Edlira, quella madre disperata che ha ammazzato le sue tre figlie Il Mattino di Padova, 17 marzo 2014 Messaggio postato su Facebook da un senatore Pd: "Una mamma e il suo figlioletto di tre anni massacrati perché lei ha detto no alle avance di un uomo malato. Mi dispiace, ma io per gente così vorrei la pena di morte". Dichiarazione del ministro Alfano dopo l’uccisione delle tre bambine a Lecco: "Noi non daremo scampo a chi ha compiuto questo gesto efferato, inseguiremo l’assassino fino a quando non l’avremo preso e lo faremo stare in carcere fino alla fine dei suoi giorni". E poi che succede? Succede che la vita è sempre più complicata delle semplificazioni di certa politica e certa informazione, succede che a far male a dei bambini è stata una madre, succede che se la legge venisse cambiata come la vorrebbero queste dichiarazioni di politici, Edlira, la madre disperata che ha ucciso le tre figlie, dovrebbe essere condannata a morte o lasciata marcire in galera fino all’ultimo giorno di vita. E allora, fermiamoci un attimo a riflettere, lasciando per una volta da parte la nostra voglia di punire i cattivi e la nostra illusione di essere noi quelli "buoni per sempre". Mi sono accorto che dietro a un gesto orrendo non c’era un mostro La cattiva informazione e certe pessime dichiarazione dei politici ci hanno fatto credere che dietro l’orribile tragedia delle tre sorelline di Lecco si nascondesse il mostro, e poi invece ci è capitato di svegliarci una mattina e accorgerci che dietro a questo tremendo gesto (come spesso accade) non c’era un mostro, ma una mamma premurosa che amava i propri figli fino a pochi giorni prima, ma che in preda ad uno stato di disperazione, di solitudine e abbandono, come per altro ha dichiarato anche il prete del paese che la conosceva, ha perso il controllo della propria vita e ha commesso un reato terribile, ma che non ha niente a che fare con una volontà criminale come può esserci dietro altri tipi di omicidi. Molto spesso la paura diventa un affare e un business politico per raccogliere qualche voto in più, e il politico di turno cerca di vendere un antidoto fatto di parole dure che vanno a colpire la pancia dell’opinione pubblica, creando così solo un mercato della paura, ma evitando di fatto di trovare soluzioni efficaci per affrontare questo tipo di problemi alla radice. Mi chiedo: ma veramente si può credere che una mamma che arrivi a togliere la vita ad un figlio, che è il bene più grande che la vita ci possa donare, la si possa fermare dicendole che il nostro ordinamento prevede l’ergastolo per questo tipo di reati? No, non cambierebbe nulla, perché le persone che arrivano ad un gesto cosi estremo in quel momento hanno perso il contatto con la realtà e con la società in cui vivono, e sono certo che anche se un giorno la pena carceraria per loro finisse, il rimorso che si porteranno nella coscienza una volta tornate in società le punirebbe per il resto della loro esistenza. Tuttavia, comprendo il sentimento di rabbia e di indignazione che si forma nell’opinione pubblica dopo aver ascoltato una notizia del genere, perché anch’io, che sono in carcere per aver commesso reati diversi da quelli di cui stiamo discutendo, in passato pensavo che la punizione unica per i reati contro le donne e i bambini fosse la pena di morte o quanto meno il buttare via le chiavi. Ma da anni ormai faccio parte della redazione di "Ristretti Orizzonti" e ho conosciuto persone che hanno commesso reati in famiglia. Ascoltando le loro storie, ho iniziato a mettere in discussione alcune convinzioni che erano radicate fortemente dentro di me, perché mi sono accorto come a volte dietro questo tipo di reato, diversamente da chi come me ha commesso reati per una scelta di vita specifica, ci sono persone che prima di quel gesto estremo erano uomini miti, non violenti e con un gran senso per la famiglia, e che mai avrebbero pensato di varcare la soglia del carcere. Quando ti accorgi di questo inizi a pensare che nessuno può ritenersi immune da tutto ciò, perché potremmo svegliarci un giorno e accorgerci che l’autore di un terribile gesto come quello di cui si è resa responsabile la madre di Lecco è un nostro amico, un parente, o addirittura noi stessi. Spero dunque che noi tutti, compresi i nostri politici, facciamo una riflessione più profonda su questo tema, e smettiamo in nome della sicurezza di pensare che problemi cosi difficili possano essere risolti con l’introduzione della pena di morte o con l’ergastolo, perché è anche nella capacità di essere umane e miti, e non intransigenti, che si misura la civiltà delle istituzioni. Luigi Guida Su Facebook scriveva che le sue figlie erano tutta la sua forza La terribile notizia di una madre che uccide le sue tre figlie per sollevarle da una possibile schiavitù o incertezza futura, ha suscitato una particolare tristezza anche in me. Dire che questa mamma fosse malata o depressa è un po’ poco. Troppo sbrigativo. Le è mancata la forza di affrontare la vita, la maturità nel portare avanti la famiglia in un periodo sempre più difficile, la capacità di cercare soluzioni positive. Su Facebook scriveva che le sue figlie erano tutta la sua forza. Ora, sapendo che il marito era partito per l’Albania per ufficializzare la loro separazione, leggo quel messaggio di Facebook come un segnale della sua profonda solitudine. Le difficoltà economiche poi non l’hanno certo aiutata. Cercando di dare una spiegazione a questa tragedia, mi viene da pensare che la profonda e irreparabile disperazione nella quale era caduta ha cercato di "affrontarla" con la cosa più tremenda e orribile che avrebbe potuto fare: forse si sentiva distrutta e così ha voluto distruggere tutto ciò che più amava e anche se stessa. È un dramma senza fine, perché se questa donna ce la farà a sopravvivere, dovrà fare i conti per tutto il resto della vita con quell’orribile gesto, l’aspetterà una prova durissima, trovare la forza di continuare a vivere e cercare, se sia mai possibile, di dare una spiegazione a quel gesto. I politici e i mass media si preoccupano di quale condanna esemplare attribuire. E per quanto sia giusto che chi sbaglia deve pagare, è ancor più importante, soprattutto in storie come questa, pensare a come si possa aiutare quella donna a trovare la forza di continuare a vivere. Ogni giorno leggiamo sui giornali o sentiamo in televisione una continua "caccia alle streghe", dove sembra che le pene non siano mai sufficienti perché non si punisce mai abbastanza chi sbaglia. Dovremmo fermarci a pensare di più tutti quanti… se per esempio quella mamma non fosse stata strangolata dalle difficoltà economiche e soprattutto avesse vissuto in una comunità più sensibile e vicina… chissà come sarebbero andate le cose. Davor Kovac Dov’è finita la speranza? Sono un ragazzo albanese che si trova in carcere da un pezzo e che nella vita ne ha combinate tante, ma oggi sto facendo un percorso di reinserimento sociale, soprattutto grazie a un progetto che consiste nell’incontrare tanti studenti e raccontare la propria storia e come siamo finiti in carcere, senza cercare alibi ma facendo capire che determinate azioni possono recare danni irreparabili alla società e alla propria vita. Questo progetto ha l’importanza di comunicare emozioni, per certi versi emana speranza e aiuta a porsi seri propositi, che spero mi accompagnino una volta fuori da queste mura. Quello che per noi conta di più è che la gente non giudichi, ma capisca quanto sono complicate le vite delle persone. L’altro giorno ascoltando il telegiornale ho sentito una notizia terribile, quella madre che a Lecco ha ucciso le sue tre bambine e cercato poi di togliersi la vita, sono rimasto turbato e non volevo pensarci su, ma l’istinto certe volte ci avvicina a quei pensieri che meno vorremmo ci assillassero. Sto cercando di capire quale sia la giusta pena per questa donna, se davvero esiste una giusta pena, ma più la cerco e meno la trovo, forse perché non c’è una pena peggiore di quella di non vedere più i propri figli, non c’è pena peggiore di quella di non poter più rimboccargli le coperte né accarezzarli e dargli il bacio della buona notte, ecco tutte queste cose questa donna non le potrà mai più fare. Sia che si trovi in carcere sia che si trovi libera se mai un giorno dovesse uscire dal carcere, questa donna sarà macchiata per sempre e non c’è giudizio altrui che possa far male più della propria coscienza. Ciò che mi ha sconvolto sono state anche le dichiarazioni di un importante politico, che ha annunciato carcere sino alla fine dei propri giorni per quel delinquente che ha ucciso quelle tre bambine, mostrando così i muscoli invece di riflettere sui nuovi "criminali" che stanno apparendo ai giorni nostri, uomini e donne che si tolgono la vita o peggio ancora la tolgono ai propri cari perché non trovano più una soluzione ed hanno smarrito la strada della speranza, gente che presa dal panico della crisi economica e agisce i perdendo il lume della ragione, ecco io a questo politico vorrei chiedere cosa pensa dopo aver saputo che la criminale in questione è una madre disperata di fronte alle avversità della vita. Se per questa donna il carcere sarà il suo destino, cercate almeno di farle capire il gesto che ha commesso, cercate di curarla perché solo così si renderà conto di come è arrivata a un atto così tragico. E cercate per un attimo di pensare che il carcere non è la soluzione a tutti i mali, e inserite nei vostri programmi politici anche pene alternative, riconoscendo che in particolare per chi soffre di un disagio psichico, o chi è tossicodipendente ci deve essere almeno un grande punto interrogativo sulla loro sorte e sul bene che può fargli il carcere. Erion Celaj Giustizia: morire idi carcere… ma non solo i detenuti si tolgono la vita di Jenny Rizzo www.pjmagazine.net, 17 marzo 2014 Morire di carcere non è un argomento tra i più allegri, ma credo sia utile parlarne per avere un quadro più chiaro della situazione delle carceri italiane che da tempo vi esplicito. Negli ultimi tre anni si sono suicidati 188 detenuti. Il dato più inquietante, però, è dato dai 26 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nello stesso periodo. Non sono solo i detenuti a soffrire delle pessime condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari. Ciò lo dimostra il fatto che gli stessi agenti si tolgono la vita, spesso in quello che è il loro luogo di lavoro: il carcere. L’ultimo caso è accaduto a Siena: un agente di polizia penitenziaria si è tolto la vita a soli 47 anni, lasciando moglie e figlia con una lettera. Solo un mese fa una tragedia simile a Novara. Sono questi i primi due casi di suicidio del 2014 tra le divise dei carceri. Nel 2013 sono stati otto i casi di suicidio tra gli agenti. I motivi di questi gesti disperati possono essere molteplici: da ragioni puramente personali a cause più profonde quali un burnout. Questa sindrome colpisce chi esercita una professione di aiuto, quale può essere appunto la professione dell’agente di polizia penitenziaria. La stessa sindrome colpisce altre professionalità all’interno del carcere: dagli educatori ai volontari. Per questo è importante saper gestire le proprie emozioni prima di intraprendere un percorso professionale. Per questo è importante affrontare un cammino di analisi alla ricerca di un equilibrio della propria stabilità emotiva. Se non si è abbastanza forti, il carcere toglie la vita. Che tu sia un detenuto o un operatore giorno dopo giorno il carcere, con il suo grigiore, il suo tempo scandito da orologi che non funzionano, le sue "domandine", le sue celle claustrofobiche, il suo odore pregnante… logora la tua vita sino a farla sua, in un modo o nell’altro. Giustizia: Rai Isoradio si appella a Renzi, per l'introduzione del reato di omicidio stradale Asca, 17 marzo 2014 Rai Isoradio, dopo le parole del Premier nel suo discorso per la fiducia al Senato, invia una lettera aperta a Matteo Renzi e lancia una campagna per accelerare l’iter legislativo e approvare al più presto la legge sul reato di omicidio stradale. Lo rende noto un comunicato che diffonde la lettera firmata dal diretto di Isoradio, Danilo Scarrone. “Al Premier Matteo Renzi - si legge, Rai Isoradio, il canale di pubblica utilità della Rai che fornisce 24 ore su 24 notizie sul traffico e la sicurezza stradale, ha accolto con grande soddisfazione le Sue parole sulla necessità di introdurre il reato di omicidio stradale. Lei si è detto “pronto e disponibile a presentare al più presto una proposta di legge”. Rai Isoradio si impegna perciò a sostenerla con una campagna che coinvolgerà tutti gli ascoltatori del canale, un pubblico sempre più vasto quotidianamente sensibilizzato a rispettare le norme per la sicurezza stradale e consapevole della necessità di intervenire su un fenomeno che ha assunto nel nostro Paese dimensioni inaccettabili. Solo nel 2013 sono morte sulle nostre strade 3.653 persone, mentre i costi sociali degli incidenti stradali nell’anno 2012, in Italia, ammontano a circa 25 miliardi di euro, un terzo dei quali può essere ricondotto all’omicidio stradale. Al momento, la proposta di introduzione del reato di omicidio stradale è arenata in Parlamento. È auspicabile che la nuova legge arrivi al più presto insieme alla riforma del Codice della Strada. Nel ringraziarLa, ricordando che, ad oggi, è stato l’unico Presidente del Consiglio a parlare di sicurezza stradale, riconoscendo l’importanza e la centralità del tema per la collettività, Rai Isoradio ribadisce la disponibilità a supportarla in qualunque azione necessaria a raggiungere l’importante obiettivo”. Giustizia: la tortura non è un delitto proprio di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 17 marzo 2014 Il Senato ha approvato il disegno di legge diretto all’introduzione del crimine di tortura nel codice penale italiano. L’Italia era obbligata a farlo sin dal 1988, anno della ratifica della Convenzione Onu contro la tortura. Adesso spetta alla Camera dover esaminare il testo. Va ricordato che il prossimo autunno il nostro Paese sarà giudicato dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite in occasione della Revisione Periodica Universale e questo sarà certamente un tema che verrà sollevato dagli altri Stati. Il testo approvato a Palazzo Madama non ripropone fedelmente quello presente all’articolo 1 del Trattato Onu. La tortura per il nostro legislatore non è un delitto proprio, ovvero un delitto che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale. Il legislatore lo ha configurato come un delitto generico. L’autore può essere dunque chiunque. Nella discussione è stata data enfasi ad ambiti di applicazione (contesto mafioso o familiare) che non fanno parte del campo giuridico internazionale tipico della tortura. Il delitto viene collocato tra i delitti contro la libertà personale subito dopo lo stalking. "Chiunque con violenza o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fi siche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni". Rispetto alla definizione internazionale di tortura manca inoltre il dolo specifico, ovvero non è previsto che le sofferenze prodotte siano finalizzate a scopi precisi. Va ricordato che la tortura può essere giudiziaria o punitiva. Nel primo caso il fine del torturatore è quello di estorcere confessioni. Nel secondo caso umiliare la persona che subisce le violenze. Il disegno di legge prescinde dalle intenzioni specifiche dell’autore del reato, rendendo probabilmente meno difficili le indagini degli inquirenti e le ricostruzioni dei giudici. È prevista una circostanza aggravante specifica nel caso di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Così nel caso classico di tortura commessa da esponenti delle forze dell’ordine la pena può salire sino ai dodici anni. È punita anche l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere atti di tortura con pena da sei mesi ai tre anni. Inoltre viene esplicitato che le dichiarazioni estorte con tortura non hanno alcun valore processuale. Tortura e verità appartengono infatti a campi semantici ben distinti. Uno sguardo è rivolto alle relazioni internazionali. Ribadendo quanto già previsto nel Trattato di Lisbona della Ue si afferma che non è ammesso espellere o estradare una persona verso Paesi dove rischia di essere sottoposta a tortura. Varie negli ultimi anni sono state le condanne della Corte Europea dei Diritti Umani nei confronti dell’Italia per espulsioni o respingimenti forzati verso Paesi dove la tortura non è episodica ma sistematica. Viene infine negata l’immunità diplomatica ai cittadini stranieri condannati o imputati per tortura da un giudice di un altro paese o da un giudice internazionale, quale ad esempio la Corte Penale Internazionale. Giustizia: innocenti in cella, assolti e archiviati, ecco l’esercito (potenziale) del Cav di Maurizio Gallo Il Tempo, 17 marzo 2014 Se l'annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro dedicato si trasformerà in realtà, potrebbero entrarci in migliaia. C’è chi non ha fatto neanche un giorno di prigione. Ma per anni, prima di essere assolto, ha dovuto lottare, soffrire e pagare per dimostrare la sua innocenza. È accaduto a Raniero Busco, accusato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. C’è chi ha trascorso quasi ventidue anni in una cella e ha rivisto la luce solo grazie a una revisione del processo, come Giuseppe Gullotta. Chi ha ottenuto solo una giustizia postuma, come Giovanni Mandalà, accusato assieme a Gullotta della strage di Alcamo del 1976, condannato all’ergastolo nell’81 e riconosciuto del tutto estraneo ai fatti all’inizio del 2012, quando era già defunto. C’è chi si è visto archiviare ogni accusa senza neanche dover entrare in un tribunale e chi è stato prosciolto prima del dibattimento, ma è stato costretto a spendere soldi e tempo per difendersi, ha trascorso notti in bianco, ha perso il lavoro, è stato lasciato dalla moglie, è finito sul lastrico. Sotto tutte vittime di un sistema giudiziario che non funziona. Sono tante e, se l’annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro "dedicato" si trasformasse in realtà, nella nuova formazione potrebbero entrare a migliaia. A loro si aggiungono i cittadini italiani che devono subire i ritardi di procedimenti civili, pendenze pari a otto processi ogni cento abitanti. In questo caso, per ottenere una sentenza di primo grado ci vogliono 600 giorni e una media di quattro anni per arrivare a un verdetto definitivo. Ma torniamo al penale. A settembre, nell’inchiesta pubblicata da "Il Tempo", abbiamo parlato di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Il dato-base, raccolto dal Censis, è che nella storia della Repubblica circa quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. È una stima, certo. Solo dal 1989, infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, esistono statistiche precise e attendibili. E sono numeri che fanno venire i brividi. In ventitrè anni, fino al 2012, quasi 25 mila italiani e stranieri sono stati incarcerati ingiustamente. Lo Stato ha speso per risarcirli quasi 550 milioni di euro. Se a questi sommiamo altri 30 milioni rimborsati per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni di euro. Ma non basta. Perché ai 25 mila ne dobbiamo aggiungere altrettanti. Secondo Eurispes e Unione delle camere penali, infatti, ogni anno vengono inoltrate 2500 domande di rimborso per ingiusta detenzione, ma solo 800 (meno di un terzo) vengono accolte a causa di alcuni cavilli. Le cifre più recenti (raccolte dal sito specializzato "Errori giudiziari.com") confermano la tendenza: nel 2013 il totale dei casi di ingiusta detenzione è stato di 1368, quello dei casi di errore giudiziario 25; la spesa dei risarcimenti per ingiusta detenzione in un solo anno arriva a 35.853.732,58 euro, quella per i rimborsi per errori giudiziari a 852.922,57 euro. Il distretto di Corte d'appello che ha speso di più per ingiusta detenzione è stato quello di Napoli (251 casi, 8.381.158,49 euro) e quello che ha sborsato più soldi per errori giudiziari, quello di Lecce (2 casi, 325.029,60 euro). Secondo il rapporto annuale del National Registry of Exoneration statunitense (il registro degli errori di giustizia) nel Belpaese si sbaglia dodici volte più che negli Usa. Non solo. Le ingiuste detenzioni in America sono state "appena" 1304 contro le nostre venticinquemila. Mettendocene altrettante che non hanno ottenuto denaro in cambio del tempo trascorso dietro le sbarre, arriviamo a quasi 40 volte il totale degli Stati Uniti. Ma, come dicevamo, anche chi è stato assolto ha dovuto subire il calvario delle accuse, utilizzare i servizi di un legale e sopportare le relative ansie. La direzione generale di statistica del Ministero della Giustizia fa sapere (dati aggiornati al novembre 2011) che nel 2009 nel tribunali tricolori sono state 46.656 le persone assolte durante un giudizio ordinario che ne aveva coinvolte 152.601, quindi parliamo del 30,6%; 5.217 lo sono state dopo un giudizio immediato o in seguito all’opposizione a un decreto penale (su 14.645,); 1.749 dopo un direttissimo; 3.889 dopo un abbreviato in sede di direttissimo e 7.379 dopo un abbreviato in sede di ordinario. Il totale sfiora le 65 mila unità. Nel 2010 la situazione è addirittura peggiorata: siamo a 72.467 assolti, cioè 7.578 in più dei dodici mesi precedenti. Questo senza contare i giudici di pace, che hanno totalizzato 7.657 "assoluzioni" nel 2009 (10,9%) e 8.856 nel 2010 (11%). Poi ci sono gli imputati condannati in primo grado e riconosciuti innocenti in secondo o in terzo. Qualche anno fa il presidente di Corte d’appello di Roma disse che la metà circa delle sentenze del tribunale veniva riformata in seconda istanza. Anche se non esistono informazioni ufficiali, la stima del magistrato dovrebbe bastare a farsi un’idea (e il caso via Poma docet) di quanti vengono considerati colpevoli nel primo processo, magari finiscono in prigione (se vengono riconosciuti i "pericoli" previsti dal codice: reiterazione del reato, fuga e inquinamento delle prove) per essere riconosciuti estranei ai fatti mesi o, più probabilmente, anni dopo. Un esercito che ingrossa le sue file con chi è stato prosciolto senza dover entrare in un’aula di giustizia e con quanti sono stati indagati ed esposti alla gogna mediatica per vedere, più tardi, la propria posizione archiviata su richiesta dello stesso pubblico ministero o in base alla decisione del giudice per l’udienza preliminare. Nella sua recente relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte d’appello romana Catello Pandolfi ha sottolineato come, dal primo luglio 2012 al 30 giugno 2013, nella Capitale ci sono state 19.235 archiviazioni su un totale di 23.002 procedimenti avviati. Capita, infine, che nel corso del procedimento penale intervenga la prescrizione, che non vuol dire incolpevolezza ma soltanto che non si è riusciti a raggiungere una decisione in tempo utile. Anche così, comunque, le vite degli imputati restano "appese" alla loro sorte giudiziaria. E non sono poche, visto che in nove anni, dal 2001 al 2010 sono state la bellezza di un milione e 694.827, per una media annua di quasi 170 mila. Insomma, sono tanti quelli che hanno subito un ingiustizia dalla Giustizia. E alcuni magistrati, da questo punto di vista, rappresentano un record. Sono talmente tanti, ad esempio, i "mostri" sbattuti in prima pagina per le inchieste dell’attuale sindaco di Napoli (poi scarcerati con tanto di scuse e risarcimenti a carico dello Stato) che, alcuni cittadini esasperati hanno fondato "l’associazione vittime di De Magistris", nata nel 2008. Associazione che lega tra loro alcuni degli indagati delle inchieste dell’ex pm di Catanzaro, molte delle quali finite nel nulla. Vite distrutte per errori che rimangono puntualmente impuniti. Lettere: un partito delle vittime della giustizia? stavolta non credo a Silvio di Rita Bernardini (Segretaria Nazionale di Radicali Italiani) Il Tempo, 17 marzo 2014 Caro Direttore, la proposta di Berlusconi di costituire un partito delle vittime della giustizia, mi ha fatto ricordare quando, 14 anni fa, il Presidente di Forza Italia fece fallire i referendum radicali sulla giustizia, invitando gli italiani ad andare al mare (anziché a votare) perché quelle riforme le avrebbe fatte lui una volta vinte le elezioni. Le elezioni le vinse davvero nel 2001, governando per 5 anni, ma di riforme del sistema giudiziario non si vide nemmeno l’ombra. Berlusconi è tornato poi al Governo nel 2008 e la nostra delegazione radicale all’interno del Pd riuscì perfino a far approvare, all’inizio del 2009, una risoluzione che impegnava il Governo a varare una riforma organica e strutturale della Giustizia che comprendeva: responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, revisione totale dell’obbligatorietà dell’azione penale, disciplina dei magistrati fuori ruolo, revisione della composizione e del sistema elettorale del Csm, reintroduzione di severi vagli della professionalità dei magistrati. Quale sorte ebbe quell’impegno? Ancora tante promesse e zero risultati. Quale credibilità può avere oggi l’idea di costituire un Partito delle vittime della Giustizia? Da radicali sentiamo ancora addosso la delusione per la promessa dei 5 milioni di firmatari per i 12 referendum che il leader di Forza Italia fece nell’estate scorsa quando li firmò tutti a Largo Argentina in una conferenza stampa con Pannella. Ne sarebbero bastate 500.000 per promuoverli e votarli fra pochi mesi. Se fosse accaduto, l’Italia si sarebbe trovata in un’altra situazione anziché quella mortificante di oggi, con una democrazia ormai annientata da quasi un settantennio di distruzione dello Stato di diritto. Lettere: sbattuto in una cella con solo carta e penna... lasciate che mi difenda di Vito Giacino (ex vicesindaco di Verona) Corriere del Veneto, 17 marzo 2014 Dopo 23 giorni di silenzio, nei quali ho letto e sentito di tutto in merito alla vicenda che ha coinvolto me e mia moglie, ritengo opportuno fornire alcuni chiarimenti. Il mio impegno in politica inizia nel 1996 militando nei movimenti giovanili fino ad entrare nelle istituzioni comunali solo grazie al consenso elettorale dei veronesi: nel 2002, nel 2007 e nel 2012, risultando il candidato, in assoluto, più votato di sempre con oltre 4.100 preferenze. Ho dedicato tutta la mia vita al lavoro, alla famiglia ed alla cosa pubblica senza mai essere coinvolto, direttamente o indirettamente, in situazioni dubbie o discutibili: chi mi ha conosciuto sa che il mio tempo era dedicato ai problemi di ogni giorno dei cittadini, delle associazioni, delle imprese e del territorio. Purtroppo tutto il mio operato di oltre dodici anni è stato calpestato e gettato nel fango a seguito di un’inchiesta giudiziaria, in cui il mio diritto di difesa è stato compresso in ogni modo possibile: appena sono venuto a conoscenza del procedimento ho scelto di dimettermi da vicesindaco, onde permettere agli inquirenti di svolgere nel modo migliore le loro verifiche e, contemporaneamente, evitare ogni ombra sull’Amministrazione comunale. Da quel momento sono stato dato in pasto alla stampa e ai media a seguito delle accuse più disparate, fino alla collusione con la 'ndrangheta, con piste "romene" e "russe"! Dal 14 novembre, giorno delle dimissioni, ho preferito aspettare gli esisti dell’inchiesta vivendo, quasi, fossi un recluso, a casa mia evitando che mi si rimproverasse di interferire con le indagini. Fino al 17 febbraio mi sono concesso solo di andare in studio dal mio avvocato e di incontrare un paio di amici nel periodo delle festività natalizie oltre a scambiare qualche raro sms con gli amici di sempre, vicini in un momento difficile, primo fra tutti Flavio Tosi, che, proprio nella difficoltà, ha sempre voluto essere umanamente vicino a me e a mia moglie. Mai mi sono permesso in alcun modo di occuparmi di qualsiasi atto relativo al mio precedente incarico. Nonostante ciò il 17 febbraio sono stato arrestato e portato in carcere mentre mia moglie è stata sottoposta agli arresti domiciliari! Solo da quel momento sono venuto a conoscenza delle infamanti accuse di un imprenditore con cui avevo da anni un legame di amicizia e che, negli ultimi due anni, ha coltivato un sentimento di forte risentimento accusandomi, senza alcun riscontro, di averlo depredato. La mia parola contro la sua, la quale sembra tuttavia avere per gli inquirenti molta più credibilità. Tutti fatti inequivocabilmente dimostrabili! L’unico errore mio e di mia moglie in questa vicenda è stato di considerare questo imprenditore (in particolare di se stesso) un amico e di non aver compreso che aveva chiesto a mia moglie assistenza professionale solo per le sue finalità. Altro ed unico errore è stato quello di aver accettato, in passato, pagamenti in contanti per prestazioni professionali svolte per alcuni clienti e spesi per l’acquisto dimobili e altre cose quotidiane: certo un errore, ma non un reato! Sono stato arrestato e chiuso in una cella, conoscendo solo in quell’istante le accuse di tale persona, nonostante fossero state ascoltate circa sessanta persone, fra professionisti e imprenditori, che peraltro non hanno adombrato comportamenti illeciti a carico mio e di mia moglie! A tamburo battente il carcere, il divieto di comunicare con i miei famigliari (fatta eccezione, dopo ripetute richieste del mio difensore, per mio fratello), l’accompagnamento col cellulare e la polizia penitenziaria a fianco in tribunale sotto le foto dei reporter: tutto ciò sulla scorta delle accuse di costui e del fatto che ci eravamo più volte incontrati; circostanze pacifiche e che avrei confermato, solo mi fosse stato chiesto! Sono trascorsi più di 20 giorni e la procura ha tentato di confermare, nell’incidente probatorio, le accuse di questa persona sui fatti svoltisi in sette anni senza che potessi essere nelle condizioni di raccogliere tutti i documenti e le prove per sbugiardarlo, essendo in carcere con a disposizione solo la penna e la carta con cui sto scrivendo. Migliaia di pagine di atti (più di dieci faldoni) da leggere in pochi giorni e l’impossibilità di acquisire presso gli enti competenti la documentazione necessaria in tempo utile. A questo faccio riferimento quando parlo di compressione del diritto di difesa. L’incidente probatorio è stato l’unico momento in cui la difesa ha potuto porre domande a questo accusatore, già coinvolto nello scandalo dell’Ater del 2004, ma certamente persona degna della massima credibilità secondo gli inquirenti. Distrutto il lavoro di una vita sia mio che di mia moglie, distrutte le rispettive famiglie, emessa una sentenza inappellabile davanti all’opinione pubblica, chiedo solo di poter essere messo nelle condizioni di difendere il mio onore e quello della mia famiglia, raccogliendo le tante prove che possono chiarire questa vicenda con a disposizione un computer e i miei documenti; comprova della verità storica. Dovrei forse stare in cella fino a quando inizierà il processo sicché quanto proclamato all’opinione pubblica si scontri con una difesa con le mani legate dietro la schiena? Non sembrano quasi "ingenue" le motivazioni addotte per tenermi in carcere e cioè la possibile reiterazione di reati a causa di alcuni messaggi con Tosi (nei quali non si faceva riferimento ad alcun atto amministrativo o provvedimento da adottare) o di possibile inquinamento perché a Natale sono stato a pranzo con un paio di amici? Quale possibilità di inquinamento a fronte dei sette interrogatori resi dal mio accusatore!!! Certo della forza della verità e del dovere di credere, sempre e comunque, alle istituzioni, ribadisco la mia totale estraneità ai fatti, sperando che non capiti mai più a nessuno. Intanto aspetto con fiducia e serenità il momento in cui si riterrà di darmi il diritto di difendermi, facendo notare a chi mi accusa, che, nonostante le continue fughe di notizie alla stampa e ai media (la decisione del Riesame di Venezia arrivata alla stampa prima che ai miei difensori) e le umiliazioni del carcere, della gogna mediatica, dell’esibizione al pubblico ludibrio, è la prima volta che mi permetto di intervenire pubblicamente. Lettere: troppi divieti al diritto di cronaca di Caterina Malavenda (Avvocato, specialista in Diritto dell’informazione) Corriere della Sera, 17 marzo 2014 Caro direttore, il Garante della privacy ha deciso di modificare il codice deontologico dei giornalisti, allegato alla legge sul trattamento dei dati personali. A regole condivisibili e rodate, ne aggiunge altre, alcune delle quali rischiano di complicare ulteriormente la vostra vita e meritano, perciò, qualche riflessione. Chi fa informazione può trattare quei dati, anche i più sensibili, senza il consenso del titolare, ma con le modalità stabilite appunto dal vigente codice deontologico, la cui violazione può generare già oggi gravi conseguenze e sul quale il Garante ha deciso di intervenire, per adeguarlo "alle mutate sensibilità", anche tenuto conto "delle implicazioni che l’evoluzione tecnologica ha sul modo di fare informazione. Una spiegazione che non giustifica, però, l’introduzione di ulteriori e serie limitazioni al diritto di cronaca. Il presupposto perché il giornalista possa utilizzare i dati altrui è e rimane l’essenzialità dell’informazione che essi debbono corroborare. Si tratta evidentemente di un limite assai vago per chi deve osservarlo e, soprattutto, suscettibile di valutazioni opinabili, da parte di chi - Garante o Tribunale - deve giudicarne il rispetto, sulla scorta di divieti generali e deroghe eccezionali, su cui il nuovo codice deontologico interviene ancor più incisivamente, rischiando di limitare troppo la circolazione delle notizie e di generare, a titolo precauzionale, una prudenziale autocensura, a scapito della completezza dell’informazione, importante tanto quanto la sua essenzialità. Il Garante codifica, così, per la prima volta, il diritto all’oblio, aggiungendo agli inediti e condivisibili obblighi, su richiesta dell’interessato, di aggiornare i dati, conservati negli archivi e di deindicizzare articoli assai datati, anche quello, assai meno condivisibile, di evitare ogni riferimento a particolari, relativi al passato "quando ciò non alteri il contenuto della notizia"; o persino, a distanza di tempo, l’obbligo di non citare il condannato, se ciò può incidere sul suo percorso di reinserimento sociale, senza alcuna eccezione. Una coltre di silenzio potrebbe calare così sul passato di personaggi pubblici, ancora sulla scena e certo pronti a sostenere che una certa vicenda o una antica condanna siano oramai acqua passata ed a chiedere pesanti sanzioni per chi abbia osato rivangarle. Davvero sorprendenti sono poi i limiti introdotti, per via amministrativa, alla cronaca giudiziaria, là dove persino la politica si era fermata. Così il giornalista dovrà tacere l’identità di chi è stato sentito in un procedimento giudiziario, a meno che sapere chi è non sia necessario per comprendere la notizia; ma soprattutto e questa volta senza nessuna eccezione, non dovrà consentire l’identificazione delle persone, a qualunque titolo citate negli atti del procedimento, ma non coinvolte, mentre nel citare gli indagati, "valuta comunque i rischi". Non è peregrino immaginare la schiera di coloro che sosterranno, a pieno titolo, l’inutilità e, quindi, la illegittimità della diffusione della loro identità. Attenzione anche alla divulgazione degli atti di un procedimento, in particolare le intercettazioni: necessario evitare ogni riferimento ai soggetti "non interessati", salvo che sussista, concetto del tutto inedito, "un eccezionale interesse pubblico"; e privilegiare la pubblicazione del contenuto degli atti, in luogo del loro tenore letterale, quando "non sia compromesso il diritto di cronaca". La struttura del nuovo codice è, dunque, omogenea, una somma di divieti chiari e di facoltà di deroga, dai contorni assai sfuggenti e dalla cui corretta interpretazione dipenderà la sorte del giornalista. Il trattamento dei dati, in violazione del codice deontologico, infatti, sotto il profilo delle conseguenze, equivale al trattamento senza il necessario consenso, un reato procedibile d’ufficio, punito con la reclusione - senza che nessuno si sia finora stracciato le vesti - se il giornalista lo ha commesso per ottenere un profitto per sé, quale può essere una promozione; o per altri, ad esempio per l’editore che, da uno scoop, trae un utile proporzionale al maggior numero di copie vendute. È poi condotta pericolosa che causa sempre danni, salvo che si provi il contrario, che il giornalista e l’editore dovranno risarcire; ed è illecito disciplinare sanzionabile, nei casi più gravi, con la sospensione o la radiazione dalla professione. Serve altro, per dissuadere anche i giornalisti più coraggiosi? Sulmona (Aq): carcere sovraffollato, scatta il sit-in di protesta degli agenti Il Centro, 17 marzo 2014 L’invio di qualche agente extra dagli istituti di Chieti, Avezzano e Campobasso non è servito a placare le proteste dei poliziotti del supercarcere sulmonese, che domani terranno un sit-in. Dalle 10 gli agenti saranno davanti la struttura di via Lamaccio per denunciare le carenze di organico. Sovraffollamento, mancanza di sistemi di sicurezza, turni di lavoro che sfiorano le 8 ore, straordinari pagati in ritardo, condizioni igieniche al limite e soprattutto 500 detenuti di alta sicurezza a fronte di meno della metà degli agenti (240). Scatta l’allarme sicurezza per il carcere sulmonese, con gli agenti che hanno scritto anche al prefetto Francesco Alecci per chiedere un suo urgente intervento. Mediazione, poi, giudicata insufficiente, tanto che il sit-in è stato confermato. Sono 240 gli agenti, 30 in meno rispetto a quelli previsti nell’ultima pianta organica del 2013 (scesi progressivamente dai 328 del 2001). I detenuti, invece, quasi tutti di alta sicurezza (una ventina sono i collaboratori di giustizia), sono 490 su una capienza di 360 (che, però, secondo le ultime disposizioni, potrebbe salire fino a 506). Numeri da emergenza, secondo i sindacati, che sarebbero destinati a salire col nuovo padiglione da 200 detenuti. Modena: mostrando il mondo nella cella gli avvocati penalisti protestano in piazza di Carlo Gregori La Gazzetta di Modena, 17 marzo 2014 Una cella da 18 mq che arriva ad ospitare fino a 10 detenuti. È lo spazio carcerario-tipo ricostruito dagli avvocati della Camera Penale di Modena ieri in piazza Mazzini per far conoscere le penose condizioni in cui versa il sistema delle carceri italiane sia per motivi di sovraffollamento sia per la mancanza assoluta di riforme attese da anni oppure per progetti abbandonati o disattesi oltre che per la spending review. Enrico Fontana per la Camera penale ha ospitato un incontro al Caffè Concerto con il capo della polizia penitenziaria modenese Mauro Pellegrino, il giudice di sorveglianza modenese Giovanni Mazza e il sindaco Giorgio Pighi (che, come noto, è un penalista). Davanti a un folto pubblico - che comprendeva due candidati a sindaco: Gian Carlo Muzzarelli per il Pd e Michele Barcaiuolo per Fratelli d’Italia - sono stati esposti punti di vista anche distanti ma convergenti su una serie di constatazioni tutt’altro che entusiasmanti sul deficit totale, per alcuni un fallimento, del sistema politico nazionale verso la questione carceraria, aperta fin dal dopo-Legge Gozzini, ovvero dalla fine degli Anni Ottanta. Da un alto, il carcere dal suo interno spesso diventa un luogo di grave disagio (come testimoniano i numerosi suicidi di detenuti e agenti) e fuori manca del tutto una rete sociale di recupero. Troppo scarsa ancora l’applicazione dei domiciliari o delle misure alternative. Troppi i carcerati senza condanne definitive. Pordenone: il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento sarà rivoluzionario di Laura Venerus Messaggero Veneto, 17 marzo 2014 La Società della ragione di Firenze ha come finalità lo studio, la ricerca e la sensibilizzazione sul tema del diritto penale e mite della giustizia, dei diritti e delle pene, proponendo iniziative di approfondimento. Così come il convegno di San Vito "Un nuovo carcere o un carcere nuovo?". Interverranno il sindaco di San Vito, Antonio Di Bisceglie, l’assessore regionale Maria Grazia Santoro, il commissario per le infrastrutture carcerarie, Angelo Sinesio, l’architetto della Società della ragione Leonardo Scarcella, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Pietro Buffa, il coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti Franco Corleone e il consigliere regionale Silvana Cremaschi. Presenterà Massimo Brianese (della Società della ragione) e concluderà Cristiano Shaurli, consigliere regionale. Il convegno cercherà di capire qual è lo stato dell’arte dell’infrastruttura, quali sono le modalità progettuali e i tempi di realizzazione nonché il rapporto con il territorio. Un carcere all’avanguardia, dove nelle celle non si "vive", ma si trascorre giusto il tempo per dormire, dove la giornata si trascorre nei laboratori, in un’ottica di vero e proprio recupero della persona. Sarà questo il nuovo carcere di San Vito Marzo costituisce un mese importante per la nuova infrastruttura. A partire dal fatto che domani a mezzogiorno scade il termine ultimo per la consegna degli elaborati che partecipano al bando di concorso e che lunedì 24 ci sarà l’apertura delle buste e si potrà capire quale sarà il progetto vincente e la società che se l’è aggiudicato. Nel frattempo, mercoledì, alle 14.30, in sala consiliare, si parlerà proprio di questo: "Un nuovo carcere o un carcere nuovo?". È questo il tema del convegno organizzato dall’associazione "La società della ragione" con il patrocinio di Comune e Regione. "Il convegno si svolge all’indomani della scadenza dei termini di presentazione delle offerte per la realizzazione del carcere nella caserma Dall’Armi - ha spiegato il sindaco di San Vito, Antonio Di Bisceglie. L’associazione "La società della ragione" rappresenta le istanze volte a far progredire la necessità secondo la quale l’azione punitiva e l’espiazione della pena siano fatte nei termini di un recupero del detenuto come persona". Per conoscere il progetto nei dettagli si dovrà attendere ancora qualche tempo, ma l’idea di massima su come sarà il nuovo carcere è già definita. Intanto, come dice proprio il titolo del convegno, il nuovo carcere sarà un carcere nuovo, dal punto di vista della sua concezione: non un luogo di detenzione fine a se stesso ma dove la persona viene recuperata e, magari, ha la possibilità di imparare un mestiere. Il carcere di Opera, alle porte di Milano, potrebbe essere il modello da seguire con laboratori artigianali e spazi comuni dove i detenuti potranno interagire. Concretamente, le parti esistenti dell’ex caserma da recuperare saranno la palazzina comando e la palazzina truppa destinate alla direzione e agli uffici di polizia penitenziaria. Per il resto, sarà compito dei progettisti definire come si trasformerà l’ex caserma. "Si tratta del primo carcere che si fa in Italia con questa concezione - ha spiegato il primo cittadino. Inaugura l’indirizzo che noi abbiamo fornito circa l’utilizzo dei beni demaniali per riconvertirli in modo da coniugare celerità e realizzazione dell’opera. Il governo Monti - ha ricordato Di Bisceglie - ha affrontato il problema del sovraffollamento delle carceri dando vita a una struttura commissariale cui affidò la realizzazione del piano carceri per far fronte alla necessità di nuove o migliori strutture detentive. Venne nominato commissario il prefetto Angelo Sinesio, che sarà ospite del convegno di mercoledì, il quale suddivise gli interventi in due tipologie: le manutenzioni straordinarie e le nuove infrastrutture carcerarie. Proprio in quest’ultimo settore rientra il carcere di San Vito". Da parte del commissario c’è stata l’indicazione di come dovrà essere il progetto di massima. Per la definizione del piano si dovrà attendere l’apertura delle buste delle aziende partecipanti. Il bando era stato pubblicato il 21 dicembre scorso sul supplemento alla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Il valore stimato dell’appalto, Iva esclusa, è di 25 milioni di euro. Dall’aggiudicazione ci saranno al massimo 630 giorni per l’esecuzione. Il termine per le offerte è alle 12 di domani. Alle 11 del 24 marzo saranno aperte le buste. Cresce pertanto l’attesa per capire che aspetto definitivo avrà il carcere e chi lo costruirà. Quel che è certo è che nelle ultime settimane si sono susseguite numerose le visite alla Dall’Armi delle società interessate a partecipare al bando. Gorgona (Li): intesa tra Scuola Edile e carcere, al via un progetto formativo con i detenuti Il Tirreno, 17 marzo 2014 Formazione e reinserimento sociale sono i due concetti che stanno alla base del protocollo d’intesa siglato tra la Scuola edile di Livorno e il carcere dell’isola di Gorgona. Si tratta di un progetto ad ampio respiro, il cui scopo principale è la formazione lavorativa di alcuni detenuti attraverso la creazione di un cantiere scuola sull’isola carceraria, fornendo nozioni relative sia ad ambiti tecnici, come il corretto utilizzo dei materiali per costruire, che alla sicurezza sul lavoro. "La formazione dei detenuti in campo edilizio, finalizzata al loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, è la parte fondamentale di questo progetto - spiega Nicola Triolo, vicepresidente della Scuola edile di Livorno. Questa prima parte si lega poi a una seconda, finalizzata a permettere un giorno una maggiore accessibilità dell’isola e magari una futura fruibilità turistica che sarà possibile grazie alle costruzioni edili fatte dagli stessi detenuti". L’idea è di fornire tutti gli strumenti e le conoscenze tecniche per permettere ai detenuti di rimettersi in gioco nel tessuto della società civile sapendo far bene un mestiere. "Chiaramente la destinazione istituzionale dell’isola - sottolinea Carlo Mazzerbo, direttore del carcere - resta quella di un istituto carcerario, un istituto aperto però, dove stiamo provando a creare un territorio normale, in cui il detenuto sia anche attore della gestione dell’isola e cominci a sperimentare ciò che poi sarà il suo ritorno in società". Il progetto è diviso in tre fasi. La prima, già attuata, ha previsto la ristrutturazione della Casa colloquio utilizzata dai detenuti per incontrare i propri familiari. La seconda fase, che si concluderà tra pochi mesi, consiste nel recupero degli edifici "sconsegnati" con l’obiettivo di trasformarli in punti di ristorazione. Le due fasi appena descritte hanno coinvolto circa quaranta detenuti e sono state supportate finanziariamente dalla Cassa ammende e dalla Provincia. La terza fase, la cui attuazione è prevista per il futuro, punta alla ristrutturazione della vecchia caserma di Cala Martina per adibirla a foresteria, che una volta pronta consentirà il pernottamento sull’isola a venti/ venticinque persone. "Un progetto ambizioso e non privo di ostacoli", dice Riccardo Frangerini, direttore della Scuola edile di Livorno. "Tuttavia - riprende - la Scuola edile è da anni simbolo di qualità e formazione in campo edilizio e questo ci rende certi dell’ottima riuscita dell’impresa". Chieti: nel carcere nuovo look per la stanza dei colloqui tra avvocati e detenuti www.newsabruzzo.it, 17 marzo 2014 La locale Camera Penale ha curato il rinnovo della stanza dedicata ai colloqui tra gli Avvocati e i detenuti della Casa Circondariale teatina attrezzandola con nuovi arredi, complementi e Codici di libera consultazione per i legali. Stamane l’inaugurazione dello spazio dedicato all’accoglienza dei penalisti con una conferenza stampa che si terrà all’interno dell’Istituto Penitenziario. L’occasione rappresenta non solo la concreta espressione della collaborazione ormai consolidata tra la realtà penitenziaria e quella forense, ma soprattutto l’opportunità di informare la cittadinanza circa i rapporti tra la Casa Circondariale e la comunità esterna quale strumento di garanzia e tutela dei diritti dei detenuti. Genova: a Marassi nasce un teatro dei detenuti, ma aperto all’esterno del penitenziario Adnkronos, 17 marzo 2014 Il teatro del carcere genovese di Marassi "apre" le porte all’esterno. Il carcere di Marassi contiene, infatti, al suo interno un teatro dove presto i detenuti potranno recitare per i loro compagni di pena ma anche per spettatori esterni. Il progetto, ormai quasi realizzato, è dell’associazione culturale Teatro Necessario. Negli ultimi quindici - venti anni non sono mancate le esperienze teatrali nelle carceri italiane. "Ma - dichiara ad Adnkronos Alessandro Baldacci, direttore artistico di Teatro Necessario - questo è il primo teatro costituito appositamente all’interno di un carcere. Negli altri casi si tratta di locali adattati. Il fatto è che noi siamo stati costretti a costruire un teatro ex novo. A Marassi un locale da adibire a questo scopo non c’era. Noi facevamo già da tempo spettacoli appoggiandoci a un laboratorio dell’istituto tecnico Bernini attivo nel carcere". "L’associazione Teatro Necessario Onlus - spiega - era nata nei primi mesi del 2009 su iniziativa di artisti, operatori culturali e insegnanti, con l’obiettivo di dare continuità e sviluppo alle attività già intraprese a partire dal 2005 con i detenuti di Marassi e gli studenti del corso di Laurea in Dams dell’Università di Genova". L’associazione si prefigge lo scopo di intensificare e diversificare tutte quelle iniziative che si sono rivelate, oltre che uno strumento di integrazione e di riabilitazione per i detenuti, una fucina in grado di produrre manifestazioni di alto valore sociale oltre che di qualità artistica. "Quando - ricorda Baldacci - l’insegnante del Bernini Mireya Carmen Cannata, oggi presidente di Teatro Necessario, ci ha invitato a dotarci di una struttura stabile nel carcere, il direttore Salvatore Mazzeo ci ha proposto un cortile interno che non veniva utilizzato. Lì avremmo potuto costituire un vero teatro". "L’architetto Vittorio Grattarola - aggiunge - ha progettato, gratis, una struttura di copertura prefabbricata rimovibile riscaldata che ospiterà al suo interno un palcoscenico attrezzato di 10 metri per 12, una platea per circa 200 spettatori e e tutti i servizi necessari. Tre anni dopo abbiamo ottenuto da Carige e San Paolo duecentomila euro, e i lavori sono partiti con l’intervento di una ditta esterna. La struttura era già pronta nel settembre 2013". "Parallelamente - precisa Baldacci - utilizzando fondi europei, abbiamo potuto formare professionalmente una ventina di detenuti, 10 falegnami e 10 scenotecnici, che stanno terminando la parte interna del teatro e lo faranno funzionare, come macchinisti e attrezzisti. Manca ancora una parte dei fondi necessari per finire i lavori ma confidiamo di trovarli". Il prossimo spettacolo sarà l’Amleto. "È già in programma - annuncia Baldacci - al Teatro della Tosse in maggio. Per le rappresentazioni all’interno del carcere si spera di poter iniziare in autunno, ma la questione non è semplice. Non basta finire i lavori, occorrono i collaudi e i permessi burocratici". La compagnia è formata da una quindicina di detenuti, due attori professionisti e due studenti. "Per andare a recitare all’esterno - spiega Baldaccci - occorrono due guardie carcerarie per ogni detenuto, in tutto una trentina di agenti. All’interno non avremo questa complicazione. Comunque non è semplice neppure formare la compagnia. Non è che posso sottoporre a provini la popolazione carceraria di Marassi. I detenuti che desiderano impegnarsi come attori devono possedere alcuni requisiti, tra i quali una determinata lunghezza della pena, di cui un terzo già scontato in carcere. Ora, con il fatto che potremo rappresentare i nostri spettacoli all’interno del carcere, sarà possibile impiegare anche quei detenuti che oggi, per la lunghezza della pena da scontare, non possono uscire". Volterra (Pi): la chef Alessia Morabito sarà protagonista in cucina della Cena Galeotta Il Tirreno, 17 marzo 2014 Venerdì è il 21 marzo, primo giorno di primavera. La natura si risveglia e partendo dai prodotti del territorio la chef Alessia Morabito sarà protagonista in cucina della Cena Galeotta in programma a Volterra. Alessia, del ristorante La Terra di Nello (www.laterradinello.it) di Castiglion della Pescaia, guiderà i detenuti nella preparazione della quinta Cena Galeotta. Immerso nella campagna Maremmana "La Terra di Nello", con la sua atmosfera ospitale e l’impronta rustica della proposta culinaria ha saputo ormai da diversi anni affermarsi sulla scena gastronomica nazionale. Ad accompagnare la Cena Galeotta di venerdì sarà una selezione di vino Terre del Marchesato di Bolgheri Il ricavato della cena - costo 35euro a persona - sarà interamente devoluto a progetti di beneficenza. La Cena Galeotta del 21marzo sosterrà il progetto Abitare Solidale promosso dalle associazione Auser Volontariato Territoriale Firenze e Artemisia in collaborazione coni Comuni di Firenze, Bagno a Ripoli e Scandicci. Per info e prenotazioni Agenzie Toscana Turismo Argonauta Viaggi, telefono 0552345040. Cinema: "Enzo Tortora, una ferita italiana", di A. Crespi… 60 minuti per la coscienza di Annalisa Scifo www.thinknews.it, 17 marzo 2014 "Enzo Tortora, una ferita italiana", è questo il nome di uno dei documentari che parteciperanno quest’anno al Riff, Festival del cinema indipendente di Roma, che ha selezionato il lavoro diretto da Ambrogio Crespi e prodotto dal Gruppo Datamedia tra una lunga serie di proposte. Non stupisce tuttavia che una rassegna cinematografica lo abbia scelto per inserirlo nella sua lista. Il film del regista milanese è infatti un concentrato di emozioni. In soli sessanta minuti riesce a raccontare una storia ingarbugliata come quella di Enzo Tortora, senza tralasciare nessuno degli aspetti che la caratterizzano. Nella narrazione sono presenti: il conduttore tv, così come l’europarlamentare e il detenuto ma soprattutto c’è l’uomo, quell’uomo che ha subito una delle ingiustizie maggiori che l’Italia potesse compiere nei confronti di un innocente. Il documentario è ricco di immagini significative e di interviste a persone che con il volto di Portobello hanno avuto a che fare per la vicenda giudiziaria e non solo. Particolare suggestione genera poi la lettura delle lettere inedite che Tortora ha scritto alla compagna Francesca Scopelliti mentre era in carcere. Ognuna delle parole contenute fra quelle righe è un sussulto per la coscienza di chi guarda. E una domanda sorge spontanea: "Com’è stato possibile?". A fare da contorno e da accompagnamento al mix di sensazioni che questo docufilm non può non suscitare in chi lo vede, è la musica, inserita tra le scene in perfetto equilibrio con i temi trattati e l’enfasi di ogni fotogramma. Un lavoro magistrale, è così che potremmo definire l’impegno del regista Ambrogio Crespi, che è riuscito raccontare una storia vera senza imporre allo spettatore la sua visione ma accompagnandolo nell’interpretazione più giusta. L’appuntamento per chi volesse vedere il film è fissato per giovedì 20 marzo al Nuovo Cinema Aquila, sala 1, ore 19,10. All’evento di presentazione parteciperà anche il regista. India: Marrone (Fdi); il Comune di Torino dia cittadinanza onoraria a Latorre e Girone Ansa, 17 marzo 2014 La cittadinanza onoraria di Torino ai due marò detenuti in India. A proporla è Maurizio Marrone, capogruppo di Fdi in Sala Rossa. "Sarebbe - dice - un gesto fortemente simbolico dal Comune che esprime il presidente nazionale dell’Anci, una proposta non a caso lanciata nel giorno del raduno di Assoarma a Torino: conferire a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone illegittimamente detenuti in India la cittadinanza onoraria, in segno di solidarietà e supporto nella campagna per la loro liberazione e ritorno in Patria". Il gruppo di Fdi presenterà una mozione: "ci auguriamo - dice Marrone - che il centrosinistra accolga compatto la proposta senza polemiche strumentali e distinguo inopportuni, coerentemente alla scelta del Sindaco di esporre le immagini dei marò da Palazzo Civico e allo sciopero della fame indetto dai radicali interni al PD". Olanda: "Supercube", le residenze per detenuti by Personal Architecture di Valentina Ieva www.edilportale.com, 17 marzo 2014 Il Cubecomplex costruito dall’architetto Piet Blom nel 1982 a Rotterdam si rinnova. Lo studio olandese Personal Architecture ha portato a nuova vita il complesso delle "Cube Houses", realizzate a Rotterdam nel 1982 da Piet Blom, simbolo del movimento strutturalista nei Paesi Bassi. Lo studio Personal Architecture ha ridisegnato la sistemazione interna del Supercube, il più grande dei quaranta corpi esistenti. Le case più piccole ospitano già residenze e stanze d’albergo. L’intervento di rinnovamento e ristrutturazione del complesso residenziale ha portato alla creazione di un residence con 22 stanze per detenuti in via di scarcerazione, inserendosi nell’ambito di un programma di recupero promosso dalla Fondazione Exodus, che aiuta gli ex detenuti a ricostruire una nuova vita dopo il carcere grazie all’utilizzo di alloggi temporanei. Il progetto si è misurato con un problema complesso che riguardava la struttura esistente, ossia la discontinuità dei livelli; è stato introdotto, pertanto, all’interno di questa un vuoto di 3 x 3 metri che, partendo dal livello più basso, termina con l’apertura di un lucernario in copertura: il vuoto richiama aria e luce naturale per tutti i livelli dell’edificio, ospitando numerose funzioni al suo interno.