Giustizia: l’emergenza dimenticata di Michele Ainis Corriere della Sera, 22 marzo 2014 C’è una desaparecida nel turbine della nostra vita pubblica: la giustizia. Da quando il nuovo esecutivo ci ha svegliati dal letargo, saltiamo come picchi sui rami più diversi - la riforma costituzionale, e poi quella del lavoro, e poi la legge elettorale, la spending review, il fisco, la burocrazia. E il motore in panne della macchina giudiziaria? A quanto pare non trova più meccanici. Curioso, dato che negli ultimi vent’anni la politica l’aveva sventolato come il maggiore dei problemi. Doppiamente curioso, proprio adesso che l’astro di Berlusconi parrebbe declinante, sicché i partiti potrebbero ragionarci senza astio, senza secondi fini. Ti viene il sospetto che tutto quel vociare fosse solo un gioco di Palazzo. Come se non esistesse viceversa un nesso fra la produttività economica e quella giudiziaria, come se gli italiani non fossero orfani d’uno Stato che sappia distribuire i torti e le ragioni. E allora stiliamo un promemoria, dal momento che la politica ha perso la memoria. Anche perché la malattia peggiora, insieme al nostro umore. Bruxelles ci ha appena informati che in Italia i processi civili sono i più lenti d’Europa, se si eccettua Malta. Su dati del 2012, la loro durata media è di 600 giorni; erano 500 nel 2010. Dunque il triplo rispetto alla Germania, oltre il doppio rispetto a Francia e Spagna. In compenso ne aumentano i costi (6% in più). A sua volta, la Banca Mondiale ci colloca al 60esimo posto (su 185 Paesi) per la tutela giurisdizionale dei contratti. Per forza, con 5,4 milioni di processi pendenti, e per lo più rinviati alle calende greche (7 su 10). 0 con la nostra giostra d’appelli e contrappelli, quando altrove l’appellabilità delle sentenze è quasi un’eccezione. D’altronde negli Usa la Corte suprema riceve 80 casi l’anno, da noi la Cassazione ne assorbe 80 mila. Ma le riforme organizzative dell’ultimo triennio hanno sparato a salve: il filtro sulle impugnazioni si è reso funzionante nel 4% dei casi a Milano, nell’1% a Roma. Tuttavia non c’è solo una crisi d’efficienza. È in crisi l’eguaglianza, perché 130 mila prescrizioni l’anno sono un salvagente per i ricchi, per chi possa permettersi un avvocato che sa come tirarla per le lunghe. Ed è in crisi la credibilità dei giudici. Succede, quando la magistratura è divisa in fazioni, che attraverso un’acrobazia linguistica si definiscono «correnti». Quando ogni corrente fa correre i propri correntisti, lottizzando il Csm, distribuendo posti e prebende. Quando alla Procura di Milano divampa uno scontro di potere, di cui leggiamo il resoconto in questi giorni. Quando certi magistrati sono più loquaci d’una suocera, nonostante gli altolà di Napolitano. Quando la loquacità li ricompensa con una candidatura alle elezioni, sicché il pubblico ministero conquista un ministero pubblico. Quando infine nessuno paga dazio, quale che sia il suo vizio: nel 2013, su 1.373 procedimenti disciplinari, ne è stato archiviato il 93%, e solo in 5 casi è intervenuta la richiesta d’una misura cautelare. Da qui un paradosso: il potere irresponsabile diventa poi meno potente, giacché perde l’auctoritas, la fiducia popolare. Ma da qui anche un circolo vizioso: l’inefficienza genera diffidenza, la diffidenza genera il rifiuto d’accettare i verdetti giudiziari, il rifiuto genera un fiume di ricorsi, i ricorsi generano nuova inefficienza. Dev’esserci un modo, tuttavia, di spezzare la catena. Magari cominciamo ricordando che è questo il ferro al quale siamo incatenati Giustizia: Sottosegretario Ferri; riorganizzazione carceri, per migliore sicurezza e qualità Public Policy, 22 marzo 2014 Quello del sovraffollamento carcerario è un "problema serio di fronte al quale il governo presta grande attenzione e il massimo impegno. Lunedì il ministro della Giustizia Andrea Orlando andrà a Bruxelles a parlare proprio di questo per dare delle risposte all’Europa. La strada che stiamo percorrendo è quella giusta, verso diverse prospettive e misure che insieme dovrebbe risolvere il problema carcerario". Questo "non ci deve esimere dal controllare all’interno degli istituiti penitenziari". "È importante garantire i diritti umani, la dignità umana e il diritto alla salute anche a chi è ristretto nei nostri istituti". Nel tempo "è stato predisposto un nuovo modello organizzativo per migliorare la sicurezza" nelle carceri "per migliore le qualità detentive e penitenziarie e per dare più spazio a chi abiti negli istituti di pena". Lo dice in aula alla Camera il sottosegretario al ministero della Giustizia, Cosimo Maria Ferri, rispondendo a un’interrogazione presentata dal Pd (a prima firma della responsabile Giustizia del partito Alessia Morani) che chiede al governo quali indagini amministrative "siano state avviate in quegli istituti penitenziari, dove accadrebbero violenze verso le persone recluse", nonché quali azioni intenda mettere in atto "al fine di prevenire abusi nelle carceri, rendere gli istituti di pena più trasparenti e garantire il rispetto dei più elementari diritti umani dei detenuti". L’interrogazione fa riferimento a una video inchiesta pubblicata sul sito del Corriere della Sera sul fenomeno delle morti in carcere "che, in poco più di un decennio - si legge nell’interrogazione - sono state 2.230: si tratta di decessi avvenuti per cause naturali o suicidio, ma dall’inchiesta emergono anche casi di morte dovuta a malasanità in carcere e pestaggio". Ferri ha però riportato numeri diversi da quelli presenti nell’interrogazione: "Secondo i dati in possesso del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap; Ndr) risulta che dal 2003 al 2013 si sono registrati 1.671 episodi di decesso, 581 dei quali per suicidio e 1.190 per morte naturale". "Dobbiamo valorizzare - prosegue - quello che di positivo c’è già: abbiamo dei presidi sanitari all’avanguardia con una forte sinergia con le regioni che gestiscono il servizio sanitario". Sul fronte del sovraffollamento carcerario "alcune soluzioni - spiega - le ha trovate la politica in sede legislativa con l’introduzione dell’istituito della messa alla prova, alcune depenalizzazioni e la sospensione del procedimento per gli irreperibili". La messa alla prova "garantisce la certezza della pena e la rieducazione del detenuto". E conclude: per il rispetto dei diritti dei detenuti "la giustizia prevede un organo indipendente che è la Magistratura, che vigila per il rispetto delle leggi, anche nelle carceri". Con l’ultimo decreto carceri - conclude - è stato istituito "il Garante nazionale dei diritti dei detenuti che va ad aggiungersi a figure già esistenti. Tra i compiti del nuovo Garante c’è quello di vigilare l’esecuzione della detenzione sia attuata in conformità dei diritti previsti dalla Costituzione e delle convenzioni internazionali". Giustizia: Gonnella (Antigone); Orlando pensi a riforme efficaci… mancano solo due mesi Ansa, 22 marzo 2014 "Mancano solo due mesi alla scadenza data dalla Corte di Strasburgo all’Italia perché le nostre carceri tornino nella legalità. Non c’è molto tempo. Dunque, il ministro Orlando pensi ad un mix di riforme immediate e efficaci". Lo afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri. "Il punto non è rassicurare la corte dei diritti umani che l’Italia sta lavorando per migliorare la situazione - spiega Gonnella - ma arrivare lì con la certezza di un programma che non si esaurisca il 28 maggio ma duri nel tempo. Un programma che Strasburgo valuterà con grande rigore". Secondo Gonnella, infatti "serve una riforma non solo normativa ma anche di riorganizzazione della vita all’interno delle carceri, una riforma immediatamente efficace perché i cambiamenti in questo campo non possono essere fatti a piccoli passi ma in maniera veloce e radicale". "La vita all’interno delle sezioni deve essere aperta - aggiunge - ma riempita di cose da fare. La salute dei detenuti va garantita subito, servono messaggi chiari e forti. Sul carcere non c’è discrezionalità ma doverosità". Giustizia: Uil-Pa; popolazione carceraria a 60mila unità… circa 3mila in celle sotto 3 mq Ansa, 22 marzo 2014 "A quanto ci risulta, in base alle ultime rilevazioni, il numero dei detenuti complessivo è sceso intorno a 60 mila e quelli dei detenuti che in cella dispongono di spazi inferiori ai 3 metri quadri è sceso a 2.500-3.000". È quanto riferisce il segretario della Uil-Pa penitenzi Eugenio Sarno. La superficie di almeno tre metri quadri a persona è il requisito minimo chiesto dalla Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo perché non si configuri il trattamento inumano e degradante, con la violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti umani. Proprio il mancato rispetto di questo parametro è una delle cause centrali per cui Strasburgo ha condannato l’Italia nel gennaio 2013 per il sovraffollamento delle carceri: la sentenza riguardava il caso di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, che l’Italia ha dovuto risarcire versando centomila euro, ma più in generale chiedeva all’Italia rimedi strutturali, imponendole un termine per adeguarsi che scadrà il 25 maggio, mentre ad oggi sono tremila per cause pendenti per motivi analoghi a quelli che hanno motivato la condanna che sono state "congelate" dalla Corte in attesa delle risposte dell’Italia. Il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria stanno mettendo a punto un pacchetto di misure e dati sulla popolazione carceraria e sugli spazi a disposizione dei detenuti che lunedì e martedì prossimi il guardasigilli Andrea Orlando porterà a Strasburgo. "Nelle prossime ore - aggiunge Sarno - chiederò al ministro un incontro, non solo per invitarlo al nostro congresso di ottobre, ma anche per sollecitare la convocazione di un confronto con i rappresentanti dei sindacati di polizia penitenziaria e per riferirgli le nostre preoccupazioni sul ddl sulle pene alternativi, che così com’è rischia di non avere alcun impatto sugli ingressi in carcere, perché necessita di una revisione dei massimi delle peni edittali". Giustizia: Clemenza e Dignità; amnistia e indulto possono veicolare un messaggio positivo www.infooggi.it, 22 marzo 2014 "Rispetto molto, ma non condivido l’idea che amnistia e indulto, costituiscano, in assoluto, un messaggio altamente diseducativo per i nostri giovani. Gli stessi provvedimenti clemenziali, se adottati in una forma condizionata molto stringente, ovvero in una forma che condizioni l’estinzione del reato o della pena al non commettere degli ulteriori reati per un consistente periodo di tempo, fornirebbero, anzi, uno straordinario messaggio istruttivo per i giovani: l’esistenza di una seconda opportunità, l’esistenza della possibilità di porre un limite al peggio, l’esistenza della possibilità di rialzarsi, l’esistenza della possibilità di migliorarsi." È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, responsabile del movimento Clemenza e Dignità. Giustizia: il ministro Orlando ha firmato la "Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti" Agi, 22 marzo 2014 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora, e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, Lia Sacerdote, hanno firmato oggi il protocollo d’intesa "Carta dei figli dei genitori detenuti", il primo documento del genere in Italia e in Europa che riconosce formalmente il diritto dei bambini, figli di detenuti, alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore che si trova in carcere e, al contempo, ribadisce, il diritto alla genitorialità. "Ho ritenuto importante, nel lavoro sul carcere, partire proprio da qui - ha tenuto a precisare il ministro Orlando - cioè da un punto di vista meno considerato di solito, quello dei figli dei detenuti" Sono proprio i bambini, i cui genitori si trovano in carcere, ha constatato il ministro della Giustizia, che pagano "il prezzo più alto delle disfunzioni e delle iniquità che si sono determinate nel sistema penitenziario italiano, i bambini che, incolpevoli, subiscono una condizione di disagio, trauma e difficoltà che rischia di segnare tutto il corso della loro vita. Con questo protocollo, che valorizza anche il ruolo di soggetti del mondo del volontariato, vogliamo stabilire alcuni punti fermi su come i bambini debbano essere tutelati in questa esperienza". Il documento "stabilisce dunque - ha ribadito il ministro - alcuni punti fermi a loro garanzia, individuati insieme al Garante dell’Infanzia ed elaborati dagli uffici del ministero. È un modo di rispondere anche alle fondate critiche su ciò che non funziona in questo settore". Il documento si compone di otto articoli, il primo dei quali stabilisce il diritto per i bambini e gli adulti a vedere riconosciuta la continuità del rapporto affettivo anche nel caso in cui uno o entrambi i genitori vengano arrestati. Una garanzia che va tutelata salvo impedimenti giudiziari o casi di reati nei confronti di minori e anche in situazioni familiari di particolare fragilità, così che il momento della detenzione non costituisca un ulteriore peggioramento del rapporto genitori-figli ma sia, per i primi, un’occasione di ricostruzione dello stesso. Il secondo articolo elenca le condizioni che dovrebbero agevolare la frequentazione da parte dei bambini del genitori detenuto, come ad esempio la scelta di un luogo di visita che favorisca il contatto, la regolarità delle visite, la presenza di una spazio dedicato ai bambini nelle sale d’attesa e nelle sale colloqui dei penitenziari, l’organizzazione delle visite nel pomeriggio così da evitare ai bambini di dover saltare la scuola. L’articolo 3 stabilisce la possibilità per il genitore di essere presente a tutte le occasioni e ricorrenze importanti nella vita del bambino: compleanni, recite scolastiche, festività, diploma o laurea. Il protocollo prosegue quindi sottolineando l’importanza di una formazione adeguata del personale che opera nei penitenziari affinché non venga mai dimenticato che famiglie e bambini dei detenuti sono persone libere e come tali entrano e devono essere trattate in carcere. È necessario, inoltre, che figli e familiari dei carcerati abbiano informazioni appropriate, aggiornate e pertinenti in ogni fase del processo. Di particolare importanza, ha tenuto a sottolineare la presidente della Onlus Bambinisenzasbarre, Lia Sacerdote, è l’articolo 7 del protocollo che afferma la necessità di escludere per i bambini la permanenza sia negli istituti penitenziari che in quelli a custodia attenuata e di prevedere per il genitore misure alternative alla detenzione. Il documento prevede infine la raccolta, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e di quello per la giustizia minorile, delle informazioni relative ai minori i cui genitori siano detenuti e l’istituzione di un Tavolo permanente, composto da soggetti istituzionali e non che verificherà e monitorerà periodicamente l’attuazione del documento, favorendo lo scambio di buone pratiche, a livello nazionale ed europeo. Quanto alla presentazione del documento a livello europeo, il ministro Orlando ha tenuto a sottolineare il valore che una buona pratica come quella contenuta nel protocollo può avere anche per altri paesi dell’Ue. "Noi - ha precisato - non mettiamo sul tavolo questo protocollo per chiedere indulgenza all’Europa (sul tema della gestione carceraria, ndr). Diciamo anzi che questo è un percorso che può essere seguito anche da altri Paesi europei e rivendichiamo il primato di aver realizzato una carta importante come questa, un lavoro che - ha voluto ricordare Orlando - ho ereditato in gran parte già approfondito e svolto dal mio predecessore, il ministro Annamaria Cancellieri. Ma ho ritenuto importante, nel lavoro sul carcere, partire proprio da qui, perchè si tratta di misure che insieme ad altre possono contribuire in modo importante al percorso di umanizzazione della pena. Misure che - ha annunciato infine - presenteremo nelle prossime settimane". La presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre ha tenuto a ricordare come il documento potrà avere una vasta eco a livello europeo grazie alla rete Children of prisoners Europe, di cui la onlus fa parte. "Si tratta di un passo avanti molto importante perchè - ha ricordato - i bambini con uno o entrambi i genitori in carcere, nel nostro Paese, sono 100mila. Un enorme numero di bambini che portano quotidianamente con se questo segreto e che non hanno bisogno di essere trattati come bambini speciali ma solo di veder riconosciuta questa condizione e di essere tutelati". Il Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, Vincenzo Spadafora, ha garantito il proprio impegno per la massima diffusione del protocollo presso altri soggetti istituzionali come il ministero dell’Istruzione e ha poi sottolineato l’importanza della formazione del personale che lavora nei penitenziari. Infine, ha auspicato che si possa realizzare presto "un’ampia riforma della giustizia minorile e dell’ordinamento penitenziario minorile". Il presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, ha infine posto l’accento sull’importanza, per il ministro della Giustizia, "di iniziare l’attività con un documento che tocca un punto incandescente della questione carceraria, quello in cui si concentrano maggiormente le cause e gli effetti della gestione penitenziaria del nostro Paese, il rapporto tra genitori detenuti e figli. Nel tempo, infatti, il carcere si è trasformato da strumento di privazione della libertà e di risocializzazione dei detenuti a strumenti di sperequazione sociale, in particolare - ha concluso - sul fronte della genitorialità". Garante Infanzia: Protocollo non sarà lettera morta Un protocollo "che nasce dal lavoro di chi conosce bene la materia" e che per questo motivo "non resterà lettera morta": così il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, ha definito l’intesa siglata oggi con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e la presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre, Lia Sacerdote, sui diritti dei figli dei detenuti. C’è anche "un lavoro da fare sulla formazione della polizia penitenziaria" ha spiegato il Garante, che si è detto disponibile a cofinanziare questa formazione. "Siamo preoccupati dalle difficoltà in Italia ad affrontare le questioni dell’infanzia e dell’adolescenza, che non sono solo di risorse ma anche di consapevolezza e di conoscenza dei problemi" ha concluso Spadafora, auspicando che "presto si possano fare passi avanti sulla riforma della giustizia minorile e dell’ordinamento giudiziario minorile". Alla presentazione del protocollo è intervenuto anche il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, che ha sottolineato come il rapporto fra cercare e minori sia "l’aspetto più dolente del sistema penitenziario" e quindi partire da qui significa "affrontare la crisi generale della giustizia dal momento sul quale si depositano tutte le cause e gli effetti delle storture del sistema" Osservatorio Bullismo: bene firma Ministero Giustizia di Carta figli detenuti "La sottoscrizione da parte del ministero della Giustizia e del Garante per l’infanzia della "Carta dei figli dei genitori detenuti" è una iniziativa lodevole riguardante centomila minori che entrano nelle carceri italiane perchè hanno un genitore detenuto". È quanto afferma Paola Ferrari De Benedetti, portavoce dell’Osservatorio nazionale bullismo e doping. "La Carta punta a tutelare e proteggere bambini e adolescenti che si trovano in una situazione sotto innumerevoli aspetti, estremamente difficile - spiega - Situazione che, se guardata sotto altre prospettive, solleva anche nuove importantissime questioni in merito ai figli di detenuti, come quella affrontata dal deputato del Pd Ernesto Carbone, in una proposta di legge che mira a togliere la patria potestà ai boss mafiosi, quindi anche a coloro i quali hanno commesso crimini gravissimi come i reati di strage o traffico internazionale di droga". Sottolinea ancora Paola Ferrari De Benedetti: "Lo scopo non è solo quello di indebolire le mafie che fondano il loro potere sulla famiglia, ma quello, certamente validissimo, di sottrarre i minori coinvolti a un futuro predestinato per offrire loro l’opportunità di avere un’altra vita, di poter pensare e agire diversamente da come sono stati abituati nella famiglia mafiosa nella quale sono nati". Per la portavoce dell’Osservatorio nazionale bullismo e doping, "si tratta di considerazioni di cui tenere conto: occorre una profonda riflessione, il cui fine ultimo sia il bene e l’interesse di chi non ha nessuna colpa e ha diritto ad avere un destino diverso". Giustizia: solo 36% delle carceri ha locali destinati esclusivamente alle visite dei bambini Agi, 22 marzo 2014 Gli istituti penitenziari ancora carenti alla prova dell’accoglienza dei figli dei detenuti. Alla fine del 2013, infatti, solo il 36% delle 213 carceri italiane aveva locali destinati esclusivamente alle visite dei bambini. A scattare la fotografia di questo particolare aspetto della gestione carceraria italiana è stata l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, che oggi in occasione della firma di un protocollo d’intesa sulla tutela dei diritti dei figli di genitori detenuti, con il ministero della Giustizia e il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ha presentato la ricerca "Il carcere alla prova dei bambini", realizzata lo scorso anno con la collaborazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dall’indagine è emerso che il 74% degli istituti è provvisto di spazi destinati all’attesa del colloquio da parte dei bambini, ma meno della metà (il 36%) ha colorato o addobbato le pareti di queste stanze e le ha attrezzate in giochi (39%). Una percentuale ancora più bassa ha bagni riservati ai bambini, solo il 13% mette a disposizione un fasciatoio e un 5% dà la possibilità di scaldare un biberon. Al momento dell’ingresso nel penitenziario per la visita al genitore, il 57% degli istituti prevede che i bambini vengano perquisiti da personale femminile, il 47% obbliga sempre al passaggio attraverso un metal detector. Solo nel 19% dei casi i bambini vengono perquisiti solo se ritenuto necessario e nel 39% il personale carcerario assiste al cambio pannolino. Nel 59% dei casi - riferisce la ricerca - i bambini reagiscono con molto disagio a queste procedure. Dei 100mila minori che quotidianamente entrano nei penitenziari italiani per fare visita a un genitore, il 72,7% è di nazionalità italiana. Sul fronte della gestione delle visite, l’Associazione Bambinisenzasbarre sottolinea come nel 90% dei casi, ai detenuti che svolgono attività lavorative durante tutti i giorni feriali non sono consentite visite la domenica, nell’86% I detenuti non possano ricevere telefonate da parte dei figli. Il 91% dei penitenziari, inoltre, non dispone di personale specializzato all’accoglienza dei bambini e l’84% non ha orari per favorire l’ingresso dei bambini (ad esempio nel pomeriggio). La maggior parte degli istituti, il 64%, prevede un massimo di sei ore mensili di visita. Nel corso delle visite, infine, solo il 10% consente sempre ai genitori di consumare un pasto con i propri figli, il 39% lo permette solo in alcune situazioni, mentre il restante 51% non lo consente mai. Giustizia: ministro Alfano; dopo strage nel Tarantino analisi permanente su scarcerazioni Ansa, 22 marzo 2014 "Abbiamo capito che le scarcerazioni avvenute e quelle che potrebbero avvenire possono determinare alti eventi e altri crimini. Ecco perché abbiamo stabilito, insieme a tutta la squadra dello Stato, di fare un’analisi permanente di tutti gli scarcerati e degli scarcerandi". Lo ha detto il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, incontrando i giornalisti al termine della prima parte del Comitato nazionale per l’ordine e per la sicurezza pubblica, convocato nella Prefettura della città jonica, a seguito del triplice omicidio di Palagiano. La legge si applica - ha aggiunto - e quindi se devono essere scarcerati o se possono stare in semilibertà, nessuno può impedire che ci siano (come nel caso di Cosimo Orlando il pregiudicato ucciso lunedì, quasi certamente principale obiettivo dell’agguato in cui è morto anche un bimbo di due anni e mezzo ndr) ma allo stesso dobbiamo impedire che le carceri si svuotino e si riempiano i cimiteri. Questo lo impediremo con un programma mirato, a misura di Taranto, di controllo del territorio". Bubbico: carceri migliori, più sicurezza "Il ministro ha considerato importante attivare una procedura di sorveglianza e di monitoraggio perché noi dobbiamo adempire agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali". Lo ha detto, riferendosi alla creazione di un desk interforze che analizzerà i profili di chi entra ed esce dalle carceri, il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico lasciando la prefettura di Taranto al termine della riunione del Comitato nazionale per la sicurezza e l’ordine pubblico, che è stata presieduta dal capo del Viminale, Angelino Alfano. "Dobbiamo migliorare il nostro sistema carcerario - ha aggiunto Bubbico - dobbiamo garantire anche condizioni civili e umane per i carcerati, ma dobbiamo fare tutto questo mantenendo alta la priorità per la sicurezza dei cittadini". Quanto al lavoro investigativo sul triplice omicidio di Palagiano di lunedì scorso, Bubbico ha sottolineato che "c’è una cooperazione veramente feconda tra le forze di polizia e questo è il modello da diffondere in tutto il Paese". Al termine della riunione del Comitato per la sicurezza, il ministro Alfano, prima di lasciare la Prefettura, ha incontrato separatamente l’arcivescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro, e il sindaco del capoluogo ionico, Ippazio Stefàno. Toscana: il Garante; inagibilità fisica delle carceri, casi più gravi sono Arezzo e Livorno www.nove.firenze.it, 22 marzo 2014 Il Garante Corleone ha evidenziato, soprattutto, la "scarsa efficacia nella gestione delle risorse per l’edilizia carceraria". "Problemi di agibilità fisica per molte strutture carcerarie toscane dove, seppur in presenza di risorse economiche, non si è capaci di realizzare nemmeno interventi di edilizia minima". Questo l’aspetto che spicca su tutti nel bilancio presentato, questa mattina, ai giornalisti dal garante regionale dei diritti delle persone detenute della Toscana Franco Corleone, dopo aver visitato diverse case circondariali della Toscana. Corleone ha evidenziato, soprattutto, la "scarsa efficacia nella gestione delle risorse per l’edilizia carceraria". "Occorre - ha detto il garante - un cambio di passo, l’amministrazione penitenziaria è come un pachiderma che non si rende conto della gravità della situazione, è una macchina che ansima. La Toscana potrebbe diventare un buon esempio perché ci sono progetti che funzionano come il teatro a Volterra o i libri scritti dalle donne a Sollicciano". Le situazioni più gravi presentate dal garante sono ad Arezzo e a Livorno. Ad Arezzo un "carcere funzionante - ha detto - è stato chiuso nel 2010 per un progetto di ristrutturazione demenziale che prevedeva lavori al primo e secondo piano e non al piano terra, un progetto che non è mai stato terminato. I lavori sono iniziati giusto per rendere la struttura inagibile, poi tutto è stato abbandonato al degrado". "A Livorno, invece - ha proseguito Corleone - c’è un nuovo padiglione chiuso che non può essere utilizzato perché manca di collaudo". Corleone ha ricordato che per Sollicciano ci sarebbero i soldi per attivare la seconda cucina e per i lavori per i servizi igienici femminili ma "non si capisce perché - ha detto - queste opere non vengano realizzate". Criticità diffuse anche nella struttura di Grosseto sia perché il "carcere è piccolo ed angusto sia perché mancano un’area verde e spazi comuni per le attività sia per la presenza, per motivi di sicurezza, di troppe grate che compromettono la veduta dei detenuti". Problemi anche nel carcere di Lucca dove almeno parte di una sezione attualmente chiusa potrebbe essere ristrutturata per aumentare la capienza dell’istituto. A Massa è "urgente la riapertura di una sezione detentiva chiusa ormai da oltre un decennio. La struttura - ha aggiunto il garante- è stata consegnata, ha superato il collaudo nel 2012 ma per essere riaperta necessita ancora di lavori". La casa circondariale di Pisa presenta "condizioni generali mediocri e sono necessari diversi lavori come nella sala colloqui". "Struttura con ridotti spazi comuni e celle sovraffollate", è stata definita quella di Pistoia dove sarebbe utile "attivare gli spazi resi disponibili dal vicino convento ad uso semilibertà o per altri fini". Un "quadro preoccupante" quello delineato da Corleone, "ma - ha detto - ci sono molte cose possibili da fare subito. Abbiamo scritto ai dipartimenti e ai provveditori facendo presente che la situazione va sanata. Ci siamo dati tempo fino a Pasqua per vedere se qualcosa succede, altrimenti apriremo un forte contenzioso". Fino al punto - ha spiegato Corleone - "di mettere in pratica il blocco della vita dei penitenziari". Al 28 febbraio il numero dei detenuti nei nostri istituti è di 3774 (di cui 143 donne e 1970 stranieri) a fronte di una capienza totale regolamentare di 3299. Il tasso di affollamento medio nella regione è del 114% ma la realtà cambia da istituto ad istituto. Le realtà più affollate sono Pistoia (189%), Sollicciano (167%) e Prato (144%). Le meno affollate Arezzo (34%) e Livorno (53%) ed in entrambi i casi si tratta di istituti in ristrutturazione, la cui capienza effettiva è molto inferiore a quella ufficiale. "L’Opg di Montelupo deve essere chiuso senza ulteriori proroghe. Per la Toscana ci sono le condizioni, bisogna avviare da subito il processo di rientro degli internati non toscani verso le regioni di appartenenza". Questa la strada indicata dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Franco Corleone. "Per i 40 internati rimasti - ha aggiunto il garante - non sarebbe difficile trovare strutture alternative adeguate e dopo la chiusura dell’OPG sarà possibile la destinazione della sola sezione III a custodia attenuata da 80-100 posti". Corleone ha spiegato che in questa realtà permane una situazione di incertezza che deriva dalla mancata applicazione della legge che prevede il superamento dell’Opg attraverso la creazione di piccole strutture terapeutiche territoriali. Auspico che il Parlamento non approvi alcuna proroga alla scadenza prevista dalla legge per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Sarebbe un grave errore e verrebbe interpretata come una opportunità per non chiudere mai queste strutture". Brogi (Pd), pieno sostegno al progetto di percorsi lavorativi "L’idea di dare vita a percorsi lavorativi all’interno dei nostri istituti penitenziari ha tutto il mio supporto: da sempre considero questo aspetto una priorità per le drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti. Il progetto presentato in Commissione emergenza occupazionale da Vincenzo Ramalli, amministratore di Manifattura Toscane Riunite Impresa Sociale e promosso da Confindustria Toscana, sono sicuro che darebbe vita a un filo conduttore tra due mondi che purtroppo hanno delle barriere incredibili. Una vera e propria boccata d’ossigeno sia dentro che fuori dalle carceri". È quanto dichiara Enzo Brogi, consigliere regionale toscano del Pd, riguardo alla proposta di dare il via al lavoro nei penitenziari toscani, fatta in Commissione emergenza occupazionale da Vincenzo Ramalli, amministratore di Manifattura Toscane Riunite Impresa Sociale e promosso da Confindustria Toscana. "Tante volte ho ribadito la necessità di creare percorsi volti al reinserimento nella società per i detenuti che, nella maggior parte dei casi, una volta finita di scontare la pena, tornano nella società senza alcun tipo di prospettiva; quando invece imparare un mestiere darebbe loro un’opportunità non da poco. In secondo luogo - sostiene Brogi - ci sarebbero risvolti positivi anche per le aziende che in questo modo metterebbero un freno alla delocalizzazione. Oltre ad essere favorevole al progetto, appoggio anche l’ipotesi dare vita a una proposta di legge regionale che regolamenti tutto ciò e garantisca una carta da giocare nella società per tanti detenuti. Pertanto, mi impegnerò a presentare una proposta di legge da discutere nel mio gruppo consiliare". Arezzo: cinque agenti per ogni detenuto, così si spreca spazio e denaro di Sergio Rossi La Nazione, 22 marzo 2014 Questa è la storia di un carcere a pezzi e di 50 agenti penitenziari che fanno la guardia a dieci detenuti. Tutti collaboratori di giustizia. Questa è la storia del carcere di Arezzo: lo trovi subito, entrando da Nord. È in via Garibaldi, la strada più lunga della città, che dal suo ingresso più settentrionale arriva a incunearsi nel cuore del centro storico. I guai per questa struttura, chiamata San Benedetto, cominciano tre anni fa, quando l’amministrazione penitenziaria decide di partire con una ristrutturazione di cui già da mesi si parlava. Non è che prima i problemi non ci fossero, erano quelli comuni a tante galere patrie, sovraffollate come un treno di pendolari nell’ora di punta. Anche 140 detenuti hanno ospitato le vecchie celle, mentre la capienza massima si fermava a 82. Ma al carcere, guidato dal direttore Paolo Basco, si facevano pure cose interessanti, vedi le numerose rappresentazioni teatrali messe in scena dalla compagnia dei detenuti. O altre iniziative sperimentali che per anni hanno messo il penitenziario all’avanguardia in Italia. Poi l’irreversibile declino. Giugno 2011 è la data fatale. Ci sono teoricamente a disposizione 2 milioni, utili a rifare il muro di cinta, la sala controlli e soprattutto la sezione maschile. San Benedetto chiude e parte il cantiere, affidato alla ditta genovese Calderoni Srl. Che si ferma a metà del muro di cinta visto che dallo Stato i baiocchi non arrivano. Oggi, marzo 2014, siamo ancora a quel punto anche se il carcere viene parzialmente riaperto nel 2012, con la sola sezione una volta femminile e adesso non più. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Nelle sedici celle riaperte sono ospitati dieci collaboratori di giustizia, mentre gli agenti in servizio non sono quelli di prima, ma comunque in sovrabbondante numero: erano 70, sono 50. Non è che se ne stiano con le mani in mano, da San Benedetto continuano a transitare gli arrestati poi tradotti dalle stesse guardie in altre carceri. Decine ogni giorno, ci fanno sapere i sindacalisti. Ma, insomma, la sproporzione tra sorvegliati e sorveglianti resta macroscopica anche pensando alle povere casse pubbliche sottoposte a ogni genere di sprechi. Per un detenuto trasferito all’ospedale, com’è accaduto recentemente, ci sono voluti otto agenti al giorno, due ogni sei ore.Lo scialo, purtroppo, non sta tutto qui. Sta anche nelle condizioni di fatiscenza in cui il resto del carcere (muro di cinta, sala controlli, sezione maschile) è precipitato. Sono gli stessi sindacalisti a denunciarlo: "Sono state tolte anche le finestre e ora ci piove dentro, la struttura è diventata il paradiso di topi e di piccioni". Intanto San Benedetto ha ottenuto pure un piccolo record. Elaborando i dati del ministero, la Fondazione Leone Moressa ha fregiato appena pochi giorni fa il carcere aretino del titolo di seconda struttura meno affollata d’Italia: vuoto l’82% delle celle potenziali, soltanto Gorizia è stata capace di fare meglio. O di peggio, a seconda dei gusti. In via Garibaldi, nella civilissima Arezzo, c’è dunque una ferita aperta che ha bisogno non di cerotti, ma di un intervento chirurgico. Per non buttare via il denaro. Tempio Pausania: detenuti in libertà, per donare un parco giochi alla frazione di Nuchis di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 22 marzo 2014 L’inaugurazione, ieri mattina, del parco giochi di Nuchis, donato dai detenuti della Casa di reclusione "P. Pittalis", dislocata nella piccola frazione tempiese, è diventata occasione per riflettere sulla solidarietà e per vivere anche momenti di intensa commozione. Alla cerimonia, infatti, su decisione di Carla Ciavarella, stimato direttore della struttura carceraria, hanno partecipato anche due detenuti. Il primo, un ergastolano che usciva dal carcere per la prima volta dopo 22 anni, il secondo, un condannato a una lunga pena detentiva che assaporava anche lui il sapore della "libertà", dopo molti anni passati dietro le sbarre. I due, sono arrivati, dal carcere al parco giochi, (collocato nel cortile di quella che una volta era la scuola elementare), a piedi, assieme all’altro personale del carcere, come cittadini comuni. Hanno avuto possibilità di parlare con i presenti, abbracciare amici e conoscenti galluresi. Il momento di intensa commozione si è avuto però, quando, a turno i due, che si chiamano entrambi Francesco, sono intervenuti per salutare i presenti. "Oggi, ha detto l’ergastolano che ha voluto dedicare una sua poesia alla Sardegna, sono stato baciato dal vento di quest’isola senza l’ostacolo delle sbarre o di un muro". "Ieri - ha detto invece l’altro Francesco, tirando fuori un foglio dalla tasca della sua giacca, ho voluto scrivere anticipatamente le sensazioni che oggi forse avrei provato. "Fermo, attonito, come un bambino da un’auto in corsa, guardo tutto ciò che scorre davanti ai miei occhi. I colori mi balzano agli occhi come un caleidoscopio di immagini sfocate. Il sole questa volta è totale senza più zone d’ombra. Le mie scarpe calcano di nuovo l’asfalto caldo. La mia vista si impadronisce di un orizzonte ormai dimenticato, celato finora dal grigiore della mura. Riesco a risentire il profumo della terra umida di rugiada. I fiori sui davanzali della case mi appaino come casate di fuochi pirotecnici che esplodono al mio passaggio. Anche i clacson delle auto sembrano stornelli. Tutto mi sembra magico. Tutto si incastra alla perfezione. Ma come una Cenerentola, scade il mio breve tempo e quella magia svanisce infrangendosi su un grande portone che mi riporta alla realtà. Ma questa volta è diverso. Quelle scarne mura grigie non riusciranno ad accigliarmi. Sulla mia pelle ha attecchito il tuo profumo. Ciao libertà, mai più mi priverò di te". Il parco giochi è frutto di una iniziativa attuata poco prima di Natale, da Paola Scano Petitta, presidente dell’associazione Amici di Monica che recandosi in carcere aveva convinto diversi detenuti a scrivere poesie. Le stesse poi erano state messe in un libro, stampato con il patrocinio dell’Unione dei Comuni "Alta Gallura". Per volontà dei detenuti, con i proventi della vendita del libro è stato realizzato il parco. Nuoro: Sdr; inaccettabile riduzione a 6 ore assistenza sanitaria colonia penale Is Arenas Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2014 "Sta creando sconcerto e preoccupazione il progetto della Azienda Sanitaria Locale n. 6 di ridurre da 24 ore a 6 ore giornaliere la presenza dei medici nella Casa di Reclusione di "Is Arenas". L’iniziativa, finalizzata al contenimento della spesa, appare ancora più inaccettabile in considerazione del fatto che l’assistenza primaria potrà essere garantita dalla medicina dei servizi solo per sei giorni alla settimana. La domenica infatti saranno presenti solo gli infermieri. I risparmi nel settore sanitario non possono avvenire sulla pelle dei cittadini privati della libertà". Lo afferma Maria Grazia Caligaris con riferimento al provvedimento che qualora divenisse esecutivo "limiterebbe l’assistenza medica all’orario di servizio dalle 8 alle 14 mettendo seriamente a rischio il diritto costituzionale alla salute". "La Colonia di Is Arenas - precisa Caligaris - ospita attualmente 80 detenuti, alcuni internati e 70 Agenti di Polizia Penitenziaria. Si tratta di oltre 150 persone che in assenza di assistenza medica nelle ore pomeridiane o durante la notte saranno costrette a ricorrere al 118. Occorre inoltre considerare che il più vicino ospedale dista dalla struttura penitenziaria una cinquantina di chilometri con un percorso di circa un’ora". "L’azienda sanitaria non può dimenticare che i cittadini privati della libertà - sottolinea la presidente di Sdr - hanno il diritto di fruire tutti i giorni delle prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi, cura secondo i livelli essenziali di assistenza. "Is Arenas" inoltre è inserita nel progetto del marchio "Gale Ghiotto" con i detenuti impegnati in attività lavorative quindi esposti anche a maggiori rischi. Appare assurdo perfino pensare che durante la notte una realtà così complessa possa restare priva di un presidio medico". "È noto infine che nell’ambito del territorio della Colonia Penale da giugno a settembre vengono ospitati, a pagamento, nei 25 bungalow prefabbricati dipendenti dell’amministrazione penitenziaria e del comparto ministeriale della Giustizia Minorile per soggiorni estivi di 15 giorni ciascuno. L’assenza del servizio 24H di Medicina potrebbe indurre molti di coloro che hanno già fatto richiesta a ripensarci. Ragionevolezza impone - conclude Caligaris - il ridimensionamento di altre spese sanitarie lasciando ai cittadini più deboli il diritto alla salute e all’assistenza sanitaria. L’auspicio è quindi una revisione dei programmi di risparmio". Vibo Valentia: Tribunale; presto 160 detenuti potranno avere il "braccialetto elettronico" Ansa, 22 marzo 2014 La misura del braccialetto elettronico da sottoporre ai detenuti sarà presto una realtà che interesserà le 160 persone sottoposte agli arresti domiciliari e a quelle che chiederanno una gradazione della misura, accettando questo "compromesso", pena la continuazione della detenzione inframuraria. L’iniziativa è stata presentata dal procuratore di Vibo Valentia Mario Spagnuolo, dal presidente della sezione civile Antonio Di Marco, dal questore Angelo Carlutti, dal comandante provinciale dei carabinieri Daniele Scardecchia e dal ten.col. Vittorio Carrara. Una misura, quella del braccialetto elettronico, che esiste da tempo - anche se applicata soltanto in 20 casi sul territorio nazionale - ma che, con l’ultimo decreto "svuota-carceri", è stato previsto con esigenze retroattive e ha, quali destinatari, soggetti caratterizzati da pericolosità sociale tale da non giustificare il carcere, ma nemmeno da concedere la completa libertà. Si tratta di una misura estremamente semplice con la presenza di un strumento installato dalla Telecom (che ha vinto l’appalto a livello nazionale) nell’abitazione il cui segnale wi-fi copre un determinato raggio consentendo, così, di percepirlo dalla cavigliera elettronica applicata al soggetto. Nel momento in cui dovesse mancare la corrispondenza del segnale si accerterebbe l’allontanamento del reo o, al massimo, che la strumentazione è malfunzionante. Ad ogni modo sia nel primo che nel secondo caso tutto ciò si saprebbe in tempo reale e, quindi, si interverrebbe in maniera tempestiva. Sarà il giudice di volta in volta a stabilire i casi di applicazione anche per i soggetti che stanno scontando una pena ai domiciliari. A giorni sarà comunicata la presenza del dispositivo al Consiglio dell’ordine e alla Camera penale in modo tale "da poter veicolare la notizia ai rispettivi clienti". "Si tratta di - hanno specificato Di Marco e Spagnuolo - di un momento di grande civiltà, di rispetto dei diritti individuali del cittadino". Trani: due giorni la settimana detenuto al lavoro di pubblica utilità per il Comune www.radiobombo.com, 22 marzo 2014 Nel corso della conferenza stampa di presentazione dello spettacolo teatrale su Franco Califano, il sindaco di Trani, Luigi Riserbato, e il direttore degli Istituti penali della città, Salvatore Bolumetti, hanno comunicato che nei prossimi giorni sarà firmato un protocollo d’intesa che permetterà ad un detenuto del carcere di Trani di svolgere attività lavorativa di pubblica utilità per conto del Comune di Trani a titolo volontario e gratuito. Sulla scorta di una recente normativa, il ministero di grazia e giustizia ha dato il via libera all’iniziativa concedendo la possibilità di impiego di un soggetto albanese di 69 anni (in detenzione pena) per lavori di pubblica utilità nella città di Trani. Il sindaco ha comunicato che l’unità lavorativa sarà messa al servizio del cantiere comunale. "Col sindaco - spiega Bolumetti - avevamo cominciato a ragionare su questa possibilità fin dall’estate. Adesso siamo in possesso di tutte le autorizzazioni del caso. Abbiamo già individuato il detenuto che soddisfa appieno quei crismi di affidabilità necessari per poter svolgere attività di manovalanza all’interno del territorio comunale". Una volta stipulato il protocollo d’intesa, resterà solo da concordare il momento dell’avvio del progetto. Il detenuto sarà a disposizione del Comune di Trani per 2 giorni a settimana. L’Ente dovrà solo provvedere alla sottoscrizione di una polizza assicurativa anti infortunistica. Bolumetti e Riserbato non escludono che l’iniziativa possa essere estesa ad altri soggetti. Sassari: lectio magistralis Valerio Onida "in Italia dovrebbe essere previsto reato tortura" La Nuova Sardegna, 22 marzo 2014 "Perché in questo posto non possiamo fare parlare il professor Onida, magari sul tema "Pena, carcere e costituzione?". La riflessione di Luigi Manconi, senatore sassarese, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, non è caduta nel vuoto. E Maria Grazia Piras, presidente regionale del Fai, racconta com’è nata l’idea di invitare il professore emerito di Diritto costituzionale, giudice e presidente della Corte costituzionale. Settantotto anni il prossimo 30 marzo, padre sardo e madre siciliana, Valerio Onida non ci ha pensato due volte e ieri pomeriggio si è presentato puntuale nella rotonda del carcere di San Sebastiano. Doveva tenere quella che è stata definita una orazione, invece per i presenti è stata una vera e propria lezione sul carcere e la scommessa della rieducazione, sulla pena e le garanzie sociali, sulla Costituzione. "Mi fa piacere parlare qui a Sassari, in questo luogo che può essere definito il simbolo di come non deve essere un carcere. Perché in realtà il carcere dovrebbe essere della città che non deve mai dimenticare un pezzo della sua vita". Il professore tocca il principio di legalità, dice che non c’è reato se non c’è legge. Sottolinea che "deve essere chiaro che cosa puoi o non puoi fare, e quali sono le conseguenze". Insomma, la legge non può lasciare incertezze applicative, deve essere precisa. E solo ciò che la legge vieta può essere reato. Poi la responsabilità penale "che è personale", tanto che "nessuna sanzione può essere applicata all’individuo per una azione che non si collega alla sua responsabilità personale". Valerio Onida procede a braccio, quella lezione tenuta tra le mura del vecchio carcere di San Sebastiano sarebbe stata ascoltata con interesse dai detenuti trasferiti a Bancali. Ecco la questione della condanna in contumacia, che ancora esiste nel nostro ordinamento. "In realtà dovrebbe essere limitata a un solo caso, quando l’imputato sceglie volontariamente di non presentarsi al processo. Altrimenti dovrebbe essere abolita". E poi la vita come bene supremo, un valore così alto che non può ammettere la pena di morte che "per fortuna nessuno stato d’Europa applica". Quindi la tortura usata come pena, per fare soffrire le persone: per evidenziare il reato, il professore ricorda le vicende del G8 di Genova del 2001. E sulle pene ribadisce che "devono tendere alla rieducazione del condannato, perché è incostituzionale quella pena non compatibile con la rieducazione". Così - per il professor Onida - sicurezza e rieducazione sono due elementi convergenti, non contrastanti. E il problema vero è: quale carcere? "Può dare moltissimo a livello educativo a seconda di come è organizzata la sua vita interna. La rieducazione è un percorso fatto di opportunità e di garanzie sociali da cogliere". In Italia dovrebbe essere previsto reato tortura "In Italia dovrebbe essere previsto il reato di tortura". L’ha detto, facendo diretto riferimento ai fatti del G8 di Genova del 2001, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida nella sua relazione con cui si sono aperte a Sassari le "Giornate di primavera" del Fai-Fondo per la ambiente italiano. Onida ha parlato nella rotonda della ex penitenziario di San Sebastiano, a luogo simbolico di come un carcere non dovrebbe essere, chiuso a luglio 2013 e che domani e domenica sarà aperto e visitabile per la prima volta. Onida ha tenuto un’orazione "sui delitti e sulle pene", ricordando i principi della azione penale in Italia. Onida ha ricordato che il reato di tortura "non è ancora presente nel nostro codice penale", sebbene sia proprio in questi giorni all’esame del Parlamento. Il giurista era stato preceduto dal presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau, ex sindaco di Sassari, che ha ricordato la proposta di restituire alla città? il complesso del carcere costruito nel 1871, assegnandolo in parte alla adiacente procura della repubblica e mantenendone una area come museo storico. In precedenza, era stata la presidente del Fai Sardegna e neo assessore alla Industria Maria Grazia Piras ad aprire la conferenza. Le visite saranno possibili domani e sabato dalle 10 alle 18 e saranno curate dagli studenti delle scuole superiori di Sassari. Nuoro: no al "fine pena mai"… concluso il corso di formazione giuridica in carcere di Gianna Zazzara La Nuova Sardegna, 22 marzo 2014 Finire in carcere a vent’anni con una condanna all’ergastolo. Poi, laurearsi in giurisprudenza durante la detenzione. Infine, diventare il relatore principe di un corso di formazione giuridica per avvocati e operatori. Sembra la trama di un film improbabile invece è quanto è successo a Marcello Dell’Anna, 46 anni, condannato al carcere a vita quando ne aveva venti ed era un boss della Sacra corona unita. Ora è detenuto a Badu ‘e Carros e ieri, davanti al magistrato di sorveglianza Adriana Carta, agli avvocati e ai suoi compagni di carcere, ha tenuto il seminario conclusivo del corso di diritto penitenziario che si è svolto nei mesi scorsi in prigione su iniziativa dell’avvocato Monica Murru, coordinatrice del progetto, e con il sostegno della scuola forense di Nuoro. "Il fatto che oggi possa vestire i panni di relatore e non di detenuto è un fatto straordinario - ha esordito Dell’Anna -. Mi sento professionalmente realizzato perché ho dimostrato che l’uomo di oggi non è più quello di ieri. Il carcere può riservare molte sorprese. Anche positive. Il mio percorso ne è la prova. Oggi per me si aprono nuovi scenari, perché ho recuperato il senso di un futuro possibile, grazie alle istituzioni penitenziarie e alla scuola forense di Nuoro che mi hanno offerto un’opportunità di riscatto". Perché questa dovrebbe essere la funzione della pena: rieducare il detenuto e aiutarlo a inserirsi nella società, magari imparando un mestiere proprio in carcere. "Lo Stato non può vendicarsi - ha detto la direttrice della casa circondariale Carla Ciavarella. La pena, per la Costituzione, deve avere una funzione rieducativa e per raggiungere questo obiettivo è necessario che ci sia un contesto sociale in grado di accogliere e perdonare". Il carcere di Badu ‘e Carros, intanto, fa la propria parte. E, sull’esempio dell’ex boss professore, coinvolge i detenuti in laboratori teatrali, in attività sportive, li spinge a studiare e a recuperare il tempo perduto. Molti di loro, infatti, pur reclusi in regime di alta sicurezza, sono giovanissimi. Anche per loro, in carcere, potrebbe esserci una possibilità di riscatto. Come hanno spiegato Giovanni Arcuri e Cosimo Rega, protagonisti di "Cesare deve morire", il film girato a Rebibbia dai fratelli Taviani, tra gli ospiti del seminario. "Ho cominciato a fare teatro per uscire dalla cella, poi mi sono appassionato e ho cominciato a vedere la vita in modo diverso. Il carcere per me è stata un’opportunità", ha detto Rega, dodici anni trascorsi a Rebibbia in AS e ora in affidamento. E perché il carcere diventi un’opportunità è necessario dare una speranza ai detenuti. La speranza di potere un giorno uscire dalla cella. Quella che non ha, almeno per ora, Marcello Dell’Anna. I reclusi in regime di alta sicurezza come lui, infatti, non hanno accesso ai benefici di legge, ossia semilibertà, permessi premio, affidamento in prova. "La pena perpetua va eliminata - ha detto l’avvocato Basilio Brodu, lo merita la democrazia di questo stato". Anche perché, altrimenti, il sacrificio fatto da Dell’Anna e da altri come lui non avrebbe alcun senso. E sarebbe un fallimento. Non solo per lui. Lecco: giovedì sera il Meic s’è interrogato sulla situazione penitenziaria italiana www.resegoneonline.it, 22 marzo 2014 Partecipato incontro giovedì sera 20 Marzo in Sala papa Giovanni XXIII per ascoltare le relazioni di Stefano Corbetta, giudice presso il Tribunale di Milano e di don Pietro Raimondi, già cappellano del carcere di S. Vittore a Milano. Ancora un appuntamento di grande interesse ed estrema attualità a cui il Meic (Movimento ecclesiale d’impegno culturale) lecchese ha invitato, giovedì sera 20 Marzo, la cittadinanza nella sala papa Giovanni XXIII (via San Nicolò 1 a Lecco), riscontrando una nutrita e appassionata partecipazione. Introdotti dal presidente dottor Manetto Fabroni, che ha ricordato l’urgenza di una decisa presa di coscienza del problema - così spesso richiamato anche dal presidente Napolitano, da papa Francesco e altre personalità - si sono cimentati e confrontati sul tema due qualificati relatori/testimoni: il dott. Stefano Corbetta, giudice presso il Tribunale di Milano e don Pietro Raimondi, già cappellano presso il carcere di S. Vittore a Milano. I dati allarmanti Il dott. Corbetta, rivelando anche nel modo di parlare passione, coinvolgimento e sofferenza per la drammatica situazione carceraria, evidenzia subito la problematicità dell’argomento, spesso oggetto di strumentalizzazione politica di chi "marcia" sull’ansia di sicurezza e sulla diffusa paura del diverso. Offre quindi alla riflessione qualche spunto concreto per leggere la realtà senza le deformazioni operate dai mezzi di comunicazione. I dati: a fine 2013 nelle carceri italiane c’erano 61.449 detenuti, contro una capienza di 47.615 unità. Il tasso di sovraffollamento medio è dunque del 130%, ma ci sono punte del 300%. Solo la Serbia in Europa è messa peggio di noi. Sono dati che danno ragione al titolo dell’incontro: l’umanità e il diritto sono traditi! Quindi il carcere non svolge la sua funzione. Inizio della presa di coscienza Nel 2009, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che giudica in base alla convenzione europea sui diritti dell’uomo, accoglie il ricorso Sulejimanovic dandogli ragione in quanto nel carcere italiano si viola l’art.3 della convenzione, che proibisce la tortura e un trattamento disumano e degradante. Questo è solo l’inizio del risveglio. Infatti seguono varie iniziative del Parlamento contro il sovraffollamento (si rendono scontabili a domicilio le condanne definitive fino a 1 anno, poi portato a 18 mesi). Si muovono anche alcuni Magistrati di Sorveglianza, addetti per funzione all’ascolto dei problemi posti dai carcerati: provano a mettere in mora l’Amministrazione penitenziaria per inadempimento delle norme sull’affollamento; altri condannano l’Amministrazione al risarcimento. Ma si rivelano tentativi di rimedio ben poco efficaci La svolta Un anno fa con la sentenza Torreggiani la Corte Europea da ragione al ricorso di 7 detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, ritenendo non solo violato l’art.3 (tortura e situazione degradante), ma affermando che questo è purtroppo un fenomeno strutturale in Italia. Viene dato al nostro Paese 1 anno di tempo (entro il 28 maggio 2014) per adottare provvedimenti risolutivi alla radice. Nel frattempo si tengono "congelati" ca.3000 ricorsi analoghi, che diverrebbero molti di più in caso di ulteriore inadempimento italiano. È dunque innanzitutto un problema di civiltà, ma anche di grande peso economico che potrebbe avere un impatto potenzialmente esplosivo. Ben consapevole e preoccupato dall’incombere del termine dato dalla Corte Europea, il capo dello Stato in un memorabile messaggio al Parlamento, chiaro e senza retorica, esorta le istituzioni a stringere i tempi su quell’adempimento che è obbligo costituzionale, imperativo morale, atto politicamente necessario e anche economicamente opportuno. Per ridurre la sovrappopolazione carceraria si suggeriscono urgenti misure strutturali come l’estensione dell’affidamento a servizi sociali e di altre limitazioni non carcerarie, la riduzione dell’area applicativa (pena fino a 4 anni) della custodia preventiva, azioni diplomatiche perché i detenuti stranieri scontino la pena nei loro Paesi, la riduzione del numero dei reati, l’aumento della capienza delle carceri e infine amnistia e indulto, misure non gradite ma rese opportune dall’attuale emergenza. Un’esperienza umana e pastorale Don Pietro Raimondi viene da anni di stretto contatto umano con i detenuti e i loro famigliari. Riferisce del saluto e del turbamento di Napolitano al termine della sua visita a San Vittore…Perché "il carcere va non solo visto con gli occhi, ma sentito col naso!" per dire del degrado dato dall’affollamento di persone chiuse in celle piccolissime. Come cappellano a chi cerca confidenza e aiuto non chiede che cosa abbia fatto, ma si chiede che cosa lui possa fare per loro. Sperimenta la varietà e complessità delle persone, che tali restano con il loro mistero di bene e di male mischiati tra loro, come per ciascuno di noi, sia in carcere che fuori. Bisogna lasciarci alle spalle quell’idea che si è radicata nella cultura dominante e -magari inconsapevolmente- in gran parte di noi, che il carcere sia per "i cattivi" mentre noi che siamo fuori siamo "i buoni". E le domande di aiuto che dai detenuti vengono possono essere di alto livello ma anche le più banali: la preoccupazione per un figlio, la moglie fuori, o il cane a cui nessuno dà più da mangiare, un paio di ciabatte o una maglia "perché mi hanno arrestato in agosto in maglietta e infradito e ora è dicembre", la confessione, una sigaretta. A San Vittore i detenuti sono stipati in 1.500, con 1.000 guardie carcerarie, ma solo 8 psicologi, 8 educatrici e… nessun mediatore culturale o interprete benché il 64% siano stranieri. Ma più il carcere è affollato e violento, peggio ne esci. Prima o poi il carcerato uscirà e sarà accanto a noi: come lo vogliamo? Migliore o peggiore? Dei vari interventi che hanno arricchito la serata si segnala quello di don Mario Proserpio che, con la sua lunghissima esperienza, ha messo l’accento sull’azione combinata che va perseguita sia in carcere che fuori con l’aiuto del volontariato, per un autentico cambio di mentalità sul problema anche dell’inserimento dopo-carcere. Genova: "Una mano amica oltre le sbarre", i punti vendita Coop vicini ai detenuti www.primocanale.it, 22 marzo 2014 Domani dalle 8.30 alle 19 presso i punti vendita Coop saranno presenti alcuni volontari del progetto "Una mano amica...oltre le sbarre". Verranno distribuiti vademecum con l’elenco dei prodotto necessari per i circa 1.900 detenuti della nostra regione, che si potranno generosamente donare alle carceri liguri. I centri Coop che aderiscono all’iniziativa sono: Coop C.so Maurizia a Sanremo, Coop Centro Commerciale Il Gabbiano a Savona, Coop Rivarolo, Coop C.so Gastaldi a Genova, Coop di Pegli, Coop di via Franceschi a Chiavari e Coop Centro Commerciale Il Faro a Spezia. I kit verranno consegnati personalmente dai volontari di Centro Sportivo Liguria, Focl, Caritas, Ass. San Vincenzo, Veneranda Compagnia della Misericordia e Comunità di S. Egidio e riguarderanno i carceri di Genova Marassi, Genova Pontedecimo, Savona, Chiavari, La Spezia e Sanremo. Treviso: sette detenuti del carcere di Santa Bona si raccontano nel cd rap "Prison" Corriere Veneto, 22 marzo 2014 20 brani scritti da giovani italiani e stranieri. A guida del progetto un ex collaboratore di Vasco Rossi. Venti brani di musica rap che raccontano rabbia, gioie, bisogni mai espressi ed affetti negati dei detenuti del carcere di Santa Bona di Treviso. Sono quelli raccolti nel cd "Prison", realizzato da 7 detenuti, italiani e stranieri, tra i 20 e 25 anni sotto la guida della professoressa Sabrina Donò del Cpia Treviso - Ctp Coletti. Progetti che si sono trasformati in un’esperienza artistica grazie anche alla guida di un detenuto in particolare che in passato ha lavorato come fonico per Vasco Rossi. L’album è stato presentato venerdì mattina nella casa circondariale di Treviso dal direttore Francesco Massimo assieme ai volontari del progetto "Diamoci Dentro", di cui è capofila l’associazione "Possibili Alternative". Il cd verrà promosso nei prossimi giorni attraverso una serie di eventi musicali: mercoledì 26 marzo alcuni locali trasmetteranno l’album in contemporanea, dalla 18 alle 19, in una sorta di filodiffusione di musica dal carcere mentre il 25 aprile all’Esse Music di Montebelluna sarà organizzato un aperitivo per l’ascolto dei brani più apprezzati. Il ricavato delle libere offerte per il cd servirà a creare un fondo di sostegno per i detenuti. Sassari: con il Fai dentro le celle di San Sebastiano, l’ex inferno apre le porte alla città di Anna Sanna La Nuova Sardegna, 22 marzo 2014 Per centocinquant’anni le sue celle umide e strette hanno accolto e custodito storie. Alcune raccontano vite criminali, spese in buona parte all’interno di quelle mura. Altre sono state scritte da chi si è perduto per strada una volta, solo con il suo disagio. Il carcere di San Sebastiano per un secolo e mezzo è stato quasi inaccessibile. Dentro la città, eppure così lontano, estraneo. Un luogo dove nascondere il fallimento di uno Stato troppo spesso incapace di garantire dignità a chi è in sua custodia, di trasformare l’espiazione della pena in una possibilità di reinserimento nella società. Adesso, per la prima volta, San Sebastiano si aprirà alla città in occasione delle Giornate Fai di primavera del 22 e 23 marzo. Il carcere di San Sebastiano è uno dei monumenti di punta dell’evento in Sardegna, in linea con l’obiettivo del Fai di far conoscere luoghi di grande valore storico, artistico e archeologico, ma spesso poco conosciuti. Domani e domenica, dalle 10 alle 18, le celle e i corridoi del carcere saranno visitabili in un percorso guidato. A fare da ciceroni ci saranno gli studenti del Liceo Classico del Convitto Nazionale Canopoleno, del Liceo Scientifico "Spano", dell’Istituto di istruzione superiore "Nicolò Pellegrini", del Liceo Classico Azuni, dell’Istituto Professionale per il Commercio, del Liceo Artistico "Figari" e del Tecnico Commerciale "Dessì Lamarmora". "Oltre le mura di San Sebastiano. 150 anni di carcere nascosti alla città" è il titolo scelto per l’iniziativa: un’occasione inedita per Sassari di confrontarsi con questo edificio storico soprattutto ora che, con il trasferimento dei detenuti nella nuova struttura di Bancali, si è aperto il dibattito su come recuperare l’antico carcere ormai vuoto. "Abbiamo lavorato all’apertura delle carceri con grande impegno perché riteniamo che sia un evento denso di particolare significato, segnalato dal Fai tra le aperture di maggiore interesse nazionale - sottolinea la delegazione Fai di Sassari - le vecchie carceri testimoniano che quasi un secolo e mezzo fa Sassari è stata in grado di dotarsi di un impianto urbanistico al passo con l’Europa che insieme alle carceri includeva l’Ospedale, il Palazzo della Provincia, il Teatro Politeama, la Stazione Ferroviaria, la Caserma Lamarmora, il mattatoio, il Manicomio. Anche nel quadro di questa riflessione il Fai propone la visita di un monumento così ricco di memoria affinché i cittadini possano visitarlo e conoscere la sua storia". Ancora a metà dell’Ottocento, a Sassari le carceri erano contigue al Palazzo del Duca, dove per tanto tempo era stata amministrata la giustizia. I resti del terribile carcere di San Leonardo, antico quanto la città, sono ancora visibili in Piazza Tola. I sassaresi lo guardavano con diffidenza, come un veicolo di infezioni. Nel 1855, l’anno del colera, qualcuno pensò che proprio da quei locali fetidi e angusti poteva essersi diffuso quel morbo terribile che uccise 5mila sassaresi. Non si poteva più aspettare: l’Italia non è ancora unita quando il governo sardo-piemontese decide di costruire un nuovo carcere. Nel 1857 riceve l’incarico l’architetto di Asti Giuseppe Polani (1815-1894): per il Ministero dell’Interno aveva già progettato le carceri di Torino, Genova e Perugia. L’area prescelta è a sud, in una zona che allora era al di fuori della città. Nel 1871, con l’Italia ormai unita, i lavori sono ultimati. La facciata classicista di Polani ormai non è più visibile, a causa della costruzione del Palazzo di Giustizia negli anni Trenta del Novecento. Centocinquant’anni sono passati dall’avvio dei lavori di costruzione. E per troppo tempo, sino a qualche mese fa, San Sebastiano è stato un inferno di sovraffollamento, carenze strutturali e violazione quotidiana dei diritti fondamentali. Domani e domenica tante persone, libere e non detenute, grazie al Fai varcheranno l’ingresso del vecchio carcere. Impossibile allora non interrogarsi su un futuro nuovo per la struttura, che appartiene al Ministero della Giustizia. "Gli edifici carcerari sono tra i più complicati da adattare a nuove funzioni, per la presenza di ambienti molto specializzati come le celle - spiega l’architetto Sandro Roggio, che si è occupato della storia di San Sebastiano risalendo anche al nome dell’architetto Polani - ma non mancano spazi più duttili come quelli aperti utilizzabili dalla città, e tutto il corpo degli uffici che potrebbe consentire di accrescere le dotazioni del Palazzo di Giustizia. Si potrebbe tentare di aprire quella vecchia porta che immagino conservi le caratteristiche originali. Si può immaginare che la grande corte "San Sebastiano" possa essere messa in comunicazione con via Roma. Discorso diverso per la parte meno flessibile, già destinata alla detenzione. Servirà a questo proposito un confronto puntuale sulla base di una preliminare esplorazione progettuale, credo con il coinvolgimento indispensabile del Comune". Nelle Giornate di primavera, l’iniziativa del Fai consentirà ai cittadini di conoscere davvero il carcere e partecipare così da protagonisti al dibattito. La speranza è che, in futuro, San Sebastiano diventi un luogo di condivisione da rivivere in un’atmosfera nuova, molto diversa da quella della detenzione. I graffiti sui muri, le foto del Papa, i messaggi: "Lasciate ogni speranza", di Gianni Bazzoni C’è un soffio gelido che fa il giro della rotonda e sembra accompagnarti in ogni spostamento. Fino alle celle del braccio uno, aperte per la prima volta a chi non è detenuto. Sono ancora arredate ma vuote, da luglio 2013 non c’è più nessuno nel carcere di San Sebastiano, dentro la città. E colpisce il silenzio, tanto che non si può fare a meno di immaginare le voci, i rumori, anche le urla dei momenti peggiori, quelli che hanno portato il penitenziario all’attenzione nazionale con la brutta vicenda dei pestaggi. Ci sono 150 anni di storia, la storia di Sassari, tra le mura ingiallite e scrostate e la sensazione è quella di calpestare il pavimento di un territorio dove il tempo si è fermato. Entrare nelle celle, oggi, aiuta a capire il passato: sulle pareti ci sono disegni fatti con i gessetti colorati, non hanno l’ambizione di essere dei veri e propri murales ma esprimono stati d’animo, messaggi che sono per sempre: "Lasciate ogni speranza voi che entrate". Da una parte l’immagine di Papa Francesco, dall’altra una bella donna. In giro ancora santi e donne, in un ambiente unico, quello della cella, dove mischiare sacro e profano e inevitabile. Poi disegni di pistole e fucili, dediche e firme con l’anno di nascita, e anche una segnaletica inventata con le indicazioni di Orune, Buddusò e Sassari, in cima il divieto con una pistola al centro. Sì, fa impressione San Sebastiano. Lo dice anche Francesco Massidda, provveditore regionale delle carceri fino al 2010, un passato da direttore dell’Asinara, il penitenziario più famoso e temuto d’Italia, specie dai detenuti più famosi: "Vuoto sembra ancora più brutto - dice l’ex provveditore - è la stessa sensazione che ho provato nel visitare (dopo) il supercarcere di Fornelli. Senza le persone trasmette sensazioni strane". È chiuso da circa otto mesi San Sebastiano, ma è difficile abituarsi all’idea. Se guardi dalle finestre con le grate vedi la città sezionata in quadrati e devi fare uno sforzo visivo per unire l’immagine. Di fronte ci sono le abitazioni, le case delle famiglie che hanno diviso la loro quotidianità con quella dei detenuti. Anche per loro quel silenzio è strano. Non è stato facile per il Fondo Ambiente Italiano ottenere l’apertura di San Sebastiano. È vero che Bancali ha accolto la popolazione "rinchiusa" di via Roma, ma si percepisce ancora una sorta di segreto di Stato, di gelosia che non è facile da rimuovere. Alla fine, però, c’è anche la primavera di San Sebastiano, e Maria Grazia Piras, neo assessore regionale all’Industria, parla da presidente del Fai, sottolinea l’importanza dell’iniziativa, di quelle porte aperte alla città (visite guidate, oggi e domani, dalle 10 alle 18). Gianfranco Ganau, sindaco e fresco presidente del consiglio regionale, si lascia sfuggire un "finalmente" la struttura è stata dismessa. E lancia subito il dopo: "Abbiamo fatto richiesta al Ministero - dice - dobbiamo riprendere subito il percorso perché nel frattempo è cambiato il ministro. Ci sono spazi che possono tornare utili per estendere gli uffici giudiziari, mala sfida più importante è quella di rendere vivibili gli ambienti di un carcere che non c’è più". Sandro Roggio, architetto, è il maggior conoscitore della storia di San Sebastiano. La sua scheda ricostruisce il viaggio - dal 1857 - con l’affidamento del progetto all’architetto di Asti Giuseppe Polani, dopo il concorso bandito dal Ministero. Primo stanziamento 860mila lire, poi un aumento di spesa di 377mila lire per una verifica richiesta nel 1863 dall’ingegnere capo del Genio civile di Sassari, responsabile del cantiere. La casa di reclusione è costruita per accogliere 340 detenuti. "Sono passati 150 anni dall’avvio di quei lavori, ma dietro quelle mura il tempo è come sospeso". Como: Alberto Arrighi, condannato per omicidio, nel carcere del Bassone diventa pittore Corriere di Como, 22 marzo 2014 "Anche in veste di detenuti si può essere partecipi al miglioramento della struttura in cui viviamo". Rinchiuso nel carcere del Bassone dal febbraio del 2010, condannato in via definitiva a 30 anni per l’omicidio di Giacomo Brambilla, ieri Alberto Arrighi ha parlato davanti a una piccola platea in una sala del penitenziario di Como. L’armiere comasco, che ha ucciso a colpi di pistola il socio nel negozio di via Garibaldi, ha partecipato nei mesi scorsi a un progetto di pittura per i detenuti coordinato dall’artista Angiola Tremonti. Ieri mattina, il lavoro è stato presentato ufficialmente proprio all’interno del Bassone e i carcerati che hanno seguito le lezioni e realizzato alcuni murales hanno voluto che fosse proprio Arrighi a parlare a nome loro. Un intervento di un paio di minuti e diffuso sul portale di "Ciao Como". Giacca marrone aperta su una camicia chiara, lo sguardo perlopiù fisso sul foglio, Alberto Arrighi non parla a braccio ma legge il suo discorso. Non una parola in più rispetto a quanto preparato per presentare il progetto. L’intervento si apre e si chiude con "sentiti ringraziamenti" per la possibilità concessa ai detenuti di seguire il corso. Le lezioni di pittura, spiega Arrighi, sono state un’occasione per "un miglioramento delle relazioni nel carcere", per "partecipare attivamente alla vita del penitenziario". "Abbiamo sviluppato una profonda collaborazione, unito le idee, le forze, l’immaginazione - sottolinea Alberto Arrighi. Abbiamo dimostrato a noi stessi in primis e agli altri che, anche in veste di detenuti, si può essere partecipi al miglioramento della struttura dove viviamo in base ai nostri gusti individuali e capacità. Siamo stati protagonisti nel nostro ambito sociale". L’obiettivo del progetto è proprio arrivare anche all’esterno del carcere del Bassone, comunicare un messaggio oltre le mura della prigione. "Speriamo e auspichiamo - legge l’armiere comasco a nome dei compagni del corso di pittura - che ciò contribuisca a correggere positivamente la percezione della popolazione carceraria da parte della società libera e civile e la percezione del detenuto con la sua dignità come essere umano". "Speriamo in un cambio di prospettiva nei nostri confronti - conclude Arrighi - che porti possibilità concrete di reinserimento e riabilitazione e soprattutto rispetto e fiducia in chi ha vissuto l’esperienza carceraria, abbattendo i pregiudizi e l’emarginazione e creando i presupposti per un ritorno alla vita attiva lavorativa fuori dal carcere". Brescia: "Dentro", una mostra fotografica sulla condizione delle carceri alla Wavegallery www.ecodellevalli.tv, 22 marzo 2014 Sabato 29 marzo alle ore 19.00, presso la Wavegallery Corsini, si terrà l’inaugurazione della mostra fotografica "Dentro", dedicata alle carceri italiane, per riflettere sulla loro condizione. In un preciso momento nel quale l’argomento carceri con gli annessi problemi di sovraffollamento, reinserimento e ricerca di soluzioni necessita di un’approfondita riflessione che coinvolge l’intera società civile, i quattro fotografi hanno lavorato in diversi istituti di pena indagando dal di "dentro". Il loro approccio è stato quello di entrare fisicamente nelle celle per stabilire con i detenuti un rapporto che doveva necessariamente essere di reciproca fiducia, di unanime comprensione dei problemi e di autentico rispetto per le singole personalità. Ne è scaturita una mostra ricca di umanità, lontana dal quel "sbatti il mostro in prima pagina" che l’argomento potrebbe suggerire; una serie di immagini nelle quali traspare l’autenticità di quello che i carcerati vogliono venga visto "fuori". Un esempio di fotogiornalismo "etico" che pare non appartenere più alle esigenze dell’editoria contemporanea. Renato Corsini, Gianni Berengo Gardin, Mauro D’Agati, Davide Ferrario, Rosi Giua e Uliano Lucas: sei fotografi e sei parallele ricerche fotografiche indagano la vita all’interno delle case circondariali italiane, ma soprattutto, con occhio attento e cuore aperto, si mettono al servizio dei detenuti, abitanti oltre che prigionieri. La mostra rimarrà aperta fino al 30 marzo 2014. Torino: "L’Agorà Penitenziaria", aperte iscrizioni al Congresso Nazionale della Simspe Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2014 Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria: "L’Agorà Penitenziaria. Dalla teoria alla pratica: protocolli operativi in ambito penitenziario". Torino, 18-20 Maggio 2014. Il passaggio della Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Regionale è un evento epocale che ha comportato un enorme cambiamento nell’assistenza ai pazienti detenuti, purtroppo non sempre e non da tutti recepito. Le motivazioni sono varie, ma tra le principali duole ricordare la carenza di fondi e la frammentazione dei sistemi sanitari delle varie Regioni, che rende difficile ricreare modelli omogenei di assistenza, quale quello precedentemente garantito dal Ministero della Giustizia, quando unico erogatore del servizio. Lo sforzo volto a fornire alla popolazione detenuta la migliore assistenza possibile, in coerenza con quanto offerto al cittadino "non detenuto" passa dalla conoscenza delle principali problematiche di salute, all’intesa con gli operatori penitenziari, all’integrazione con la società civile. La SIMSPe, da sempre impegnata come società scientifica, ma anche operativa, si sente investita da questo gravoso compito, che deve passare anche dalla progettazione di comuni linee operative da sperimentare e proporre nelle varie realtà penitenziarie italiane. Il XIV congresso nazionale è stato concepito proprio in quest’ottica, e vuole raggiungere lo scopo sia fornendo nozioni di base, a medici non specialisti ed infermieri, sulle principali patologie carcerarie, con i Corsi Precongressuali, sia sviluppando temi di comune interesse, sia per il personale medico ed infermieristico, con le sessioni congressuali congiunte, sia per il personale della Polizia Penitenziaria, nelle sessioni dedicate alla documentazione clinica, alle responsabilità professionali, alla prevenzione del suicidio. L’epilogo, lancio per il congresso del 2015, vedrà la costituzione di piccoli gruppi di lavoro, interprofessionali che, formati e stimolati dagli argomenti affrontati, vorranno lavorare nell’ottica dell’omogeneizzazione dell’offerta assistenziale nelle carceri italiane. Immigrazione: frontiere di morte in Europa, 16 mila vittime in vent’anni di Claire Rodier (Giurista del Gisti e co-fondatrice della rete Migreurop) Il Manifesto, 22 marzo 2014 Fortezza Europa. Da quando l’Ue ha deciso di dotarsi di una politica comune e diventare una "fortezza", sono cresciuti boat people e naufragi. Dopo la strage di ottobre a Lampedusa, Frontex ha creato una task force per il Mediterraneo. Secondo le Ong, 16 mila persone sono morte alle frontiere dell’Europa tra gennaio 1993 e marzo 2012, con un’accelerazione della mortalità migratoria dal 2000, quando gli stati membri dell’Unione Europea (Ue) hanno deciso di mettere in atto una politica comune di immigrazione e d’asilo basata sulla messa in sicurezza delle frontiere per lottare contro l’immigrazione irregolare. All’indomani del naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, le dichiarazioni di numerosi politici europei potevano far pensare che questa terribile disgrazia avrebbe rappresentato una svolta. Tuttavia, alcuni giorni dopo aver osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime, il Parlamento europeo ha adottato il regolamento Eurosur. Questo sistema di rafforzamento della sorveglianza delle frontiere sud dell’Europa è stato concepito per la lotta contro la criminalità transfrontaliera e l’immigrazione irregolare. A ottobre 2013, è stato magicamente trasformato in dispositivo di salvataggio in mare: nell’annunciare la sua entrata in vigore, il commissario europeo Malströmm si è felicitata di questo passo in avanti verso un miglior contrasto della criminalità e un’individuazione più rapida dei boat people in difficoltà. Analogo cambiamento di tono da parte dell’agenzia Frontex, che pretende "di aver contribuito al soccorso, nel 2013, di 16 mila migranti". Sino ad oggi, Frontex aveva l’abitudine di mettere in primo piano i suoi successi in termini di intercettazioni di "clandestini": ora si tratta di operazioni di soccorso. E ancora, è per "una missione militare ed umanitaria di sorveglianza del Mediterraneo" (Mare Nostrum) che il governo italiano ha mobilitato due fregate, due pattugliatori, elicotteri dotati di strumenti ottici e a infrarossi, aerei equipaggiati per la sorveglianza notturna e un drone, oltre a 1500 uomini, per una spesa stimata di 1,5 milioni di euro al mese. La svolta promessa si riduce forse a un artificio semantico? Tutto porta a crederlo, con l’annuncio della Commissione europea, ad inizio dicembre, della creazione di una "task force per il Mediterraneo" destinata a prevenire le morti di migranti. Essa ha l’obiettivo di rafforzare la sorveglianza delle frontiere e la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani, oltre che il crimine organizzato. Ma come potrebbe l’irrigidimento dei controlli evitare che uomini e donne in fuga dalla miseria e dalle persecuzioni intraprendano rotte sempre più pericolose per tentare di raggiungere ad ogni costo un’Europa che, pur essendo inospitale, non cessa di essere attraente? Come altri episodi, il naufragio del 3 ottobre ha messo in evidenza il fatto che numerosi migranti, etichettati come "clandestini", corrono rischi inimmaginabili per raggiungere l’Europa e lo fanno per trovare una terra d’asilo. Dall’inizio del conflitto siriano, più di due milioni di rifugiati hanno abbandonato il paese e si trovano negli stati confinanti e in Nord Africa. L’Ue ne ha accolti qualche migliaio, arrivati con mezzi propri - compresi quelli illegali: perché le politiche restrittive in materia di visti e permessi di soggiorno degli stati membri non consentono vie d’accesso legali. Fingendo di voler correggere questo approccio dissuasivo, il programma di task force prevede di sollecitare questi stati ad accogliere il maggior numero di rifugiati, attraverso operazioni di reinstallazione in Europa di coloro che si trovano nei campi dei paesi vicini, e di "esplorare le possibilità" di favorire "sistemi d’ingresso protetti" nell’Ue. Intenzioni che resteranno lettera morta. In primis, perché non hanno niente di nuovo: per dare un contenuto a una task force che non è altro che una risposta congiunturale all’emozione dell’opinione pubblica a seguito del "naufragio di Lampedusa", la Commissione europea si è accontentata di rispolverare le vecchie ricette inefficaci che propone da ben 15 anni. Inoltre, queste intenzioni, di carattere non vincolante, riposano sulla buona volontà e sullo spirito di solidarietà. Difficile credere che gli stati membri, impegnati da più di dieci anni a organizzare le loro politiche d’asilo come strategie di esclusione dei rifugiati, aprano spontaneamente le braccia alle stesse persone che cercano di dissuadere dall’oltrepassare le loro frontiere. Droghe: l’Associazione "Società della ragione" e il nuovo corso al processo Rototom di Alessandra Ceschia Messaggero Veneto, 22 marzo 2014 "Il processo Rototom è un rito senza religione". Questo l’esordio dell’incontro organizzato ieri dall’associazione Società della ragione in occasione dell’udienza del processo Rototom dinanzi al giudice monocratico Emanuele Carlisi. L’incontro ha annunciato un nuovo corso per il processo alla luce della sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale che ha bocciato la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Un successo per il Friuli e per Udine in particolare, divenuta trincea dalla quale l’associazione ha fatto partire la sua campagna "svuota carceri" contestuale al riconoscimento dell’illegittimità costituzionale delle modificazioni al Testo unico sugli stupefacenti introdotte con il maxiemendamento governativo alla legge di conversione del decreto sulle olimpiadi invernali del 2006. Non poche le conseguenze per tante condanne già pronunciate, come del resto per i procedimenti penali in corso. In testa a tutti il quello relativo al Rototom Sunsplash, iniziato nel luglio 2009 da un’indagine dei carabinieri che ipotizza nei confronti degli organizzatori il reato di "agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti". Ieri Filippo Giunta, responsabile dell’evento culturale, assistito dagli avvocati Alessandro Gamberini e Paola Bevere, è stato chiamato a comparire dinanzi al giudice per un’udienza nella quale sono stati sentiti due carabinieri che si occuparono delle indagini. La prossima udienza è stata fissata per il 17 ottobre. "Con la sentenza della Consulta - ha commentato l’avvocato Gamberini - il processo ha perso la sua drammaticità penale: siamo partiti da una pena compresa fra i 3 e i 10 anni per scendere a una pena da 1 a 4 anni, fermo restando che noi punteremo al proscioglimento". "Abbiamo iniziato ad organizzare incontri dall’1 giugno 2012, quando ha preso il via il processo al tribunale di Tolmezzo - ha premesso Massimo Brianese della Società della ragione - vorremmo che questo fosse l’ultimo incontro su quel processo. La sentenza della Consulta ha dichiarato la vittoria della ragione ma ci sono già 10 mila persone che hanno subito una condanna in base a una legge incostituzionale. Lo abbiamo ribadito - ha aggiunto - nel corso del convegno a San Vito al Tagliamento sul progetto per un nuovo carcere che accoglierà 300 detenuti e che dovrà essere una struttura a servizio di tutta la regione: non è più pensabile risolvere i problemi scaricando al penale problematiche che rientrano nell’ambito di fenomeni sociali mentre si sbattono dentro ragazzi perché consumano la cannabis". A commentare poi la sentenza come il risultato di due anni di lavoro per una mobilitazione che ha raccolto le firme di 150 giuristi è stato Franco Corleone, coordinatore nazionale garanti dei detenuti. "Una settimana fa - ha assicurato Corleone - il ministro Beatrice Lorenzin ha tentato di ripristinare la Fini-Giovanardi con un colpo di mano poi bloccato, senza contare che quella legge, che non faceva distinzione fra droghe pesanti e leggere, per otto anni ha provocato l’ingolfamento dei tribunali, il sovraffollamento delle carcere dove il 40% dei detenuti finisce dentro per reati connessi alla droga. E così, gli organizzatori del Rototom sono stati indagati per aver impedito il consumo di droghe pesanti al festival e per aver agevolato il consumo di droghe leggere. Ora si ritorna alla Iervolino-Vassalli. Nel frattempo, molte persone hanno subito condanne ingiuste e, il Friuli ha perso un evento importante per la cultura, l’economia e le risorse". E intanto partono le prime richieste per ottenere la revisione delle condanne Le prime richieste di riforma dei processi per imputati che sono stati condannati per ai sensi della legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale dalla Consulta, sono già partite. Ad assicurarlo è l’avvocato Andrea Sandra, intervenuto all’incontro di ieri. Significa che alcune persone che stanno scontando anni in carcere potrebbero uscire, vedersi riformare la pena o cancellare la condanna sul certificato penale. Certamente nei prossimi mesi diminuiranno gli ingressi in carcere, attenuando una situazione che ci è valsa la condanna da parte della Corte di Strasburgo per "trattamento inumano dei detenuti". Si chiamano incidenti di esecuzione e potrebbero segnare una svolta sulla situazione carceraria, di quella nazionale che conta una 61 mila detenuti e quella regionale che ne conta 744. Il carcere di Udine ospita 220 detenuti anche se è una struttura pensata per contenere 150 persone con una tollerabilità massima di 180. Circa il 40% delle misure la custodia in carcere viene disposta per reati connessi al consumo, alla produzione o allo spaccio degli stupefacenti, spiega Franco Corleone. Stati Uniti: la storia di Roger Shuler, unico giornalista detenuto nel mondo occidentale di Bernardo Parrella e Pino Rea www.lsdi.it, 22 marzo 2014 L’ultima condanna ai danni di Roger Shuler, 57enne blogger-giornalista dell’Alabama, è del 15 marzo (90 giorni di reclusione) per resistenza a pubblico ufficiale: il 23 ottobre scorso, si era opposto ai poliziotti che erano giunti a prelevarlo a casa sua con l’ accusa di oltraggio alla Corte. La sentenza è stata sospesa per due anni, ma Shuler - l’unico giornalista che, secondo il CPJ (Committee to Protect Journalists), è in galera nel mondo occidentale solo per aver svolto la sua attività - dovrà pagare comunque le spese processuali e rimane in carcere per la precedente vicenda. Tutto risale al suo mancato rispetto dell’ingiunzione di un giudice a rimuovere dei post dal suo blog (Legal Schnauzer) che accusavano Rob Riley, figlio dell’ex governatore dell’Alabama Bob Riley, di aver avuto un affaire extra-matrimoniale. Ingiunzione che secondo molte fonti è del tutto incostituzionale, essendo questo un chiaro caso di "free speech", protetto dal Primo Emendamento. Dopo il suo arresto, alcuni blog nazionali hanno parlato di un attacco politico mirato a imbavagliare una voce contraria in uno Stato conservatore. Altri lo hanno dipinto come un "bombarolo" a cui però sono stati negati i diritti costituzionali - tutto con la scusa della minaccia alla sicurezza nazionale. Due organizzazioni, l’American Civil Liberties Union e il Committee to Protect Journalists, hanno pubblicamente espresso preoccupazione per le circostanze dell’arresto e della condanna. Recentemente ne hanno scritto anche il New York Times e Salon.com, ribadendo come gli interventi di Shuler vadano protetti in base al Primo Emendamento alla Costituzione Usa. Ma nel complesso i pezzi grossi dell’ambiente giornalistico - quelli che dirigono le varie associazioni del settore e insegnano nelle università - non hanno fatto praticamente nulla per aiutare Shuler ad ottenere la libertà o comunque per tutelarne i diritti civili violati. In cinque mesi di reclusione il giornalista-blogger ha perso oltre sette chili e le sue condizioni "sono nettamente peggiorate". Ha paura della violenza in carcere e teme di morire dietro le sbarre. E questo lo stato in cui versa oggi Roger Shuler, l’unico giornalista che, secondo il CPJ (Committee to Protect Journalists), è in galera nel mondo occidentale solo per aver svolto sua attività. Lo racconta Andrew Kreig, giornalista di OpEdNews.com, che lo ha incontrato nel carcere di Jefferson, a Birmingham (Alabama) il 10 marzo scorso. Qualche giorno fa per la prima volta gli Stati Uniti erano stati inseriti da RSF fra i "nemici di internet", ma la vicenda di Schuler mostra che RSF avrebbe potuto censurare gli Usa non solo per i metodi di sorveglianza di massa denunciati da Snowden ma anche perché tiene in una cella un giornalista in maniera arbitraria e senza un giusto processo. "È un trauma terribile essere lontano dalla propria moglie e da casa, e non avere idea di quando mi faranno uscire da qui e come", racconta Shuler nell’intervista (la seconda da quando il giornalista è stato arrestato) - di cui riportiamo sotto un’ampia sintesi italiana. Shuler, 57 anni, quasi soffoca dal dolore quando racconta di non aver più rivisto la moglie, la quale ha paura di uscire di casa perché teme di essere arrestata per le cose scritte da lui. E mostra una foto che gli era stata scattata la notte in cui venne pestato da un poliziotto lo scorso ottobre, subito dopo l’arresto. Il giorno dell’incontro, 10 marzo 2014, è stato scelto perché - spiega Kreig - cade nel 50° anniversario del più famoso caso giudiziario della storia Usa in tema di libertà di stampa, il New York Times v. Sullivan. Il giudice che ha mandato Schuler in carcere sembra aver chiaramente violato quel famoso pronunciamento della Corte Suprema visto che ne ha disposto l’arresto per un tempo indefinito e, soprattutto, prima si svolgesse alcun processo. Con poche eccezioni, la maggior parte di questi leader e dei loro enti ignorano gli scandali oscuri che agitano il Paese e concentrano le loro energie solo nella retorica sul Primo Emendamento, prostrandosi davanti ai grandi nomi del governo o dei media, e promuovendo borse di studio e altre iniziative per incoraggiare i giovani a entrare in una professione che viene spesso ‘glamourizzatà, spiega il giornalista di OpEdNews. Kreig è da tempo membro dei più importanti club e associazioni di giornalismo del Paese, e da ottobre ha ripetutamente scritto ai loro dirigenti senza successo per incoraggiare articoli, tavole rotonde o quantomeno lettere di protesta, in relazione al caso Shuler e ad altri analoghi. In gran parte - prosegue il racconto - hanno ignorato i mei messaggi: "Alcuni mi hanno risposto adducendo lo scarso livello d’interesse delle loro associazioni per la vicenda, oppure la mancanza di fondi o di tempo". Per rompere il clima di indifferenza, la settimana scorsa Kreig è volato da Washington per visitare Shuler il 10 marzo nel carcere di Birmingham, Alabama. L’articolo porta il titolo "Lettera dal carcere di Birmingham", riprendendo quello della famosa lettera dal carcere diffusa da Martin Luther King Jr. nel 1963 - in cui invitava tutti ad assumersi la responsabilità di combattere le ingiustizie. Visto il divieto a materiali per scrivere in carcere, King aveva annotato buona parte di quella "lettera" sui margini di un giornale e su altri frammenti di carta che era poi riuscito a far arrivare all’esterno. Le note raccolte dal lungo intervento di OpEdNews offrono un quadro sconvolgente, che rivela altresì l’enorme fallimento del sistema mediatico del Paese, come aggiunge l’autore: "Sono rimasto sorpreso dall’assenza di proteste sulle testate nazionali in occasione della vicenda", mi diceva il direttore dell’Aclu dell’Alabama, Randall Marshall. L’associazione ha poi presentato un parere critico ai giudici del caso (noto come "friend of the court brief"), ma non ha alcun potere di rappresentanza per Shuler a livello giudiziario. India: altissima presenza di detenuti che appartengono alle minoranze socio-religiose di Nirmala Carvalho www.asianews.it, 22 marzo 2014 Secondo il rapporto Prison Statistics India 2012 del National Crimes Record Bureau (Ncrb), la percentuale di detenuti dalit, tribali, musulmani e cristiani è superiore alla loro presenza reale nella popolazione. Attivista cristiano: "Lo Stato prende di mira le minoranze". L’altissima presenza di detenuti che appartengono alle minoranze socio-religiose "è dovuto all’atteggiamento di alcuni Stati, che prendono di mira le sezioni più vulnerabili della società". Lo afferma ad AsiaNews Arun Ferreira, attivista cristiano per i dalit e i tribali, commentando l’ultimo rapporto Prison Statistics India preparato dal National Crimes Record Bureau (Ncrb). Stando ai dati, nel 2012 il 28,02% dei carcerati di tutto il Paese appartiene alla comunità islamica: una percentuale molto alta, dal momento che in India i musulmani rappresentano solo il 13,4% della popolazione. La situazione è analoga per i prigionieri di fede cristiana: il 6% dei detenuti su scala nazionale, nonostante solo il 2,3% degli indiani sia cristiano. "Queste percentuali - spiega l’attivista - si verificano perché dalit, tribali, musulmani e cristiani diventano spesso vittime per colpa di cavilli e sezioni del Codice penale indiano". Ferreira ha scontato sulla propria pelle la realtà delle carceri: nel maggio 2007 è stato arrestato a Nagpur (Maharashtra) con l’accusa di essere un naxalita (guerrigliero maoista), e processato per 11 capi d’imputazione secondo l’Unlawful Activities (Prevention) Act. Durante la detenzione è stato torturato e interrogato due volte con il "siero della verità", farmaco psicoattivo oggi illegale. Dopo quattro anni e otto mesi di prigione è stato rilasciato su cauzione. Ferreira racconta ad AsiaNews: "La mia esperienza in carcere è che ogni Stato tende a prendere di mira le minoranze, mostrando così alcune sue caratteristiche specifiche. Negli Stati in cui prevale l’aspetto induista - come l’Orissa post pogrom di Kandhamal - ci sono stati numerosi casi di cristiani innocenti arrestati e detenuti in prigione, con accuse false di essere naxaliti. È accaduto anche in Gujarat dopo i disordini del 2002. In Jharkhand e Chhattisgarh, con una forte influenza indù, si scagliano con intensità contro la comunità cristiana, trattandola come ‘la parte criminalè dei dalit e dei tribali". Molto spesso poi i cristiani finiscono nelle maglie della giustizia con dei pretesti, perché sostengono battaglie giudicate "scomode" dalle autorità. "In Jharkhand, Chhattisgarh e Orissa - aggiunge - alcuni tribali cristiani sono stati catturati con finte accuse di terrorismo, quando in realtà il problema era la loro lotta contro i grandi progetti minerari, che avrebbero causato molti espropri terrieri. Lo stesso è accaduto in Tamil Nadu, dove i cristiani sono stati accusati di ‘eversionè perché si opponevano alla costruzione dell’impianto nucleare di Kudankulam. Purtroppo né il governo, né il Ncrb riconoscono i prigionieri politici come categoria a parte, quindi non ci sono statistiche a riguardo". Uruguay: in arrivo 5 detenuti Guantánamo, potranno lavorare e stare con le loro famiglie Il Velino, 22 marzo 2014 Cinque prigionieri del campo di detenzione di Guantánamo a Cuba saranno trasferiti in Uruguay. Lo ha annunciato il presidente Jose Mujica, spiegando di aver accolto una richiesta del suo omologo statunitense, Barack Obama. "I cinque detenuti - ha aggiunto - sono i benvenuti, potranno lavorare e stare con le loro famiglie nel nostro paese". Col questo trasferimento rimangono nel carcere speciale altri 154 persone, la maggior parte delle quali di nazionalità yemenita. "Il presidente usa vuole risolvere questo problema - ha detto Mujica riferendosi alla promessa di Obama di chiudere la struttura quanto prima -, vuole risolvere questo problema. Di conseguenza, ha chiesto a diversi paesi di ospitare i detenuti. Io gli ho risposto che lo faremo volentieri". Anche l’ambasciata americana a Montevideo è entrata nella questione, facendo sapere che Washington sta trattando con diversi paesi della Regione. Si è scelto di parlare prima con Mujica per la sua leadership nell’area latino americana. Il presidente afferma: "Potranno lavorare e stare con le loro famiglie". Inoltre, il presidente uruguayano conosce bene il problema, in quanto come ex membro della guerriglia, ha passato 15 anni in un carcere durante il governo militare del paese tra gli anni 70 e 80. Nel motivare il prossimo trasferimento, il capo dello Stato uruguayano ha detto di aver agito per "ragioni umanitarie". Sembra peraltro, che lo stesso Obama voglia chiudere al più presto quello che lui stesso ha definito "un danno all’immagine dell’America nel mondo". Tanto che i trasferimenti da Guantánamo a paesi terzi negli ultimi mesi si sono incrementati. Fino a poco tempo fa, invece, il principale avversario del presidente americano in relazione alla chiusura della struttura detentiva era stato il Congresso Usa. C’era preoccupazione diffusa sul fatto che i prigionieri, una volta tornati a casa, potessero ricominciare le attività terroristiche.