Giustizia: siamo incivili... per sentenza di Marika Borrelli www.orticalab.it, 19 marzo 2014 I giudici inglesi hanno respinto l’estradizione per il boss Randacore: nei nostri istituti non sono garantiti i diritti umani. La notizia è questa: Domenico Rancadore, il capomafia di Trabia, latitante dal 1999 (anno della sua condanna in Italia) nel Regno Unito, ha vinto la sua battaglia contro l’estradizione in Italia. La sentenza ha stabilito che a Rancadore (ora sessantacinquenne), una volta nelle carceri italiane, non sarebbero garantiti i diritti umani, a causa delle pessime condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena dello Stivale. Come ha riportato il Corsera, ma anche quasi tutti i quotidiani inglesi, il giudice Riddle ha cambiato idea sull’estradizione chiesta dall’Italia, dopo aver considerato - oltre alle precarie condizioni di salute dell’uomo - le determinazioni di un’analoga vicenda relativa ad un cittadino somalo, cui parimenti è stata negata l’estradizione per le pessime condizioni delle carceri italiane. Tralascio i commenti sull’abilità degli avvocati di Hayle Abdi Badre e di Domenico Rancadore (il quale vive a Londra dal 1994, ha sposato un’autoctona ha due figli, è malato di cuore e porta un braccialetto elettronico, nonché sottoposto all’obbligo di firma) e sulla sensibilità dei giudici inglesi, per riflettere insieme a voi sullo "scuorno" italiano. Siamo un Paese del G8, seconda potenza industriale dell’UE, una culla di civiltà antiche, patria del diritto, abbiamo dato i natali a Cesare Beccaria e a Franco Basaglia. Tuttavia, siamo anche il Paese in cui la clandestinità è un reato, come lo è la detenzione di droghe leggere; un Paese che fa crescere in carcere i figli delle detenute, che permette i domiciliari agli amici dei potenti (vedi il caso Ligresti-Cancellieri), ma non ai malati amici di nessuno; che costruirebbe più carceri se ne avesse la possibilità, invece di investire su di una giustizia più celere; che ha pensato di privatizzare il sistema carcerario (sul modello americano, ma lì non sono diffuse come qui da noi le pratiche tangentizie) come pure il sistema giudiziario. Siamo il Paese del caso Ablyazov e di Stefano Cucchi; il Paese degli ottocento suicidi in carcere dal 2000 ad oggi. Il Paese che strinse un patto con la Libia di Gheddafi senza voler valutare (scientemente) le condizioni dello Stato in cui venivano "respinti" i migranti intercettati nel Mediterraneo. Leggendo i commenti alla notizia data dal Corsera, nella maggior parte di essi, innanzitutto, si scorge una grande superficialità, dovuta all’ignoranza dei fatti, ma soprattutto è evidente la mancanza di preoccupazione rispetto alle condizioni di vita di esseri umani, che hanno sì sbagliato, ma che comunque sono titolari del diritto alla salute e alla dignità, circostanze - come hanno constatato anche i giudici britannici - negate ai detenuti in Italia. C’è chi auspica "nuove carceri" come c’è chi non ha letto bene che Rancadore non è imprigionato e si augura che marcisca in carcere. Se fosse in una galera italiana, marcirebbe sicuramente. Siamo il Paese con le carceri peggiori d’Europa e probabilmente di molta altra parte del mondo, eppure non ce ne dogliamo più di tanto. Abbiamo ascoltato la ramanzina dell’Unione Europea e il vibrante monito del Presidente Napolitano, eppure su tutto aleggia l’indifferenza generale del Paese, per uno scempio che ha dell’incredibile per il mondo occidentale. Veniamo schiaffeggiati due volte dalla giustizia britannica, ovviamente facendocene più di una ragione, di cui la sintesi sarebbe: "Macchissene... che se li tenessero lì, due in meno da sfamare a spese dei contribuenti". Non è il problema dell’onore patrio da salvaguardare, che ci siamo giocati già da un po’ per totale incompetenza (il caso dei Marò in India) o sottomissione (il Cermis, l’assoluzione di Amanda Knox, Abu Omar), ma dell’accusa di inciviltà: non garantiamo i diritti umani. Siamo diventati aguzzini tutti quanti noi italiani, nel permettere che le persone (perché i detenuti sono persone, ricordiamocelo sempre) possano vivere in condizioni sub-umane, a prescindere dal loro reato, rinchiusi in quegli ammassi infernali che sono le carceri italiane. Non vogliamo decreti svuota-carceri; non abbiamo soldi (c’è la crisi, c’è la crisi!) per costruire altre carceri (e meno male!); abbiamo leggi complicate e molto punitive, così - vivendo tutte queste contraddizioni - non riusciamo a fare altro che disinteressarci completamente del problema e a non vergognarci di quello che hanno stabilito pubblicamente i giudici inglesi: siamo un Paese incivile. Per sentenza. Giustizia: il 60-80% dei detenuti è ammalato, il 50% colpito da malattie infettive Adnkronos, 19 marzo 2014 Una piccola città malata, con il 60-80% della popolazione colpita da una patologia. È questa la fotografia della salute dei detenuti italiani (64 mila in totale), scattata dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) e presentata ieri a Roma. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% è tossicodipendente. "Purtroppo è una popolazione giovane, ma con problemi di salute anche molto gravi - spiega all’Adnkronos Salute Sergio Babudieri, presidente di Simspe Onlus. Lo dimostra anche lo studio recente condotto dalla Simspe in 35 istituti, con 15 mila detenuti coinvolti (circa il 25% del totale), dal quale è emerso che solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv. Dato che contrasta con quello ufficiale: il 2-4% di chi è in carcere è sieropositivo. Siamo di fronte a una sottostima della patologia". Secondo i medici penitenziari "sono in aumento tra i detenuti gli atti di autolesionismo e i tentativi di togliersi la vita. Mentre ci sono stati 10 suicidi nei primi mesi del 2014 e 18 decessi naturali - spiega Giulio Starnini, segretario generale della Simspe - con i suicidi in leggero calo rispetto agli anni passati". Sono circa 3-4 mila i medici e gli infermieri che lavorano negli istituto di pena italiani. Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate dalla Simspe vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le patologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi colpisce il 22% dei detenuti, l’Hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%. Le cause - sottolineano i medici - sono da rintracciare in un’elevata presenza di soggetti a maggior rischio per le condizioni che riguardano le patologie più diffuse. Ovvero, soggetti con dipendenze da droghe o alcol e molti stranieri. "La salute pubblica non può prescindere dalla salute in carcere - precisa Babudieri. Pertanto le carenze di interventi sanitari adeguati nell’ambiente ristretto comportano inevitabili conseguenze sanitarie negative sulla popolazione detenuta, sul personale degli istituti, ma anche sull’intera collettività. Dopo il trasferimento delle funzioni sanitarie dal sistema centralizzato ed autonomo dell’Amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale (Ssn) - aggiunge - le Regioni ancora stentano a entrare nella cultura e nelle attività sanitarie del carcere. Serve quindi una profonda rivisitazione del sistema anche in questo periodo di crisi economica". Emerge prepotente - evidenzia la Simspe - la necessità di un Osservatorio epidemiologico nazionale sulla salute in carcere perché i progressi della farmacologia, della clinica, della diagnostica evidenziano un quadro sempre più fluido dell’evento malattia in carcere, con una tendenza dinamica che necessita di una approfondita conoscenza per migliorare i target dell’intervento. Rischio Tbc 26 volte più alto per detenuti I detenuti "hanno una probabilità di essere vittime della tubercolosi (Tbc) 26 volte più alta rispetto alla popolazione. Un dato confermato anche dal report Ecdc dedicato a questa malattia in Ue e pubblicato proprio oggi. Un pericolo frutto del sovraffollamento degli istituti italiani e con soggetti provenienti da zone come l’Est Europa dove la Tbc è ancora molto presente". Ad affermarlo è Massimo Andreoni, presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali intervenuto oggi a Roma al convegno "Salute in carcere, oggi" promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). "La trasmissione per via aerea della tubercolosi - prosegue - rende questa patologia molto diffusa tra le mura dei penitenziari. Basta un caso non segnalato a farla diffondere. Quindi - suggerisce l’esperto - lo screening all’ingresso in carcere è fondamentale per prevenire i focolai". Oms: Italia pioniera in Europa su sanità penitenziaria "L’Italia è stata pioniera in Ue nella sanità penitenziaria. Il Governo con la riforma si è fatto responsabile della salute delle persone in carcere. I medici e gli infermieri sono stati cruciali per questo successo. Conoscono le sfide e hanno le competenze per affrontarle". Ad affermarlo è Stefan Enggist, responsabile salute in carcere dell’Organizzazione mondiale della sanita (Oms) Europa nel suo intervento oggi a Roma al convegno "Salute in carcere, oggi" promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). Simspe: Regioni bocciate in medicina penitenziaria Il passaggio della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia a quello della Salute, nel 2008, diventando poi di competenza delle singole Regioni "sta dimostrando tutte le sue pecche. E forse è ora di rimettere mano al Dpcm che ha sancito questo passaggio. Le Regioni hanno fallito nel gestire la medicina penitenziaria. E lo Stato deve farsi carico di una maggior dotazione per questo settore". Ad affermarlo è Sergio Babudieri, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), tra i relatori del convegno "Salute in carcere, oggi" promosso a Roma dalla Simspe. Secondo i medici penitenziari, oggi l’assistenza sanitaria per un detenuto costa tra 200-230 euro in media al giorno, "ma il 15% della popolazione carceraria rimane negli istituti meno di 3 giorni. Sono circa 8mila persone ogni anno - chiosano gli esperti - a cui è impossibile dare una vera assistenza". "Serve una riflessione sui costi - afferma Luciano Lucania, vicepresidente Simspe - La necessità che personale e progetti della medicina penitenziaria siano di nuovo rilanciati per consentire lo sviluppo dei servizi. Era giusto fare la riforma - conclude - ma dopo 5 anni, ora occorre rivedere molti di quei punti, altrimenti saremo sempre un figlio minore". Oleari (Iss): disponibili per osservatorio salute detenuti L’Istituto superiore di sanità (Iss) è "disponibile con le sue competenze per dare una mano ai decisori politici e istituzionali" per la definizione dell’Osservatorio epidemiologico nazionale sulla salute in carcere. Ad affermarlo è Fabrizio Oleari, presidente dell’Iss, intervenuto a Roma al convegno "Salute in carcere, oggi" promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). L’istituzione dell’Osservatorio è una delle richieste avanzate dai medici penitenziari per migliorare l’attività di cura e assistenza ai detenuti: "Su questo argomento c’è una road map e l’Osservatorio può essere il catalizzatore di diversi soggetti", aggiunge Oleari. "Va anche facilitato l’accesso dei detenuti al test Hiv - osserva Oleari, nel suo intervento - E serve una regia forte che sappia fare le valutazioni epidemiologiche sulla popolazione carceraria da cui trarre le priorità per la pianificazione delle attività". Giustizia: la detenzione in carcere provoca e accentua gravi disturbi psichici e fisici www.telemeditalia.it, 19 marzo 2014 Malattie in carcere: quando l’isolamento è forzato, il disagio di vivere una progressiva alienazione provoca e accentua gravi disturbi psichici e fisici. Soprattutto nel primo periodo, quando il carcerato non è ancora abituato alla condizione di recluso, si manifestano sintomi di deterioramento psichico, come insonnia, nevrastenia, ipersensibilità, autolesionismo, anticamera di forme depressive più gravi. Il detenuto vive una quotidiana deprivazione della libertà, che si concretizza come una vera e propria menomazione fisica: non essendo più libero di svolgere semplici azioni giornaliere senza dover chiedere un permesso (anche per scrivere una lettera, lavare un capo di abbigliamento, tagliarsi i capelli...), il carcerato avverte la stessa frustrazione di un disabile motorio privato dell’uso degli arti. La mancanza di autonomia conduce ad una perdita della propria identità , anche sessuale, in cui il detenuto avverte se stesso come oggetto. La compensazione avviene con un amplificato atteggiamento di remissività, o con un’ingiustificata attitudine al comando e alla sopraffazione: opposti comportamenti che disegnano la gerarchia del sottobosco carcerario, caratterizzata da leader e gregari. Non esistono malattie tipiche della condizione del detenuto, ma è pur vero che in carcere qualsiasi disturbo, anche un semplice raffreddore, assume la valenza di un espediente comunicativo. In un contesto di limitazione e isolamento, attraverso la malattia il carcerato parla di sé, si esprime. Di fatto, le difficili condizioni in cui versano le carceri di tutto il mondo favoriscono l’insorgenza di malattie. I problemi di igiene, alimentazione, spazio, possono provocare disturbi gastroenterici, insonnia (con elevata richiesta di sonniferi), malattie dermatologiche e meccaniche (mal di schiena, difficoltà di deambulazione, mal di piedi), malattie respiratorie, infezioni. L’impossibilità di muoversi agevolmente e di praticare esercizio fisico può causare problemi di atrofia muscolare, ulteriormente complicati dall’insorgere di una esasperata sedentarietà: camminare, correre, alzarsi da una sedia o da letto, diventano azioni prive di significato. Il tempo del carcere è lento e monotono, lo spazio è angusto e sbarrato. Il tutto in assenza di stimoli affettivi, sensoriali ed intellettivi. Si rivoluziona il tempo fisiologico e si perde la ciclicità, con la comparsa di disturbi diversi come, nelle donne, le oligo-amenorree e polimenorree che sconvolgono il ciclo mestruale. E in questo scenario desolante il detenuto spesso tende a non sottoporsi alle terapie prescritte dal medico penitenziario. "Si tratta di un rifiuto inconsapevole, generato da ansia e disperazione - spiega il dott. Giulio Starnini, specialista in Malattie Infettive, Direttore Unità Operativa Medicina Protetta - Malattie Infettive Ospedale Belcolle Viterbo e Past President e fondatore Società Italiana Sanità e Medicina Penitenziaria - e a volte consapevole, quando il detenuto si persuade che l’aggravamento della sua malattia, o addirittura la simulazione di una patologia, possano garantire il trasferimento o la libertà vigilata. La depressione può indurre ad esempio un malato di Aids ad astenersi dalla terapia farmacologica, abbassando seriamente le difese immunitarie. Sta al medico penitenziario saper interpretare un rifiuto della terapia, attraverso un approccio olistico: non si studia il mero sintomo della malattia, ma la persona nella sua totalità". Giustizia: il ministro Orlando; l’umanizzazione della pena è un principio di civiltà Ansa, 19 marzo 2014 "L’umanizzazione della pena" è "uno dei più alti principi di civiltà contenuti nella Costituzione": è quanto sostiene il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in un messaggio, in occasione della "Giornata mondiale del servizio sociale", che si celebra oggi a Roma con un convegno organizzato dall’Ordine degli assistenti sociali. "Il mondo del servizio sociale - afferma Orlando - è essenziale per lo sviluppo del Paese. Con la sua vicinanza costante, professionale e umana, alle persone, alle famiglie e alle comunità in condizioni di grave difficoltà e disagio, il servizio sociale contribuisce in modo determinante al miglioramento della società e al bisogno, oggi particolarmente sentito, di solidarietà e coesione sociale". "La giustizia - aggiunge il ministro - deve molto al servizio sociale. La Giornata mondiale che si celebra oggi costituisce un’occasione importante per il giusto riconoscimento dell’abnegazione e della professionalità profuse quotidianamente dai tanti operatori - assistenti sociali, educatori, psicologi, sanitari - che, a fianco dei direttori degli istituti e del personale della Polizia penitenziaria e con il prezioso ausilio del volontariato e del terzo settore, sono impegnati nel favorire il percorso di rieducazione e reinserimento delle persone detenute". Giustizia: Sottosegretario Ferri; la "messa alla prova" aiuterà a svuotare i penitenziari Ansa, 19 marzo 2014 "Noi vogliamo puntare sulle misure alternative, perché garantiscono da una parte la rieducazione e dall’altra la certezza della pena: noi dobbiamo dare anche ai cittadini un messaggio di certezza della pena e di sicurezza. Se rieduchi bene chi commette un reato è più difficile che la persona torni a delinquere": lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenendo a Roma a un convegno in occasione della Giornata mondiale del Servizio sociale. Ferri ha fatto riferimento all’istituto della messa alla prova: "C’è un provvedimento legislativo in Parlamento, alla terza lettura, che vuole estendere anche agli adulti la messa alla prova. Oggi la sfida governativa e legislativa è quella di applicare agli adulti questo istituto che ha funzionato, e bene, nella giustizia minorile. Il provvedimento dovrebbe essere approvato in poco tempo: se riusciamo a far funzionare la messa alla prova anche per gli adulti, che tra l’altro è prevista per pene fino a quattro anni, risolvi in qualche modo anche il problema del sovraffollamento carcerario". "Credo molto alle misure alternative, occorre renderle effettive e semplificarle sempre di più. Dal punto di vista legislativo, si è cercato già con il precedente governo di fare qualcosa per ampliarle. Penso ad esempio all’affidamento terapeutico: prima la legge prevedeva per i tossicodipendenti la possibilità di concederlo solo due volte, oggi grazie all’ultimo provvedimento che è stato fatto non c’è più questo limite". Quanto agli assistenti sociali, secondo il sottosegretario "sono molto importanti sia dentro che fuori dal carcere: nella Giustizia minorile abbiamo 500 minori detenuti in carcere e 20 mila all’esterno, che sono ragazzi che hanno commesso reati ma accedono alle misure alternative e quindi ai programmi di recupero e reinserimento, e nei confronti dei quali c’è la cosiddetta ‘presa in caricò da parte degli assistenti sociali". Ma anche sugli assistenti sociali si è abbattuta la scura dei tagli di spesa negli ultimi anni: come ha evidenziato Emilio Di Somma, dirigente generale del Dap, "i mezzi e le risorse per realizzare le pene alternative sono scomparsi" e gli assistenti sociali occupati nel circuito penitenziario sono passati da circa 1.600 (2004) agli attuali 994. Giustizia: Favi (Pd); spending review? Orlando metta all’asta le "auto blu" del Dap Adnkronos, 19 marzo 2014 Il Guardasigilli metta all’asta le auto "di lusso" del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma. È la proposta, in una nota, di Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd. "Nei garage del Dap ci sarebbe un parco macchine di lusso, mentre negli uffici che seguono sul territorio migliaia di detenuti in misura alternativa, gli operatori usano i mezzi privati o quelli pubblici per adempiere alle attività di servizio. Questo - scrive Favi - è il paradosso che vedrebbe al Dap 207 veicoli di proprietà (più altri 20 a noleggio), tra cui ammiraglie delle diverse case automobilistiche, fuoristrada e macchine di rappresentanza, e negli uffici periferici dell’esecuzione penale esterna l’impossibilità di disporre di qualche utilitaria di servizio per le indagini che la magistratura di sorveglianza gli affida". "Ora il Ministro della Giustizia Orlando verifichi se ciò corrisponda al vero e, in questo caso, le effettive necessità. Dopo di che valuti se sia opportuno mettere all’asta gli autoveicoli di lusso che non hanno ragione di esistere in epoca di spending review e neanche per pretese ragioni di sicurezza che, in realtà, possono coprire posizioni di privilegio, e si dislochino invece sul territorio tutti quegli altri automezzi che non servono al Dap per le attività essenziali all’esercizio delle funzioni istituzionali". Giustizia: Associazioni; in 450, tra criminologi e psicologi, "espulsi" dalle carceri italiane Agi, 19 marzo 2014 "Stiamo assistendo ad una manovra di vera e propria espulsione dalle carceri italiane di circa 450 tra psicologi penitenziari e criminologi che vengono, di fatto, cancellati dagli istituti carcerari italiani: una iniziativa a tutto danno dei detenuti che non devono vedere arrestarsi quel percorso, previsto dalla stessa Costituzione, della loro rieducazione e reinserimento nella società civile". Lo hanno denunciato - nel corso di una manifestazione nei pressi del ministero della Giustizia - Associazioni professionali e Sindacali di categoria e il Consiglio nazionale degli psicologi. Secondo i promotori della protesta, "il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria non ritiene più utile l’esperienza fin qui maturata in oltre 35 anni dai circa 450 tra criminologi e psicologi penitenziari e sta azzerando l’esperienza di questi professionisti. Di più: cancella una idoneità acquisita con selezione pubblica, non valuta la formazione avuta prima del 2005, non valuta neanche il lavoro svolto ma solo il tirocinio/stage; stabilisce che - in futuro - si potrà lavorare in un carcere al massimo per quattro anni al termine dei quali sarà obbligatorio cambiare istituto carcerario: dunque, psicologi e criminologi diventeranno ad orologeria, o come sostiene il Dap, a rotazione. Il tutto dopo aver lavorato "a cottimo" e a "partita iva obbligata". Un appello è stato rivolto direttamente al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, da Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale degli psicologi: "si fermi immediatamente, ed è un intervento a costo zero, l’espulsione dei criminologi e degli psicologi penitenziari, non si avalli questa operazione in corso all’interno delle carceri italiane e che va a tutto danno dei detenuti". Dap: falso che vogliamo eliminare psicologi, risorse confermate "Va assolutamente rilevata la falsità dell'assunto della eliminazione degli psicologi che i gruppi hanno voluto accreditare". È quanto scrive in una nota il Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, replicando alle affermazioni di oggi degli organismi di categoria. "Al contrario - si legge - le risorse destinate a tale attività sono rimaste confermate nel bilancio del ministero, e la rotazione delle consulenze costituisce buona prassi per ogni amministrazione". Giustizia: a Taranto uccisi detenuto semilibero, la sua compagna e figlio di 3 anni di Luisa Amenduni Ansa, 19 marzo 2014 Quando i carabinieri sono arrivati sembrava fosse un incidente stradale: l’auto, una Matiz di colore rosso, adagiata quasi sul guardrail e dentro, sul sedile posteriore, due bambini di sei e sette anni, che singhiozzavano e non riuscivano neanche a parlare. Davanti, al posto di guida, una donna e accanto un uomo che nascondeva quasi con il suo corpo quello del piccolo di quattro anni che aveva in braccio: tutti e tre morti. Sono stati raggiunti da una pioggia di colpi di arma da fuoco sparati - sembra - da una vettura che ha affiancato la Matiz mentre l’auto percorreva la statale 106, nelle vicinanze dello svincolo per Palagiano Sud. Sono stati sparati tra i 15 e i 20 colpi e tra il primo e l’ultimo l’auto ha percorso, sembrerebbe, 300 metri. A seguito dell’agguato, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha disposto l’invio di 60 tra poliziotti e carabinieri nella provincia di Taranto. Le vittime sono Cosimo Orlando, di 43 anni, con precedenti penali, in semilibertà, la sua compagna, Carla Maria Fornari, di 30 anni, e il figlio di quest’ultima, di quattro anni, illesi gli altri due di sei e sette anni. Tutti e tre i bambini sono figli della donna, vedova di Domenico Petruzzelli, pregiudicato di 35 anni, ucciso insieme ad un altro pregiudicato, Domenico Attorre, nel maggio del 2011. Anche in quella circostanza la donna fosse stata presente. Gli investigatori sono certi che i killer abbiano agito per vendetta nei confronti di Cosimo Orlando, detenuto in semilibertà perché stava scontando una condanna per il duplice omicidio di Filippo Scarciello e Giancarlo La Cava, di 22 e di 26 anni, uccisi con colpi di arma da fuoco nelle campagne di Palagianello (Taranto) il 4 novembre del 1998. Orlando era stato condannato insieme ad un complice e aveva già scontato in carcere 13 anni. Il duplice omicidio - secondo quanto accertato dagli investigatori - maturò nell’ambito di contrasti tra clan rivali per contendersi l’attività di spaccio di droga nella zona. E sembra che Orlando, da quando aveva ottenuto la semilibertà, era tornato a pretendere di svolgere un ruolo nel mondo della attività di spaccio delle sostanze stupefacenti. L’agguato è avvenuto mentre la donna, a bordo della sua Matiz stava accompagnando il suo compagno, Cosimo Orlando, nel carcere di Taranto dove l’uomo trascorreva la notte. Il giorno, invece, era a Palagiano, dove la famiglia viveva. All’agguato non hanno assistito testimoni: sarebbero stati alcuni automobilisti a segnalare la presenza della vettura ferma "in modo strano". Quando i carabinieri sono arrivati non hanno potuto far altro che constatare la morte dei tre e occuparsi immediatamente degli altri due bambini che erano sotto choc. Sono quindi scattate le battute nella zona di polizia e carabinieri alla ricerca dei killer: ancora non è possibile sapere - gli investigatori al momento non si sbilanciano - se il commando abbia sparato affiancando la Matiz dal lato del conducente o del passeggero. "Occorre riflettere sul rischio - ha detto stamani il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola - che tornino gli anni peggiori". "Credo che lo stato debba reagire di fronte ad una strage così efferata, che ancora una volta - aggiunge Vendola - dimostra quanto la modalità operativa della mafia abbia dentro di sé un codice di disumanità e di barbarie assoluta". Il prefetto di Taranto, Umberto Guidato, ha convocato una riunione urgente in prefettura. Da Roma - si è appreso - stanno arrivando in Puglia i carabinieri del Ros. Le indagini sono dirette dal pm Remo Epifani e dal pm della Dda di Lecce Alessio Coccioli. Giustizia: l’infanzia rubata dei bimbi sopravvissuti di Giuliano Foschini La Repubblica, 19 marzo 2014 Gli aveva insegnato a dire Pa, che stava per Palacio, il centravanti della loro Inter. E quella sillaba - che non è una sillaba qualsiasi per un bambino di due anni a cui prima ancora di nascere era stata rubata una parola dal suo vocabolario, Pa-pà - era diventata la loro colla, il loro segreto. E così al di là di ogni fedina penale, codice di procedura o regolamento carcerario, era cominciata la storia di Mimmo e Domenico, un ragazzo sbagliato e un bambino sfortunato che avevano creduto di poter diventare grandi e felici insieme. Lo raccontava lo stesso Mimmo Orlando qualche mese fa, in un’aula del carcere di Taranto durante un’ora di reinserimento. "Io non ho figli. Però un po’ è come se ce l’avessi. Ho conosciuto tre ragazzini. Diventeremo grandi insieme e per prima cosa voglio insegnargli a giocare a pallone". Quando parlava Orlando aveva la tuta dell’Inter addosso, indossata appositamente per partecipare a quel corso di "legalità calcistica" organizzato da un avvocato, Giulio Destratis e dell’amministrazione penitenziaria: l’idea era quella di parlare ai detenuti di giustizia tramite il pallone. Magistrati, sportivi, giornalisti da una parte e i carcerati dall’altra. "Io nella vita, come nello sport, voglio vincere - scriveva Mimmo nei temi. Ma si rischia troppo a vincere sporco. E io non voglio rischiare più". Durante le pause di quelle lezioni si apriva: "Sono 16 anni che sono qui. Non ho avuto il tempo di avere una vita fuori. Però ho conosciuto una ragazza... Ha tre bambini, bellissimi. Forse è il turno mio". Non è stato il turno di Mimmo. Il perché lo stanno cercando di ricostruire i carabinieri del reparto operativo di Taranto che ieri hanno messo a soqquadro Palagiano e Massafra, riaperto tutti i fascicoli delle indagini in corso nella zona. "Li devono prendere, e prenderanno anche questi" dice un ragazzo alto alto e con la voce gentile. È il figlio di Domenico Attorre, l’uomo che fu ammazzato tre anni fa insieme con Domenico Petruzzelli, il marito di Carla, il papà dei tre bambini. Oltre a vivere l’omicidio dei loro genitori, questi ragazzi hanno dovuto anche ascoltarlo: Attorre e Petruzzelli avevano le cimici piazzate dalla polizia in auto quando furono assaliti dal commando. La loro morte è registrata sui nastri: "Oh mah, mah, mannaggia a te! Ci hanno ucciso!" si sente urlare Attorre e dopo, una pioggia di proiettili. "Io e Carla - raccontava ieri quel ragazzo, a pochi passi da uno striscione calato dalla finestra della scuola elementare frequentata dai due bambini che dice, come fosse una tremenda premonizione. "Noi vogliamo vivere" - abbiamo seguito tutte le udienze in tribunale insieme, ci sedevamo lì e guardavamo quei due che ci avevano tolto mio padre e suo marito. Da Palagiano spesso ci muovevamo insieme e con noi c’era anche Domenico, che rideva sempre". Sembra davvero maledetta la famiglia Petruzzelli: Domenico assassinato, Domenico jr finito così, Carla felice in abito bianco davanti all’altare, come racconta quella foto incorniciata nel salone, e che poi invece qualche mese dopo si trova all’improvviso vestita di nero, listata al lutto. Poi a 28 anni la voglia di tornare a vivere, nonostante il dolore, le voci incontrollate del paese, le birre sotto casa con gli amici, gli stivali con le borchie, i Clash e Ligabue, una vita di disperazione fino a dicembre quando arriva Mimmo che porta con sé la speranza di un amore, di una vita quasi normale con Facebook, le foto insieme, i tatuaggi con i nomi impressi sul bicipite. Quando tutto sembrava perso, Carla sperava insomma di poter tornare Carla. E poi, invece, di nuovo le pallottole che questa volta fanno tre morti e due bambini che non lo saranno mai più. "Cos’altro mi dovete fare?" si chiede la signora Rosa Petruzzelli, dilaniata dall’essere sopravvissuta alla morte di un figlio e ora anche del suo nipotino. È una storia questa che capovolge i cliché mafiosi: i carabinieri fanno il loro mestiere e allora cercano risposte nel clan Putignano, quello nel quale di muoveva Mimmo. Cercano vendette tra i parenti dei due ragazzi che l’uomo aveva ammazzato nel 1996, chiedono di suoi possibili recenti sgarri ai Coronese, il gruppo rivale di Massafra. Insomma fanno quello che devono, ma annotano - e qui c’è la novità - che nessuno tra gli amici pronuncia la parola "vendetta". A Palagiano più che la faida invocano giustizia. Intanto gli amici, i conoscenti mettono apposto i ricordi: Mimmo portava sempre in braccio in bambino ("Forse aveva paura, lo usava come scudo" dice qualcuno giù al bar, "Io sono sicuro che lo amava" rispondono dall’altro tavolo). Mentre su Facebook tre giorni fa Carla aveva postato un video di Mimmo e Domenico, che fanno lavori di casa. Tolgono con un piccone l’intonaco da un muro da ripitturare, metafora sballata di un comune inizio trasformato in una dannata fine. Giustizia: quei bimbi che vivranno con la morte negli occhi di Concita De Gregorio La Repubblica, 19 marzo 2014 Le vittime, in guerra, non sono solo quelli che muoiono. Sono anche quelli che restano. Il peso del lutto lo portano i sopravvissuti. I morti sono morti, alla fine. Hanno smesso di soffrire, si dice con una frase fatta che pensando agli altri, a chi rimane, ritrova tutto il suo senso: chi resta non smette di soffrire. Chi resta continua. Nella strage di Taranto sono stati uccisi un uomo, una donna e suo figlio di 3 anni: le vittime. Non ci sono più, non hanno ricordi né pene. Sono morti. Nel sedile posteriore dell’auto c’erano altri due bambini, 6 e 7 anni: sono sopravvissuti, si sono salvati. Il ricordo degli spari, l’immagine dei genitori e del fratello uccisi, la paura che ha tolto loro il movimento e la parola saranno da quel momento e per tutta la vita la madre di ogni altra memoria e la fonte perpetua di ogni pensiero. Però che fortuna, si sono salvati. Non sono nel conto delle vittime, no. Le vittime di cui non si celebra il funerale in questa matematica non entrano. Di chi resta prima o poi ci si dimentica. Si sarà rifatto una vita, dice un’altra frase da copione. E invece con la vita non si può fare "cancella" come con una memoria di computer. La vita non si rifà, continua a farsi e non lascia mai indietro niente. Danni collaterali, si direbbe in gergo bellico. I bambini spettatori di morte non sono il bersaglio: sono tutt’al più testimoni, costi periferici del delitto. E invece no, a conti fatti no. È chi sopravvive che porta tutto il peso della tragedia. Non un peso indiretto, residuale: tutto, con l’aggravante del tempo che resta. Ed è una guerra, perché quella di mafia è una guerra e quella che si consuma ogni giorno nelle famiglie, dentro le case, lo è. Se le donne uccise da mariti fidanzati ex compagni o pretendenti respinti fossero un battaglione di soldati meriterebbero pagine sui libri di storia. Se si contassero tra le vittime anche i figli bambini che hanno assistito all’omicidio dei genitori, dei nonni, dei fratelli sarebbero migliaia, allora, forse a questo punto della storia già milioni e in ogni città ci sarebbe una piazza intitolata a loro come al milite ignoto. Sono invisibili, invece. Dimenticati. Nessuno va a cercarli, dopo, per sapere cosa ne sia stato di loro. Nessuna istituzione si incarica di pagar loro le cure e gli studi e di garantirgli la vita come si fa (a volte, non sempre) per gli orfani delle guerre ufficiali, quelle certificate. Capita che, se sono stati testimoni del delitto, ci si accanisca anzi per anni a chiamarli in giudizio. Natalino Mele aveva 6 anni quando quello che è stato poi battezzato dai giornali il "mostro di Firenze" uccise per la prima volta, nel 1968. Era nel sedile di dietro dell’auto, anche lui. L’assassino uccise sua madre Barbara e l’uomo che era con lei, lo "zio" Antonio. Ancora ventisei anni dopo, ormai più che trentenne, Natalino Mele è ricomparso in un aula di tribunale sentito come testimone. Un uomo smarrito, confuso. Una vita alla deriva: la sua casa si è incendiata, qualche tempo dopo, poi di lui più nessuna traccia. Irrintracciabile, introvabile. La storia di Natalino Mele è come una macchina del tempo: segna una delle traiettorie possibili, cosa succede trent’anni dopo. Certo non va sempre così, certo ci sono famiglie capaci di contenere e accudire, strutture anche pubbliche capaci di curare, vite che almeno un poco si risollevano. Però a leggere i ritagli di cronaca non si può smettere di pensare: come vivranno oggi le cugine di Annalisa Durante, la ragazzina che stava parlando con loro, per strada, quando è stata uccisa per sbaglio nella guerra di camorra di Forcella? Come sarà la vita dei due gemelli di nove anni che l’altro giorno, a Roma di domenica mattina, alle otto, si sono svegliati sentendo gridare la madre e corsi in camera hanno assistito allo spettacolo del padre che la uccideva a martellate? E chi si occupa oggi dei fratelli, ora quasi adolescenti, che quattro anni fa hanno visto il padre uccidere la nonna e la zia, massacrare la madre? Un istituto, certo. Una struttura per l’assistenza dei minori. E l’amore? E la speranza? Basterebbe incrociare una volta, una sola, lo sguardo di questi bambini. Come quando si vede in foto il volto di un bimbo vivo tra le macerie. Quegli occhi, basterebbero quelli per mettere al primo punto di ogni agenda di governo la lotta alle guerre tutto attorno a noi: la guerra di mafia, la mattanza che si consuma ogni giorno in famiglia. Se non vi sembra abbastanza farlo per chi muore, fatelo - mettete tutto il vostro ingegno, i denari, tutta la forza che avete - al servizio di chi, ferito a morte, resta. Giustizia: per Berlusconi interdizione confermata, non potrà candidarsi alle europee di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2014 Silvio Berlusconi non potrà candidarsi alle elezioni europee. Il no, senza se e senza ma è arrivato ieri sera tardi dalla Cassazione, che ha confermato i 2 anni di interdizione dai pubblici uffici e come pena accessoria della condanna a 4 anni di carcere (di cui 3 condonati dall’indulto) per la frode fiscale di 7,3 milioni di euro consumata nella vicenda Mediaset diritti Tv. Indipendentemente dall’incandidabilità prevista per 6 anni dal decreto Severino (lo stesso che ha fatto perdere all’ex premier il seggio di senatore), con la decisione di ieri Berlusconi è tagliato fuori da qualunque competizione elettorale per i prossimi due anni, oltre che dall’esercizio di qualunque funzione pubblica. La terza sezione penale della Cassazione ha infatti respinto il ricorso del leader di Forza Italia contro la sentenza della Corte d’appello che aveva rideterminato in 2 anni (rispetto al 5 inizialmente previsti) la durata della pena accessoria. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, si può presumere che la Corte abbia accolto il ragionamento del Procuratore generale, che aveva concluso per la conferma della condanna. "Irrilevanti" o "manifestamente infondate" le questioni sollevate dall’imputato, aveva detto nel pomeriggio il Pg, secondo cui il ricorso doveva considerarsi addirittura inammissibile poiché "l’estinzione del debito tributario non è ancora avvenuta e non è stata chiesta neanche la rimessione in termini". Già i giudici di appello avevano sottolineato la gravità del danno provocato all’Erario dalla frode fiscale, che solo per i due anni sopravvissuti alla prescrizione ammonta a 7 milioni 300mila euro. Niente da fare, quindi, per la difesa di Berlusconi, rappresentata da Franco Coppi e Niccolò Chcdini (il quale ha espresso successivamente "amarezza" per il verdetto). Oltre a chiedere l’annullamento della condanna alla pena accessoria (o la riduzione a un anno), i legali avevano sollevato varie questioni di costituzionalità e depositato, a sorpresa, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 4 marzo scorso sul caso di Franzo Grande Stevens e degli altri rappresentanti dì società riconducibili alla galassia Fiat, come Ifil-Exor. Un caso che avrebbe attinenza con la vicenda Berlusconi perché, ha spiegato Coppi, affronta il tema della "cumulabilità delle sanzioni penali e rileva che qualora una sanzione accessoria, non importa se di natura penale o amministrativa, incida su diritti fondamentali, allora si deve giungere alla conclusione che ha natura penale e non può essere cumulata con un’altra sanzione simile, per il divieto del ne bis in idem". La Corte di Strasburgo ha affermato che "le sanzioni amministrative inflitte dalla Consob a Grande Stevens e agli altri imputati ammonta vano a multe di milioni di euro e prevedevano anche la perdita di incarichi societari", per cui "la pesantezza economica e il riflesso sull’onorabilità degli imputati" hanno convinto Strasburgo che queste sanzioni avessero natura penale e non amministrativa. Secondo Coppi, "il caso del dottor Berlusconi è come quello di Grande Stevens perché sono identici gli effetti della legge Severino e dell’interdizione". Di qui la richiesta di trasmettetegli atti alla Corte europea, sospendendo l’udienza in attesa del verdetto. Richiesta bocciata dalla Cassazione. Quanto alle questioni di incostituzionalità, Ghedini aveva contestato il decreto Severino per "difetto di delega" avendo omesso di coordinare (come prevedeva la legge) le diverse misure interdittive mentre Coppi aveva puntato il dito contro le norme che precludono l’estinzione di un debito fiscale societario a chi non ha la rappresentanza legale della società che ha evaso, creando così una "disparità di trattamento": quelle norme avrebbero impedito a Berlusconi di estinguere il debito tributario per il quale è stato condannato - in quanto relativo a sue società, di cui però non aveva la rappresentanza legale - e quindi di evitare la pena accessoria dell’interdizione. Questioni "irrilevanti" ha sentenziato la Cassazione. E così diventa definitiva anche la condanna all’interdizione. Giustizia: Berlusconi non sarà in lista… farà campagna elettorale come un martire di Marcello Sorgi La Stampa, 19 marzo 2014 La conferma da parte della Cassazione dell’interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi, pena accessoria della condanna definitiva inflitta ad agosto 2013, non cambia molto il quadro. Né per Il condannato, che aveva già messo in conto l’impossibilità di candidarsi alle europee, né per i suoi avversari, che se lo ritroveranno contro lo stesso. Anche se il 10 aprile i giudici di Milano, chiamati a decidere sulla sua richiesta di affidamento ai servizi sociali, dovessero pronunciarsi in modo restrittivo, ammettendo l’imputato alla pena alternativa, ma assegnandogli al contempo una limitata o addirittura inesistente agibilità politica per la prossima campagna elettorale. In realtà il Cavaliere ha già deciso la linea di comunicazione per il voto del 25 maggio: assente dalle liste (ma non è detto che lo sarà dal simbolo del suo partito), si presenterà come martire di una giustizia a suo modo di vedere politicizzata, che s’è accanita contro di lui permetterlo ai margini. E cercherà di dimostrare, ancora una volta, che è impossibile cancellarlo dalla politica perché milioni di elettori sono con lui. Una strategia come questa, dispiegata già con l’annuncio dell’intenzione di candidarsi in tutte e cinque le circoscrizioni malgrado gli impedimenti giudiziari, se anche non dovesse funzionare e portarlo a un risultato elettorale deludente, potrà essere utilizzata come scusante per un’eventuale sconfitta. La vera speranza di Berlusconi resta quella della grazia. Che potrebbe essere riproposta al Capo dello Stato dopo la scadenza elettorale. Il Cavaliere punterebbe a far tesoro del ruolo decisivo avuto fin qui nell’approvazione della riforma elettorale alla Camera, e indispensabile nel prossimo, e assai più insidioso, confronto che si prepara al Senato. Ma che questo possa davvero avere un peso sull’orientamento del Presidente Napolitano è tutto da vedere. Il Quirinale ha diffuso ieri una nota per dire che tutte le ipotesi che si fanno rispetto alle sue intenzioni sono libere, ma riguardano chi le fa. Il riferimento, sembra di capire, era a un’intervista di Fedele Confalonieri al Foglio contenente un accenno alla grazia, e a un’altra di Emanuele Macaluso al Corriere della Sera in cui si prevedevano le dimissioni del Capo dello Stato a fine anno, dopo l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale. Basilicata: il Sappe a congresso denuncia costante tensione in Istituti penitenziari lucani Adnkronos, 19 marzo 2014 A differenza di quanto dicono i dati ministeriali e il sopralluogo stesso di Marco Pannella, che l’estate scorsa ha visitato gli istituti lucani, le carceri della Basilicata non sono un luogo confortante, anzi, all’interno di quelle mura si nascondono storie drammatiche, di isolamento e sofferenza che non riguardano solo i detenuti, ma anche il personale che lavora al suo interno. A rivelarne una parte ieri è stato il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, il Sappe, che si è riunito a congresso a Tito con un convegno destinato proprio al sovraffollamento delle carceri. Ed è bene partire da questo punto. Le case circondariali lucane non sono sovraffollate, ma hanno una cronica carenza di personale. Si parla di 70 unità presenti a fronte di un organico previsto di 447 persone con un numero di detenuti superiore a 500 su una capienza di 440 unità. I numeri sull’affollamento non sono così drammatici ma non a caso il taglio del segretario generale, Donato Capece, dato all’incontro parte dal presupposto che negli istituti penitenziari lucani "sono sempre più luogo dell’assenza. Assenza di taluni diritti, di prospettive, di senso. Uomini e donne ammassati in luoghi sempre più stretti ed angusti, a fronte di una capienza complessiva delle carceri italiane di circa 38mila posti ce ne sono attualmente circa 63mila, gli stanziamenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria quasi del tutto assenti". I numeri sono drammatici perché in tutto il 2013 si sono verificati tra Potenza, Melfi e Matera 28 episodi di autolesionismo e un tentato suicidio sventato dagli operatori della Polizia Penitenziaria. E non solo: la situazione all’interno è piuttosto calda, con situazioni di violenza preoccupante. Nel corso dell’anno sono state registrate 18 colluttazioni e 14 ferimenti. C’è anche un’evasione per un mancato rientro da permesso premio, 29 scioperi della fame per protesta sulle condizioni di detenzione, 21 rifiuti di vitto e terapie mediche e 9 danneggiamenti per un totale di 470 detenuti distribuiti in tutto il territorio. Insomma, gli uomini del sindacato non nascondono una situazione quasi “esplosiva” e difficile da tenere sotto controllo. Solo nel carcere di Potenza sono stati registrati lungo tutto il 2013 18 atti di autolesionismo che vanno dai tagli diffusi all’ingestione di chiodi, pile, lamette e altri corpi estranei. Altri 9 sono stati segnalati a Matera e uno soltanto a Melfi dove un detenuto non è ritornato dal suo permesso premio. Diciamo che il Sappe ha una sua proposta, ovvero il "ripensamento della pena, favorendo maggiormente il lavoro obbligatorio in carcere, il potenziamento delle misure alternative alla detenzione e l’espulsione dei detenuti stranieri". Ma è chiaro che la Basilicata, in termini carcerari, non è quell’isola felice all’interno di un regime che ha bisogno di una riforma radicale e senza tentennamenti. Questo perché le cifre del Sappe restituiscono uno scenario a tinte fosche dove regna disuguaglianza e soprattutto isolamento. A margine dell’incontro è stato eletto il nuovo segretario regionale del sindacato autonomo. Ed è stato riconfermato all’unanimità Saverio Brienza, sostituto commissario della Polizia Penitenziaria, coordinatore del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti della Casa Circondariale di Potenza. Al suo fianco ci saranno due vice segretari: l’ispettore capo Eustacchio Paolicelli che è in servizio al carcere di Matera e l’assistente capo Mauro Autobello, di stanza a Melfi. Napoli: così sta cambiando Poggioreale… spenti i riflettori sul caso della "cella zero" di Antonio Mattone Il Mattino, 19 marzo 2014 Cosa è cambiato nel carcere di Poggioreale ora che si sono spenti i riflettori sul caso della cella zero, la stanza dove sarebbero avvenuti i presunti pestaggi contro i detenuti? La prima sensazione che si prova entrando nell’istituto di pena è quella di un clima disteso, una atmosfera assai diversa da quella tesa che si respirava fino a qualche tempo fa appena si varcavano i cancelli del penitenziario. Se questa metamorfosi sia solo di facciata è ancora presto per dirlo. Indubbiamente le denunce mediatiche hanno avuto il loro effetto e hanno dato la percezione che le mura della prigione non sono più inviolabili e impenetrabili. Colpisce anche la ferma posizione del sindacato della Polizia penitenziaria che, per la prima volta, ha ipotizzato la possibilità che ci possano essere stati degli abusi, affermando che "se ci sono mele marce esse devono pagare". Spetterà ora all’inchiesta aperta dalla magistratura stabilire eventuali responsabilità penali. Intanto, una consistente novità è stata la riduzione del numero dei detenuti, sceso a 2.420 unità, pur restando molto al di sopra della capienza regolamentare fissata a circa 1.500 posti. Ma se pensiamo che qualche mese fa è stato sfiorato il numero di 3.000 carcerati, possiamo registrare una significativa inversione di tendenza che nelle prossime settimane dovrebbe essere ancora più consistente. A fine marzo, inoltre, nel carcere napoletano è prevista una visita di una delegazione del Parlamento europeo per verificare le condizioni dei detenuti di Poggioreale in vista della scadenza del 28 maggio 2014, termine entro il quale lo Stato italiano deve rimuovere le cause strutturali dei trattamenti inumani e degradanti, come previsto dalla sentenza Torregiani. Il "Sistema Poggioreale" nasce negli anni ottanta dopo le rivolte e persino qualche sparatoria tra i detenuti avvenuta all’interno di quelle mura. Bisognava mettere fine a quel clima di violenza e ristabilire l’ordine a qualunque costo. Magari utilizzando anche metodi non proprio sintonici con il nuovo modello elaborato dalla legge Gozzini, entrata in vigore qualche anno prima. La custodia dei detenuti doveva prevalere sul trattamento, una concezione culturale che fa ritenere i detenuti irrecuperabili e che considera una perdita di tempo l’opera degli operatori che dovrebbero rieducarli e dei volontari che li vanno a trovare. Una impostazione dura ad essere scardinata, basta pensare che fino a qualche tempo fa c’era ancora chi pensava che il sistema custodiale dovesse avere l’ultima parola anche sulla carità dei volontari, stabilendo quali erano veramente i carcerati bisognosi a cui si potevano regalare scarpe, indumenti e sapone. C’è poi un dato che fa riflettere: se pensiamo che il costo medio giornaliero di un detenuto è di circa 150 euro e che di questi meno di 4 euro sono spesi per il vitto e circa 8 centesimi nelle trattamento, vediamo quanto poco lo Stato investa nel recupero di chi ha commesso un reato. Il carcere di Poggioreale è una periferia esistenziale nel cuore della città. Qualche settimana fa un volontario ha ricevuto una lettera di un carcerato, da poco trasferito in un altro Istituto della Campania. "Ti ho conosciuto in un luogo di sofferenza in un momento così difficile della mia vita che avevo pensato di farla finita - scrive C. - ma poi se arrivato tu con quel tuo modo di fare e con quella tranquillità che mi ha trasmesso tanta forza…". Queste righe fanno capire come ci sia bisogno di sostenere e stare vicino a chi ha sbagliato. Non è chiudendo i detenuti nella cella e buttando la chiave che si può rieducare chi ha commesso un crimine. Quando uscirà cosa avrà imparato? Piuttosto bisogna trovare quella chiave umana che può far scattare una reazione contro il proprio modo di essere che spinga a desiderare nuovi comportamenti. È una impresa complessa e difficile. Chi frequenta le patrie galere lo sa bene, ma è l’unica strada da percorrere. Dopo il clamore suscitato dalla vera o presunta cella zero stanno scricchiolando vecchie certezze. Possiamo immaginare un nuovo corso del penitenziario intitolato a Giuseppe Salvia? Possiamo parlare di Poggioreale anno zero? Sarà solo il tempo a dirlo. Gorizia: detenuto denuncia "disumane le condizioni del carcere", oggi Radicali in visita Il Piccolo, 19 marzo 2014 Oggi, a partire dalle 11, l’Associazione Radicale "Trasparenza è Partecipazione" di Gorizia, effettuerà una visita ispettiva alla casa circondariale di Via Barzellini. "Lo scopo della nostra visita" - spiega Michele Migliori, segretario dei Radicali goriziani - è quello di sincerarsi delle condizioni dell’Istituto di pena e dei suoi reclusi, alla luce della lettera di un parente di un detenuto giunta nei giorni scorsi a Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani, che denuncia la condizione inumana nella quale i carcerati sono costretti a vivere quotidianamente nella casa di detenzione goriziana". "Da anni - prosegue Michele Migliori - i radicali segnalano con urgenza le problematiche legate alla giustizia ed al sistema carcerario, chiedendo con insistenza il provvedimento dell’Amnistia. Il 28 Maggio - conclude il segretario dell’associazione - scadrà il termine imposto all’Italia dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo per porre fine alla tortura praticata nei confronti dei detenuti ristretti nelle nostre carceri. Come ha scritto il Presidente Napolitano nel messaggio alle Camere "è un problema da non trascurare nemmeno un giorno in più". Abbiamo contato gli anni, ora contiamo i giorni". Ecco il testo della lettera del parente di un detenuto del carcere di via Barzellini inviata alla Bernadini: "Carcere di Gorizia, notizia di oggi, hanno svuotato la saletta di socialità che stavano allestendo ed hanno messo tre materassi a terra perché non ci sono più brande. Gli altri istituti della regione non hanno accolto le domande di trasferimento perché al collasso anche loro. Per cui ora a Gorizia nelle celle singole ci sono tre detenuti con la branda a castello di tre piani. Nelle celle da tre sono in otto con due brande a tre piani ed una a due piani. Questa cella da tre con otto detenuti, misura venticinque metri quadrati, di cui poco meno di sette calpestabili. Tutto il resto è occupato dal mobilio". La vetustà della casa circondariale di via Barzellini è cosa risaputa tanto che da anni due sezioni della struttura sono da tempo chiuse perché inagibili. Da alcuni mesi sono iniziati i lavori di ristrutturazione per rendere più vivibile il carcere, che è occupato per la maggior parte da detenuti in attesa di giudizio. Brescia: a maggio la Corte Europea si esprimerà sulla class action di 355 detenuti di Davide Bacca Corriere della Sera, 19 marzo 2014 "Entro 15 giorni troverò una soluzione per Canton Mombello". Era il 21 ottobre 2013, cinque mesi fa. L’allora ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri arrivò a Brescia, assicurando di voler risolvere il problema carcere una volta per tutte. In effetti nelle giornate successive i tecnici del commissario del Governo per l’edilizia penitenziaria fecero più di un sopralluogo nelle ex caserme bresciane, da riadattare a nuovo istituto di pena. Sembrava che il ballottaggio tra la "Serini" di Montichiari e la "Papa", in città, dovesse risolversi in poche settimane. Entrambe mostravano criticità: indisponibile la prima, troppo piccola la seconda. Fatto sta che il tempo è passato, al dicastero della Giustizia è cambiato il ministro, l’ex pm Alfonso Sabella ha sollevato più di un dubbio sul Piano carceri e del nuovo istituto di Brescia si sono perse le tracce. "Non ci sono novità", si limitano a ripetere dagli uffici del commissario. Eppure Brescia dovrebbe essere "la" priorità, ha sospirato ieri il garante dei detenuti Emilio Quaranta. "L’Italia è il fanalino di coda dell’Europa e Brescia dell’Italia" ha spiegato Quaranta. La struttura è vecchia, poco funzionale, non adatta a ospitare attività lavorative, che è invece quello a cui si dovrebbe puntare per "reinserire" i detenuti. Vi è poi il cronico problema del sovraffollamento. La capienza è di 206 persone, si può arrivare a 298, come "limite di tolleranza". Ma a Canton Mombello si viaggia spesso attorno ai 500, 581 la punta massima. Va detto che a cavallo del nuovo anno 150 carcerati sono stati trasferiti a Cremona, dando un po’ di respiro al carcere di Brescia. Oggi i detenuti sono 336. Una situazione per certi versi mai vista dalle parti di Canton Mombello, ma pur sempre una condizione di sovraffollamento. Quaranta ha ricordato la class action promossa da 355 detenuti; ricorso dichiarato "ammissibile" dalla corte di Strasburgo il cui esito è atteso a maggio, al termine della "moratoria" per il caso Torregiani. Per via del sovraffollamento l’Italia rischia multe milionarie, e il "caso Brescia" può costare caro. Giusto dunque elogiare l’impegno delle associazioni e dei cittadini bresciani che cercano di rendere più vivile la struttura penitenziaria: negli ultimi anni sono arrivati 700 libri, 50 televisori, decine di materassi; sono stati organizzati concerti e imbastite occasioni lavorative. La norma prevede sgravi fiscali per le aziende che assumono detenuti o organizzano attività produttive negli istituti di pena. Ma il problema di Canton Mombello è che non ci sono spazi sufficienti. "Serve un nuovo carcere", ha ribadito Quaranta, che sia l’ampliamento di Verziano, come ipotizzato ai tempi di Paroli, o l’ex caserma Papa. Massimo Tacconi (Lega) ha invitato a riprendere in mano la prima ipotesi ("la Papa non è adatta"), Fabio Capra (Pd) ha risposto spiegando che l’amministrazione agevolerà la costruzione di un nuovo carcere, "ma che il compito spetta allo Stato", ad iniziare dal reperimento delle risorse. Il rischio, va detto, è un altro: che nessuna delle due strade vada in porto. Brescia: il Garante Quaranta "non si è fatto nulla ma l’emergenza sovraffollamento…" di Stefano Martinelli Brescia Oggi, 19 marzo 2014 Quaranta: "Non si è fatto nulla ma l’emergenza sovraffollamento è ancora alta a Canton Mombello" Capra (Pd): "La nuova struttura nella variante Prg". Torna il tema della costruzione di un nuovo carcere con la relazione di Emilio Quaranta, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale; un compendio del lavoro svolto durante l’anno illustrato davanti alla Commissione consiliare sui sevizi alla persona e sulla sanità. "Brescia è il fanalino di coda del territorio nazionale, insieme a Busto Arsizio e Termini Imerese, sul tema del sovraffollamento delle carceri - afferma il Garante. Grazie all’impegno del mio ufficio il numero di detenuti a Canton Mombello è passato da un picco di 581 ai 336 attuali ma un nuovo carcere rimane necessario". Il 2014 ha visto infatti il trasferimento di oltre 150 persone presso la Casa circondariale di Cremona "Cà del ferro" ma la situazione resta allarmante. L’istituto cittadino dispone di 206 posti disponibili, aumentabili fino ad un massimo di 298, dati che non rispettano gli indirizzi forniti dall’Unione Europea. "A Canton Mombello ho visto celle di 24 metri quadrati occupate da 8 detenuti, numeri che infrangono il limite imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che sancisce un minimo di 7 metri per ogni singolo individuo". "Ad ottobre l’allora Guardasigilli Cancellieri promise d’interessarsi sul tema della costruzione di un carcere all’avanguardia - continua Emilio Quaranta - ma ad oggi nulla è stato fatto". Il capogruppo Pd in consiglio comunale Fabio Capra ribadisce l’impegno dell’amministrazione annunciando "l’inserimento della questione nella prossima variante del Pgt". Tra i papabili siti dove collocare un possibile, futuro istituto emergono la caserma "Papa", definita un’ipotesi impraticabile dal consigliere della Lega Nord Massimo Tacconi, e la caserma "Serini" di Montichiari. Non tutto però è buio nel panorama bresciano. Recente la comunità di accoglienza per minori in via Orzinuovi, unica alternativa in Lombardia all’istituto "Cesare Beccaria" di Milano. Anche per quanto riguarda i diritti dei detenuti le cose sembrano migliorate. "Grazie all’ospedale Civile è attivo 24 ore su 24 il servizio d’infermeria all’interno di Canton Mombello - sostiene il Garante - anche se a Verziano la situazione non è la medesima". Fattore fondamentale per creare un ponte tra società civile e detenuti sono le associazioni di volontariato Volca e Carcere e territorio che, in accordo con le amministrazioni carcerarie, portano sostegno, materiale e spirituale, ai reclusi ed ai loro familiari. "Nell’anno trascorso sono stati 51 i detenuti che si sono rivolti a me per avere un supporto, 16 i parenti con i quali ho avuto un colloquio - afferma Quaranta. Il Garante è una figura volta a rendere effettive le disposizioni costituzionali che sanciscono un trattamento umano e dignitoso della persona detenuta, nel rispetto del fine rieducativo della pena". Con 65.905 reclusi distribuiti nei 47.040 posti disponibili ed un tasso di affollamento del 140%, la situazione carceraria italiana desta ancora tanti dubbi ma i primi passi verso una umanizzazione della detenzione sembrano essere stati compiuti. "Un nuovo carcere ed un restringimento del campo della sanzione penale - conclude il Garante - sono le vie da percorrere per permettere ai detenuti di essere trattati come meritano, di essere considerati come uomini". Brescia: Romano (Carcere e Territorio); bisogna dare ai condannati possibilità di riparare Brescia Oggi, 19 marzo 2014 Un progetto di educazione alla legalità è attivo in otto istituti superiori della nostra provincia. Nel panorama carcerario italiano, in continuo fermento per le deprecabili condizioni di vita dei detenuti, Brescia indica la direzione da seguire e lo fa con il volontariato, in particolare con l’associazione "Carcere e Territorio", Onlus che dal 1997 si pone l’obbiettivo di creare un punto di contatto tra la cittadinanza e gli istituti di detenzione. L’attività del gruppo si articola in diversi progetti, con la precisa intenzione di "diffondere una cultura della legalità e della funzione della pena che vada oltre i pregiudizi, per estirpare la diffidenza che impera nei confronti dei detenuti", afferma Carlo Alberto Romano, presidente di "Carcere e territorio". Lo sguardo dell’associazione si rivolge ai soggetti in esecuzione penale degli istituti Canton Mombello e Verziano, fornendo loro sostegno in modo eterogeneo. Si va dalla fornitura di beni di prima necessità all’interno del carcere all’assistenza ai figli e ai familiari dei detenuti, alla gestione di uno "sportello di segretariato sociale" in collaborazione con l’associazione Volca. Di particolare importanza è l’iniziativa "Giustizia riparativa", organizzata con il sostegno di numerosi Comuni della provincia. "L’idea è quella di dare ai condannati in custodia cautelare la possibilità di riparare, attraverso un’attività lavorativa non remunerata, il danno arrecato alla società", afferma Romano. "Carcere e territorio" collabora inoltre nella redazione del giornale penitenziario "Zona 508". L’altra faccia del lavoro dell’associazione si rivolge invece alla cittadinanza, in un’ottica di sensibilizzazione e d’informazione. Il progetto di educazione alla legalità "Carcere e scuola" è attivo in otto istituti superiori della provincia, e nell’anno scolastico in corso è riuscito a coinvolgere anche il liceo "Pacioli" di Crema. "La recente riduzione del numero dei carcerati all’interno di Canton Mombello e di Verziano - afferma Carlo Alberto Romano - si presenta come un’occasione unica per adottare strategie opportune in direzione di un più proficuo dialogo con il territorio". Negli ultimi anni, anche a fronte dei continui ammonimenti dell’Ue sull’insostenibile condizione dei detenuti italiani, le carceri hanno gettato via quel mantello di segretezza che le circondava, rendendo possibile un progressivo avvicinamento tra la comunità civile e le isole penitenziarie. "Gli istituti sono luoghi che devono tendere alla rieducazione del detenuto - conclude Romano, come affermato dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione". "Carcere e territorio", con i suoi oltre 40 volontari, si pone come capofila di questo nuovo modo di pensare la "prigione" e come esempio di impegno civile e solidale. Viterbo: Ugl Polizia Penitenziaria; una nuova tappa tour per dare voce agli "eroi silenziosi" www.newtuscia.it, 19 marzo 2014 "Oggi il tour della Ugl Polizia Penitenziaria è approdato al carcere Mammagialla di Viterbo con l’obiettivo ancora una volta e con sempre maggiore convinzione di dare voce ai nostri eroi silenziosi". Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, oggi presente al Mammagialla di Viterbo, terza tappa, dopo quelle di Torino e Milano, dell’iniziativa "L’Ugl dà voce agli eroi silenziosi. Effetti dello stress da lavoro correlato sul servizio della Polizia Penitenziaria". Per il sindacalista "quello dello stress da lavoro è un problema che non va dimenticato e che anzi deve richiamare l’attenzione non solo dell’opinione pubblica ma anche delle istituzioni su un problema annoso che incide ineludibilmente sulla realizzazione del mandato istituzionale affidato agli operatori penitenziari". "È importante - continua - mantenere alto l’interesse su una questione di cogente attualità che, pena l’implosione di un sistema ormai divenuto troppo fragile, necessita di risposte chiare ed iniziative concrete da parte dell’amministrazione". "Un primo risultato - conclude il sindacalista, frutto della nostra tenacia e del nostro impegno è stato raggiunto, atteso che il Dipartimento si è visto costretto ad avviare una campagna di monitoraggio sullo stato del benessere del personale di Polizia Penitenziaria. Questo rappresenta un parziale successo ma non è la vittoria definitiva che, con tenacia, continueremo a perseguire nel segno di quel cambiamento possibile che non può e non deve più aspettare". Piacenza: bande rivali si affrontano in carcere, polizia in antisommossa riporta l’ordine Il Piacenza, 19 marzo 2014 Una decina di detenuti stranieri appartenenti a bande rivali si sono affrontati e per fermarli la polizia penitenziaria ha dovuto ricorrere ai manganelli e agli scudi. "È stato difficile riportare l’ordine, a causa delle celle aperte che consentono a tutti i detenuti di essere liberi durante il giorno". Lo affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale nel commentare la maxi rissa scoppiata alle Novate: una decina di detenuti stranieri appartenenti a bande rivali si sono affrontati e per fermarli la polizia penitenziaria ha dovuto ricorrere ai mezzi anti sommossa: manganelli e scudi. "Molti sono rimasti feriti, tanto sangue per terra e le celle del reparto isolamento occupate per isolare i detenuti violenti" affermano i rappresentanti della Penitenziaria. "Appena una settimana fa - spiegano Durante e Campobasso - avevamo denunciato che il carcere di Piacenza è quello in regione dove ci sono più eventi critici e dove le cose funzionano peggio che in altre strutture. Anche tra gli agenti di polizia penitenziaria c’è stato qualche ferito, per fortuna in maniera non grave. Così non è più possibile andare avanti, il personale di polizia penitenziaria è ormai allo stremo". "È opportuno - sottolinea il Sappe - che a Piacenza intervengano i vertici dell’amministrazione per trovare una soluzione ai tanti problemi". Chieti: il carcere dal volto umano, con giardini e parco giochi di Yvonne Frisaldi Il Centro, 19 marzo 2014 Un carcere dal volto più umano che punisce i detenuti per i reati commessi, ma che non infierisce su chi ha il diritto di riabilitarsi e, una volta uscito di cella, di cambiare vita. La casa circondariale di Madonna del Freddo rappresenta un caso unico nella storia dei penitenziari italiani: niente sovraffollamento, ambienti accoglienti e una grande propensione a tenere impegnati i detenuti nelle attività più disparate. Teatro, concerti, educazione fisica, tanti laboratori per imparare un mestiere e la possibilità di studiare per prendere un diploma o una laurea. Un carcere aperto alle innovazioni dove il rispetto per il detenuto è pari a quello offerto ai suoi familiari. Soprattutto quando si tratta di bambini. Una volta varcato il cancello blindato ciò che si offre allo sguardo ha il sapore di un cortile familiare: due piccoli giardini ben curati, una torre Eiffel in miniatura e, nel braccio riservato alle 25 donne detenute (la popolazione complessiva è di 105 ospiti) un piccolo parco giochi utilizzato dai visitatori più piccoli. Pulizia e decoro, pareti luminose e agenti di polizia penitenziaria gentili e sorridenti. Un sorriso contagioso che di tanto in tanto si stampa sul volto di Giuseppina Ruggero, direttrice del carcere che accoglie i visitatori con la disponibilità e al tempo stesso fermezza di una padrona di casa. Un luogo aperto alla città, alle scuole, a chi ha delle buone idee o progetti per rendere il "soggiorno in carcere" un’ occasione di riflessione e cambiamento. Una opportunità per rompere gli schemi del passato. "In questo carcere sono rarissimi i casi di autolesionismo" sostiene il commissario capo della polizia penitenziaria Valentino Di Bartolomeo "quello che cerchiamo di realizzare è un ambiente, per quanto possibile, sereno. Dire sempre e solo no ai detenuti è un modo per avvelenare la fitta rete di rapporti interpesonali che si creano all’interno del carcere". Rispetto reciproco, dunque. Un principio condiviso anche dai componenti della Camera penale del tribunale di Chieti che proprio in nome del diritto alla privacy hanno donato gli arredi per la realizzazione di due nuovi ambienti: un parlatorio riservato a detenuto e difensore e l’altro tra carcerato e magistrato. Ieri l’inaugurazione simbolica di un obiettivo importante raggiunto. "Qui i detenuti incontrano gli avvocati in assoluta tranquillità per decidere la linea difensiva" racconta con un velo di orgoglio la direttrice. La stessa soddisfazione che si legge sui volti del presidente della Camera penale Goffredo Tatozzi, il vice Italo Colaneri e delle avvocatesse Emanuela De Amicis e Federica Mancini. Donati al carcere anche due quadri dipinti da Tamerlano D’Amico. E per abbreviare i tempi di attesa per le visite è in via di costruzione una casetta annessa al cortile più esterno del carcere, dove potranno essere ricevute almeno due famiglie alla volta. "Non abbiamo grandi possibilità economiche" precisa Di Bartolomeo "ma questa piccola struttura accorcerà le attese e renderà l’ambiente più familiare. In tanti arrivano da fuori regione e non è umano farli attendere per ore prima dei colloqui. Soprattutto quando a varcare la soglia del carcere sono anche i bambini". Avellino: al carcere di Sant’Angelo dibattito su legalità, devianza e tutela dei diritti umani Corriere dell’Irpinia, 19 marzo 2014 Nasce dalla consapevolezza della centralità del ruolo delle agenzie educative nella promozione di uno stile di vita sano e al tempo stesso nell’educazione alla sicurezza e vivibilità della città il convegno in programma questa mattina, alle 9, presso l’aula magna della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Intervengono sul tema "Legalità, devianza, tutele dei diritti umani. La partecipazione dei giovani alla vita pubblica e sociale" Massimiliano Forgione, direttore casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Pietro Petrosino, dirigente Vanvitelli di Lioni, il giornalista Gianni Festa, fondatore del Corriere dell’Irpinia, Paolo Foti, sindaco di Avellino, il vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi Pasquale Cascio. Modera il dibattito Michele Vespasiano. A portare le proprie testimonianze saranno alunni del Vanvitelli e detenuti della casa di reclusione. Un convegno, promosso dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - direzione casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi - che diventa anche l’occasione per interrogarsi su aggregazione giovanile e corrette modalità di approccio all’informazione e all’orientamento sulle opportunità formative, lavorative e di cittadinanza, sull’importanza di costruire reti istituzionali e progetti e servizi rivolti principalmente ai giovani per promuovere politiche di prevenzione e contrasto alla violenza di genere. La scuola rappresenta, infatti, insieme alla famiglia il primo baluardo di legalità, luogo in cui per la prima volta ci si confronta con gli altri e si impara a rispettare norme e regole, necessarie per garantire una pacifica convivenza. Di qui il ruolo fondamentale della scuola nel promuovere la cultura della legalità. Milano: a "Buccinasco contro le mafie" storie dal carcere, sulle note di De Andrè Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2014 Venerdì 21 marzo il terzo appuntamento con la rassegna culturale "Buccinasco contro le mafie" con il concerto del Gruppo della Trasgressione e i detenuti delle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. Le canzoni di Fabrizio De Andrè, accostate a brevi riflessioni prodotte dai giovani detenuti delle carceri milanesi: dopo il ricordo di Rita Atria e le vittime di tutte le mafie, venerdì 21 marzo alle ore 21 torna l’appuntamento con la rassegna culturale "Buccinasco contro le mafie" con "La fecondità dell’imperfezione", concerto gratuito all’Auditorium Fagnana, frutto di un lavoro di educazione alla legalità del Gruppo della Trasgressione, nato dalla decennale esperienza del laboratorio coordinato dallo psicoterapeuta Juri Aparo a San Vittore, Opera e Bollate. "In un percorso dedicato al valore della legalità - spiega David Arboit, consigliere comunale con delega alla Cultura - abbiamo voluto porre una riflessione sulla possibilità di ricostruire, rigenerare la propria umanità, facendo fino in fondo i conti con se stessi, prendendo nuova forza dalla fragilità, dalla debolezza, dalla costitutiva imperfezione della persona". "L’obbedienza alla legge e il rispetto delle regole - continua Arboit - sono abitudini quotidiane sacrosante, da custodire, ma non bastano. La questione cruciale è la dignità delle persone. Ed è questa esperienza che abbiamo chiesto di comunicare al Gruppo della Trasgressione di Juri Aparo: lo strumento è la penetrante bellezza dell’arte di Fabrizio De Andrè, la via è una comunità capace di accogliere l’umanità con la sua imperfezione". Scrive Aparo in un’intervista a "Ristretti Orizzonti", periodico di informazione e cultura del carcere Due Palazzi di Padova: "Gruppo della trasgressione semplicemente perché nasce dai trasgressori, dall’esperienza della trasgressione, riflette della trasgressione e poi… si dice anche che chi fa parte del Gruppo della Trasgressione trasgredisce rispetto al suo passato e ai vincoli della condotta delinquenziale, ad esempio lavora e costruisce con una persona che rappresenta l’istituzione". La filosofia del Gruppo s’incentra su tre linee guida: progettare e lavorare con chi ha commesso reati giova all’equilibrio sociale e protegge la salute e il bene pubblico più della separazione garantita dalle mura del carcere; è fondamentale che i cittadini partecipino, insieme alle istituzioni, al recupero e alla valorizzazione di funzioni e ruoli sociali utili per chi ha perso le tracce delle responsabilità del cittadino; un effettivo superamento della sensazione di marginalità e di estraneità alle regole possono aver luogo solo se ci si sente coprotagonisti di esperienze concrete. Padova: il Centro Congressi "Papa Luciani" premiato per il progetto carcere www.eventreport.it, 19 marzo 2014 La reinclusione sociale di detenuti di massima sicurezza tramite l’inserimento lavorativo nella filiera congressuale: è questa l’attività che è valsa al Centro Congressi di Padova A. Luciani il premio di Federcongressi & Eventi per l’innovazione e la creatività nella meeting industry, assegnato durante la convention dell’associazione a Venezia. E in effetti il progetto, presentato da Enrico Belli, responsabile commerciale e marketing delle struttura, è inedito sulla scena congressuale italiana. Il centro congressi di Padova, che ospita circa 200 eventi l’anno per 70mila giornate di presenza, è un ramo d’azienda di Work Crossing, cooperativa sociale che opera nei settori della ristorazione, del congressuale e dei servizi impiegando in larga parte persone con disagio psico-fisico e detenuti del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova, ed è parte del network Officina Giotto, che riunisce 3 cooperative sociali con la mission della reinclusione lavorativa di persone svantaggiate. Work Crossing, che gestisce le cucine del carcere, vi ha "delocalizzato" il proprio laboratorio di pasticceria artigianale, la cui produzione è veicolata con il brand commerciale Pasticceria Giotto: chef professionisti affiancano i detenuti nell’apprendimento dell’arte della pasticceria, offrendo loro la possibilità di un lavoro spendibile anche una volta terminata la pena. La produzione pasticcera effettuata in carcere, così come altre attività gestite da Officina Giotto che danno lavoro a detenuti con permessi di uscita diurna e fasce deboli in generale (catering, banqueting, manutenzione del verde) è in parte assorbita dal centro congressi, che include nella propria filiera servizi e prodotti dei network. "Chi fruisce dei servizi del nostro centro congressi" spiega il direttore Riccardo Ruggiero "ottiene a parità di costo un secondo vantaggio: il sostegno a un’attività di inclusione sociale altamente significativa per la persona e con forti vantaggi per l’intera collettività". Le statistiche presentate da Erico Belli parlano chiaro: la percentuale media nazionale di recidiva dei detenuti, una volta usciti dal carcere, è del 70-90%; i detenuti impiegati da Officina Giotto, che grazie al mestiere appreso in carcere hanno maggiore facilità di reinserimento sociale dopo avere scontato la pena, hanno invece una percentuale di recidiva del 2%, a tutto vantaggio della collettività in termini di sicurezza e costi sociali. Il premio Innovazione e creatività nella meeting industry, che Federcongressi&eventi ha introdotto per la prima volta quest’anno con l’obiettivo di dare spazio e visibilità ai progetti di eccellenza dei soci, ha visto 6 finalisti: oltre al centro congressi di Padova anche Enic, l’agenzia di eventi di Firenze che ha presentato uno spettacolare evento per il lancio di un prodotto Ferragamo, il Palacongressi di Rimini con un progetto legato al benessere, Dynamo Camp, location non profit che consente a bambini malati e disabili di fare vacanze e attività all’aria aperta, Salerno Incontra, ente speciale della Camera di Commercio che ha presentato il progetto di trasformazione della sede della Camera di Commercio in centro congressi tecnologico, e l’agenzia Meeting Planner di Bari con il progetto del sito web Apulia2Meet. Il premio è stato conferito, ex aequo, al centro congressi di Padova, al Palacongressi di Rimini e a Enic. Milano: all’Istituto penale per minori "Cesare Beccaria proiezione del film Young Europe Adnkronos, 19 marzo 2014 Si è tenuta ieri, all’istituto penale per minori "Cesare Beccaria" di Milano, una delle sette proiezioni del film Young Europe. Il film, diretto da Matteo Vicino e cofinanziato dalla Commissione europea, è rivolto ai giovani detenuti degli istituti per minorenni, nell’ambito di un programma di educazione stradale avviato dal Dipartimento della pubblica sicurezza in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile. L’iniziativa è promossa dalla polizia stradale "per facilitare il percorso di integrazione sociale dei giovani detenuti in vista della loro rimessa in libertà attraverso un percorso educativo sui temi della sicurezza e della legalità e tramite una comunicazione diretta con il mondo dei ragazzi". Le proiezioni hanno già riguardato gli istituti di Roma, Napoli e Catanzaro. Dopo Milano, nei prossimi giorni, il film arriverà negli istituti di Torino, Pontremoli e Palermo. Ogni proiezione sarà seguita da un dibattito moderato dagli operatori della polizia stradale. Il film nasce nell’ambito del progetto europeo sulla sicurezza stradale denominato "Icarus". Droghe: dopo sentenza Consulta sulla Fini-Giovanardi il Dap avvia monitoraggio detenuti Adnkronos, 19 marzo 2014 "Per effetto della sentenza n. 23/2014 della Corte Costituzionale, sono state rimosse le modifiche introdotte all’art. 73 Dpr 309/90 dalla legge cosiddetta Fini-Giovanardi e, dal punto di vista sanzionatorio, ha ripreso vigore la distinzione tra le cosiddetta droghe pesanti e le droghe leggere. La modifica troverà immediata applicazione nei procedimenti pendenti e, secondo autorevole giurisprudenza, imporrà di rimodulare la pena anche nei procedimenti già giudicati in via definitiva". È quanto afferma, in una nota, il capo del Dap, Giovanni Tamburino. "Questo - rimarca il capo dell’Amministrazione penitenziaria- determinerà ripercussioni sul numero delle presenze in carcere, tenuto conto del numero di detenuti ristretti per il solo art. 73 dpr 309/90 (8.589 definitivi e 4.345 non definitivi alla data di ieri), una considerevole parte del quale è rappresentato da detenuti che scontano la pena per aver ceduto quantitativi di hashish e marijuana". "Ho ritenuto quindi di monitorare attentamente presso i singoli istituti - conclude Tamburino - i casi in cui la rideterminazione della pena inflitta ha comportato la scarcerazione". India: ministra Esteri Mogherini sul caso marò; prossimo passaggio è arbitrato internazionale Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2014 L’Italia punta sull’arbitrato internazionale per risolvere il caso marò. Sulla vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, "abbiamo mandato" a Nuova Delhi "l’ultima delle note verbali la settimana scorsa", ha spiegato il ministro degli Esteri Federica Mogherini, illustrando le linee programmatiche del suo dicastero alle Commissioni Estere riunite di Camera e Senato. "Il prossimo passaggio può essere l’avvio di un arbitrato internazionale, ne discuteremo con loro e con i loro avvocati. Oggi Staffan de Mistura è tornato a Delhi per seguire gli sviluppi di questi giorni, precedenti alla prossima udienza prevista la prossima settimana". Ministra Difesa Pinotti: su crisi marò scelta internazionalizzazione Per risolvere la crisi dei fucilieri di Marina detenuti in India "la scelta fatta, condivisa dal Parlamento, è quella dell’internazionalizzazione, l’arbitrato internazionale: non devono essere giudicati in India": lo ha dichiarato il ministro della Difesa Roberta Pinotti, nel corso dell’audizione di fronte alle commissioni riunite di Camera e Senato. "Stiamo seguendo tutta la situazione quotidianamente, ma sapete che la situazione è complicata", ha commentato il Ministro sottolineando come occorra "parlare con una voce sola": "L’india deve sentire che il Paese è unito" nel chiedere il ritorno di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Di Maggio (Pi) richiede inchiesta e denuncia ritardi Chi ha dato il comando affinché la nave con a bordo i due marò italiani entrasse in porto mentre si trovava in quelle internazionali? Come mai? Sono, di fatto, due delle domande alla base della richiesta di istituire una commissione parlamentare monocamerale d’inchiesta sulla vicenda dei due fucilieri di marina detenuti in India. La proposta è contenuta in un disegno di legge del senatore Tito Di Maggio (PI), che spiega il merito, ma denuncia anche ritardi nelle procedure che gli consentono di depositare in via definitiva il testo perché venga poi calendarizzato. Obiettivo della commissione: appurare quanto è accaduto e lavorare anche a futura memoria perché si comprenda il sistema attraverso cui tutelare le merci italiane nel mondo, ma con norme che non destino dubbi, affinché la situazione dei due marò italiani non s’abbia a ripetere, spiega il senatore Di Maggio. "I termini della missione - scrive nella relazione di accompagno al ddl - sono atipici e frutto di politiche di contrasto alla pirateria". Non ci sono "militari a bordo di una nave militare riconoscibile come tale - aggiunge - e subordinati ad una precisa gerarchia di comando a bordo, ma militari in servizio di scorta e protezione di una nave mercantile, battente bandiera italiana, con una linea di comando civile, che risponde all’armatore della nave". Poi Di Maggio non manca di sottolineare: "ho presentato un ddl per l’istituzione di questa commissione e mentre tutto funziona regolarmente, ci sono voluti invece 45 giorni per riavere le bozze, dopo mia sollecitazione. All’ennesima mia pressione ho riavuto il testo ma con una pagina mancante". Stati Uniti: nuovo responsabile carceri Colorado sperimenta regime isolamento www.ilpost.it, 19 marzo 2014 Il nuovo responsabile delle carceri del Colorado che si è sottoposto volontariamente al regime di isolamento, dopo che il suo predecessore era stato ucciso da un ex detenuto. Lo scorso 23 gennaio Rick Raemisch, nuovo responsabile del sistema carcerario del Colorado che gestisce 20 carceri e un totale di circa 20 mila detenuti, ha trascorso 20 ore nella cella di isolamento di una prigione di Cañon City, capoluogo della Contea di Fremont, per provare in prima persona l’esperienza di un carcerato in isolamento. Da quel giorno la storia di Raemisch, quella (tragica) del suo predecessore Tom Clements e gli obiettivi che entrambi hanno cercato di raggiungere hanno fatto tornare di attualità il dibattito sull’isolamento nelle carceri degli Stati Uniti. Rick Reamisch ha raccontato il suo esperimento in un articolo del New York Times intitolato "Una notte in isolamento", concludendo che l’isolamento è una pratica "controproducente e disumana". Reamisch ha spiegato di essere stato nominato responsabile del sistema carcerario in Colorado con tre obiettivi principali: limitare o eliminare l’uso dell’isolamento per i detenuti malati di mente; rispondere alle esigenze di coloro che sono stati in isolamento per lunghi periodi; ridurre il numero di coloro che vengono rilasciati passando direttamente e senza transizione da una condizione di isolamento alla libertà. "Se dovevo realizzare questi obiettivi avevo bisogno di capire meglio che cosa si prova in isolamento e che cosa vivono i prigionieri che sono ospitati in quelle celle, a volte per anni". Alle 18.45 del 23 gennaio Reamisch si è volontariamente sottoposto a un regime di isolamento, suscitando le reazioni più diverse: c’è chi ha parlato di una "bravata politicamente motivata", chi di "sfida positiva per gli amministratori carcerari di altri stati" e chi - come il guardiano Travis Trani, che ha accolto Reamisch nel penitenziario - ha pensato semplicemente che "fosse un pazzo" ma che andasse "ammirato per voler fare quell’esperienza". Dice Reamisch: "Sono stato consegnato a un penitenziario statale del Colorado, dove mi è stata rilasciata un’uniforme da detenuto e un sacchetto a rete con i miei articoli per il bagno e la biancheria per il letto. Le mie braccia sono state ammanettate dietro la schiena, le mie caviglie chiuse con delle catene e sono stato posto in isolamento. La mia cella, la numero 22, era al secondo piano, alla fine di quella che sembrava essere una camminata molto lunga. Nella cella gli agenti mi hanno rimosso le catene alle caviglie, hanno chiuso la porta alle mie spalle lasciando l’apertura sulla porta aperta. Mi è stato detto di farci passare dentro le mani in modo che le manette potessero essere rimosse. E poi sono rimasto solo". Ai detenuti condannati al regime di isolamento cui si è sottoposto Reamisch non è permesso tenere con sé nulla. La stanza è grande circa 4 metri per 2 e quel poco che c’è dentro (il letto, il wc, il lavandino) sono in acciaio e avvitati al suolo: "La prima cosa che si nota è che la situazione è tutt’altro che tranquilla: si tratta di un ambiente in cui si percepiscono rumori confusi, televisori a tutto volume di altri reclusi, conversazioni lontane, grida. Non riuscivo a dare un senso a niente di tutto ciò e mi è venuta una sensazione di nervosismo e paranoia. Mi aspettavo che le luci si spegnessero, per segnalare la fine della giornata. Ma le luci non si spengono. Ho cominciato a contare i piccoli fori scavati nelle pareti. Solchi molto piccoli realizzati dai detenuti". Reamisch cita lo psichiatra Terry Küpers, che in un articolo del 2013 ha descritto i numerosi effetti psicologici della detenzione solitaria, precisando che i prigionieri hanno raccontato di avere incubi, palpitazioni, paura di imminenti esaurimenti nervosi, fantasie aggressive, problemi di controllo degli impulsi, sintomi psichiatrici che in quasi tutti i casi analizzati nessuno aveva precedentemente manifestato. Reamisch dice che già per una mente sana tutte queste circostanze "sono scoraggianti" e che chiaramente l’isolamento non risolve un problema, piuttosto lo ritarda o, più probabilmente ancora, lo aggrava. E "non solo all’interno della prigione, ma in ultima analisi, nella comunità. Il nostro lavoro di correzione è proteggere la comunità, non liberare persone che sono peggiori di quanto fossero prima di essere imprigionate". Reamisch prosegue poi nel racconto della sua giornata. Alle 6.15 gli è stata portata la colazione: "Mi sono lavato i denti, la faccia, ho fatto due serie di flessioni e mi sono rifatto il letto. Ho guardato la piccola finestra della cella, ho visto che era ancora buio e ho pensato: e adesso? Avrei dovuto passare un totale di 20 ore in quella cella. Che, rispetto al soggiorno medio, è praticamente un battito di ciglia. I detenuti che vengono inviati in isolamento in Colorado vi trascorrono di media 23 mesi. Alcuni ci passano anche 20 anni. Alla fine, ho rotto una promessa che mi ero fatto e ho chiesto a un agente che ora fosse. Le 11.10: mi sentivo come se fossi rimasto lì per giorni. Mi sono seduto a pensare. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che l’isolamento venisse eliminato completamente?". Ed è a questo punto del racconto che Reamisch spiega la storia del suo predecessore: Tom Clements, un "riformatore coraggioso". Clements aveva già fatto molto per ridurre l’uso eccessivo dell’isolamento nelle prigioni del Colorado (che ha i tassi più alti di tutti gli Stati Uniti): in poco più di due anni lui e il suo staff l’avevano tagliato di oltre la metà passando da 1.505 detenuti a 726. Ma Clements aveva appena cominciato il suo lavoro quando è stato assassinato. Nel marzo del 2013, "in una tragica ironia", Clements è infatti stato ucciso da Evan S. Ebel, membro di una banda criminale, che era stato rilasciato poco prima direttamente dal regime di isolamento. Questo ex detenuto ha prima ucciso un uomo addetto alle consegne della pizza per indossare la sua uniforme e spingere Clements ad aprire la porta di casa. Pochi giorni dopo quello stesso uomo è stato ucciso in una sparatoria con la polizia: "Qualunque cosa sia stata fatta durante l’isolamento di quell’ex detenuto e assassino, non è stata fatta per il suo miglioramento". L’obiettivo di Clements era aiutare i detenuti, "e il fatto che fosse stato ucciso da un detenuto era per me un insulto". In Colorado, nel 2012, 140 persone sono state rilasciate direttamente da una condizione di isolamento, l’anno scorso 70 e nel 2014, al momento in cui Reamisch scriveva per il New York Times, due. Il suo programma per i prossimi mesi è molto ambizioso: non solo ridurre l’isolamento in generale, ma farvi ricorso per un periodo di tempo determinato e non indefinito ("i detenuti dovrebbero sapere quando ne usciranno", ha detto). Infine, offrire ai detenuti un periodo di preparazione prima del rilascio e modificare il modo in cui gli agenti interagiscono con loro. Stati Uniti: rapporto top-secret Senato, la Cia ha usato tecniche di tortura non autorizzate Tm News, 19 marzo 2014 La Cia avrebbe usato tecniche di tortura non autorizzate dagli Stati Uniti. La rivelazione emerge dalle dichiarazioni di due funzionari americani informati sul rapporto svolto dalla commissione Intelligence del Senato. Come riporta al Jazeera America, le due fonti hanno parlato in condizioni di anonimato, visto che il documento continua a essere segreto. Almeno uno dei detenuti di primo piano sospettati di essere terroristi sarebbe stato sottoposto a tecniche vietate dal dipartimento di Stato durante la presidenza di George Bush. Sempre secondo le fonti di al Jazeera, la Cia avrebbe torturato Abu Zubaydah - il terrorista arrestato in Pakistan nel 2002 e detenuto in una prigione thailandese, oggi a Guantánamo - molto prima che l’amministrazione Bush desse il via libera alla loro pratica. Israele: incerta ultima fase rilascio detenuti palestinesi, ci sarà solo dopo un "accordo quadro" Aki, 19 marzo 2014 Il ministro israeliano dell’Economia, Naftali Bennett, ha definito "incerta" la quarta e ultima fase del rilascio di prigionieri palestinesi come gesto di buona volontà nel quadro dei negoziati di pace. In un’intervista alla radio israeliana, Bennett ha affermato che il rilascio previsto per fine marzo potrebbe saltare a causa della discontinuità dei negoziati e della mancata accettazione di alcune condizioni da parte del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Il capo dell’Anp, secondo il ministro, ha finora agito solo in base agli interessi palestinesi, respingendo richieste come quella di riconoscere Israele come stato ebraico. "Chiunque si rifiuti di riconoscere Israele come stato nazione del popolo ebraico non è un partner di dialogo", ha concluso Bennett. Negoziatrice Tzipi Livni: detenuti palestinesi liberi se c’è accordo Israele libererà alla fine di marzo il quarto ed ultimo scaglione di detenuti palestinesi solo se nel frattempo il presidente palestinese Abu Mazen darà il proprio assenso ad un "accordo quadro" in fase avanzata di elaborazione da parte del segretario di Stato Usa John Kerry. "Le chiavi delle celle sono nelle mani di Abu Mazen" ha affermato la negoziatrice Tzipi Livni, secondo Haaretz. Finora la notizia non ha altra conferma Nel frattempo la agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa pubblica oggi una lista di 30 palestinesi, detenuti in Israele da prima degli accordi di Oslo (1993), che dovrebbero riottenere la libertà entro il 29 marzo. Si tratta del quarto scaglione di oltre 100 detenuti palestinesi concordato otto mesi fa con Israele e con gli Stati Uniti per dare respiro alle trattative di pace. Nella lista che la Wafa ha ottenuto dal ministero palestinese per i prigionieri figurano tuttavia 14 arabi cittadini di Israele, condannati a lunghe pene detentive per gravi episodi di violenza. Ma in ripetute occasioni in passato diversi ministri del governo di Benyamin Netanyahu hanno escluso la liberazione di alcun cittadino di Israele nel contesto di trattative con l’Anp. La lista in questione - pubblicata dopo che già ieri Israele ha respinto la richiesta di liberazione per due dirigenti politici palestinesi, Marwan Barghuti e Ahmed Saadat - rischia dunque di provocare nuove frizioni fra le due parti. Turchia: Corte europea diritti umani condanna permanenza in carcere di leader curdo Ocalan Nova, 19 marzo 2014 La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la permanenza in carcere del leader curdo Abdullah Ocalan, in Turchia, è una violazione della Convenzione europea sui diritti umani. In una sentenza emessa oggi, la Corte afferma che le condizioni di detenzione di Ocalan nella prigione sull’isola di Imrali, dove il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sta scontando l’ergastolo, sono "inaccettabili". Nel verdetto i giudici citano un famoso verso della Divina Commedia di Dante Alighieri "lasciate ogni speranza o voi ch’entrate", in riferimento alla condizione di isolamento in cui è tenuto Ocalan nella prigione di Imrali, avvertendo Ankara che "le carceri non dovrebbero essere trasformate in un inferno". Viene definita "contraria alla Convenzione europea dei diritti umani" anche la condanna all’ergastolo senza condizionale inflitta ad Ocalan nel 1999. Lo stesso Ocalan si era rivolto alla Corte europea per lamentare le condizioni di detenzione nel carcere di Imrali. Inoltre i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la detenzione in stato di isolamento e la detenzione sull’isola, fino al 2009, costituiscono un maltrattamento. "Una serie di elementi, quali l’assenza di mezzi di comunicazione che avrebbero permesso di evitare l’isolamento sociale di Ocalan, oltre alla persistenza di gravi difficoltà di accesso alla struttura penitenziaria fino al 17 novembre 2009, hanno costituito un trattamento disumano" si legge in un comunicato della corte. Dopo quella data Ocalan è stato raggiunto sull’isola da altri detenuti e la frequenza delle visite è aumentata, rileva la Corte. Tuttavia, l’assenza di un meccanismo di riesame della condanna, l’ergastolo inflitto ad Ocalan rappresenta una pena irriducibile, che costituisce un "trattamento disumano". Secondo i giudici di Strasburgo "una pena di reclusione a vita deve essere riducibile, offrendo sia la possibilità sia di un alleviamento sia di un riesame". Dal suo arresto nel 1999 al 2009, Ocalan, oggi 64enne, è stato l’unico detenuto sull’isola di Imrali, al largo di Istanbul. Dal 2009 sono arrivati altri cinque detenuti. Egitto: 10 anni di carcere a poliziotto responsabile per morte di 37 manifestanti pro-Morsi Aki, 19 marzo 2014 Il vice comandante della stazione di polizia di Heliopolis, sobborgo a nord est del Cairo, è stato condannato a dieci anni di carcere con l’accusa di omicidio colposo in relazione alla morte di 37 manifestanti islamici detenuti in un furgone della polizia lo scorso agosto. Lo riferisce il sito di al-Ahram online spiegando che altri tre poliziotti sono stati condannati a un anno di carcere con la condizionale in merito alla stessa vicenda. I fatti risalgono al 18 agosto, quando 37 persone, identificate dal ministero degli Interni come sostenitori del deposto presidente Mohammed Morsi, sono state arrestate durante le proteste e sono morte per asfissia dopo aver respirato gas lacrimogeni ed essere stati tenuti in un furgone che li avrebbe dovuti trasportare nel carcere di Abu Zabaal al Cairo. L’indagine, condotta ascoltando le testimonianze di sette sopravvissuti e di 40 persone tra medici, poliziotti e membri del ministero della Giustizia, ha scoperto che il furgone aveva la capacità di trasportare almeno 24 persone. Al momento dell’incidente erano 45 i detenuti nel veicolo. Le forze di sicurezza hanno dichiarato che i manifestanti sono morti durante il trasferimento, mentre il procuratore ha contestato ai poliziotti di aver agito con negligenza e imprudenza nei riguardi dei detenuti, venendo meno ai loro doveri di rispetto per la sicurezza dei cittadini, indipendentemente che siano sospettati di aver commesso reati. Egitto: reporter al-Jazeera in carcere, Mansour promette rapida soluzione caso Adnkronos, 19 marzo 2014 Il presidente egiziano ad interim, Adli Mansour, ha assicurato una "rapida soluzione" del caso del giornalista australiano di al-Jazeera, Peter Greste, da oltre 80 giorni rinchiuso in carcere in Egitto. "A prescindere dall’indipendenza delle autorità giudiziarie e di tutti i diritti garantiti dalla legge, vorrei assicuravi che, in qualità di presidente dell’Egitto, non risparmierò gli sforzi per una rapida soluzione del caso, nel rispetto della legge", ha affermato il presidente in una lettera indirizzata ai genitori di Greste. Nella lettera Mansour si è firmato come "presidente" e "capo della giustizia", indicando la sua posizione di capo della Suprema Corte Costituzionale dell’Egitto. "Un segnale incoraggiante", è stato il commento di al-Jazeera alla lettera. Un portavoce della tv del Qatar ha sottolineato che l’iniziativa presa da Mansour "riconosce quello che abbiamo sempre sostenuto, ovvero che i nostri giornalisti stavano solo facendo il loro lavoro". "Ora - si legge sul sito della tv - speriamo che le autorità attuino la promessa fatta dal presidente alla famiglia di Greste e rilascino subito il nostro giornalista". Greste e altri due membri dello staff di al-Jazeera English, Mohamed Fadel Fahmy e Baher Mohamed, sono stati arrestati al Cairo il 29 dicembre. Sono accusati di aver diffuso notizie false e di sostegno ai Fratelli Musulmani, inseriti di recente dal governo egiziano nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Per al-Jazeera le accuse contro i suoi giornalisti sono "assurde e prive di fondamento". La tv satellitare è da tempo nel mirino delle autorità egiziane che la accusano di faziosità a favore dei Fratelli Musulmani, movimento sostenuto da Doha.