appena, poi torna in carcere per aver falsificato qualche assegno. In carcere ammazza un altro detenuto e il fine pena slitta di parecchio: dai tre ai vent’anni di detenzione. Nel 1971 riesce a evadere, rapina una banca, torna in manette nel giro di sei settimane. Rispetto alla stragrande maggioranza dei suoi compagni di detenzione, Abbott vanta due particolarità tanto rare quanto poco invidiabili. Fa parte di una esigua schiera di ragazzi che del mondo hanno fatto un’unica esperienza, quella dell’universo concentrazionario, dove i bambini vengono trattati e picchiati e puniti come adulti, e gli adulti ridotti a eterni adolescenti perché sottoposti 24 ore su 24 a un dominio pieno, fondato sull’arbitrio assoluto. In più, il carattere non lo aiuta. Non sopporta l’autorità, sfida i secondini, disobbedisce puntualmente alle regole non dette ma ferree della disciplina carceraria, fondata sull’obbedienza e sulla sottomissione. Alla detenzione, si aggiungono così le tipiche "pene accessorie" che affliggono chiunque finisca dietro le sbarre, però moltiplicate all’infinito. Lo pestano di brutto un giorno dopo l’altro, senza nemmeno bisogno di una scusa. Lo seppelliscono per anni in celle d’isolamento che sembrano ideate dagli scienziati del Terzo Reich. Ci sono quelle dove si campa al buio più assoluto, nutrendosi quasi solo di pane, acqua e, a piacere, scarafaggi. Poi arrivano quelle più moderne e asettiche, dove la luce non si spegne mai e si resta incatenati al letto per settimane e mesi, tanto il bugliolo è un buco al centro della stanza e non ci vuole niente ad allungarsi. I cervelloni si divertono anche con le sostanze psicotrope che, sommate alla già innovativa "deprivazione sensoriale", danno risultati interessanti. Sotto una cattiva stella Come narratore, Abbott possiede un impatto empatico assoluto. Paragonato al suo tunnel degli orrori, le efferatezze di "12 anni schiavo" fanno la figura di un giulivo picnic domenicale. All’improvviso, però, scarta, devia dal racconto, passa ad analizzare, a volte caoticamente, mai però con superficialità, gli effetti di questo sistema concentrazionario sulla percezione dell’esperienza, del tempo, e dello spazio, sulle relazioni sociali e umane, sui rapporti con il potere e con l’etica. È in virtù di queste digressioni e di questi approfondimenti che, partendo da un’esperienza specifica e particolare come la sua, riesce a svelare le logiche dell’intero universo carcerario. Non solo di quello degli Usa nella seconda metà del Novecento ma sempre e ovunque. Anche qui e anche ora, nell’Italia delle galere straripanti. Nel 1981 Mailer riuscì, in contemporanea con l’uscita di Nel ventre della bestia, a far ottenere al suo autore la libertà condizionale. Ma Jack Henry Abbott era nato sotto una cattiva stella, per colpa di una intera vita passata nel cortile di qualche galera più che di un capriccio maligno degli astri. Sei settimane dopo essere uscito di prigione uccise a New York un giovane cameriere, in un alterco provocato dalla richiesta negata di usare la toilet del ristorante. Dopo un mese di fuga in giro per l’America e il Messico, fu arrestato, condannato, rinchiuso di nuovo. Quando le presero, scoprì di essere autore di un best seller che gli avrebbe fruttato milioni di dollari, tutti finiti in risarcimento ai parenti della vittima. Sarebbe uscito di nuovo di galera solo da morto, dopo essersi impiccato nel febbraio 2002. India: il ministro Alfano; pronti ad accettare arbitrato, ma due marò tornino subito liberi Tm News, 23 marzo 2014 "Lunedì ho incontrato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, per parlargli di due ragazzi italiani che hanno onorato la nostra patria, i due marò che da due anni sono detenuti in India senza una imputazione formale". Lo ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano, intervenendo stasera ad una manifestazione organizzata da Ncd a Catania. "L’Italia li vuole liberi, l’Italia è pronta ad accettare l’esito di un arbitrato internazionale - ha detto Alfano - ma nel frattempo vogliamo questi due ragazzi liberi, perché erano lì a servire il Paese, in una azione contro la pirateria internazionale ed è inaccettabile pensare che si possa applicare contro di loro una legge contro il terrorismo". Pinotti: sono spina nel cuore per popolo italiano I due marò detenuti in India, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, sono "una spina nel cuore per tutto il popolo italiano". Lo ha detto stamani a Milano il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, nel suo discorso alla cerimonia di giuramento degli allievi della Scuola militare Teuliè. "Sono stata recentemente a trovarli e a portare loro il conforto del governo - ha detto ancora -, sono militari italiani e devono tornare in Italia, non è più sostenibile questa situazione". Iraq: sventato assalto a seconda prigione più grande del paese Aki, 23 marzo 2014 Le forze di sicurezza irachene hanno sventato un tentativo di irruzione di un commando armato nel carcere di Badoush, il secondo più grande dell’Iraq. Lo ha dichiarato un responsabile della sicurezza della provincia settentrionale di Niniveh, Mohammed Ibrahim, in un’intervista ad "Alsumaria". "Un poliziotto e alcuni uomini armati sono morti in un tentativo, avvenuto nella notte, di irrompere nel carcere di Badoush", a Mosul, ha dichiarato Ibrahim, precisando che la prigione poco prima era stata attaccata con colpi di mortaio. "Le guardie del carcere - ha aggiunto - hanno ora rafforzato la sicurezza intorno al carcere per prevenire un nuovo attacco". Egitto: 16 studenti al-Azhar condannati a tre anni carcere per scontri di scorso dicembre Aki, 23 marzo 2014 Sedici studenti dell’università di al-Azhar, la massima istituzione dell’islam sunnita, sono stati condannati a tre anni di carcere da un tribunale di Nasr City, in Egitto. Lo ha riferito il sito web del quotidiano "Al-Ahram", secondo il quale i 16 giovani sono stati condannati in relazione agli scontri avvenuti il 9, 10 e 28 dicembre scorsi al Cairo. Gli studenti sono stati ritenuti colpevoli di tafferugli, blocco della circolazione stradale, assalto ad agenti di polizia e partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Sono stati condannati, inoltre, per il possesso di molotov e per adesione ad un’organizzazione terroristica. Medio Oriente: contatti Usa-Israele su questione liberazione di 26 detenuti palestinesi Ansa, 23 marzo 2014 La negoziatrice israeliana Tzipi Livni ha incontrato ieri a Gerusalemme l’emissario statunitense Martin Indyk per superare lo stallo in cui versano i negoziati israelo-palestinesi. Lo ha riferito la radio militare secondo cui si cerca una soluzione alla questione della prossima liberazione di 26 detenuti palestinesi. L’Anp insiste perché avvenga entro marzo mentre Israele, secondo la stampa, la condiziona all’impegno del presidente Abu Mazen a proseguire i negoziati. Ieri Abu Mazen ha ribadito al Comitato centrale di al-Fatah che Israele si è impegnato nel luglio scorso a rilasciare oltre 100 detenuti palestinesi (reclusi da oltre 20 anni) in quattro scaglioni. La liberazione del quarto scaglione è adesso imminente. "Se costoro non saranno liberati, si tratterà di una violazione degli accordi. Ciò ci permetterà - ha aggiunto - di agire nella maniera opportuna, nel contesto degli accordi internazionali". La stampa palestinese aggiunge che la scorsa notte l'emissario statunitense Indyk ha discusso della questione anche con il negoziatore palestinese Saeb Erekat.